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Lavoro 13.06.2022

L'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori restaurato

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1.   Introduzione

Con un formidabile uno-due assestato nel giro di poco più di un mese, la Corte di cassazione [1] e la Corte costituzionale [2] hanno sostanzialmente posto termine alla breve vita del sistema di tutele contro i licenziamenti illegittimi creato dal legislatore del 2012 [3] mediante novella dell'art. 18, l. 20 maggio 1970, n. 300, esistenza del resto già gravemente compromessa da un precedente intervento dei giudici delle leggi [4]. O, almeno, le Alte Corti hanno decretato la definitiva archiviazione di quello che era senza dubbio alcuno l'elemento caratterizzante tutta la riforma delle tutele contro i licenziamenti illegittimi attuato nel 2012, vale a dire l'individuazione di due sottocategorie di vizi all'interno della fattispecie generale del licenziamento invalido perché privo di giusta causa e di giustificato motivo: quella dei vizi che davano luogo all'applicazione della c.d. reintegrazione attenuata (art. 18, quarto comma: reintegra nel posto di lavoro più indennità risarcitoria fino ad un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto) e quella dei vizi che davano luogo all'applicazione della c.d. tutela indennitaria forte (quinto comma: indennità risarcitoria «onnicomprensiva» da un minimo di 12 ad un massimo di 24 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto).

2.   Il confine tra tutela reintegratoria attenuata e tutela indennitaria forte nella giurisprudenza di legittimità consolidatasi fino al 2021

In effetti, ricordato che il nuovo art. 18 prevede quattro forme di tutela contro il licenziamento illegittimo (la reintegratoria “piena” e quella “attenuata”, l'indennitaria “forte” e quella “debole”) e dati per noti gli elenchi dei vizi del recesso datoriale che la norma collega a ciascuna forma di tutela, va riconosciuto che le due tutele che si collocano alle estremità del sistema (vale a dire la reintegrazione piena di cui ai primi tre commi e l'indennità debole prevista dal sesto comma della norma), non hanno mai posto particolari problemi sistematici, apparendo scontato collegare conseguenze pienamente ripristinatorie del rapporto ai casi di violazione di elementari regole di civiltà giuridica (quali quelli elencati nel nuovo primo comma dell'art. 18) e sanzioni economiche di modesta portata quando invece l'atto negoziale si discosti dal modello legale solamente per il mancato rispetto di oneri procedimentali o di formalità non essenziali (sesto comma). Ed anche le questioni interpretative cui la fattura delle disposizioni in questione dava luogo sono state rapidamente e soddisfacentemente risolte dalla giurisprudenza [5].

Al contrario, la distinzione tra le due forme di tutela che occupano il centro del sistema rappresenta il vero tratto distintivo dell'apparato di tutele introdotto nel 2012 e l'adozione di soluzioni che spostino la linea di confine in una direzione piuttosto che nell'altra costituisce la cartina di tornasole per verificare il tasso di discontinuità della novella rispetto al precedente assetto.

Orbene, l'individuazione della linea di demarcazione tra l'area della reintegrazione attenuata e quella dell'indennità forte era condizionata essenzialmente dalla soluzione di quattro questioni interpretative concernenti altrettanti precetti espressi dal nuovo testo dell'art. 18, due in tema di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo (d'ora in poi: g.m.s.) e due concernenti il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (d'ora in poi: g.m.o.).

In particolare, si trattava di stabilire: a) se integri gli estremi della «insussistenza del fatto contestato» di cui all'art. 18, quarto comma, il caso in cui il lavoratore sia responsabile dell'inadempimento addebitatogli dal datore di lavoro, ma questo non sia connotato da una gravità tale da poter integrare gli estremi della giusta causa o del g.m.s. di licenziamento; b) come debba intendersi il riferimento, operato dallo stesso quarto comma dell'art. 18, alle «previsioni  dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili» (e, cioè, se siano rilevanti, al fine di poter accedere alla tutela reintegratoria, anche le previsioni dei codici disciplinari che non descrivono specifici comportamenti inadempienti, ma si riferiscono invece alla violazione del generico dovere del dipendente di eseguire con diligenza ed esattezza la prestazione lavorativa e, poi, se le previsioni dei codici disciplinari siano suscettibili o meno di applicazione analogica o estensiva); c) cosa distingueva l'insussistenza «manifesta» del fatto posto a base del licenziamento  per g.m.o. di cui al settimo comma, secondo periodo, del nuovo art. 18, dall'insussistenza, per così dire, “semplice”; d) come dovesse intendersi la previsione, espressa dallo stesso secondo comma del settimo periodo, secondo cui, in caso di manifesta insussistenza del predetto fatto, il giudice «può» applicare la tutela di cui al precedente quarto comma.

Prima del 2021, su ognuna delle predette quattro questioni la giurisprudenza di legittimità si era consolidata su interpretazioni che, muovendo dalla generale premessa secondo la quale nell'ambito del disegno riformatore del legislatore del 2012 quella indennitaria costituiva la tutela di tipo generale, mentre quella ripristinatoria del rapporto era riservata a specifiche ipotesi da considerare alla stregua di eccezioni, pervenivano a soluzioni decisamente restrittive per l'applicabilità della reintegra.

La Suprema Corte affermava, precisamente, che:

a) il quarto comma dell'art. 18 distingue il fatto materiale dalla sua qualificazione in termini di giusta causa o di g.m.s., riconoscendo la tutela reintegratoria solo in caso di insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento, sicché ogni valutazione che attenga al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità della condotta contestata non è idonea a determinare la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, dovendosi in tal caso applicare la tutela indennitaria forte prevista dal successivo quinto comma [6];

b) anche se la condotta addebitata al lavoratore abbia un pari disvalore disciplinare rispetto a quelle punite dal c.c.n.l. con sanzione conservativa, al giudice è comunque precluso dar corso alla tutela reintegratoria, potendo solamente dichiarare illegittimo il recesso e, risolto il rapporto di lavoro, applicare la tutela indennitaria prevista dall'art. 18, quinto comma [7], potendosi procedere ad un'interpretazione estensiva delle clausole contrattuali soltanto ove esse appaiano inadeguate per difetto dell'espressione letterale rispetto alla volontà delle parti, tradottasi in un contenuto carente rispetto all'intenzione [8];

c) il carattere manifesto dell'insussistenza del fatto implicherebbe che, per i licenziamenti per motivi economici, il legislatore abbia voluto limitare ad ipotesi residuali il diritto ad una tutela reintegratoria, il quale andrebbe riferito ad un'evidente e facilmente verificabile mancanza dei presupposti giustificativi del licenziamento che consenta di apprezzare la chiara pretestuosità del recesso [9];

d) quanto, poi, all'ulteriore condizione richiesta dalla norma per l'applicazione della tutela reintegratoria in caso di licenziamento per ragioni economiche illegittimo (secondo cui il giudice «può» applicare la tutela reintegratoria), essa attribuirebbe al giudice il potere di procedere ad una valutazione discrezionale sulla non eccessiva onerosità del rimedio, dovendo verificare che il predetto regime sanzionatorio non risulti incompatibile con la struttura organizzativa dell'impresa, essendo altrimenti applicabile la sola tutela risarcitoria di cui all'art. 18, quinto comma [10].

3.   Il ribaltamento operato dalle recenti sentenze della Corte costituzionale e della Corte di cassazione

Nel giro di poco più di un anno tre delle quattro proposizioni ora enunciate sono divenute insostenibili. Ed infatti, quanto al licenziamento per motivi economici, a seguito dei due interventi della Corte costituzionale citati all'inizio, il secondo periodo del settimo comma dell'art. 18 recita ormai: «[Il giudice] applica altresì la predetta disciplina [quella reintegratoria di cui al quinto comma] nell'ipotesi in cui accerti la insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo». Quanto al licenziamento disciplinare, la citata sentenza n. 11665 del 2022 della Corte di cassazione ha ribaltato il precedente orientamento della giurisprudenza di legittimità ed ha statuito che, al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dai commi quarto e quinto, il giudice può sussumere la condotta addebitata al lavoratore, e in concreto accertata giudizialmente, nella previsione contrattuale che, con clausola generale ed elastica, punisca l'illecito con sanzione conservativa, pur avendo avuto cura di aggiungere che tale operazione di interpretazione e sussunzione non trasmoderebbe nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato, restando nei limiti dell'attuazione del principio di proporzionalità, come eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo (facendo quindi salvo, almeno formalmente, l'orientamento sopra riportato sub lett. a).

Non c'è bisogno di spendere parole per dimostrare che il confine tra tutela reintegratoria e tutela indennitaria si è decisamente spostato a vantaggio della prima e a danno della seconda, poiché l'esperienza di qualsiasi operatore del settore consente di pronosticare che i casi in cui, d'ora in poi, ricorreranno gli estremi per applicare la reintegrazione saranno decisamente superiori a quelli nei quali si potrà condannare il datore di lavoro solamente al pagamento dell'indennità risarcitoria. E al fine di appurare se sia ancora corrispondente all'attuale tenore letterale della norma incisa dalle pronunce della Corte costituzionale (settimo comma dell'art. 18) e all'interpretazione della norma oggetto del descritto revirement della Corte di cassazione (quarto comma), che deve ormai essere considerato quale diritto vivente, la ricostruzione del rapporto tra le due sanzioni dell'ingiustificatezza del licenziamento in termini di regola generale (tutela economica) - eccezione - (tutela ripristinatoria), è necessario individuare i casi in cui la tutela meramente economica ha ancora un suo spazio di operatività.

4.   Lo spazio residuo della tutela indennitaria forte: il licenziamento per g.m.o.

Iniziando dai licenziamenti per motivi economici, considerato il testo del secondo periodo del settimo comma dell'art. 18 attualmente in vigore così come sopra ricostruito (dal quale discende pianamente l'applicabilità della reintegra nel posto di lavoro in tutti i casi di accertamento dell'insussistenza del fatto posto a base del licenziamento), c'è da dubitare seriamente della stessa ipotizzabilità di fattispecie che possano sfuggire dall'ambito di applicabilità della tutela reintegratoria.

Ciò soprattutto alla luce del passaggio della motivazione della sentenza n. 125 nel quale la Corte costituzionale ha precisato che il fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo la cui insussistenza determina l'applicazione della tutela reintegratoria include le ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa di cui all'art. 3, l. n. 604 del 1966 «e, in via prioritaria, il nesso causale tra le scelte organizzative del datore di lavoro e il recesso dal contratto, che si configura come extrema ratio, per l'impossibilità di collocare altrove il lavoratore» [11]. Tralasciando ogni considerazione sistematica che potrebbe trarsi dalla ripetuta qualificazione – da parte della Corte – del licenziamento per motivi economici come una extrema ratio (qualificazione già espressa nella precedente sentenza n. 59 del 2021 [12]), sembra evidente l'opzione interpretativa fatta propria dai giudici delle leggi, secondo la quale consente il ricorso alla tutela ripristinatoria il difetto di uno qualsiasi dei tre elementi costitutivi del g.m.o.: ragione economica, nesso causale tra la stessa e il recesso datoriale, impossibilità di repêchage. Opzione ermeneutica che un tempo, combinata con l'orientamento interpretativo secondo cui quel tipo di tutela era comunque condizionato all'insussistenza “evidente” del fatto e all'esercizio da parte del giudice di un potere discrezionale, non comportava certo la conseguenza di annullare lo spazio di operatività della tutela indennitaria (essendo questa comunque praticabile nei molti casi in cui l'insussistenza del fatto non fosse manifesta ovvero in quelli in cui il giudice avesse ritenuto che quella ripristinatoria fosse una sanzione eccessivamente onerosa per il datore di lavoro) [13]. La stessa opzione, adottata ora che l'art. 18, settimo comma, secondo periodo, nel testo risultante dai due interventi della Corte costituzionale, rende applicabile il quarto comma dell'art. 18 a tutti i casi di insussistenza del fatto posto a base del licenziamento, produce la conseguenza della quasi impossibilità di individuare ipotesi di illegittimità del licenziamento per g.m.o. cui possa applicarsi il quinto comma dell'art. 18.

La Corte costituzionale ha evidentemente avvertito la difficoltà derivante dal rischio di rendere pressoché inoperante la previsione dell'ultima parte del secondo periodo del settimo comma dell'art. 18 («nelle altre ipotesi [quali?] in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma»), tant'è vero che ha avuto cura di precisare che nell'ambito degli aspetti che, pur condizionando la legittimità del licenziamento, esulano dal fatto giuridicamente rilevante si colloca il mancato rispetto della buona fede e della correttezza che presiedono alla scelta dei lavoratori da licenziare, quando questi appartengano a personale omogeneo e fungibile [14].

È significativo che questo sia l'unico esempio di fattispecie cui potrebbe applicarsi la tutela indennitaria menzionato dai giudici delle leggi, poiché probabilmente altri casi del genere non ve ne sono.

Ed allora, se si considera che l'art. 18, quarto comma, si applica anche alle ipotesi di insussistenza dell'inidoneità psichica o fisica addotta a giustificazione del recesso datoriale e di violazione dell'art. 2110, secondo comma, c.c. (primo periodo del settimo comma dell'art. 18) [15] e che sono comunemente ricondotti alla nozione di licenziamento per g.m.o. altri casi di impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa (ritiro di provvedimenti amministrativi di abilitazione o autorizzazione necessari per lo svolgimento di determinate mansioni [16], detenzione del lavoratore [17], revoca dell'autorizzazione allo svolgimento dell'attività produttiva dell'impresa, provvedimento amministrativo o giudiziale di sequestro dell'azienda), con conseguente applicazione dell'art. 18, settimo comma, secondo periodo [18] e, dunque, applicazione della tutela reintegratoria in caso di insussistenza del fatto indicato a base del recesso datoriale o di mancato assolvimento dell'obbligo di repêchage (nelle ipotesi in cui tale ulteriore requisito sia richiesto [19]) o dell'onere di dimostrazione, da parte del datore di lavoro oneratovi, della intollerabilità dell'assenza del dipendente in relazione all'organizzazione aziendale ed alla sostituibilità del lavoratore [20], si può concludere nel senso che, nei fatti, in caso di riconosciuta ingiustificatezza del licenziamento per g.m.o., ormai il giudice quasi sempre dovrà condannare il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro ai sensi del quarto comma dell'art. 18 e la misura prevista dal quinto comma dell'art. 18 sarà davvero residuale, non solamente sul piano logico (applicandosi nei casi in cui non si può disporre la reintegra attenuata), ma anche e soprattutto sul piano statistico.

5.   (Segue): il licenziamento disciplinare

Passando ai licenziamenti disciplinari, per quanto la nuova giurisprudenza della Corte di cassazione si preoccupi di sottolineare che l'operazione di riconduzione della condotta contestata al lavoratore alle previsioni del codice disciplinare che descrivono illeciti puntiti con sanzioni conservative mediante clausole generali ed elastiche non trasmoderebbe nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto all'illecito commesso dal dipendente (e, quindi, che resterebbe salvo il principio secondo il quale alla valutazione operata dal giudice circa la sproporzione tra sanzione e gravità dell'illecito conseguirebbe l'applicazione del quinto comma dell'art. 18), non è azzardato pronosticare, alla luce delle formulazioni comunemente adottate nei codici disciplinari, che, di fatto, ben difficilmente potranno darsi casi concreti in cui il giudizio di sproporzione della sanzione irrogata rispetto alla gravità dell'illecito commesso dal lavoratore non sia riconducibile a qualche previsione (generale ed elastica, per usare le parole della Suprema Corte) del codice disciplinare, il quale normalmente contiene sempre previsioni che utilizzano formule idonee a ricomprendere qualsiasi tipo di inadempimento dei lavoratori (come, ad esempio: “lieve irregolarità nell'adempimento”, “negligenza nell'esecuzione del lavoro”, ecc.).

Non a caso, tutte le pronunce della Corte di cassazione nelle quali la stessa sinora ha avuto modo di applicare il nuovo orientamento, hanno concluso nel senso della legittima applicazione del quarto comma dell'art. 18 alla fattispecie oggetto di valutazione [21].

Ciò a maggior ragione se si considera che la stessa Corte mostra di ritenere rilevanti al riguardo anche clausole come quelle che precisano che l'elencazione delle infrazioni contenuta nel codice disciplinare è meramente esemplificativa e non esaustiva, prendendone spunto per ritenere corretta l'applicazione della tutela reintegratoria quando l'addebito contestato, non compreso nel catalogo, sia però meno grave di altra ipotesi espressamente punita con sanzione conservativa [22] ovvero sia a questa «omologabile» [23].

Si può quindi attendibilmente affermare che la distinzione enunciata dalla Corte tra giudizio di proporzionalità e sussunzione della fattispecie concreta nelle previsioni dei codici disciplinari è tanto ineccepibile sul piano astratto della logica quanto priva di riscontro nella pratica, apparendo davvero arduo – sulla base delle previsioni normalmente contenute nei contratti collettivi – individuare ormai uno spazio di operatività alla tutela indennitaria nel campo dei licenziamento disciplinari privi di giusta causa e di giustificato motivo [24].

6.   La reintegrazione nel posto di lavoro nuovamente al centro dell'articolo 18

Tirando le fila di quanto finora esposto si può quindi concludere nel senso che, in caso di licenziamento illegittimo intimato ad un lavoratore assunto prima del 7 marzo 2015 da un datore di lavoro che superi la soglia dimensionale stabilita dai commi ottavo e nono dell'art. 18, la tutela reintegratoria si applica sempre tranne che nei seguenti casi: a) vizio della motivazione o del procedimento; b) violazione dei canoni di buona fede e correttezza nella scelta del lavoratore da licenziare per g.m.o.; c) licenziamento disciplinare sproporzionato rispetto alla gravità in concreto dell'illecito, ma solo se il codice disciplinare contenga esclusivamente un elenco di inosservanze di specifici obblighi e non anche (o soltanto) generici inadempimenti di doveri generali come quelli di obbedienza, diligenza, rispetto delle regole legali e contrattuali, ecc., e neppure generiche clausole di chiusura (del tipo: “ogni altro inadempimento di pari gravità di quelli elencati” o simili). In queste tre sole ipotesi vi è spazio per la tutela meramente indennitaria e, precisamente, quella c.d. debole di cui al sesto comma dell'art. 18 per i casi sub lett. a) e quella c.d. forte di cui al quinto comma nei casi sub lett. b) e c).

Si tratta, oggettivamente, di una forte semplificazione rispetto alla complessa articolazione del sistema di tutele originariamente congegnato dal legislatore del 2012, semplificazione che si può sinteticamente definire come riattribuzione alla tutela reintegratoria del carattere di tutela generalmente applicabile contro i licenziamenti irrogati alla categoria di lavoratori in questione e, dunque, di una (quasi integrale) restaurazione dell'assetto elaborato dai legislatori del 1970 e del 1990.

Non sembra davvero più corrispondente all'attuale contenuto precettivo dell'art. 18 l'affermazione secondo cui la tutela indennitaria costituirebbe il rimedio generale in caso di illegittimità dei licenziamenti, mentre quella ripristinatoria del rapporto sarebbe riservata ad ipotesi eccezionali. Il rapporto tra le due forme di tutela appare, invece, esattamente rovesciato: è la reintegrazione nel posto di lavoro che (almeno sul piano statistico) assume carattere di rimedio generale, mentre la tutela meramente economica è applicabile solamente in pochissimi casi.

Così come sembra aver esaurito una pratica utilità la ricostruzione del compito cui è chiamato il giudice come una valutazione bifasica articolata in due accertamenti successivi: il primo diretto a verificare la sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo, il secondo – cui si dovrebbe procedere nel caso in cui il primo abbia dato esito negativo – avente ad oggetto l'individuazione del tipo di tutela da applicare [25]. Ormai in realtà il giudice non deve compiere altro che il consueto controllo sulla legittimità del recesso datoriale cui ha sempre proceduto prima della novella del 2012 e disporrà la tutela meramente indennitaria nel caso in cui verifichi che il licenziamento sia affetto solamente da uno dei tre vizi sopra indicati.

7.   Ricadute sistematiche: la decorrenza della prescrizione

Le conclusioni appena raggiunte potrebbero rilevare in sede di decisione di alcune delle principali questioni scaturite dalla disarticolazione del previgente unitario meccanismo sanzionatorio contro i licenziamenti illegittimi operata nel 2012.

Una di queste è quella che concerne la persistente vigenza del principio secondo il quale i termini prescrizionali dei crediti dei lavoratori cui si applica l'art. 18, l. n. 300 del 1970 decorrono anche nel corso del rapporto.

Il tema ha fatto registrare posizioni dottrinali di segno diverso: a chi, prima dei recenti interventi dei giudici delle leggi e di quelli di legittimità, sosteneva che quel principio continuerebbe ad aver corso, poiché l'art. 18 come novellato dalla l. n. 92 del 2012 tutelava comunque con la reintegrazione il dipendente sia contro i comportamenti arbitrari del datore di lavoro, sia nel caso di insussistenza del fatto posto a base del licenziamento [26], si contrapponevano coloro che negavano che la previsione della reintegrazione attenuata in caso di insussistenza del fatto posto a base del licenziamento costituisca una garanzia tale da consentire di escludere un condizionamento per il dipendente che intenda far valere i propri crediti, poiché, da un lato, quella tutela non esclude che il lavoratore, seppur reintegrato all'esito del giudizio, sopporti una perdita economica a seguito del recesso datoriale (essendo previsto un tetto massimo all'ammontare del risarcimento spettante al lavoratore) e, dall'altro lato, e soprattutto, perché, mentre nel precedente sistema le diverse tipologie di tutela erano condizionate da un elemento oggettivo rilevabile in ogni momento di svolgimento del rapporto (il numero degli occupati nell'impresa), in quello scaturito dalla riforma del 2012 esse, ancorate com'erano alle concrete causali del singolo licenziamento, dipendevano da circostanze non attuali nel momento in cui il dipendente deve decidere se azionare o meno i propri diritti di credito (nel momento in cui, cioè, deve essere valutata l'insussistenza di condizionamenti a carico del lavoratore), diventandolo solamente se e quando il datore di lavoro recede dal rapporto [27].

In attesa di un intervento chiarificatore da parte della giurisprudenza di legittimità, non si può negare che la segnalata rinnovata generalizzazione della tutela reale scaturente dai recenti arresti della Corte costituzionale e della Corte di cassazione offre un sostegno forse decisivo alle tesi di chi ritiene che non sussistano le condizioni per affermare che il decorso della prescrizione resti sospeso durante la vigenza dei rapporti cui si applica l'art. 18, l. n. 300 del 1970, essendo ormai i lavoratori titolari di quei rapporti adeguatamente tutelati contro illegittime iniziative risolutorie dei loro datori di lavoro.

Resta evidentemente impregiudicata l'analoga questione che si pone con riferimento ai rapporti regolati, invece, dal d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 [28].

8.   (Segue): l'onere della prova del requisito dimensionale

Altra questione sulla soluzione della quale le recenti pronunce delle Alte Corti potrebbero avere un rilievo decisivo è quella attinente all'onere della prova del requisito dimensionale richiesto per l'applicazione delle tre tutele minori contemplate dall'art. 18 (vale a dire quelle di cui ai commi quarto, quinto e sesto).

Com'è noto, a partire dal 2006 la giurisprudenza di legittimità si era consolidata nel senso che le dimensioni dell'impresa, inferiori ai limiti stabiliti dall'art. 18, costituiscono fatti impeditivi del diritto soggettivo del lavoratore alla reintegrazione nel posto di lavoro e devono, perciò, essere provati dal datore di lavoro [29]. Dopo che la riforma del 2012 aveva configurato ben quattro diversi tipi di tutela cui un lavoratore illegittimamente licenziato poteva aver diritto, ognuno dei quali idoneo a costituire un autonomo diritto soggettivo con propri e distinti fatti costitutivi, si poteva dubitare con qualche fondamento della persistente possibilità di continuare a qualificare il requisito dimensionale come fatto impeditivo dell'applicazione di quanto previsto dalla norma statutaria invece che come uno dei fatti costitutivi dei tre diritti soggettivi collegati ai tre tipi di tutela la cui applicabilità è condizionata alla sua ricorrenza (tutela reintegratoria attenuata, indennitaria forte e indennitaria debole), con conseguente onere della prova a carico del lavoratore [30].

La Corte di cassazione in un'occasione aveva applicato il principio tradizionale con riferimento ad una fattispecie in cui il licenziamento era soggetto all'art. 18 novellato, ma senza motivare in alcuna maniera la ragione per la quale quel principio sarebbe compatibile con la nuova versione della norma [31].

Ora che, come si è cercato di dimostrare, la reintegrazione nel posto di lavoro è tornata ad assumere valenza di tutela generale contro i licenziamenti illegittimi soggetti all'art. 18, non sembrerebbe errato continuare a qualificare le dimensioni aziendali inferiori ai limiti stabiliti dai commi ottavo e nono del predetto articolo in termini di fatti impeditivi del diritto del lavoratore alla reintegrazione attenuata e alla tutela indennitaria.

9.   (Segue): il contratto a tutele crescenti

Infine, può essere interessante interrogarsi sulle eventuali ricadute delle sentenze della Corte costituzionale e della Corte di cassazione che hanno restaurato nella sostanza la versione originaria dell'art. 18, sulla disciplina dei licenziamenti illegittimamente irrogati ai lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015 cui si applica, quindi, il d.lgs. n. 23 del 2015.

Già in sede di commento alla sentenza della Corte costituzionale n. 59 del 2021, vi è stato chi ha pronosticato una ricaduta di quella pronuncia sull'art. 3, comma 2, del citato decreto legislativo, il quale prevede l'applicazione della tutela reintegratoria nel caso in cui «sia direttamente dimostrata in giudizio» l'insussistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento per giusta causa o per g.m.s., ma non anche quando la medesima insussistenza sia dimostrata in un giudizio promosso contro un licenziamento per g.m.o. [32].

 In effetti, nella sentenza n. 59 si legge che la configurazione in termini di facoltatività del rimedio reintegratorio per i soli licenziamenti economici (rispetto a quelli irrogati per infrazioni disciplinari inesistenti, per i quali quel rimedio è invece obbligatorio) è irragionevole perché «L'esercizio arbitrario del potere di licenziamento, sia quando adduce a pretesto un fatto disciplinare inesistente, sia quando si appella a una ragione produttiva priva di ogni riscontro, lede l'interesse del lavoratore alla continuità del vincolo negoziale e si risolve in una vicenda traumatica, che vede direttamente implicata la persona del lavoratore» e che i licenziamenti economici «incidono sull'organizzazione dell'impresa al pari di quelli disciplinari e, non meno di questi, coinvolgono la persona e la dignità del lavoratore».

Si potrebbe pertanto ritenere che un'analoga irragionevolezza affligga il diverso trattamento previsto dal d.lgs. n. 23 del 2015 per i licenziamenti motivati con il riferimento a fatti la cui insussistenza sia poi dimostrata in giudizio a seconda che si tratti di recessi per giusta causa o g.m.s. (per i quali l'art. 3, co. 2, stabilisce l'applicazione della tutela reintegratoria) e quelli per g.m.o. (ai quali si applica, anche in tal caso, la tutela meramente indennitaria di cui al comma 1 dello stesso art. 3).

Al riguardo, se bisogna riconoscere che dalle espressioni contenute nella motivazione della sentenza n. 59 e sopra trascritte possono sicuramente trarsi suggestioni in tal senso, si deve pure segnalare, tuttavia, che la Corte costituzionale ha avuto cura di sottolineare (v., in particolare, il punto n. 9 del Considerato in diritto), che l'irragionevolezza della scelta operata dal legislatore del 2012 deriva dal fatto che è stato lo stesso legislatore (in base ad una sua valutazione discrezionale) a collegare l'applicazione della tutela reintegratoria al comune presupposto dell'insussistenza del fatto (commi quarto e settimo del nuovo art. 18); ed è per tale motivo che non si giustificava l'ulteriore scelta legislativa secondo la quale in alcuni casi (licenziamenti disciplinari) tale applicazione fosse prevista come inevitabile (comma quarto), mentre in altri casi (licenziamenti per ragioni economiche) solamente come frutto di una scelta discrezionale del giudice. È agevole notare come invece, nel complessivo apparato di tutele approntato dal d.lgs. n. 23 del 2015, non è ravvisabile un'analoga scelta di fondo da parte del legislatore (vale a dire quella di connettere, per tutti i tipi di licenziamenti, la tutela reintegratoria all'insussistenza del fatto posto a base del recesso datoriale), poiché la reintegrazione nel posto di lavoro è stabilita – ove ricorra un certo presupposto (dimostrazione in giudizio dell'insussistenza del fatto materiale) – solo ed esclusivamente per i licenziamenti disciplinari e si configura, dunque, come isolata eccezione in un panorama in cui, a parte i casi più gravi di licenziamento nullo od orale, l'unica tutela concessa al lavoratore colpito da un licenziamento difforme dal modello legale è quella meramente indennitaria [33]. Con ciò non si vuole certamente escludere in radice il rischio che anche la mancata previsione della tutela reintegratoria in caso di accertata insussistenza in giudizio della ragione economica posta a fondamento del licenziamento possa essere ritenuta costituzionalmente illegittima; si vuole solamente avvertire che una simile conseguenza richiederebbe uno sforzo motivazionale ulteriore rispetto a quello compiuto dalla Corte nella sentenza n. 59/2021 [34].

Non sembra che ulteriori argomenti a favore dei sospetti di illegittimità costituzionale della mancata previsione della tutela reintegratoria per il caso di insussistenza del fatto posto a base del g.m.o. da parte dell'art. 3, co. 2, d.lgs. n. 23 del 2015 possano essere desunti dalla successiva sentenza n. 125 del 2022, tutta concentrata su un aspetto totalmente estraneo al sistema di tutele previsto dal legislatore del 2015, vale a dire l'irragionevolezza del requisito del carattere manifesto dell'insussistenza richiesto dal settimo comma dell'art. 18.

Una diversa ricaduta della sentenza n. 59 del 2021 sulla disciplina introdotta dal d. lgs. n. 23/2015 è stata prospettata da quella dottrina che ha ritenuto che il riaffermato valore della tutela reintegratoria come quella che realizza la più incisiva attuazione del dettato di cui agli artt. 4 e 35 Cost. renderebbe inaccettabile che ai vizi più gravi che affliggono un licenziamento collettivo (violazione dei criteri di scelta dei lavoratori) consegua tale tutela solamente per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 (in virtù del disposto dell'art. 5, comma 3, l. 23 luglio 1991, n. 223, novellato dalla l. n. 92 del 2012), mentre per quelli assunti successivamente a quella data spetta solamente una tutela di tipo economico (art. 10, d.lgs. n. 23 del 2015) [35].

Al riguardo si può tuttavia osservare che non sembra che il ruolo centrale nel sistema sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi intimati ai lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 nuovamente attribuito alla reintegrazione nel posto di lavoro dai recenti interventi dei giudici delle leggi incida più di tanto sulla questione in oggetto, il cui nucleo essenziale sta piuttosto nella difficoltà di individuare una giustificazione costituzionalmente accettabile alla disparità di trattamento che indubbiamente si verifica tra lavoratori coinvolti dalla stessa (illegittima) procedura di riduzione del personale sulla base di un dato apparentemente neutro al riguardo, quale quello della data di assunzione. Interrogativo sostanzialmente eluso dalla Corte costituzionale che, nella sentenza n. 254 del 2020, ha evitato una decisione nel merito, risolvendo la questione sul piano processuale, utilizzando al riguardo argomentazioni non pienamente condivisibili [36].

Si può quindi concludere che dalle recenti pronunce dei giudici delle leggi non dovrebbero derivare spunti idonei a sorreggere dubbi di illegittimità costituzionale la disciplina introdotta dal d.lgs. n. 23/2015. Da esse si può tuttavia trarre un monito per l'interprete di tale disciplina, vale a dire quello di rifuggire, per quanto possibile, da interpretazioni dei precetti maggiormente stravaganti in essa contenuti che privilegino in maniera indiscriminata il dato letterale della norma, finendo per far assumere ad essa un carattere manifestamente irragionevole (come è accaduto, appunto, per il secondo periodo del settimo comma dell'art. 18, rispetto al quale l'interpretazione dell'aggettivo «manifesta» e del verbo «può» adottata dalla Corte di cassazione ha finito per spianare la strada alle censure di illegittimità costituzionale della norma).

In effetti, anche nel d.lgs. n. 23 del 2015 può essere rinvenuta qualche disposizione che, considerata in senso strettamente letterale, appare davvero estranea a qualsiasi criterio di ragionevolezza. Questo è il caso soprattutto del già citato comma 2 dell'art. 3, il quale condiziona la possibilità per il lavoratore licenziato per motivi disciplinari di accedere alla tutela reintegratoria alla condizione che l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore sia «direttamente» dimostrata in giudizio.

Il citato avverbio ha indotto parte della dottrina a concludere nel senso che sarebbe inibito al lavoratore di ricorrere alla prova presuntiva [37] o, ancor più radicalmente, a qualsiasi prova indiretta [38], inclusa quella sui fatti secondari [39].

L'accoglimento di simili impostazioni esporrebbe la norma a non infondati sospetti di illegittimità costituzionale, poiché non è dato ravvisare un solo motivo che possa giustificare una simile disparità di trattamento tra le due parti in causa: da un lato, il datore di lavoro, abilitato a dimostrare la sussistenza del fatto contestato con qualsiasi tipo di prova; dall'altro, il lavoratore che potrebbe dimostrare l'insussistenza di quello stesso fatto solamente avvalendosi delle c.d. prove dirette. Sembra evidente che la diversità di disciplina che, in questo modo, il sistema riserverebbe alle due parti non troverebbe alcuna giustificazione nel momento in cui l'ordinamento attribuisce ad entrambe precisi diritti (al datore di lavoro quello di recedere dal rapporto in caso di grave inadempimento della controparte, al lavoratore quello ad essere reintegrato in caso di insussistenza dell'inadempimento imputatogli), rispetto ai quali non si comprende perché l'esistenza del primo possa essere dimostrata con qualsiasi mezzo, mentre quella del secondo mediante il ricorso ad alcuni tipi di prove soltanto.

Ed allora sembrano ragionevoli interpretazioni che, rifiutando il significato prima facie attribuibile alla locuzione utilizzata dal legislatore, assegnano alla stessa una portata accettabile. Come quella proposta da autorevole dottrina e secondo la quale l'avverbio “direttamente” esprime l'intento del legislatore di escludere qualsiasi rapporto di pregiudizialità, rispetto al giudizio in cui è domandata la reintegrazione, di ogni altro giudizio, anche penale, con la conseguenza che la dimostrazione dell'insussistenza del fatto materiale può essere fornita esclusivamente grazie ad un'apposita istruttoria senza che siano utilizzabili né gli accertamenti, né gli elementi di prova che fossero stati acquisiti in altri giudizi [40]. Ovvero quella enunciata da un giudice di merito che, rifiutata esplicitamente l'idea che l'avverbio in questione escluda la possibilità di dimostrare l'insussistenza del fatto contestato mediante prove indirette, ha affermato che esso impone di ritenere che la tutela reintegratoria non può conseguire semplicemente alla mancata dimostrazione della sussistenza dell'addebito, richiedendo anche la prova dell'insussistenza dello stesso [41].

Riferimenti bibliografici:

[1] Cass., 11 aprile 2022, n. 11665, che ha affermato il principio secondo il quale, in caso di licenziamento disciplinare, al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dall'art. 18, commi quarto e quinto, della l. n. 300 del 1970, come novellato dalla l. n. 92 del 2012, il giudice può sussumere la condotta addebitata al lavoratore, e in concreto accertata giudizialmente, nella previsione contrattuale che, con clausola generale ed elastica, punisca l'illecito con sanzione conservativa.

[2] Corte cost., 19 maggio 2022, n. 125, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 18, settimo comma, secondo periodo, limitatamente alla parola «manifesta».

[3] L. 28 giugno 2012, n. 92, entrata in vigore il 18 luglio 2012 e, pertanto, applicabile ai licenziamenti comunicati a partire da quel giorno.

[4] Corte cost., 1° aprile 2021, n. 59, in Dir. rel. ind., 2021, 509, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 18, settimo comma, secondo periodo, nella parte in cui prevedeva che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, «può altresì applicare» – invece che «applica altresì» – la disciplina di cui all'art. 18, quarto comma.

[5] V., ad esempio, Cass., 14 dicembre 2016, n. 25745 (seguita da Cass., 24 febbraio 2020, n. 4879, in Giur. it., 2020, 1154), secondo cui il radicale difetto di contestazione dell'infrazione determina l'inesistenza dell'intero procedimento disciplinare, e non solo l'inosservanza delle norme che lo regolano, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria, di cui al quarto comma dell'art. 18, richiamata dal comma 6 del predetto articolo per il caso di difetto assoluto di giustificazione del provvedimento espulsivo, tale dovendosi ritenere un licenziamento disciplinare adottato senza alcuna contestazione di addebito; oppure Cass., sez. un., 27 dicembre 2017, n. 30985, in Dir. rel. ind., 2018, 922 (seguita da Cass., 18 maggio 2018, n. 12231), che ha stabilito che la violazione del principio di tempestività che si traduca in un ritardo notevole ed ingiustificato della contestazione comporta l'applicazione della tutela indennitaria forte, restando quella debole di cui al sesto comma limitata all'ipotesi di violazione di natura procedurale, cioè di contestazione avvenuta oltre i termini previsti dalla legge o dal contratto collettivo.

[6] Così, a partire da Cass., 6 novembre 2014, n. 23669, in Riv. it. dir. lav., 2015, II, 39, la successiva giurisprudenza della Corte, per la quale sia sufficiente il richiamo a Cass., 3 dicembre 2019, n. 31529.

[7] Cass., 9 maggio 2019, n. 12365, in Giur. it., 2020, 378; Cass., 28 maggio 2019, n. 14500.

[8] V., tra le tante, Cass., 19 luglio 2019, n. 19578, e Cass., 5 dicembre 2019, n. 31839.

[9] Cass. 2 maggio 2018, n. 10435, in Dir. rel. ind., 2018, 934, seguita dalla giurisprudenza successiva, per la quale sia sufficiente citare Cass. 4 marzo 2021, n. 6083.

[10] Cass., 2 maggio 2018, n. 10435, cit., anche qui seguita dalla giurisprudenza successiva, con la sola eccezione di Cass., 13 marzo 2019, n. 7167.

[11] V. punto n. 8 del Considerato in diritto.

[12] Per valutazioni al riguardo si rinvia a P. SORDI, Un intervento razionalizzatore della tutela contro i licenziamenti illegittimi, in Lav. prev. oggi, 2021, 405.

[13] Ed infatti la giurisprudenza di legittimità che affermava che anche la violazione dell'obbligo di repechage integrava la fattispecie della manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento non si poneva affatto il problema dello spazio che, così opinando, residuava alla tutela meramente economica: v. Cass., 18 novembre 2019, n. 29893; Cass., 11 novembre 2019, n. 29102.

[14] Nel senso dell'applicazione dell'art. 18, quinto comma, v. Cass., 19 maggio 2021, n. 13643, in Giur. it., 2021, 2414.

[15] V., per alcune applicazioni di tali precetti: Cass., 18 novembre 2019, n. 29893; Cass., 22 ottobre 2018, n. 26675.

[16] Cass., 11 novembre 2019, n. 29104.

[17] Cass., 29 settembre 2016, n. 19315.

[18] Così la dottrina prevalente: C. CESTER, Il progetto di riforma della disciplina dei licenziamenti: prime riflessioni, in Arg. dir. lav., 2012, I, 575; L. GALANTINO, La riforma del regime sanzionatorio dei licenziamenti individuali illegittimi: le modifiche all'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, in Riforma del lavoro, a cura di G. PELLACANI, Milano, 2012, 273; M. FERRARESI, Il licenziamento per motivi oggettivi, in La nuova riforma del lavoro, a cura di M. MAGNANI-M. TIRABOSCHI, Milano, 2012, 269.

[19] V. per il caso del ritiro del porto d'armi alla guardia giurata, Cass., 10 giugno 2015, n. 12072 e Cass., 24 ottobre 2000, n. 13986, secondo le quali il licenziamento è giustificato ove sia dimostrato che il datore di lavoro non ha un interesse apprezzabile alla prosecuzione del rapporto, alla stregua delle ragioni inerenti all'organizzazione ed al regolare funzionamento dell'attività produttiva.

[20] V., per il caso della detenzione del lavoratore, Cass., 1° giugno 2009, n. 12721, in Lav. giur. 2009, 903; Cass., 10 marzo 2021, n. 6714, in Giur. it., 2021, 1407.

[21] V. Cass., 2 maggio 2022, n. 13774, che ha rigettato il ricorso proposto contro la sentenza di merito che aveva condannato il datore di lavoro a reintegrare il lavoratore previa riconduzione dell'addebito contestato alla lavoratrice di essersi rivolta in modo gravemente scortese e con espressione volgare ad un cliente nell'ipotesi del lavoratore che «esegua con negligenza il lavoro affidatogli» sanzionata dal c.c.n.l. in via conservativa; Cass., 26 aprile 2022, n. 13604, nella quale è stata ritenuta corretta l'applicazione dell'art. 18, quarto comma, poiché l'infrazione accertata era riconducibile alla fattispecie delle «mancanze lievi» punita dal contratto collettivo con sanzione conservativa; Cass., 21 aprile 2021, n. 12789, nella quale i giudici di legittimità sono pervenuti alla medesima conclusione in un caso in cui la Corte d'appello aveva ricondotto le infrazioni commesse dal lavoratore alle ipotesi di «negligenza/inosservanza di leggi/regolamenti/obblighi di servizio con pregiudizio agli interessi dell'azienda o vantaggio per sé o per terzi»; Cass., 21 aprile 2022, n. 12745, che ha confermato la sentenza che aveva applicato la reintegrazione attenuata in un caso in cui le infrazioni commesse dal dipendente erano riconducibili a quelle descritte dal contratto collettivo in termini di «insubordinazione» e di «negligenza nell'esecuzione della prestazione lavorativa»; Cass., 11 aprile 2022, n. 11665, che ha cassato la sentenza di merito che aveva omesso di verificare se le condotte contestate al lavoratore potessero o meno configurare «quella lieve irregolarità nell'adempimento, l'esecuzione del lavoro senza la necessaria diligenza, una sua esecuzione con negligenza grave o, ancora, una omissione parziale di esecuzione della prestazione» che il contratto collettivo puniva con sanzioni conservative.

Del tutto analoghi gli esiti dei giudizi di merito di cui si ha notizia. V. App. Milano, 15 aprile 2022, che ha ritenuto applicabile l'art. 18, quarto comma, in un caso in cui al lavoratore era stato contestato l'arresto in flagranza di reato per detenzione e spaccio di stupefacenti, evento che è stato ritenuto rientrante nelle previsioni del contratto collettivo che punivano con sanzioni conservative la «inosservanza, da parte del dipendente, delle norme di legge e del presente CCNL».

[22] Cass., 26 aprile 2022, n. 13063, che ha confermato la sentenza d'appello che aveva condannato il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore licenziato per mancata comunicazione del domicilio durante il periodo di assenza per malattia, giudicandola meno grave di quella di «assenza alla visita domiciliare» per la quale era stabilita una sanzione conservativa da un contratto collettivo che precisava espressamente che le ipotesi per le quali esso prevedeva sanzioni conservative erano indicate «esemplificativamente» e «a seconda della gravità della mancanza e nel rispetto del principio di proporzionalità». Nell'occasione la Corte ha affermato che in simili casi «Non si tratta di estendere la sanzione conservativa ad ipotesi non previste, quanto piuttosto di prendere atto che le parti sociali hanno inteso descrivere le fattispecie suscettibili di una sanzione non risolutiva del rapporto di lavoro mediante una elencazione di casi, che però, per espressa previsione, ha una valenza meramente esplicativa; pertanto, è consentita al giudice la sussunzione della condotta addebitata, pur se non direttamente ascrivibile a una di quelle oggetto di elencazione, nella previsione contrattuale che punisca l'illecito con sanzione conservativa attraverso siffatta tecnica di individuazione della fattispecie disciplinare, valutando che la mancanza accertata sia di gravità omologabile a quella che connota le infrazioni esplicitamente menzionate nel catalogo».

[23] Cass., 26 aprile 2022, n. 13065.

[24] A meno di non voler seguire quella dottrina che, sostenendo che nel fatto contestato la cui insussistenza dà luogo all'applicazione della tutela reintegratoria rientri anche la gravità della condotta nel caso concreto, riteneva di superare l'obiezione secondo cui, in questa maniera, non residuasse spazio per l'applicazione del quinto comma dell'art. 18, affermando che quest'ultimo dovrebbe applicarsi ai casi in cui la gravità del fatto addebitato al lavoratore, da un lato, non sia del livello richiesto per legittimare un licenziamento e, dall'altro, sia però superiore a quella che giustificherebbe la sanzione conservativa massima consentita (la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione): V. SPEZIALE, Giusta causa e giustificato motivo dopo la riforma dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, in WP CSDLE “Massimo D'Antona”.IT, n. 165/2012, 37.

[25] Impostazione ancora ripetuta tralatiziamente dalla recente giurisprudenza di legittimità: v., ad esempio, Cass., 2 maggio 2022, n. 13774, cit., oppure Cass., 25 maggio 2022, n. 16973.

[26] A. MARESCA, Il nuovo regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo: le modifiche dell'art. 18 statuto dei lavoratori, in Riv. it. dir. lav., 2012, I, 40; M. MARAZZA, L'art. 18, nuovo testo, dello Statuto dei lavoratori, in Arg. dir. lav. 2012, I, 621; F. SANTONI, La decorrenza della prescrizione dei crediti di lavoro e la legge n. 92/2012, in Riv. it. dir. lav., 2013, I, 880; G. PACCHIANA PARRAVICINI, La decorrenza della prescrizione e le tutele da licenziamento illegittimo: finché morte non ci separi, in Riv. it. dir. lav., 2020, II, 272 ss. Identica la conclusione di M. PERSIANI, Situazione psicologica di timore, stabilità e prescrizione dei crediti di lavoro, in Arg. dir. lav., 2018, I, 3 ss., secondo il quale mancherebbe una valida ragione per superare le conclusioni alle quali pervenne la Corte costituzionale con la sentenza n. 174 del 1972 secondo la quale, quando i rapporti di lavoro sono assistiti da "adeguata stabilità", non è più consentito presumere l'esistenza di una coercizione psicologica che impedisca al lavoratore di far valere i suoi diritti man mano che maturano e, quindi, anche durante il rapporto di lavoro.

[27] C. CESTER, Il progetto di riforma della disciplina dei licenziamenti: prime riflessioni, in Arg. dir. lav., 2012, I, 562; P. ALBI, Il campo di applicazione della nuova disciplina dei licenziamenti. Diversificazione del sistema rimediale ed effetti sulle garanzie dei diritti, in Flessibilità e tutele nel lavoro, a cura di P. CHIECO, Cacucci, 2013, 387; G. SANTORO-PASSARELLI, Diritto dei lavori e dell'occupazione, Torino, 2015, 368; A. VALLEBONA, Istituzioni di diritto del lavoro, Cedam, 2015.

[28] In ordine al quale, oltre alle opere, tra quelle sopra citate, successive al predetto decreto legislativo, ci si limita a richiamare A. TURSI, La prescrizione dei crediti retributivi nei rapporti di lavoro “destabilizzati”: note critiche, in Dir. rel. ind., 2022, 308, e G. VIDIRI, La prescrizione nel diritto del lavoro e la Corte costituzionale prima e dopo la legge Fornero ed il Jobs Act, in Corr. Giur., 2019, 639.

[29] Cass., sez. un., 10 gennaio 2006, n. 141, in Riv. it. dir. lav., 2006, II, 440, seguita dalla giurisprudenza successiva, per la quale sia sufficiente menzionare Cass., 16 marzo 2009, n. 6344.

[30] Per G. AMOROSO, Le tutele sostanziali e processuali del novellato art. 18 dello Statuto dei lavoratori tra giurisprudenza di legittimità e Jobs Act, in Riv. it. dir. lav., 2015, I, 358, «Una volta frazionato il regime delle tutele possibili nei confronti del licenziamento illegittimo e ridimensionata la tutela reintegratoria sì da renderla speciale rispetto a quella indennitaria che, saldandosi anche alla tutela obbligatoria, appare essere il regime ordinario di tutela nei confronti del licenziamento illegittimo, è dubbio che possa ancora sostenersi che gravi sul datore di lavoro, che resista alla domanda del lavoratore di riconoscimento di una di tali tutele, l'onere di provare che non ricorre il requisito dimensionale previsto dalla legge per la sua applicabilità». A. VALLEBONA, Breviario di diritto del lavoro, Torino, 2012, 401, si esprimeva nel senso che l'onere della prova del requisito dimensionale ricadeva ormai sul lavoratore. Invece, nel senso della persistente validità dell'orientamento della giurisprudenza di legittimità, v. M. DE LUCA, Riforma della tutela reale contro i licenziamenti al tempo delle larghe intese: riflessioni su un compromesso necessario, in Riv. it. dir. lav., 2013, I, 18.

[31] Cass., 19 aprile 2017, n. 9867.

[32] S. GIUBBONI, Il ritorno della reintegrazione. Noterella polemica sul licenziamento per giustificato motivo oggettivo dopo la sentenza n. 59/2021 della Corte costituzionale, in Giur. cost., 2021, 807; G. PELLACANI, Licenziamento per motivi economici illegittimo, “manifesta insussistenza” e reintegrazione nell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori: il legislatore scrive “può”, la Corte costituzionale sostituisce con “deve”, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D'Antona”.IT, n. 436/2021, 10; V. POSO, Dovere e potere. I verbi servili nell'interpretazione dell'art. 18, comma 7, secondo periodo, dello statuto dei lavoratori introdotto dalla l. n. 92/2012 e l'intervento necessario della Corte Costituzionale sulla «norma malfatta», in www.rivistalabor.it. Prospettano in maniera più cauta la possibilità di pervenire a tale esito L. ZOPPOLI, Corte costituzionale 59/21 e disciplina dei licenziamenti: piccone o scalpello?, in www.giustiziainsieme.it, e S. VARVA, Incostituzionalità dell'art. 18 st. lav. tra vizio del motivo e arbitrarietà del licenziamento: minaccia in vista anche per il “Jobs Act”?, in www.rivistalabor.it.

[33] Per considerazioni analoghe, v. BELLOMO-PRETEROTI, La sentenza della Corte costituzionale n. 59/2021 sull'art. 18 comma 7 St. lav.: una questione di (inaccettabile) discrezionalità, in www.rivistalabor.it.

[34] Esprime dubbi sulla possibilità di dedurre in maniera automatica dal ragionamento svolto nella sentenza n. 59/2021 la conclusione dell'illegittimità costituzionale della mancata previsione dell'applicazione della tutela reintegratoria al caso di licenziamento per g.m.o. basato su un fatto del quale sia dimostrata in giudizio l'insussistenza anche DI PAOLA, Per la Corte costituzionale la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro è “doverosa” nell'ipotesi di “manifesta insussistenza del fatto”, in www.giustiziainsieme.it.

[35] S. GIUBBONI, op. loc. cit. Com'è noto, la questione della disparità di trattamento al riguardo tra lavoratori assunti prima e lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 è stata dichiarata inammissibile da Corte cost. 26 novembre 2020, n. 254.

[36] V., in proposito, le osservazioni critiche di V. SPEZIALE, La sentenza della Corte costituzionale n. 254 del 2020 sui licenziamenti collettivi: una forma di «leale e costruttiva collaborazione» con la Corte di giustizia europea?, in Lav. dir. Europa, n. 1/2021.

[37] M. Marazza, Il regime sanzionatorio dei licenziamenti nel Jobs Act, in Arg. dir. lav., 2015, 2, 329; L. BUCONI, Tutele crescenti: il sistema sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi secondo il d.lgs. n. 23/2015, in Lav. giur., 2015, 1000.

[38] F. Carinci, Il licenziamento disciplinare, in F. Carinci, C. Cester (a cura di), Il licenziamento all'indomani del d.lgs. n. 23/2015, Modena, 2015, 87.

[39] L. De Angelis, Gli aspetti processuali della disciplina del d.leg. 23/15, in Foro it., 2015, V, 261.

[40] M. Persiani, Noterelle su due problemi di interpretazione della nuova disciplina dei licenziamenti, in Arg. dir. lav., 2015, 2, 397.

[41] Trib. Napoli, 27 giugno 2017.

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