1. Le autorità cui competono le decisioni di politica economica svolgono un ruolo assai delicato nel funzionamento delle nostre società, soprattutto per le conseguenze che la loro azione esercita su variabili molto rilevanti ai fini delle condizioni di vita dei cittadini che ricadono sotto la relativa “giurisdizione”. A volte anche una variazione delle imposte, della spesa pubblica o della relativa ripartizione tra gruppi sociali dell'ordine di un decimale di Pil è sufficiente determinare la crisi di un settore produttivo, migliaia di licenziamenti, la sottrazione a molte centinaia di indigenti delle risorse essenziali alla sopravvivenza. Sarebbe quindi assai opportuno che i riferimenti teorici ed empirici su cui le scelte delle autorità di politica economica si fondano fossero resi ben chiari alla comunità, in modo da permettere ai cittadini di valutare, alla luce di tali riferimenti, la coerenza di quelle scelte rispetto agli obiettivi enunciati. Probabilmente i modelli economici non sono affidabilissimi sul piano della capacità predittiva, e quindi la coerenza di una decisione di policy rispetto al modello di riferimento non basta a garantirne l'efficacia. Tuttavia, affinché gli elettori possano esprimere nell'urna giudizi orientati da qualche fattore diverso dal fascino carismatico o dalla simpatia, sarebbe importante quanto meno sapere se un governo sta seguendo nelle sue decisioni una qualsivoglia logica oppure no.
È probabilmente noto a tutti che, nell'ultimo quarantennio, in maniera sostanzialmente omogenea nel pianeta, la politica economica ha avuto come riferimento un nucleo di principi molto preciso. Molti studiosi fanno riferimento a questo nucleo di principi con l'espressione neoliberismo. Le idee chiave di questo approccio alla regolazione dell'economia, per citare un saggio sul tema che ha riscosso un certo successo (OSTRY, LOUNGANI, FURCERI, 2016), sono fondamentalmente due: “l'intensificazione della competizione attraverso la deregolamentazione e l'apertura dei mercati nazionali (inclusi i mercati finanziari) alla concorrenza straniera” e “la compressione del ruolo dello Stato, ottenuta per mezzo delle privatizzazioni di ampi comparti del settore pubblico e l'imposizione di limiti al potere dei governi di praticare disavanzi di bilancio e di accumulare debito”. Secondo molti commentatori, l'Europa sarebbe addirittura l'area del pianeta dove l'esperimento neo-liberista è stato portato più lontano, addirittura con l'affidamento del governo della moneta ad un organo tecnocratico svincolato da ogni responsabilità politica nei confronti della comunità di cui dovrebbe in teoria curare gli interessi (art. 130 TFUE) e con il sostanziale divieto di usare la politica fiscale espansiva in funzione anti-congiunturale (art. 126 TUE+Fiscal Compact).
Pertanto, si può dire che fino a qualche giorno fa il quadro concettuale di riferimento delle istituzioni di governance macroeconomica in Europa fosse assai chiaro, e che gli Stati membri dell'UE fossero sostanzialmente molto fedeli a questo approccio. Quelle poche volte che il governo di qualche Stato membro ha provato, seppur molto timidamente, a mettere in discussione questo sistema di principi dinanzi alla “corte” di Bruxelles, è stato sempre rapidamente ricondotto all'ordine con la moral suasion oppure, nei casi di più accentuata riottosità (come nel caso della Grecia nel 2015), con piccole ma efficaci dosi di terrorismo finanziario.
2. Questo quadro di coerenza tra principi e pratiche politiche è andato improvvisamente in frantumi con l'arrivo in Europa dell'epidemia nota come COVID-19. Prima alcuni stati membri hanno unilateralmente deciso di disapplicare il principio della libertà di commercio, bloccando l'esportazione di alcuni prodotti considerati “strategici” nella lotta all'epidemia. Poi è cominciata la corsa all'utilizzo della spesa pubblica in deficit nel tentativo di limitare i presumibilmente gravi danni dell'epidemia in termini di Pil e occupazione. Anche il governo italiano ha adottato la strada della politica fiscale espansiva, deliberando la spesa di 25 miliardi di euro per fare fronte all'emergenza. Si tratta di una misura di dimensioni assai limitate (grosso modo corrispondente all'1.3% del Pil) e probabilmente si poteva e si doveva fare molto di più. Nella conferenza stampa in cui sono stati presentati tali provvedimenti, il ministro dell'economia Gualtieri si è detto tuttavia molto fiducioso circa la loro efficacia espansiva, sostenendo che tali misure sarebbero in grado di (cito testualmente) «attivare a beneficio del sistema economico italiano flussi per 350 miliardi».
Si tratta di una previsione assai impegnativa. Forse troppo. Le domande che in questi casi invariabilmente si insinuano nella mente del non addetto ai lavori sono: «ma come fanno a formulare queste previsioni?»; «esiste un algoritmo che permette di predire l'effetto sul Pil di un dato aumento della spesa pubblica? E se si, su quali modelli è fondato?». Il pensiero dovrebbe correre immediatamente a un concetto che, almeno fino a qualche anno fa, attraversava trasversalmente i manuali di macroeconomia di base: il famigerato moltiplicatore della spesa pubblica di Keynes. Poi, purtroppo, la narrazione dominante ha fatto della teoria macroeconomica keynesiana un «residuo di un'epoca passata» e «un approccio fuorviante ai fini della comprensione del mondo moderno» e il moltiplicatore è andato piano piano scomparendo dai libri di testo.
Molto in pillole, in un'opera a lungo considerata un punto di riferimento significativo per il sapere economico e una guida irrinunciabile per le autorità di governo dell'economia, John Maynard Keynes sosteneva che se un governo avesse deciso di incrementare la spesa pubblica (cioè di effettuare acquisti addizionali di beni dalle imprese) dell'x% del Pil, finanziando quella spesa con un prestito dai risparmiatori, o anche usando moneta “stampata” per l'occasione, quella spesa avrebbe innescato una serie di effetti a catena sulla domanda di beni di consumo, dando luogo ad un incremento del reddito nazionale di dimensione pari all'xm%. L'economista britannico riteneva anche che il valore di m (il cosiddetto moltiplicatore) sarebbe stato un numero significativamente maggiore di uno. Questa assunzione implicherebbe cioè incrementi del reddito nazionale di dimensione più che proporzionale rispetto all'incremento della spesa pubblica che ne è all'origine. L'argomentazione è ben nota: lo Stato appalta la costruzione di una strada, la ditta che vince la gara d'appalto assume operai per costruirla, gli operai con lo stipendio ricevuto vanno a comprare beni alimentari, abiti, giocattoli per i figli e farmaci per i genitori anziani. Ma allora le industrie alimentari, tessili, farmaceutiche e quelle che producono giocattoli, per soddisfare la richiesta dei nuovi clienti, dovranno assumere nuova manodopera. A loro volta, questi lavoratori neoassunti useranno i propri salari per acquistare altri beni, stimolando altre industrie ad espandere la produzione e l'occupazione, e così via… Secondo Keynes, la spesa pubblica in deficit sarebbe quindi una sorta di farmaco salvavita cui ricorrere nelle situazioni disperate, e infatti consigliò ai governanti del suo tempo di farne uso ogni qual volta una crisi economica avesse minacciato di danneggiare in maniera grave il tessuto sociale della comunità.
3. Il fatto che il governo del nostro Paese abbia improvvisamente deciso di riesumare Keynes è una novità degna di nota. Fino a due settimane fa, ogni esortazione ad adottare misure fiscali anticongiunturali veniva immediatamente tacitata con argomenti retorici variegati: la spesa pubblica “brutta e cattiva” che alimenta inefficienza e corruzione, il mostro del debito pubblico, lo spettro dell'inflazione e altre calamità inenarrabili. In questa narrativa, l'economista di Cambridge era invariabilmente dipinto come un cattivo maestro che avrebbe provato a sedurci instillandoci l'infantile illusione di poter trovare scorciatoie per la prosperità. Mera retorica incapace di venire a patti con le ferree leggi dell'economia – dicevano i nuovi maestri – invitandoci invece a fare un salutare bagno di realismo. Non di “lassismo fiscale” avrebbe avuto bisogno il nostro paese – ci ammonivano – ma di lavorare più duramente e rinunciare ai troppi lussi a cui eravamo abituati: strade, ospedali, scuole, università, trasporti, stipendi, pensioni. Si tratta della teoria dell'austerità espansiva, che nell'ultimo ventennio si era pian piano insinuata nel senso comune.
Il punto di vista di Keynes e dei “nuovi maestri” può essere messo schematicamente a confronto prendendo proprio come riferimento il modello del moltiplicatore. Keynes evidentemente non aveva torto a sostenere (nessuno dei nuovi maestri lo nega) che la spesa pubblica induce un aumento a catena dei consumi. Tuttavia, secondo i nuovi maestri, egli avrebbe colpevolmente trascurato una serie di ripercussioni negative molto serie. Cominciarono Friedman e Meiselman col far osservare che, se l'aumento del deficit statale non è accompagnato da una immissione di liquidità, capita che i tassi d'interessi crescano in misura significativa, inibendo le imprese dall'effettuare nuovi investimenti. Sempre Friedman suggerì che l'aumento del livello di attività economica innescato dalla spesa pubblica avrebbe finito per “riscaldare” la dinamica dei prezzi, disincentivando l'offerta di lavoro e neutralizzando in tal modo l'effetto espansivo iniziale. Barro aggiunse che era assai probabile che gli individui reagissero alla spesa statale in deficit con una certa preoccupazione per le imposte future con cui (inevitabilmente) avrebbero dovuto prima o poi ripagare il debito contratto dallo stato, e che quindi decidessero di “stringere la cinghia” piuttosto che allargarla. Infine, i professori Alesina e Giavazzi ritennero altrettanto probabile che l'aumento della spesa in deficit avrebbe mandato in fibrillazione i sottoscrittori del debito pubblico i quali, preoccupati per l'aumento del rischio di default del loro debitore, avrebberocominciato a pretendere tassi di interesse più alti, provocando un'ulteriore compressione degli investimenti. Insomma, Keynes avrebbe raccontato solo il lato allegro della storia, mentre i “nuovi maestri” ci stavano aprendo gli occhi sui suoi aspetti inquietanti.
Ovviamente, il problema è capirci qualcosa sulla dimensione del “saldo” tra gli aspetti allegri e quelli inquietanti della storia, cioè in sintesi sul valore numerico di quel famoso “moltiplicatore”. Quanto è grande m? Nei testi di macroeconomia keynesiana si usano (a fini didattici) esempi in cui il moltiplicatore è 4 o 5, in genere seguiti dalla doverosa precisazione che la realtà è probabilmente meno piacevole a causa dei feed-back negativi chiariti nelle righe precedenti. Quanto meno piacevole? Qui, purtroppo, la teoria aiuta poco. Si deve chiedere aiuto all'analisi empirica, che però sconta il fatto di essere fondata su presupposti epistemologici assai fragili. La teoria economica non dispone di un “laboratorio” dove poter effettuare esperimenti controllati: il suo laboratorio è la storia, ma si tratta di un laboratorio particolare, dove le condizioni di contesto in cui si svolge l'esperimento non possono essere mantenute stabili artificialmente dallo sperimentatore. E così non di rado capita di vedere uffici studi di diverse organizzazioni internazionali, tutte degne di ottima considerazione, fornire stime dei presunti effetti di misure di politica fiscale che differiscono in misura considerevole, oppure costretti a rivedere con grande imbarazzo previsioni rivelatesi ex-post assai distanti dalla realtà.
Gli studiosi di filiazione keynesiana non dubitano che il moltiplicatore sia in ogni caso un valore significativamente maggiore di 1. Non si sa bene di quanto maggiore, ma insomma fare spesa pubblica in deficit durante i periodi di contrazione dell'attività economica – secondo costoro – dovrebbe far bene. Ma nell'ultimo trentennio questo punto di vista è stato ampiamente minoritario. Negli anni 90 del secolo scorso, alla luce di studi condotti sulle economie di alcuni paesi europei (Danimarca, Irlanda e Svezia), i professori Giavazzi e Pagano sostennero che il moltiplicatore della spesa pubblica fosse addirittura negativo: in altre parole, ci si doveva attendere cheun aumento della spesa pubblica avrebbe prodotto una riduzione del Pil, piuttosto che un suo aumento.Negli anni immediatamente successivi alla crisi economica del 2008, le principali istituzioni di governance dell'economia globale (FMI, BCE, Commissione Europea) formulavano i programmi di aggiustamento per i paesi che accedevano agli aiuti internazionali sulla base di modelli econometrici che assumevano un valore di m pari a 0.5, in ogni caso un valore talmente basso da sconsigliare l'uso della politica fiscale in funzione anticongiunturale. Qualche anno dopo il professor Blanchard, all'epoca chief economist del FMI, fece tuttavia un coraggioso atto di abiura, ammettendo che probabilmente quel valore era stato sottostimato di circa un punto. Da quel momento, studiosi e policy-maker ricominciarono a guardare al messaggio keynesiano con occhiali meno preconcetti, e la politica fiscale anticongiunturale ritornò ad essere considerata nel novero delle “carte” che un governo può giocarsi per far fronte ad una congiuntura economica avversa.
La manovra messa in campo dal ministro Gualtieri nei giorni scorsi sembra quindi inscriversi in questo fenomeno di generale riconsiderazione delle proposizioni chiave del modello keynesiano come base per il design delle politiche anticongiunturali. L'infezione da COVID-19, oltre ai gravissimi costi in termini di vite umane, rischia evidentemente di avere ripercussioni altrettanto gravi sul nostro sistema economico. Il blocco forzato di gran parte delle attività produttive per evitare il diffondersi del contagio e l'inevitabile azzeramento dei flussi turistici verso il nostro paese non promettono evidentemente nulla di buono nemmeno su quel fronte. Ben venga quindi questa subitanea conversione sulla via di Damasco delle autorità di politica economica nazionali.
4. C'è però un elemento che lascia assai perplessi nella “narrazione” del governo italiano, e cioè le previsioni concernenti la dimensione dei presunti effetti moltiplicativi sul livello di attività economica. Come si diceva, il ministro dell'economia si è detto fiducioso di attivare, grazie a una spesa pubblica corrispondente a circa l'1.3% del Pil, “flussi per 350 miliardi”, una cifra corrispondente grosso modo al 19% del Pil. In altre parole, il ministro Gualtieri ritiene che il moltiplicatore della spesa pubblica non sia un numero negativo, come pensavano i professori Giavazzi e Pagano; e nemmeno +0.5, come ritenevano i centri studi di FMI, BCE e Commissione Europea nei drammatici anni della Grande Recessione; e nemmeno +1.5, come sostenuto dal professor Blanchard nella sua auto-sconfessione. Secondo Gualtieri invece il moltiplicatore avrebbe addirittura un valore grosso modo intorno a +14, un valore di molte volte più grande di quello prospettato anche dagli studiosi più fiduciosi nell'efficacia espansiva della spesa pubblica in deficit. L'espressione “moltiplicatore” è quindi probabilmente inadeguata a descrivere la “potenza di fuoco” che il governo del nostro paese sembra attribuire allo strumento messo in campo: forse mega-moltiplicatore gli rende più giustizia.
Ora, io non so se lord Keynes attualmente dimora in Paradiso o all'Inferno, ma sono certo che, dovunque sia, ci guarda con sconcerto e perplessità. Nel giro di pochi giorni siamo passati dal considerarlo un “cattivo maestro” al diventare molto (ma molto) “più keynesiani di Keynes”. Ma lasciando da parte quello che pensa Keynes di noi, la cosa davvero sconcertante di questo modo del nostro governo di presentare i suoi provvedimenti è un'altra. In un sistema tributario basato in maniera preponderante sulle imposte commisurate al reddito e al valore degli scambi, la correlazione tra il reddito nazionale e il prelievo fiscale è ovviamente assai stretta. Si può allora facilmente dimostrare, con un po' di algebra elementare, che se davvero un aumento della spesa pubblica di dimensione pari all'1% del Pil determinasse un aumento del reddito del 14%, questo implicherebbe un aumento del gettito fiscale anch'esso grosso modo del 14%. In altre parole, basterebbe fare un po' di spesa pubblica in deficit per curare non soltanto le fluttuazioni congiunturali del reddito e dell'occupazione, ma anche per riparare ai nostri ben noti squilibri dei conti pubblici: l'aumento dei redditi indotto dalla spesa aggiuntiva dovrebbe infatti dar luogo ad un incremento degli incassi dell'Erario di gran lunga maggiori della spesa stessa, riequilibrando rapidamente entrate e uscite della PA. La domanda sorge allora spontanea: se rimediare alla “crisi fiscale” del nostro paese era così semplice, perché abbiamo invece passato tanti anni ad autoflagellarci con tagli draconiani a tutti i servizi essenziali?
E' quindi difficile allontanare il sospetto che questo mega-moltiplicatore che sembrerebbe essere il modello di riferimento teorico del governo sia in realtà niente di più che un espediente retorico per provare a dissolvere le perplessità sollevate da più parti circa l'adeguatezza, sul piano quantitativo, dell'intervento messo in campo. Dire che il topolino partorirà una montagna sarà probabilmente sembrato a qualcuno un ottimo modo per eludere la domanda “perché un topo così piccolo?”. Proveremmo invece (sommessamente) a suggerire di abbandonare le illusioni su effetti miracolistici di pochi spiccioli di spesa pubblica e di prendere più sul serio le (diffuse) perplessità sulle dimensioni dell'intervento.
Riferimenti bibliografici.
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