In un formidabile esperimento mentale Hobbes immaginò gli uomini abbandonati a se stessi nella natura, privi di ogni regola che non fosse di battersi tutti contro tutti per la sopravvivenza. E teorizzò la nascita della comunità come contratto di unione fra gli uomini e come contratto di sottomissione di quegli uomini verso il sovrano: di cessione della libertà di ciascuno a favore del governante di tutti, affinché amministrasse il potere per il bene comune.
Più tardi Rousseau immaginò di nuovo gli uomini persi nella natura, ma fu impressionato dalla violenza degli elementi, e teorizzò la comunità come rimedio per garantire la sopravvivenza di tutti con l’unione delle forze.
La parola sta tornando di moda in questi tempi difficili. Communitas viene da cum e munus: un’aggregazione di individui che condividono un vincolo reciproco. Munus è prestazione dovuta: un impegno assunto verso qualcuno. Nella comunità democratica, l’impegno è promesso e assunto verso tutti gli appartenenti. È questo, nelle moderne democrazie costituzionali, un senso profondo del vincolo comunitario: rispettare i doveri, specie quelli inderogabili di solidarietà.
Con il virus pandemico la natura si insinua nella comunità e la colpisce nel vincolo costitutivo; attraverso quel legame – che è la comunanza, lo scambio vitale nella società – il virus può trasmettersi da persona a persona. Come se la natura agisse in risposta alla mossa strategica dell’uomo pensata da Rousseau, insinuandosi nella comunità per distruggerla secondo lo stesso modo comunitario di esistere, sfruttando lo scambio vitale tra le persone.
La comunità può contrapporre una risorsa che è la stessa su cui essa si fonda: la costruzione e il rispetto di una regola. Stabilendo una regola pensata per l’occasione e reclamandone con forza l’adempimento può ottenere due risultati capitali.
Innanzitutto, può richiamare tutti al patto fondativo, che è di seguire le regole comunitarie.
Inoltre, attraverso le parole dei massimi rappresentanti delle istituzioni, questa regola nuova di zecca può essere presentata come condizione necessaria per la sopravvivenza della comunità. Cosa che accade proprio in questi giorni, basti pensare ai discorsi del presidente del Consiglio.
È proprio questa la funzione del diritto, che è la tecnica per realizzare la comunità: costruire regole per rendere possibile la vita in comune. Una funzione resa tragica dall’emergenza pandemica, in cui la sopravvivenza della comunità coincide letteralmente con la sopravvivenza comune: cioè dei componenti della comunità stessa, che si ammalano entrando in contatto e che possono guarire entrando in un diverso contatto negli ospedali predisposti per la cura.
Ecco dunque la regola in risposta all’attacco della natura: restiamo a casa; recidiamo i rapporti fisici, che sono quelli su cui si fonda la comunità e di cui si approfitta la natura. Eliminiamo il contatto del contagio, per rendere più efficace il contatto di cura.
Restare a casa è la regola, la sospensione del vincolo fisico ne costituisce il rispetto. La regola è molto severa, e smaschera tonnellate di baggianate su come la vita virtuale sui social avrebbe sostituito quella reale, di incontri in strada: che ci manca quasi come l’aria.
Restiamo a casa ma – prosegue la regola – teniamoci in contatto e confermiamoci in questo modo come comunità. Ossia: lavoriamo da casa, contribuiamo alla vita comune ciascuno dalla propria postazione, come oggi è possibile nella maggioranza dei casi.
Ci accorgiamo che la novità ai tempi del Coronavirus è che la misera e invasiva vita virtuale, fatta di continue connessioni al computer o al telefono, può insospettabilmente rinsaldare proprio quel vincolo fondamentale che il movimento della natura potrebbe distruggere.
Nei giorni scorsi abbiamo assistito alla difficoltà di costruzione della regole restrittiva, che preoccupava vaste fasce del mondo produttivo ed era avversata per timori di tipo economico. Così come abbiamo assistito a macroscopiche indifferenze verso la regola infine formulata per gradi successivi, e questo specie da parte delle generazioni più giovani, che non smettono di incontrarsi in gruppo.
Il dibattito sulla regola è sempre segno di democrazia in atto: di salute comunitaria. L’indifferenza verso la regola assunta è invece parso un fenomeno preoccupante.
Ma l’insofferenza verso una regola così insolita tradisce comunque la voglia di comunità; proprio per questo è difficile farla comprendere e accettare. Anche la movida è una manifestazione comunitaria, come lo spettacolo sportivo vissuto allo stadio.
Perciò occorre sempre spiegare accuratamente che la sospensione della pratica comunitaria sul piano degli incontri dal vivo non vorrebbe reprimere la pratica comunitaria, ma vorrebbe servire a mettere in scacco la malattia.
Dobbiamo riconoscere che la sospensione generalizzata dell’incontro fisico è una regola troppo vasta per garantirne il rispetto coattivo. Un ossequio imposto con la forza potrebbe ipotizzarsi in sottoinsiemi sociali di reclusi, amministrati secondo la tecnica del Panopticon escogitata da Bentham e messa in opera nelle carceri, nei manicomi, nei centri di accoglienza dei migranti e nelle varie strutture di contenimento operative in tutte le società. Invece, il rispetto di una imposizione così vasta da coinvolgere in un solo colpo la società intera non sarebbe realisticamente prospettabile.
Ecco perché mai come adesso la regola ha bisogno di essere effettiva: di essere corrisposta per spontanea condivisione dei destinatari piuttosto che per la minaccia di una ipotetica sanzione.
Legati dal munus comune affrontiamo la nostra prova.