Emergenza di salute pubblica e contrasto alla diffusione del COVID-19: I limiti dei DPCM.
In origine era il d.P.C.M. Codogno. Poi, il molto atteso d.P.C.M. 11 marzo 2020, frustrando le aspettative sindacali, ma accontentando le richieste confindustriali, ha lasciato la possibilità a diverse imprese italiane, benché non forniscano beni e servizi di prima necessità, di decidere se sospendere o meno l’attività produttiva o professionale (Il consiglio di presidenza di Confindustria Lombardia, presieduto da Marco Bonometti, ha ritenuto indispensabile tenere aperte le aziende, dando continuità a tutte le attività produttive e alla libera circolazione delle merci, poiché interrompere oggi le filiere significherebbe perdere il mercato di appartenenza in un territorio a forte vocazione export).
Qualora il datore di lavoro non ricorra al lavoro agile nella sua versione unilaterale (come modificata dal d.P.C.M. 23 febbraio 2020) o non decida di incentivare ferie, permessi e altri strumenti di contrattazione collettiva (rispettivamente art. 7, lett. a e b), questi può decidere, discrezionalmente, (è solo «raccomandato»!) di sospendere le attività produttive, qualora non si tratti di reparti indispensabili alla produzione (dove sembra che nulla debba essere sospeso).
Due punti del d.P.C.M. vanno evidenziati:
1) per quanto attiene alle attività produttive – ma ciò si deve estendere a rigore di logica ovunque esistano strutture di rappresentanza sindacale – occorre «favorire gli accordi tra le parti sociali».
2) ove l’attività non sia stata sospesa occorre assumere protocolli di sicurezza anti-contagio e, laddove non sia possibile rispettare la distanza inter-personale di almeno un metro, garantire la dotazione di adeguati strumenti di protezione individuale.
Il d.P.C.M. contiene norme speciali che si innestano in un più generale sistema di prevenzione e protezione della salute del lavoratore.
Le prescrizioni del d.P.C.M. appena esaminate sub 2) non impongono standard di protezione della salute e della sicurezza specifici. Non si dice ad esempio quali siano i dispositivi individuali da adottare (guanti? mascherine non certificate? mascherine FF? ecc.).
Non vi è dubbio in proposito che tali prescrizioni vadano raccordate con il sistema di protezione del lavoratore incardinato tra l’art. 2087 c.c. e il d.lgs. 9 aprile 2008 n. 81 (T.U. sulla salute e sicurezza), in quanto trattasi di indicazioni aggiuntive rispetto a un sistema normativo – preesistente e generale – di protezione e prevenzione della salute e della sicurezza del lavoratore che resta pienamente efficace.
Come noto, in forza del disposto dell’art. 2087 c.c., il datore di lavoro «è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa tutte le misure che (…) sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro», secondo «la particolarità del lavoro» – avendo cioè a riguardo al livello di rischio nascente dalla specifica attività lavorativa o dalla situazione di contagio pandemico – secondo «l’esperienza» – cercando di prevenire i pregiudizi prevedibili a causa di eventi già verificatisi in precedenza – e secondo la «tecnica» – ossia adottando misure aggiornate al progresso della conoscenza scientifica e tecnologica in un determinato settore. La giurisprudenza ha tratto da questa norma l’obbligo del datore di lavoro di assicurare la massima sicurezza tecnologicamente possibile. La previsione codicistica è poi rafforzata dal T.U. del 2008 che tutela il bene giuridico della salute del lavoratore nei luoghi di lavoro adottando un approccio di prevenzione basato sulla necessità di identificare e, se possibile eliminare o contenere i rischi.
La normativa emergenziale e assolutamente eccezionale (come si evince dal suo termine di scadenza) non può che rafforzare queste regole che restano applicabili e pienamente efficaci.
Pertanto, visto l’aumento esponenziale del livello normale di rischio derivante dal pericolo della malattia virale Covid 19, è necessario aggiornare il documento di valutazione dei rischi confrontandosi con RLS e coinvolgendo il responsabile del servizio prevenzione e protezione in ordine alla predisposizione di misure anche urgenti e, eventualmente, il medico competente per quanto riguarda pareri di natura scientifica.
Attuare protocolli sicurezza anti-contagio, possibilmente concordati (art. 8 d.P.C.M.), che prevedano un’organizzazione degli spazi di lavoro e ricreativi comuni a più lavoratori tale per cui sia garantita la distanza di almeno un metro tra gli individui. Il DPCM all’art. 9 prevede la limitazione degli spostamenti nei siti e dell’accesso agli spazi comuni. Per esempio, il datore di lavoro dovrà utilizzare barriere fisiche o organizzare turnazioni di lavoro o di accesso ai suddetti spazi comuni.
Quando non sia possibile rispettare tali protocolli organizzativi, il datore ha l’obbligo di adottare idonei strumenti di protezione individuale conformi al principio della massima sicurezza tecnologicamente possibile (livello di p; mascherine certificate ffp2-ffp3, in rapporto anche alle specifiche lavorazioni, protezioni facciali, guanti monouso). Nel caso specifico, il tipo di maschere filtranti richieste per evitare il contagio da Coronavirus classificato come “rischio biologico”, sono regolate dalla norma europea UNI EN 149. Tale norma, a seconda dell’efficienza filtrante, classifica le maschere in FFP1, FFP2, FFP3. Le mascherine consigliate a chi si deve proteggere dal virus sono di classe FFP2 o, meglio, FFP3 che hanno un’efficienza filtrante del 92% e 98% rispettivamente. Le FFP1 chiamate “antipolvere” con il 78% di efficienza sono insufficienti per proteggere dal virus.
È altresì importante che tali protocolli prevedano, inoltre, la fornitura di tutti i sistemi per la sanificazione di mani e superfici (art. 7, lett. e). Sanificare gli ambienti e le singole postazioni di lavoro, gli spogliatoi o le mense se ne è consentita l’apertura e la fruizione
Infine, è importante che i lavoratori siano informati e formati sui comportamenti da tenere per evitare il contagio sul luogo di lavoro. Ad esempio, occorre chiarire loro come provvedere allo smaltimento dei dispositivi monouso potenzialmente infetti.
Inadempimento datoriale degli obblighi di sicurezza e sospensione della prestazione lavorativa tra autotutela individuale e collettiva.
Che cosa succede se il datore di lavoro non ottempera? Può il lavoratore allontanarsi dal luogo di lavoro? Il rifiuto di lavorare in un luogo insalubre è una violazione dell’obbligo di obbedienza che nasce dal contratto di lavoro? È un fatto disciplinarmente rilevante passibile di sanzione disciplinare o di licenziamento?
Le conseguenze della violazione da parte del datore di lavoro del sistema di protezione e prevenzione della salute del lavoratore si prestano a essere indagate secondo due prospettive differenti: quella rimediale-risarcitoria, su cui qui non ci si soffermerà, e quella prevenzionale. È su quest’ultima che dobbiamo puntare l’attenzione ai tempi del CoVid19.
Infatti, l’art. 2087 c.c., è «norma aperta» che impone al datore di lavoro di adottare le cautele adeguate a salvaguardare nel modo più efficace la salute del lavoratore, fronteggiando la situazione di rischio che in concreto si presenta, anche quand’esse non siano prescritte tassativamente dalla legge.
Nella situazione emergenziale che stiamo vivendo la norma può essere un formidabile strumento di autotutela se letta insieme ad un'altra disposizione del Codice civile, l’art. 1460 («Nei contratti con prestazioni corrispettive ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione, se l'altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria, salvo che termini diversi per l'adempimento siano stati stabiliti dalle parti o risultino dalla natura del contratto. Tuttavia non può rifiutarsi la esecuzione se, avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto è contrario alla buona fede [1375]»). Poiché il contratto di lavoro è sinallagmatico, il principio di corrispettività legittima il rifiuto da parte del lavoratore di rendere la propria prestazione, nei limiti del principio di proporzione da valutarsi rispetto all'illegittimo comportamento del datore di lavoro e della conformità al canone di buona fede. In altri termini, questo meccanismo giuridico, permette al lavoratore di sospendere legittimamente la propria prestazione – conservando il diritto alla retribuzione – qualora il suo rifiuto di presentarsi sul luogo di lavoro sia giustificato dall’inottemperanza, anche parziale, del datore di lavoro ai doveri preventivi ex art. 2087 c.c. sopra enucleati.
La reazione del lavoratore è proporzionata rispetto a una mancanza datoriale “grave”, che viola oltre all’obbligo di sicurezza generale anche le numerose prescrizioni governative che mirano a contenere la diffusione di una malattia altamente contagiosa a diffusione pandemica.
La ratio legis è chiara: se il lavoratore è pronto ad adempiere in buona fede, ma il datore non è altrettanto pronto a ricevere quella prestazione nella propria organizzazione insalubre, l’ordinamento reagisce a questa situazione permettendo al lavoratore di “auto-sospendersi”. Sebbene, vale la pena chiarirlo, l’art. 1460 c.c. opera come un’eccezione processuale (inadimplenti non est adimplendum) da opporre alla controparte datoriale che irroghi una sanzione o il licenziamento disciplinare (in tal caso, qualora l’eccezione d’inadempimento sia fondata il fatto contestato sarà “insussistente” e il lavoratore dovrà essere reintegrato).
La combinazione tra gli artt. 1460-2087, in ultima analisi, diviene uno strumento per ottenere l’efficace attuazione di tutte le misure necessarie per la tutela dei beni dimostrandosi un mezzo di «dissuasione» dell’inadempimento dell’obbligo di sicurezza [SCHLESINGER 2008].
Non chiamiamo “sciopero” l’astensione collettiva per autotutela da Corona virus.
Si apprende dai quotidiani che i lavoratori si sono organizzati e hanno dato vita a scioperi in diverse realtà industriali, come l’ex Ilva di Taranto, la Fincantieri di Marghera, ma anche all’Ast di Terni e alla Corneliani di Mantova. Cgil, Cisl e Uil hanno sostenuto queste proteste motivate, a quanto consta, dall’inottemperanza delle aziende agli obblighi di adottare le misure di sicurezza necessarie. Si legge in diversi comunicati (ma v. in particolare il comunicato di FIM, FIOM, UIL per il settore metalmeccanico) che qualora non ci si accordi per fermate produttive temporanee coperte dagli ammortizzatori sociali con la finalità di rendere salubri e sanificati i luoghi di lavoro, i sindacati proclameranno «sciopero» per tutte le ore necessarie.
Qualificare sciopero le astensioni collettive dal lavoro che i lavoratori stanno organizzando, sembra però fuorviante in questa situazione contingente. È vero che il sindacato ha a sua disposizione lo strumento di autotutela per eccellenza dello sciopero (art. 40 Cost.), però l’attuale situazione di emergenza sanitaria legittima la trasposizione dell’eccezione individuale di cui all’art. 1460 c.c. dal piano individuale a quello collettivo.
L’inadempimento del datore rispetto all’obbligo di adottare misure e protocolli anti-contagio non è, infatti, una violazione che produce conseguenze esclusivamente sul piano individuale (supra § 3). La velocità del contagio e la rapida diffusione di questo virus in gruppi d’individui che stanno tra loro a contatto – comprovata dalla scienza medica a livello mondiale –, piuttosto, confermano che ogni omissione di cautela che favorisca la circolazione del virus produce gravissime conseguenze sul piano collettivo. D’altra parte, la salute sul luogo di lavoro non è mai una questione che riguarda esclusivamente l’individuo, ma si tratta di un bene comune da tutelare con misure adeguate a fronteggiare un rischio che è radicato nella fisicità dei luoghi e che può alimentarsi dall’organizzazione del lavoro.
Peraltro, la prevenzione del contagio delle persone che attualmente si trovano sui luoghi di lavoro, esula dal mero scambio contrattuale prestazione-retribuzione, e diviene una questione più ampia, che involge questione di salute pubblica, visto che è «interesse della collettività» (art. 32 Cost.) che la pandemia non si diffonda oltre livelli che possano compromettere la sostenibilità dello stesso Sistema Sanitario Nazionale e, di conseguenza, violare il diritto alla salute di tutti i cittadini.
Per queste ragioni, non sarebbe esatto parlare di sciopero con le conseguenze che ne derivano in punto di disciplina – la perdita del diritto alla retribuzione in corrispondenza delle ore di sospensione della prestazione –, ma si dovrebbe più correttamente affermare che si tratti di astensione collettiva in autotutela (giustificata dal combinato disposto degli artt. 1460, 2087 c.c. e 32 Cost.) in risposta a un previo inadempimento datoriale e volta alla salvaguardia della salute pubblica. Questa configurazione, quale esercizio plurimo del diritto di autotutela, non farebbe venire meno il diritto alla retribuzione, visto che la collettività dei lavoratori, in buona fede, sarebbe pronta ad offrire la propria prestazione alla controparte che, però, non essendo pronta a riceverla si trova in condizione di mora accipiendi.
Sul piano pratico, ond’evitare che possa mettersi in dubbio la genuinità del proliferare di azioni unilaterali non pienamente fondate e documentate, sarebbe opportuno – in assenza di una norma che disciplini una procedura ad hoc per l’astensione – inviare una diffida al datore di lavoro ove si specifichino le mancanze e gli inadempimenti che giustificano l’astensione di cui sopra.
Il Covid 19, in fondo, può costituire una buona occasione per riconoscere anche nel nostro ordinamento la distinzione, tra sciopero e astensione in autotutela, che come la dottrina ha messo in luce [] esiste da tempo in tutti gli altri Paesi europei. Del resto, rimanere insensibili rispetto a questa distinzione significa agevolare iniziative di autotutela spontanea e individuali che possono costituire abusi, sfociando nell’assenteismo giustificato formalmente dall’assenza per malattia, fenomeno che si sta dimostrando copioso in queste ore.
Riferimenti bibliografici.
Il precetto normativo ha realizzato una tutela forte per il lavoratore, grazie all’opera della giurisprudenza che ha costruito un vero e proprio sotto-sistema specializzato di responsabilità civile. Da un lato, infatti, essa ha applicato il principio della cd. “massima sicurezza tecnologicamente fattibile” e, dall’altro, si è discostata dallo schema codicistico della responsabilità per colpa di cui all’art. 1218 c.c. per inquadrarla in quello della responsabilità oggettiva dove la colpa è presunta, allocando il costo del danno sul datore di lavoro che non sia stato in grado di provare di avere fatto tutto il possibile per evitarlo (spetta, invece, al lavoratore la sola prova del danno e del nesso causale). Sull’autotutela nel contratto di lavoro M. DELL’OLIO, Autotutela (Diritto del lavoro), in Enc. giur., Roma 1988; A. VALLEBONA, Tutele giurisdizionali e autotutela individuale, Padova 1995; V. FERRANTE, Potere e autotutela nel contratto di lavoro subordinato, Torino 2004.
Sul principio di corrispettività nel contratto di lavoro, si v. Cass. civ., 10 gennaio 2019, n. 434; Cass. civ., 16 gennaio 2018, n. 836; Cass. civ., 29 febbraio 2016, n. 3959; Cass. civ., 5 dicembre 29504.
Su autotutela e obbligo di sicurezza del datore di lavoro P. ALBI, Adempimento dell’obbligo di sicurezza e tutela della persona, in P. SCHLESINGER (diretto da), Il codice civile. Commentario, Milano, Giuffrè, 2008, spec. 272.
Per una riflessione accurata sulla distinzione tra sciopero ed autotutela V. FERRANTE, Sciopero ed eccezione di inadempimento nella disciplina dei servizi pubblici essenziali, in Jus, 2009, 1, 121 ss.