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Lavoro 17.03.2020

Sistema di prevenzione aziendale, emergenza coronavirus ed effettività

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Coronavirus e valutazione dei rischi.

Uno dei maggiori problemi emersi con l'emersione dell'epidemia da coronavirus riguarda la sussistenza di un obbligo di aggiornare la valutazione dei rischi, il relativo documento e le conseguenti misure di prevenzione ai sensi dell'art. 29, comma 3, d.lgs. n. 81 del 2008, in base al quale ciò deve avvenire «in occasione di modifiche del processo produttivo o della organizzazione del lavoro significative ai fini della  salute e sicurezza dei lavoratori, o in relazione al grado di evoluzione della tecnica, della prevenzione o della protezione o a seguito di  infortuni significativi o quando i risultati della sorveglianza sanitaria ne evidenzino la necessità».

In realtà, il d.lgs. n. 81 del 2008 – le cui disposizioni hanno natura penale e sono dunque soggette a stretta interpretazione – impone di valutare «tutti» i rischi presenti nell'ambito dell'organizzazione in cui operano i lavoratori (art. 2, lett.q; art. 28, comma 1), vale a dire i rischi specifici che sono connessi al contesto strutturale, strumentale, procedurale e di regole che il datore di lavoro ha concepito e messo in atto per il perseguimento delle proprie finalità produttive. E, dal canto suo, il citato art. 29 dispone l'aggiornamento della valutazione dei rischi sempre in relazione all'emersione di fenomeni che riguardano l'organizzazione intesa nel senso testé evocato.

Il fatto che, manifestandosi attraverso il contatto interpersonale, il rischio biologico legato al coronavirus si insinui nelle organizzazioni produttive non significa che esso si tramuti in un rischio specifico o professionale. Se si eccettuano le specifiche attività che si svolgono ad esempio nei servizi sanitari o nei laboratori, nelle altre ipotesi si tratta di un rischio generico che non nasce dall'organizzazione creata dal datore di lavoro o che necessariamente si manifesta in essa, ma che, provenendo dall'esterno dell'organizzazione, ne “trae profitto” per manifestarsi e diffondersi.

D'altra parte, non si deve trascurare che la specifica disciplina dell'esposizione ad agenti biologici di cui al Titolo X del d.lgs. n. 81 del 2008 si riferisce «a tutte le attività lavorative nelle quali vi è rischio di esposizione ad agenti biologici» o perché il datore di lavoro deliberatamente intende esercitare attività che comportano uso di agenti biologici, derivandone specifici obblighi di comunicazione o di autorizzazione, o perché, pur non volendo operare con agenti biologici, egli organizza attività lavorative che, per la loro modalità di esercizio, possono implicare il rischio di esposizioni dei lavoratori a tali agenti (come le attività di cui all'Allegato XLIV), o attività in cui il rischio biologico sia intimamente connesso all'uso di certi strumenti o a certe modalità della lavorazione (es. il rischio di tetano per le falegnamerie). Tutte ipotesi differenti da quelle – come nel caso del coronavirus o, se si vuole, dei “normali” virus influenzali – in cui un agente biologico “esterno” – agendo su di un ambito territoriale praticamente sconfinato – si insinui improvvisamente anche in un'organizzazione produttiva in cui normalmente non sono presenti o “dedotti” agenti biologici.

Ciò non significa che i c.d. rischi “esogeni” non debbano in certi casi essere valutati. Ad esempio, ove un'impresa invii lavoratori in paesi stranieri afflitti dal rischio terroristico ben potrà dirsi che tale rischio sia insito nella sua organizzazione, intesa in senso non reificato come il progetto produttivo e come il complesso delle regole che lo governano, con il conseguente obbligo di valutarlo. E altrettanto dicasi per la valutazione di un rischio da contagio ove si inviino lavoratori in paesi nei quali sia nota e prevedibile la presenza di epidemie.

Nel caso del coronavirus, non si tratta di un rischio che grava non solo su di una o più organizzazioni, ma ovunque e a prescindere da ciò che si fa e da dove si è. Se nell'esempio precedente si potrebbe evitare il rischio non inviando il lavoratore all'estero o magari facendolo lavorare con gli interlocutori di quel paese in smart working, nel caso dell'attuale emergenza del coronavirus neppure l'utilizzazione dello smart working garantisce in assoluto l'esclusione del contagio, potendo paradossalmente il lavoratore essere più al sicuro in un'azienda in cui si adottino misure precauzionali che altrove. D'altra parte, se si giungesse al paradosso per cui chiunque organizzi un'attività lavorativa altrui dovrebbe valutare il rischio da coronavirus come proprio rischio professionale, si rischierebbe di perdere di vista che cosa sia effettivamente un rischio professionale.

Di fronte alla comparsa di un rischio biologico generico che minaccia la salute pubblica spetta alle pubbliche autorità – disponendo esse istituzionalmente dei necessari strumenti (competenze scientifiche e poteri) – rilevarlo, darne comunicazione, indicare le misure di prevenzione e farle osservare. Ad esse il datore di lavoro si dovrà adeguare, dovendo ovviamente rispettare il precetto generale di cui all'art. 2087 c.c., senza che per questo debba stravolgere il proprio normale progetto prevenzionistico in azienda. Tali misure si affiancheranno provvisoriamente – per la durata della fase di emergenza – a quelle ordinarie, conservando la propria distinta natura e funzione. La valutazione di quel rischio è quindi operata a monte dalla pubblica autorità, ai cui comandi il datore di lavoro dovrà adeguarsi adattando a tal fine la propria organizzazione alle misure di prevenzione dettate dalla stessa pubblica autorità. Tale riorganizzazione non è altro che un adeguamento alle direttive pubbliche e, come tale, non pare costituire un vero e proprio aggiornamento della valutazione dei rischi exart. 29 d.lgs. n. 81 del 2008, con la conseguenza che l'inosservanza delle direttive pubbliche rileverebbe non ai sensi dell'art. 55 dello stesso decreto, quanto in relazione alle speciali sanzioni pubblicistiche sancite dalla pubblica autorità.

Infatti, le modifiche che il datore di lavoro apporta alla propria organizzazione in esito alle indicazioni della pubblica autorità non sono frutto di una sua libera determinazione, ma sono condizionate da queste ultime. A tale proposito vale la pena ricordare che l'obbligo di valutazione dei rischi (e quanto ne consegue) è intimamente collegato al fatto che il datore di lavoro è il responsabile dell'organizzazione in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa (art. 2, lett. b, d.lgs. n. 81 del 2008). A lui e solo a lui, quale soggetto legittimato ad esercitare la libertà costituzionale di iniziativa economica privata in virtù ed entro i limiti dell'art. 41 Cost., spetta definire l'organizzazione della propria impresa valutandone i rischi per i propri lavoratori, avvalendosi a tal fine della collaborazione del RSPP e del medico competente e consultando il RLS, ma, non a caso, senza poter delegare a chicchessia tale obbligo (art. 17 d.lgs. n. 81 del 2008). E a lui e solo a lui spetta conseguentemente individuare nel documento di valutazione dei rischi le misure di prevenzione che dovranno essere adottate nella propria organizzazione.

Diversamente, di fronte all'emergenza in atto, la pubblica autorità, per evidenti esigenze di salute pubblica, ha avocato a sé quei poteri che normalmente spetterebbero al datore di lavoro, sospendendo in certi casi lo stesso esercizio dell'iniziativa economica privata (si v. i n. 1-3 d.P.C.M. 11 marzo 2020), mentre, nei casi in cui non ha ritenuto di dover sospendere tale libertà costituzionale per non paralizzare il paese, ha provveduto essa stessa, in esito alla valutazione del rischio connesso al contagio che aveva effettuato a monte, ad individuare le misure di contenimento e di prevenzione da adottare nelle organizzazioni produttive. Pertanto, anche ove non sia stato privato della libertà di intrapresa, il datore di lavoro è stato nei fatti, e non solo, esautorato dalla pubblica autorità dalla possibilità di valutazione di quel rischio giacché, trattandosi di un rischio pandemico immanente ovunque, l'eventuale sua valutazione da parte di ogni singolo datore di lavoro (che, pur potendosi avvalere del medico competente – là dove nominato – non avrebbe comunque avuto a disposizione le elevate competenze scientifiche necessarie per valutare adeguatamente un rischio di tal genere e tutte le sue conseguenze), avrebbe rischiato di far emergere misure di prevenzione o non adeguate o addirittura diverse da azienda ad azienda: il che, di fronte ad un rischio senza confini che non si limita a produrre i propri effetti nei soli contesti aziendali, avrebbe potuto generare preoccupanti ripercussioni sul contesto generale.

In via di astrazione, è come se la posizione di garanzia datoriale fosse stata in qualche modo funzionalizzata a tutelare un interesse pubblico generale da altri valutato, potendo le sue azioni riverberare effetti anche sulla popolazione esterna (v. infra).

Verso una nuova dimensione del sistema di prevenzione aziendale?

Lungi dall'essere una vera e propria “fonte” del rischio da coronavirus, l'organizzazione diviene comunque, pur involontariamente ed incolpevolmente, uno straordinario veicolo per la sua diffusione. Quello che costituisce un gravissimo problema di “salute pubblica” per tutta la popolazione nei fatti diviene anche un problema di salute sul lavoro, giacché la stessa presenza nel luogo di lavoro rappresenta una possibile causa di contagio.

Pertanto, nel momento in cui, in seguito alla valutazione effettuata dalla pubblica autorità, il rischio del contagio da coronavirus è emerso nelle aziende non sanitarie, i datori di lavoro non solo non possono ignorarlo, ma debbono comunque assumere le cautele precauzionali imposte dalla loro preposizione gerarchica ex art. 2086 c.c. e dal loro generale obbligo di sicurezza ex art. 2087 c.c. Pur non dovendo farsi carico dell'applicazione del Titolo X del d.lgs. n. 81 del 2008 sull'esposizione ad agenti biologici, essi debbono tuttavia farsi garanti dell'applicazione in azienda delle misure di prevenzione dettate dalla pubblica autorità, spettando comunque ad essi valutare e decidere come adottarle nelle proprie aziende ove esse presentino margini di discrezionalità. Tuttavia, una cosa è l'obbligo del datore di lavoro di rispettare gli obblighi prevenzionistici connaturati alla sua specifica organizzazione, e altro è l'obbligo di attuare le misure prevenzionistiche anti-contagio dettate dalla pubblica autorità, le quali, contrariamente a quanto si potrebbe ipotizzare, non si integrano nel documento di valutazione dei rischi. Una distinzione che si riflette anche sul versante delle sanzioni, non potendosi sostenere che la violazione di una misura di prevenzione anti-contagio dettata dalla pubblica autorità (ad esempio la mancata utilizzazione delle ferie, o dello smart working) integri gli estremi di quelle contravvenzioni in materia prevenzionistica assoggettate, ex art. 301 d.lgs. n. 81 del 2008, al regime della prescrizione obbligatoria di cui all'art. 20 d.lgs. n. 758 del 1994. Quelle violazioni potranno subire altre sanzioni ad hoc, la cui individuazione tuttavia non è semplice (v. infra). 

Il fatto che i due nuclei prevenzionistici siano concettualmente distinti non significa tuttavia che non possano sussistere momenti di comunicazione/interazione tra gli stessi. Si pensi all'art. 15, comma 1, d.lgs. n. 81 del 2008 il quale configura come misure generali di tutela «la limitazione al minimo del numero dei lavoratori che sono, o che possono essere, esposti al rischio» (lett. g) e «l'allontanamento del lavoratore dall'esposizione al rischio per motivi sanitari inerenti la sua  persona» (lett. m). Per altro verso, si potrebbe pensare anche all'art. 18, comma 1, il quale impone al datore di lavoro e al dirigente di «adottare le misure per il  controllo delle situazioni di rischio in caso di emergenza e dare istruzioni affinché i lavoratori, in caso di  pericolo grave, immediato ed  inevitabile, abbandonino il posto di lavoro o la zona pericolosa» (lett. h), nonché di «informare il più presto possibile i lavoratori esposti al rischio di un pericolo grave e immediato circa il rischio stesso e le disposizioni prese o da prendere in materia di protezione» (lett. i). Senonché, a ben guardare, tali previsioni riguardano situazioni estreme riconducibili a disfunzioni dell'organizzazione aziendale (l'improvviso incendio in azienda) nelle quali si verifica un'emergenza che impone la sospensione immediata del lavoro, mentre, nel caso del coronavirus, si è di fronte ad un'emergenza che coesiste con il lavoro.

In ogni caso, è evidente che, a fronte di queste ultime, il sistema di prevenzione aziendale può assumere anche una dimensione strumentale o servente rispetto alla soddisfazione di esigenze che trascendono non solo la tutela di un singolo lavoratore , ma addirittura il mero ambito aziendale. Infatti, preservare i lavoratori dal contagio nel luogo di lavoro significa non solo tutelare la loro salute, ma anche far sì che essi non costituiscano un fattore di rischio per i propri familiari. È quanto emerge nella lungimirante definizione di “prevenzione” di cui all'art. 2, lett. n,d.lgs. n. 81 del 2008, intesa come «il complesso delle disposizioni o misure necessarie anche secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, per evitare o diminuire i rischi professionali nel rispetto della salute della popolazione  e dell'integrità dell'ambiente esterno».

Le “raccomandazioni” del d.P.C.M. 11 marzo 2020 e i protocolli di sicurezza anti-contagio.

L'importanza del ruolo del sistema di prevenzione aziendale nel contrasto dell'emergenza in atto si coglie anche nelle “raccomandazioni” contenute nell'art. 1, n. 7 e 8, d.P.C.M. 11 marzo 2020, relativamente alle attività produttive che, a differenza di quelle di cui ai n. 1-3, non sono soggette a sospensione. Le raccomandazioni di cui al n. 7 riguardano sia le attività produttive sia quelle professionali e hanno ad oggetto: a) l'attuazione del massimo utilizzo da parte delle imprese di modalità di lavoro agile per le attività che possono essere svolte al proprio domicilio o in modalità a distanza; b) l'incentivazione delle ferie e dei congedi retribuiti per i dipendenti nonché degli altri strumenti previsti dalla contrattazione collettiva; c) la sospensione delle attività dei reparti aziendali non indispensabili alla produzione; d) l'assunzione di protocolli di sicurezza anti-contagio e l'adozione di strumenti di protezione individuale là dove non fosse possibile rispettare la distanza interpersonale di un metro come principale misura di contenimento; e) l'incentivazione delle operazioni di sanificazione dei luoghi di lavoro, anche utilizzando a tal fine forme di ammortizzatori sociali. La raccomandazione di cui al n. 8, relativa alle sole attività produttive, ha ad oggetto la limitazione al massimo degli spostamenti all'interno dei siti e il contingentato dell'accesso agli spazi comuni. Anche il n. 9 concerne le sole attività produttive, prevedendo che in relazione a quanto disposto nell'ambito dei n. 7 e 8, si favoriscano intese tra organizzazioni datoriali e sindacali. Infine, il n. 10 ribadisce l'invito, in tutte le attività non sospese, al massimo utilizzo delle modalità di lavoro agile, che, nel precedente n. 6, è configurato come modalità ordinaria della prestazione lavorativa anche nelle pubbliche amministrazioni.

Una delle raccomandazioni più interessanti ai fini della sicurezza dei lavoratori, ma anche più complessa, è quella relativa all'assunzione di «protocolli di sicurezza anti-contagio», per la quale è auspicato un ruolo delle parti sociali. A tale proposito, se per un verso potrebbe apparire discutibile che l'oggetto dei protocolli – pertinente ad una materia tipicamente indisponibile come la tutela della sicurezza sul lavoro – possa costituire oggetto di contrattazione, per altro verso non può escludersi che l'Esecutivo, caldeggiando intese tra le parti sociali, abbia voluto sottolineare, data l'eccezionalità del momento, l'esigenza che la definizione delle misure straordinarie per fronteggiare l'emergenza del coronavirus sia il più possibile condivisa e partecipata da tutti gli attori, forse anche per indicare il “bene comune” qui in gioco, vale a dire la salute dei lavoratori, ma anche, per suo tramite, di tutta la popolazione.

È quanto è emerso nel “Protocollo condiviso di regolazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”, sottoscritto dalle organizzazione sindacali confederali il 14 marzo 2020 su invito del Governo, il quale ne favorisce, per quanto di sua competenza, la piena attuazione. Il Protocollo contiene linee guida condivise per agevolare le imprese nell'adozione di specifici protocolli di sicurezza anti-contagio, i quali consentano la prosecuzione delle attività produttive in condizioni di salubrità e sicurezza applicando le misure di precauzione del Protocollo nazionale, che potranno anche essere integrate con altre equivalenti o più incisive secondo le peculiarità della propria organizzazione, previa consultazione delle rappresentanze sindacali aziendali.

Al fine di attuare le prescrizioni del legislatore e le indicazioni dell'autorità sanitaria, il Protocollo si occupa di: informazione; modalità di ingresso in azienda; modalità di accesso dei fornitori esterni; pulizia e sanificazione in azienda; precauzioni igieniche personali; dispositivi di protezione individuale; gestione di spazi comuni aziendali; organizzazione aziendale (turnazione, trasferte e smart working, rimodulazione dei livelli produttivi); gestione entrata e uscita dei dipendenti; spostamenti interni, riunioni, eventi interni e formazione; gestione di una persona sintomatica in azienda; sorveglianza sanitaria, medico competente, Rls; aggiornamento del protocollo. Il Protocollo si configura dunque come un utile strumento per la gestione dell'emergenza che, opportunamente recepito in relazione alle singole specificità aziendali, dovrebbe agevolare datori di lavoro e lavoratori ad affrontare una situazione che, altrimenti, imporrebbe la sospensione dell'attività produttiva.

Al di là dei suoi contenuti, emerge tuttavia un serio interrogativo sulla natura giuridica e sulla valenza del Protocollo. Inquadrato solo come un accordo interconfederale (quale indubbiamente è), ne conseguirebbe un'efficacia soggettiva solamente di diritto comune, con il paradossale effetto che un datore non iscritto alle organizzazioni datoriali firmatarie non sarebbe obbligato ad adottarlo. Per altro verso, considerando che l'assunzione di protocolli di sicurezza anti-contagio è oggetto di una specifica raccomandazione del d.P.C.M. 11 marzo 2020, quand'anche non intendessero adottare il Protocollo del 14 marzo 2020, i datori di lavoro non iscritti non potrebbero comunque ignorare la raccomandazione, cosicché, ove malauguratamente decidessero di non adottare neppure “proprie” misure anti-contagio, violerebbero l'obbligo di sicurezza di cui all'art. 2087 c.c., rischiando inoltre di essere imputabili ex artt. 589 e 590 c.p. ove il contagio causasse la morte di un lavoratore o gli arrecasse lesioni gravi o gravissime.

Per scongiurare il rischio di un'applicazione non generalizzata del Protocollo sarebbe forse necessario un recepimento del suo contenuto in atti pubblicistici, traducendo in norme vincolanti ciò che oggi è frutto di determinazioni volontarie. Quand'anche si ritenga che una simile soluzione non sia distonica con il n. 9 del D.P.C.M. dell'11 marzo 2020, il quale allude ad «intese tra organizzazioni datoriali e sindacali», non può non cogliersi come tale previsione sottolinei comunque l'esigenza di una responsabilizzazione volontaria in merito all'assunzione delle misure di prevenzione anti-contagio e ciò sia mediante la loro condivisione (ove possibile, come nelle attività produttive) a livello nazionale ed aziendale, sia in via unilaterale là dove un confronto negoziale sia più difficile da realizzare (nelle attività professionali, nel cui ambito i protocolli di sicurezza dovrebbero essere assunti dal responsabile dello studio).

È chiaro che l'opzione di misure di prevenzione solo volontarie presenta maggiori incognite in ordine alla loro effettività sul piano giuridico, non potendocisi certo accontentare solo di una tutela civilistica risarcitoria ex post in caso di violazione delle regole. Ciò impone un approfondimento nel prosieguo.

Per il resto, anche le altre raccomandazioni del d.P.C.M. 11 marzo 2020 assumono la natura di misure “straordinarie” di prevenzione dei lavoratori dal rischio di contagio del coronavirus, in una sorta di funzionalizzazione per la tutela della sicurezza dei lavoratori di strumenti originariamente concepiti per rendere più flessibile l'organizzazione del lavoro (lo smart working), oppure di diritti fondamentali dei lavoratori (ferie e congedi), oppure di altre libertà costituzionalmente riconosciute (l'iniziativa economica privata o quella di circolazione, anche tra loro interconnesse) soggette a penetranti limitazioni.

L'incerta effettività delle raccomandazioni.

Sotto il profilo giuridico, emergono non poche perplessità sul valore delle raccomandazioni e sulle possibili conseguenze ove non vi si dia seguito.

Stando al dato letterale – «si raccomanda» – parrebbe arduo ritenere che l'attuazione della raccomandazione equivalga alla condizione che legittima la prosecuzione delle attività produttive e professionali. D'altro canto, non è credibile che, data l'emergenza in atto, l'Esecutivo abbia voluto seguire più una logica di moral suasion che di vera e propria prescrizione. Infatti le violazioni delle disposizioni del d.P.C.M. 11 marzo 2020 (quelle che sospendono le attività commerciali: n. 1-3) sono sanzionabili in base all'art. 650 c.p. in forza dell'art. 3, comma 4, d.l. n. 6 del 2020, in base al quale, salvo che il fatto non costituisca più grave reato, il mancato rispetto delle misure di contenimento di cui all'art. 1, comma 2, dello stesso d.l. n. 6 del 2020 è punito appunto ai sensi di tale norma penale: misure di contenimento la cui individuazione è affidata appunto ai d.P.C.M.

Per verificare se anche le violazioni delle raccomandazioni subiscano la stessa sorte delle altre trasgressioni del d.P.C.M. 11 marzo 2020, occorre considerare non solo il tenore del predicato verbale («si raccomanda»), ma anche il loro contenuto, che ne accredita l'immagine di “previsioni in bianco”, come si coglieva con riferimento ai protocolli di sicurezza anti-contagio prima della sottoscrizione del Protocollo nazionale condiviso. L'adozione di tutte le misure di prevenzione raccomandate nei n. 7 e 8 presuppone una valutazione del datore di lavoro in ordine alla loro praticabilità organizzativa. Per esempio, per attuare il massimo utilizzo di modalità di lavoro agile per le attività che possono essere svolte a domicilio o in modalità a distanza, si dovrà valutare se esistano attività che rispondano ai criteri di “telelavorabilità”, se lo smart working sia compatibile con l'organizzazione dell'azienda, se i lavoratori adibiti alle attività esternalizzabili siano in grado di utilizzare tale modalità con riguardo alle competenze personali, alla disponibilità della strumentazione e all'agibilità degli spazi domestici. E parimenti soggette a valutazione saranno le altre misure.

Considerando l'assoluto valore dei beni in gioco in questa emergenza, quelle raccomandazioni, lungi dall'atteggiarsi come “vivi consigli”, non possono non costituire indicazioni comunque precettive nel senso che il datore di lavoro non può non tenerne conto, dovendo comunque valutare se, quali e in che modo attuarle nella propria azienda, non potendosi escludere che alla loro considerazione possa essere condizionata la stessa possibilità per l'impresa (o lo studio professionale) di proseguire l'attività lavorativa.

Senonché, nello specifico, sia il particolare tenore del predicato verbale «si raccomanda», sia il carattere tendenzialmente “aperto” dei comportamenti oggetto di tali raccomandazioni, sia infine la necessità di una valutazione del datore di lavoro in ordine alla praticabilità organizzativa di detti comportamenti inducono a dubitare – in considerazione dei principi penalistici di legalità e di tassatività – che il datore di lavoro che non vi dia corso possa essere penalmente sanzionato ex art. 3, comma 4, d.l. n. 6 del 2020 (con l'art. 650 c.p.) al pari di chi trasgredisca i veri e propri ordini di sospensione delle attività di cui ai n. 1-3 d.P.C.M. 11 marzo 2020.

Per altro verso, nel caso di inadempienza a tali raccomandazioni non paiono neppure applicabili le disposizioni in materia di prescrizione ed estinzione del reato di cui agli artt. 20 ss. d.lgs. n. 758 del 1994, le quali, ai sensi dell'art. 301 del d.lgs. n. 81 del 2008, si applicano alle contravvenzioni in materia di igiene, salute e sicurezza sul lavoro previste da tale decreto nonché da altre disposizioni aventi forza di legge, per le quali sia prevista la pena alternativa dell'arresto o dell'ammenda, ovvero la pena della sola ammenda: in ogni caso, tutte disposizioni legislative che impongono obblighi di condotta specificamente legati ai precetti prevenzionistici connessi agli specifici rischi dell'organizzazione aziendale.

Il potere di disposizione e… le buone prassi.

In questa situazione, non è neppure chiaro se, a fronte della particolare struttura delle suddette raccomandazioni, sia possibile ipotizzare una strada diversa: quella del “potere di disposizione” riconosciuto agli organi di vigilanza anche in materia di sicurezza sul lavoro ai sensi degli artt. 10 e 11 d.P.R. n. 520 del 1955, tuttora in vigore nonostante l'avvento del d.lgs. n. 81 del 2008. Il dubbio circa l'uso di tale strumento (ingenerato da alcuni risalenti interpretazioni ministeriali: Circolare del Ministero del lavoro n. 25 del 1996) riguarda il fatto che il d.P.C.M. dell'11 marzo 2020 non ne fa menzione, non essendo chiaro se il personale ispettivo possa avvalersi di tale potere solo nei casi in cui la legge lo preveda esplicitamente, oppure se possa ricorrervi “liberamente”, ovviamente nelle ipotesi in cui la legge non preveda l'esercizio di altri poteri (come, dinnanzi alle contravvenzioni di cui all'art. 301 d.lgs. n. 81 del 2008, quello di prescrizione di cui all'art. 20 d.lgs. n. 758 del 1994). Si tratta di un dubbio non trascurabile, il cui eventuale fondamento precluderebbe il ricorso ad uno strumento che parrebbe fatto apposta per situazioni come quelle in esame, come emerge indirettamente in un'altra circolare ministeriale secondo cui la “disposizione” «impone al datore di lavoro un obbligo nuovo, che viene a specificare quello genericamente previsto dalla legge, specie laddove essa non regolamenta fin nei dettagli la singola fattispecie considerata» (Circolare del Ministero del lavoro n. 24 del 2004, pur se riferita all'analogo istituto di cui all'art. 14 d.lgs. n. 124 del 2004): in sostanza, l'inevitabile discrezionalità riconosciuta al datore di lavoro nel seguire i contenuti generici delle raccomandazioni sarebbe sottoposta all'apprezzamento – anch'esso discrezionale – del personale ispettivo.           

Se il dubbio si dissipasse e si ritenesse plausibile che, in esito ai propri controlli, il personale ispettivo delle ASL (o dell'INL ove competente ex art. 13 d.lgs. n. 81 del 2008) potesse utilizzare il potere di “disposizione” di cui all'art. 10 del d.P.R. n. 520/1955, specificando così in via esecutiva al datore di lavoro, con adeguata motivazione, l'esatto obbligo da rispettare in ordine alle raccomandazioni, queste ultime risulterebbero adeguatamente presidiate anche sotto il profilo sanzionatorio: infatti – ferma restando la possibilità del ricorso contro la “disposizione” ex art. 21, comma 5, l. n. 833 del 1978 (ove adottata dagli ispettori della ASL) o ex art. 10, comma 2, d.P.R. n. 520 del 1955 (se adottata dal personale dell'INL), che non sospende l'efficacia della “disposizione” – l'eventuale violazione di quest'ultima risulterebbe assoggettata alla sanzione penale di cui all'art. 11, comma 2, d.P.R. n. 520 del 1955.

Forse, quel dubbio sull'utilizzazione del potere di “disposizione” potrebbe stemperarsi ove, con un'interpretazione certamente creativa, si inquadrasse sostanzialmente il Protocollo di sicurezza anti-contagio (ed i conseguenti protocolli aziendali) non come un semplice accordo negoziale bensì anche come una “buona prassi”, visto che, conformemente alla definizione di “buone prassi” accolta nell'art. 2, lett. v, d.lgs. n. 81 del 2008, nella sostanza il Protocollo indubbiamente prospetta «soluzioni organizzative o procedurali coerenti con la  normativa  vigente e con le norme di buona tecnica, adottate volontariamente e finalizzate a promuovere la salute e sicurezza sui luoghi di lavoro attraverso la riduzione dei rischi e il miglioramento  delle condizioni di lavoro». A ciò si potrebbe obiettare che la predetta norma prevede che le buone prassi siano «elaborate e raccolte» solo da vari soggetti (Regioni, Inail, organismi paritetici) e «validate dalla Commissione consultiva permanente… previa istruttoria tecnica» ora dell'Inail «che provvede a assicurarne la più ampia diffusione». Tuttavia, se è vero che solo le buone prassi così validate (finora assai poche) acquisiscono quella pubblicità che le rende conoscibili e pubbliche, è vero pure che non mancano (e anzi sono numerose) buone prassi non ancora validate che perseguono le stesse finalità prevenzionistiche. E se è vero che le buone prassi sono elaborate e raccolte dai soggetti indicati dal legislatore, esse potrebbero essere “create” anche da altri soggetti, come, ad esempio, quelle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale nel cui ambito, non a caso, sono costituiti quegli organismi paritetici di cui all'art. 51 d.lgs. n. 81 del 2008 ricompresi tra i soggetti legittimati ad elaborarle ed a raccoglierle.

Pertanto, con un'interpretazione non formalistica, ma forse non così ardita, e comunque volta a garantire i migliori livelli di salubrità e di sicurezza nell'attuale drammatica emergenza, si potrebbe tentare di ipotizzare che il Protocollo – la cui assunzione è prevista dal d.P.C.M. 11 marzo 2020 anche previe intese tra le parti sociali; che è stato condiviso proprio da quelle organizzazioni sindacali di cui si parlava; che è stato sollecitato e, a quanto consta, sottoscritto dallo stesso Governo che se ne fa garante – possa configurarsi almeno sostanzialmente come una buona prassi per contrastare il contagio nei luoghi di lavoro. E, in questi termini, a fronte della sua adozione volontaria da parte del datore di lavoro, potrebbe allora emergere l'applicabilità del potere di “disposizione” previsto dall'art. 302-bis d.lgs. n. 81 del 2008 secondo cui «gli organi di vigilanza impartiscono disposizioni esecutive ai fini dell'applicazione delle norme tecniche e delle buone prassi, laddove volontariamente adottate dal datore di lavoro e da questi espressamente richiamate in sede ispettiva, qualora ne riscontrino la non corretta adozione, e salvo che il fatto non costituisca reato». Un potere di disposizione che in questa norma è espressamente previsto e che, consistendo in un ordine e non in una sanzione (che sorgerebbe in caso di inosservanza della disposizione), lungi dal configurarsi in termini repressivi, evidenzia a tutto tondo la funzione di prevenzione. D'altro, canto, poiché nel Protocollo condiviso sono previste tutte le misure oggetto delle raccomandazioni del d.P.C.M. 11 marzo 2020, l'effettività di queste ultime emergerebbe proprio mediante l'applicazione del citato art. 302-bis.

Forse si tratta di una prospettazione eccessivamente creativa. Senonché, di fronte all'attuale emergenza e all'esigenza di garantire beni di assoluto valore, occorre chiedersi se non valga la pena di concedersi qualche veniale licenza interpretativa piuttosto che imbattersi in “licenze” di ben altra gravità che potrebbero emergere qualora, con evidenti forzature, si tentasse di ricondurre le inattuazioni delle raccomandazioni nelle strette maglie del diritto penale oppure nelle prescrizioni obbligatorie ex d.lgs. n. 758 del 1994, o addirittura ove mai si approdasse alla conclusione che esse non producano conseguenza alcuna.

 

* Questo scritto trae spunto da un articolo più ampio dal titolo “Coronavirus e sicurezza sul lavoro, tra “raccomandazioni” e protocolli. Verso una nuova dimensione del sistema di prevenzione aziendale?” in corso di pubblicazione in Dir. Sic. Lav.-Rivista dell'Osservatorio Olympus, 2019, n. 2, I.

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