Mi ricollegherei al più che condivisibile editoriale di Fabrizio Di Marzio, appena apparso nella rivista con il titolo Comunità. Affrontiamola nostra prova, ove si affronta il tema del rapporto tra individuo e comunità, in un frangente così particolare e angosciante, che suscita molteplici interrogativi sul piano etico e giuridico, nel momento in cui al singolo vengono richiesti sacrifici ‘eccezionali’ (in primis, con la forte limitazione della sua libertà di circolazione) in funzione dell’interesse collettivo. Un interesse, quello della vita in comunità, che non soltanto, in linea di principio, è riconosciuto come preminente dall’ordinamento, ma in una comunità che possa dirsi davvero tale dovrebbe realizzarsi attraverso condotte spontanee.
La densa riflessione appena ricordata offre lo spunto per domandarsi se anche il diritto privato, e in particolare il diritto dei contratti - nonché la limitrofa disciplina generale delle obbligazioni e, in particolare, la disciplina della responsabilità del debitore ex art. 1218 c.c. - possa atteggiarsi in termini diversi dal modo in cui è stato concepito e ordinato grazie all’elaborazione plurisecolare dei giuristi (nella tradizione giuridica di civil law confluita in quei pilastri della legislazione nazionale che sono le codificazioni civili). Ma anche dal modo in cui solitamente opera, con un’apparente impermeabilità ovvero insensibilità alle vicende contingenti, potenzialmente idonee a incidere, in modo pesante, come nel frangente che stiamo attraversando, sulla vita degli individui e della comunità in termini socio-economici; e ciò in ragione del suo estremo tecnicismo estremo e dell’astrazione concettuale di regole e principi che ne costituiscono l’ossatura tradizionale.
In concreto, appare purtroppo assai verosimile – e molti, nel serrato dibattito svoltosi attraverso i mass media, lo hanno già più volte ribadito – che, alla fine dell’incubo da contagio e della conseguente emergenza sanitaria, le conseguenze economiche per i singoli (e per la collettività, evidentemente) saranno pesantissime (sul tema, si veda l’Editoriale di Massimo Rubino de Ritis, Gli effetti della pandemia sull’economia digitale). Se si considera che, in molti casi, il pregiudizio economico potrà aver luogo nell’ambito di un rapporto negoziale o, comunque, di natura obbligatoria, è legittimo domandarsi se il nostro ordinamento sia in condizione di produrre – per mutuare la terminologia più espressiva dal gergo medico e immunologico, entrato oramai nelle diverse fonti d’informazione e comunicazione – gli ‘anticorpi’ capaci di impedire che, al disastro dapprima sanitario e sociale, poi (macro- e micro-) economico, si aggiunga anche un’aspra e complessa contesa giudiziaria imperniata sulla disciplina delle sopravvenienze. Una normativa, com’è noto, nel nostro ordinamento affidata alle regole in materia di impossibilità (sopravvenuta) ed eccessiva onerosità, con la prima operante in primo luogo quale causa di estinzione delle obbligazioni, per poi diventare una delle cause di risoluzione dei contratti a prestazioni corrispettive, come è il caso della seconda (una novità del codice civile del 1942, ignota alla tradizione civilistica, in quanto dogmaticamente spuria, e dunque non risultante nelle blasonate codificazioni francese e tedesca).
Orbene, la sensazione diffusa è che queste discipline non offrano sufficienti anticorpi, ossia gli strumenti giuridici idonei per gestire le difficili vicende che potrebbero presentarsi alle corti, senza dimenticare tuttavia che il ‘sistema’ del diritto dei contratti non vive soltanto di regole generali (storicamente, si sa bene, elaborate con riferimento al contratto di scambio istantaneo, che trova nella compravendita il suo archetipo di riferimento, su cui sono state appunto modellate le disposizioni della disciplina sul contratto “in generale”). L’interprete può infatti avvalersi delle discipline dei “singoli contratti”, nonché delle normative “settoriali”, spesso di matrice europea e dunque, in linea di principio almeno, caratterizzate da un più alto grado di ‘funzionalismo’, a vantaggio di soluzioni più pragmaticamente orientate alla tutela degli interessi effettivamente in gioco tra le parti, anche alla luce delle condizioni delle parti (l’ampia e collaudata disciplina a tutela del soggetto debole, in primis il consumatore, è emblematicamente espressiva di tale tendenza).
Dalla considerazione più ampia del ‘sistema’ del diritto contrattuale, caratterizzato s’è detto anche dalle norme “speciali”, i precetti e le rationes delle quali non possono lasciare indifferente l’interprete, un’autorevole dottrina fortemente impegnata nella trattatistica in materia contrattuale – può essere sufficiente ricordare i nomi di Rodolfo Sacco ed Enzo Roppo, con i rispettivi volumi sul contratto in generale – ha in tempi non sospetti avallato l’idea (avanzata in studi, in un certo senso pionieristici, della metà degli anni Novanta), secondo la quale (in alternativa alla e) prima di giungere alla risoluzione del contratto dovuta agli effetti pregiudizievoli delle sopravvenienze l’ordinamento favorirebbe le soluzioni ‘manutentive’ (secondo l’espressione di Roppo) ossia conservative del vincolo, mediante un adeguamento del regolamento contrattuale, rivelatosi non più ragionevolmente attuabile secondo le pattuizioni originarie, che nasca dalla rinegoziazione tra le parti (quale soluzione evidentemente auspicabile) ovvero, in subordine, dalla pronuncia del giudice, cui rimarrebbe pur sempre la facoltà di valutare se la ‘correzione’ o ‘modificazione’ del regolamento sia in concreto praticabile o se non si debba, inesorabilmente, giungere alla risoluzione.
Va da sé che la decisione del giudice, nel momento in cui questi opti per la conservazione del vincolo a condizioni mutate sulla base delle circostanze che hanno determinato lo squilibrio economico insostenibile, dovrebbe fare i conti con l’uso accorto delle clausole generali (in particolare, la correttezza e la buona fede nell’esecuzione del contratto e nel rapporto obbligatorio) e con la valutazione in termini equitativi dei risultati (ciò che, del resto, farebbe nel caso in cui dovesse applicare l’art. 1467, comma 3, c.c., con la domanda della parte contro cui la risoluzione è richiesta della reductio ad aequitatem delle condizioni del contratto).
Un’ampia e duratura elaborazione dottrinale ha segnato le tappe di un percorso, negli ultimi vent’anni o poco più, i cui esiti sembrano oggi fatti propri dal legislatore, sia pure in sede ancora di disegno di legge delega - recante appunto la «delega al Governo per la revisione del codice civile” (DDL Senato 1151) -, ove è previsto il “diritto delle parti di contratti divenuti eccessivamente onerosi per cause eccezionali ed imprevedibili, di pretendere la loro rinegoziazione secondo buona fede ovvero, in caso di mancato accordo, di chiedere in giudizio l’adeguamento delle condizioni contrattuali in modo che venga ripristinata la proporzione tra le prestazioni originariamente convenuta dalle parti».
La drammatica emergenza del momento induce a ritenere che difficilmente la “revisione del codice civile” possa realizzarsi in tempi brevi, mentre è sin troppo facile profezia quella relativa a interventi urgenti ad hoc, da parte del Governo, per cercare di venire incontro ai cittadini sui numerosissimi fronti aperti, come del resto dimostra il recentissimo “decreto-legge recante misure di potenziamento del servizio sanitario nazionale e di sostegno economico alle famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19. Ivi figurano, scorrendo un “testo provvisorio” del decreto, norme sul “rimborso dei contratti di soggiorno e risoluzione di acquisto di biglietti per spettacoli, musei e altri luoghi della cultura” (art. 88, che richiama la disposizione in tema di risoluzione per impossibilità sopravvenuta, di cui all’art. 1463 c.c.) e «disposizioni in materia di ritardi o inadempimenti contrattuali derivanti dall’attuazione delle misure di contenimento e di anticipazione del prezzo in materia di contratti pubblici» (art. 91, con una disposizione, integrativa del precedente d.l. 23 febbraio 2020, conv. nella l. n. 13 del 2020, che demanda al giudice di valutare «il rispetto delle misure di contenimento ... ai fini dell'esclusione, ai sensi e per gli effetti degli artt. 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti».
L’emergenza di questi giorni, che rende giustificabili anche le improprietà espressive, permette di sorvolare sulla formulazione delle disposizioni, che tuttavia provano in modo sufficientemente chiaro l’incolmabile distanza, in termini qualitativi, tra la regola di natura occasionale (nonché di valenza temporanea e, secondo l’auspicio di tutti, più breve possibile) e una ridefinizione della disciplina generale del contratto – in ipotesi, anche quella piuttosto embrionale e sommaria prevista nel ricordato d.d.l. dello scorso anno - che, in relazione alle sopravvenienze, sposti con decisione il baricentro della soluzione delle controversie dall’opzione estintiva del vincolo (con la risoluzione del contratto, così come risulta oggi dalla disciplina del codice civile, con riferimento tanto all’impossibilità sopravvenuta, quanto all’eccessiva onerosità) al rimedio ‘correttivo’, ossia finalizzato all’adeguamento del regolamento contrattuale, mediante l’accordo delle parti, indotto dalla previsione del diritto (e del correlativo obbligo) di rinegoziare ovvero, nel caso di insuccesso della rinegoziazione, la pronuncia del giudice.
È appena il caso di ricordare, pur nell’estrema sinteticità di queste considerazioni a caldo, che la riforma del diritto dei contratti nel codice civile recentemente avvenuta in altri ordinamenti ha recepito l’esigenza dell’ordinamento di prevedere meccanismi di adeguamento dei contratti – evidentemente, nel caso di rapporti prolungati nel tempo – anche mediante l’obbligo dei contraenti di rinegoziare su richiesta della controparte (si veda il nuovo art. 1195 Code civil francese, ove si dispone che la parte onerata “peut demander une renégociation du contrat à son cocontractant”), così da operare secondo buona fede e non incorrere in condotte opportunistiche, ossia di esercizio abusivo del diritto (è il caso della norma del nuovo codice argentino che si esprime in termini di: «oportunidad razonable de renegociar de buena fe, sin incurrir en ejercicio abusivo de los derechos»). Non vi sono ragioni per ritenere che quanto avvenuto in Francia e in Argentina non possa accadere anche da noi, magari avvalendosi delle dette esperienze per migliorare il prodotto.
Indipendentemente da quanto farà, o potrebbe fare il legislatore, per rispondere alle esigenze di contraenti in difficoltà – nondimeno, lealmente pronti a ‘rivedere’ le condizioni e i termini contrattuali, affinché l’assetto dei rapporti risulti “equo”, rispetto alle circostanze che in modo “straordinario e imprevedibile” hanno prodotto uno squilibrio che renda economicamente insostenibili le prestazioni pattuite – occorre poi che la giurisprudenza sia pronta e disposta a confrontarsi con questi nuovi scenari, una volta acclarato che gli strumenti a disposizione del giudice non sono più soltanto le disposizioni di un diritto dei contratti tradizionalmente impostato secondo l’interesse del contraente, individualmente inteso e vincolato senza condizioni dal principio espresso nel noto (ma assai generico) brocardo pacta sunt servanda.
Dalle clausole generali, a cominciare evidentemente, da quella di correttezza e buona fede (di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.), sino ai principi costituzionali, ove campeggia la solidarietà sociale ex art. 2 Cost., al giudice si offrono mezzi da utilizzare con molta cautela e impegno (l’esperienza tedesca, in questo senso, potrebbe rivelarsi di grande insegnamento, se si considera che il ‘diritto delle sopravvenienze’, in vario modo espresso mediante concetti giuridici di nuovo conio, dalla “presupposizione” al “venir meno del fondamento negoziale”, è stato edificato dalla giurisprudenza, facendo tesoro, naturalmente, delle ricostruzioni dottrinali incentrate proprio sulla norma generale della buona fede nella prestazione oggetto dell’obbligazione). Tanto le prime, quanto i secondi costituiscono una risorsa straordinaria a disposizione delle corti, per fare in modo che, prendendo lo spunto da una situazione destinata a rimanere tristemente nella memoria come vicenda inattesa ed eccezionale (si spera da parte di tutti, anche di brevissima durata), il diritto vivente, al pari del legislatore (se e quando si deciderà di porre mano alla ipotizzata riforma), dia il suo contributo alla costruzione di un diritto dei contratti più solidale e, in qualche modo, più rispondente all’idea di democrazia oggi maggiormente condivisa.
Come si sottolinea nella riflessione sulla “comunità” in apertura menzionata, che ha offerto lo spunto per questa sorta di glossa o appendice alla stessa, è solo lo sforzo congiunto di tutti – in questo caso, degli operatori del diritto e più in generale, dei ‘formanti’ dell’ordinamento: il legislatore, la giurisprudenza e gli studiosi – che potrà rendere possibile un’evoluzione solidale del sistema in termini di effettività.