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Lavoro 18.03.2020

Controlli sanitari sui lavoratori al tempo del Covid-19

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Introduzione.

Il rapido diffondersi del virus Covid-19 ha agito quale forza propulsiva dell'intensa decretazione, emergenziale e talvolta spedita, delle ultime settimane.

A seguito dell'estensione della cosiddetta zona di segregazione all'intero territorio nazionale, attuata col d.P.C.M. 9 marzo 2020, il successivo d.P.C.M. 11 marzo ha ulteriormente disposto, individuando attività “sospese” e attività “non sospese” perlomeno nell'arco di efficacia dal 12 al 25 marzo.

Per quanto di interesse in questa breve trattazione, tra le attività “non sospese”, specialmente di tipo produttivo e commerciale, il decreto sembra muoversi lungo due direttrici: da un lato, misure straordinarie, quali il ricorso al lavoro agile e alle ferie, entrambi istituti finalizzati alla forte riduzione del numero di persone in circolazione e, dall'altro, con l'implementazione di misure di contenimento del virus attraverso strumenti di prevenzione e di protezione della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro.

In linea con quanto previsto dall'art. 1, n. 9, d.P.C.M. dell'11 marzo, con il Protocollo d'intesa tra il Governo e le Parti sociali del 14 marzo sono state stabilite le condizioni e le loro modalità di attuazione per la tutela dei lavoratori, condicio sine qua non per la prosecuzione delle attività produttive nel periodo di vigenza del d.P.C.M. dell'11 marzo.

Misure di sicurezza sul lavoro tra obblighi, facoltà e tutela della privacy

Sono obblighi a carico del datore di lavoro:

(i) fornire adeguata informazione ai lavoratori e ai terzi che intendano accedere al luogo di lavoro delle misure di prevenzione e contenimento del Covid-19 in loco;

(ii) in caso di positività al virus di un dipendente, approntare adeguate misure di tutela della sicurezza e della salute dell'organico aziendale (aggiornamento della valutazione dei rischi con riferimento al rischio da Covid-19, informazione e formazione del personale, rispetto della prescritta distanza interpersonale, nonché, in particolare, frequente sanificazione degli ambienti e degli strumenti di lavoro), e, in assenza di provvedimenti degli organi preposti, farsi carico di comunicare agli stessi l'avvenuta esposizione del personale al rischio “biologico” di contagio da Covid-19.

Occorre sottolineare, per un verso, che il Protocollo d'intesa non ha rango di fonte di legge, nemmeno secondaria, rappresentando tutt'al più una regolamentazione cosiddetta di soft law e, per altro verso, che tali obblighi nemmeno discendono dalla suddetta già intervenuta decretazione (sulla quale molte parole potrebbero spendersi, ma non è questa la sede, in termini di rilevante distinzione tra raccomandazione e/o promozione e prescrizione, tra obbligo e relativa sanzione e persuasione e assenza di sanzione, tra norma e provvedimento).

Pertanto, la natura di obbligo giuridico dei citati adempimenti in capo al datore di lavoro appare derivare dall'art. 2087 c.c., nonché dall'obbligo di valutare, a norma dell'art. 28, comma 1, d.lgs. n. 81 del 2008 (innanzi, TUSL), tutti i rischi che espongono i dipendenti a pericoli per la loro salute e sicurezza, eliminandoli o, comunque, riducendone per quanto possibile l'esposizione, incluso il rischio biologico da Covid-19 all'interno dei luoghi di lavoro (ex art. 266 TUSL) giacché, da un lato, il Covid-19 è definito “rischio biologico generico” nell'incipit del Protocollo d'intesa e, dall'altro, nell'allegato XLVI del TUSL è presente, fra gli altri, anche il Coronaviridae, ossia l'aggregazione (o famiglia) di virus i cui componenti sono noti come “coronavirus”.

Infatti, sebbene il tenore letterale dell'art. 267 TUSL possa indurre a non ritenerlo applicabile alla fattispecie in discussione, la quale non riguarda aspetti ambientali connessi all'uso delle specifiche sostanze nelle lavorazioni proprie del processo produttivo, tuttavia, in virtù di un'interpretazione estensiva della norma in esame, non pare possibile escluderne l'applicabilità anche in relazione alla diffusione del coronavirus, soprattutto nel caso in cui sussista la probabilità di contagio all'interno dell'azienda.

Fuori dalle ipotesi menzionate, non pare vi siano indici per cui ritenere il datore di lavoro obbligato a segnalare alle competenti autorità lavoratori quali potenziali fonti di contagio.

Infatti, come si dirà immediatamente infra, ove versi in condizioni sintomatiche ovvero si trovi nelle condizioni di aver avuto contatti con persone risultate positive al Covid-19 o di essere transitato dalle cosiddette “zone a rischio”, è a carico dello stesso dipendente l'obbligo, teso a salvaguardare ordine e incolumità pubblici, di allertare i competenti servizi sanitari.

Invece, tra le ulteriori misure preventive di salvaguardia contro il contagio è previsto il potere (non l'obbligo) per il datore di lavoro di raccogliere informazioni personali nei confronti di dipendenti, fornitori, utenti e visitatori [FANTINI 2008, 213].

In particolare, il datore di lavoro ha facoltà di rilevare la temperatura corporea dei dipendenti e di non consentire l'accesso al luogo di lavoro a quelli che abbiano un valore superiore ai 37,5°; si tenga conto che, specularmente, a carico dei dipendenti sussiste, tra gli altri, un obbligo (del quale, come si è detto, essi devono essere informati dall'azienda) di restare al proprio domicilio in presenza di febbre oltre il suddetto valore soglia e/o di altri sintomi influenzali, nonché “l'impegno” a informare il datore di lavoro dell'insorgere di tali sintomi durante l'attività lavorativa.

Inoltre, nei confronti non solo dei dipendenti, ma di chiunque intenda “fare ingresso in azienda”, il datore di lavoro ha l'obbligo di informazione del divieto di accesso per tutti coloro che negli ultimi quattordici giorni abbiano avuto contatti con persone contagiate e/o provengano da zone a rischio secondo le indicazioni dell'OMS, facoltà esercitabile anche a mezzo di dichiarazione resa dall'individuo interessato.

Premesso che appare pleonastico il richiamo a “zone di rischio” poiché proprio l'OMS ha purtroppo accertato essere in atto una pandemia, occorre sottolineare che, se realizzate o comunque raccolte, queste informazioni integrano pacificamente un trattamento di dati personali.

Infatti, il Protocollo d'intesa del 14 marzo 2020:

(i) quanto al rilevamento della temperatura corporea, dispone che i dati vengano registrati solo se superiori al valore soglia di 37,5° e, in tal caso, oltre alla tutela della dignità e della riservatezza del dipendente, che andrà posto in isolamento momentaneo in attesa dell'intervento di personale sanitario, i suoi dati personali andranno adeguatamente protetti e potranno essere trattati esclusivamente da soggetti preposti e formati a tal fine, nonché utilizzati per i soli fini di contenimento del contagio e conservati non oltre il termine dello stato di emergenza;

(ii) quanto alle eventuali dichiarazioni rese dai soggetti che intendono accedere al luogo di lavoro, sono valide le medesime indicazioni e, dunque, sarà sufficiente registrare l'avvenuto contatto con individui risultati positivi al Covid-21 e/o l'effettiva provenienza da “zone a rischio”, senza necessità di informazioni aggiuntive in merito alla persona contagiata, né alla specificità del luogo.

Sul punto, si rileva una discrasia tra il contenuto del Protocollo e il recente intervento del Garante per la protezione dei dati personali, il quale, con i chiarimenti divulgati il 2 marzo, ha affrontato il tema dell'eventuale legittimazione, in capo a soggetti pubblici e privati, di pretendere da terzi informazioni ritenute utili ai fini della prevenzione del contagio da Covid-19, riguardanti, in particolare: la sussistenza di sintomi virali, gli ultimi spostamenti effettuati, comunque “vicende relative alla sfera privata” (verosimilmente, per ricostruire i contatti potenzialmente “sospetti” intrattenuti).

Infatti, in continuità con il proprio precedente Parere del 2 febbraio 2020, la pronuncia del Garante è orientata nel senso di un espresso divieto di iniziative “fai da te” intraprese dai datori di lavoro rispetto al possibile trattamento dei dati personali di dipendenti, fornitori e visitatori: «[i] datori di lavoro devono astenersi dal raccogliere […] informazioni sulla presenza di eventuali sintomi influenzali del lavoratore e dei suoi contatti più stretti o comunque rientranti nella sfera extra lavorativa».

Tale posizione del Garante trae origine dalla premessa secondo cui, nel contesto dell'emergenza sanitaria in corso, il potere di acquisire informazioni circa lo stato di salute (attuale o configurabile per eventuali contatti “sospetti” già intrattenuti) spetti unicamente alle Autorità istituzionalmente preposte alla gestione dell'emergenza (operatori sanitari, Protezione Civile), in conformità alle direttive del Governo e dei Ministeri competenti.

Di fronte a questa discrasia, occorre ricordare che, da un lato, il Protocollo del 14 marzo non ha valore cogente, e, dall'altro, che le delucidazioni del Garante del 2 marzo sono rese tramite un comunicato stampa, ossia un documento formulato a titolo meramente informativo e divulgativo, una presa di posizione o una sorta di avviso chiarificatore, ma certamente sprovvisto di effetti vincolanti.

Nel silenzio del Legislatore e nelle lacune dei decreti sinora susseguitisi, è di qualche rilievo la chiosa finale del richiamato intervento del Garante là dove cede il passo a favore delle facoltà accordate al datore di lavoro tramite il Protocollo d'intesa tra il Governo e le Parti sociali invitando «tutti i titolari del trattamento ad attenersi scrupolosamente alle indicazioni fornite dal Ministero della salute e dalle istituzioni competenti per la prevenzione della diffusione del Coronavirus, senza effettuare iniziative autonome che prevedano la raccolta di dati anche sulla salute di utenti e lavoratori che non siano normativamente previste o disposte dagli organi competenti».

Applicazioni concrete e conclusioni.

Nel quadro corrente, la parte datoriale è dunque tenuta ad adottare tutte le misure necessarie affinché i luoghi di lavoro non diventino sedi di contagio ai danni dei lavoratori in forza.

Tra le misure ipotizzabili, preventive e protettive, vi è dunque anche la misurazione della temperatura corporea dei dipendenti attraverso strumenti non invasivi (termoscanner o termometri a infrarossi). Benché tali strumenti non permettano di accertare l'effettiva positività al virus, essi consentono in ogni caso di acquisire un utile elemento di allarme (da fronteggiare tramite le opportune precauzioni, tra cui, ad esempio, il divieto di accedere al luogo di lavoro fino ad eventuali misure definite all'Autorità sanitaria).

Ciò detto, trattandosi di verifica allo stato assai diffusa, appare utile analizzare le conseguenze connesse all'eventuale rifiuto del lavoratore di sottoporsi al suddetto accertamento.

In base ai principi generali di cui al Codice civile (anche in relazione all'obbligo di diligenza e di conformazione alle direttive aziendali ex art. 2104 c.c.) e alla legislazione speciale, è possibile ritenere che il lavoratore sia obbligato a sottoporsi a tale misura, anche in forza dell'art. 20, comma II, lett. i), TUSL, il quale dispone che il lavoratore debba sottoporsi ai controlli sanitari non solo nei casi previsti dalla normativa (fra cui quelli di esposizione al rischio biologico), ma anche in tutte le ipotesi in cui gli stessi siano disposti dal medico competente a fronte dell'esposizione a un rischio per la salute sulla base di apposito protocollo sanitario.

Non sembra ipotizzabile, nel caso di specie, a mente di quanto sopra, alcuna violazione dell'art. 5 dello Statuto dei Lavoratori (innanzi, St.lav.), giacché non si tratta di un accertamento sanitario né sull'infermità per malattia o infortunio, né, in senso stretto, sull'idoneità fisica alla normale mansione di lavoro (accertamento che, peraltro, nelle ipotesi di sorveglianza sanitaria obbligatoria esula dall'articolo citato) [BORTONE 1997, 149 s.], bensì di un controllo sanitario di sicurezza disposto dal medico competente finalizzato a impedire precauzionalmente l'ingresso in azienda dei lavoratori in significativo stato febbrile e, quindi, anche solo potenzialmente, infetti, con ciò impedendo l'esposizione delle altre persone presenti sul luogo di lavoro al rischio di possibile contagio da Covid-19 in ossequio al principio che impone di privilegiare “le misure di tutela alla fonte e di tutela collettiva” [DEL NEVO-DEL NEVO 2015, 602].

Dalla prospettata ricostruzione normativa consegue che l'eventuale rifiuto al suddetto accertamento potrebbe comportare in capo al prestatore:

Né, peraltro, il lavoratore potrebbe sottrarsi a tale verifica in ragione del proprio diritto alla tutela della privacy. Infatti, nel caso in esame, il trattamento dei dati personali (anche sensibili, quali quelli relativi alla salute) effettuato dal datore di lavoro risulterebbe ex art. 9, par. 1, lett. g), GDPR, del tutto legittimo siccome giustificato da motivi di interesse pubblico rilevante, o comunque ritenuto prevalente sugli interessi del singolo.

L'art. 2-sexies d.lgs. n. 101 del 2018, nel circoscrivere l'ampiezza di tale espressione, ha individuato in modo analitico le ipotesi in cui, nel contesto del trattamento di dati personali, l'interesse pubblico è ritenuto prevalente: tra tali ipotesi rientra espressamente proprio «l'adempimento degli obblighi […] di igiene e sicurezza sul lavoro o di sicurezza o salute alla popolazione».

Alla luce delle riflessioni sopra riportate, deve dunque ritenersi che, ferme restando le menzionate limitazioni, tra le quali il divieto registrazione dei dati sotto-soglia e l'obbligo di cancellazione a emergenza terminata, il trattamento ai fini del contenimento del contagio da Covid-19 dei dati dello stato febbrile dei lavoratori sia del tutto lecito: conclusione, questa, supportata non soltanto dai puntuali indici normativi in argomento (di cui al GDPR e al d.lgs. n. 101 del 2018), ma anche dalla circostanza che, ove dovesse invece sostenersi l'illiceità di tale controllo, il datore di lavoro non potrebbe adempiere agli obblighi di prevenzione e protezione imposti dal TUSL per garantire salute e sicurezza dei propri dipendenti e nemmeno esercitare la facoltà concessagli con il Protocollo d'intesa del 14 marzo 2020 in forza dell'art. 1, n. 7, lett. d), e n. 9, d.P.C.M. dell'11 marzo.

Riferimenti bibliografici.

Sull'opportunità di una specifica e più efficace sorveglianza sanitaria a beneficio della tutela dell'incolumità psico-fisica dei lavoratori, si veda L. Fantini, Il medico competente e la sorveglianza sanitaria, in G. SANTORO PASSARELLI (a cura di), La nuova sicurezza in azienda. Commentario al Titolo I del D. Lgs. n. 81/2008, Milano, 2008, 213 ss.

Sul rapporto con l'art. 5 St.lav., si veda R. BORTONE, La sorveglianza sanitaria, in L. MONTUSCHI, Ambiente, salute e sicurezza, Torino, 1997, 149 ss.

Sulla natura obbligatoria dell'accertamento della temperatura, eventualmente imposto al dipendente ai fini dell'accesso ai locali aziendali, cfr. M. DEL NEVO-A. DEL NEVO, L'ambito di legittimità dell'operato del medico competente, in Igiene & Sicurezza del Lavoro, 2015, 12, 602.

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