Approfondimenti

Arbitrato e processo civile 25.03.2022

Ancora sul processo c.d. minorile: gravità dell'inadeguatezza della riforma e responsabilità della sua approvazione sulla base dei troppi problemi irrisolti

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C. Cost. 30 gennaio 2002, n. 1
Corte appello Genova

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1.   Premessa

 

di Andrea Proto Pisani

 

Nell'Editoriale della rivista del 3 novembre 2021 si erano denunciate grosse superficialità rilevanti anche sul piano costituzionale per violazione dei diritti inviolabili della persona - genitori - e dei minori, della proposta di legge delega allora approvata solo dal Senato, ma, per difetto di volontà politica, il testo non era modificato, e la legge delega era approvata dalla Camera dei deputati in via definitiva il 26 novembre 2021.

Ora si è giunti quasi in prossimità dell'approvazione dei decreti delegati. Con riguardo al solo processo attribuito al sopravvissuto Tribunale dei minorenni, si reputa doveroso denunciarne la gravità sul piano delle garanzie, e sugli strumenti tecnici di reazione agli errori, anche incolpevoli, del giudice. Si pensi per tutte alla circostanza che pressoché sempre i processi minorili devono avere una fase iniziale in cui emanare provvedimenti delicatissimi che devono necessariamente incidere sulla “vita” di un minore e inscindibilmente sulla “vita” di uno dei due genitori o di entrambi. Una minore ignoranza dei legislatori attuali li avrebbe dovuto indurre a considerare che l'esigenza di provvedere con la massima immediatezza allo scopo di evitare pregiudizi irreparabili, è la caratteristica propria anche di tutti i provvedimenti cautelari anticipatori (e rileggere le pagine dedicate da Chiovenda, Calamandrei e Andrioli non avrebbe fatto male a nessuno...); in tal modo ricordare che il codice di procedura civile era stato modificato nel 1990 - tramite il c.d. "processo cautelare uniforme" - proprio allo scopo di introdurre un serie di norme volte ad assicurare garanzie e rimedi, costituzionalmente doverosi, contro errori commessi dal giudice proprio per la necessità di emanare provvedimenti – sommari – particolarmente urgenti. Nulla di tutto questo è accaduto riguardo ai provvedimenti urgenti che molto spesso devono essere emanati ad horas, e richiedono pertanto un aumento di garanzie delle parti che li subiscono; e poi disciplinare i rapporti tra la fase urgente e quella successiva ''ordinaria''.

Nulla o molto poco di tutto questo, almeno sino ad oggi, è stato fatto in sede di redazione dei decreti delegati.

In questa situazione si è ritenuto opportuno ripubblicare (col consenso degli autori ed editori) alcuni articoli o interventi che indicano con chiarezza i provvedimenti relativi che, ad avviso degli autori, sarebbero stati necessari e indifferibili anche per l'esigenza costituzionale dei diritti di azione e di difesa che non poteva essere soddisfatta solo dalla formale soppressione del richiamo al “camerale”.

 

Questi i contributi contenuti nel presente dossier

 

Gustavo Sergio, Giustizia minorile alias giustizia paternalista. L'importante proposta di riforma processuale civile del 29 luglio 2019 della Garante dell'Infanzia ed Adolescenza Filomena Albano, già pubblicato in Questione Giustizia, 5 febbraio 2021.

Andrea Proto Pisani, Battute d'arresto nel dibattito sulla riforma del processo minorile, già pubblicato in Foro it. 2002, I, 3305.

Andrea Proto Pisani, La giurisdizionalizzazione dei processi minorili c.d. de potestate, già pubblicato in Foro it. 2013, V, 71.

Andrea Proto Pisani, Breve conclusione.

2.   Giustizia minorile alias giustizia paternalista. L'importante proposta di riforma processuale civile del 29 luglio 2019 della Garante dell'Infanzia ed Adolescenza Filomena Albano

 

di Gustavo Sergio

già Presidente del Tribunale per i minorenni di Napoli

 

1. Tra le questioni emerse dal caso Bibbiano c'è innanzi tutto quella dell'allontanamento di minorenni dalla famiglia d'origine disposta sulla base delle segnalazioni degli operatori del servizio sociale dal tribunale per i minorenni con un provvedimento discrezionale nell'interesse del minore.

Tale discrezionalità ha origini nel Codice Civile del 1942 che attribuiva alla giustizia non la tutela giurisdizionale dei diritti personali e relazionali dei soggetti coinvolti - all'epoca i diritti inviolabili dell'uomo non erano stati ancora riconosciuti - ma la «protezione tutelare» dei minori e degli incapaci in quanto soggetti privi della capacità di agire.

Perciò il tribunale per i minorenni e il giudice tutelare esercitavano - ed esercitano ancora - un potere tutelare di natura pubblicistica (artt. 330 e 333 c.c.) avvalendosi dell'azione dei servizi socio sanitari nell'interesse del minore, un incapace da proteggere piuttosto che un soggetto i cui diritti debbono essere garantiti. Tale forma di “paternalismo giuridico” è criticata dalla dottrina perché mirando al bene, e dunque a mete e obiettivi posti dal principio di beneficità, il giudice perde di vista il principio di legalità, ed abdica alla sua funzione di garante che assicura la tutela giurisdizionale dei diritti. Il suo ruolo in tal modo si risolve in quello di un'autorità dotata di poteri discrezionali che attribuiscono efficacia autoritativa ad interventi e terapie proposte dai servizi sulla base di accertamenti effettuati per finalità di benessere fuori del processo, e dunque al di fuori del contraddittorio con la parte interessata, e per lo più attraverso una cognizione solo sommaria dei fatti [1].

In questa logica, coerentemente, il giudice si auto attivava d'ufficio, ed i suoi provvedimenti ancora oggi sono attuati dagli stessi operatori che li sollecitano. La circolarità di quest'azione presuppone dunque che il tribunale per i minorenni ed i servizi sociosanitari – questi ultimi in rapporto di subordinazione funzionale con il primo - siano concepiti come compartecipi di un unico sistema.

La protezione tutelare peraltro discende dallo storico istituto della patria potestas (fino al 1975 il solo padre ne era il titolare) cui corrisponde quello della tutela (Libro I, Titolo X Cod. Civ.) con l'assoggettamento del minore e dell'incapace al rispetto ed obbedienza (artt. 315, 357, 358 c.c. prima delle riforme di cui appresso) nonché i poteri del tribunale per i minorenni e del giudice tutelare di emettere provvedimenti discrezionali nell'interesse del minorenne e dell'incapace nei confronti dei genitori e tutori, il paternalismo protettivo gestito dalla giustizia.

In particolare l'art. 333 c.c. stabilisce che «quando la condotta di uno o di entrambi i genitori non è tale da dar luogo alla pronuncia della decadenza prevista dall'art. 330 il giudice, secondo le circostanze, può adottare i provvedimenti convenienti e può anche disporre l'allontanamento di lui dalla residenza familiare …». Nel 1956 la L. n. 888 modificò gli artt. 25 e 26 della L. n. 835 del 1935 (Istituzione e funzionamento del tribunale per i minorenni), che originalmente riguardavano solo la competenza amministrativa del giudice minorile nei confronti dei minori «irregolari per condotta e carattere», stabilendo che «la misura di cui all'art. 25 n. 1 [i.e., l'affidamento del minore al servizio sociale] - può altresì essere disposta quando il minore si trovi nella condizione prevista dall'art. 333 del Codice Civile», dunque quando la condotta di uno o entrambi i genitori appare comunque pregiudizievole al figlio. Analoghi i poteri del giudice tutelare che per soprintendere alle tutele e curatele «può chiedere l'assistenza degli organi della pubblica amministrazione e di tutti gli enti i cui scopi corrispondono alle sue funzioni». (art. 344 c.c.).

Ma la nostra Costituzione, sorta nello stesso anno della Dichiarazione Universale dei diritti umani proclamata nel 1948 dalle Nazioni Unite, «riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità» e stabilisce che «tutti» possono agire «in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi» (artt. 2 e 24 Cost.).

Il termine «tutti» dal 1989 riguarda specificamente e direttamente anche i soggetti di età minore, visto che con la Convenzione ONU di New York del 20 novembre 1989 (ratificata dalla L. n. 176 del 1991) furono finalmente riconosciuti i diritti personali e relazionali del fanciullo, abolendo perfino il termine giuridico "minorenne" (art. 1) che nella concezione tradizionale configura innanzitutto la sua incapacità (art.2 c.c.).

Tra i diritti riconosciuti del fanciullo quello di «non essere separato dai suoi genitori contro la loro volontà a meno che le autorità competenti non decidano, sotto riserva di decisione giudiziaria e conformemente con le leggi di procedura applicabili, che questa separazione è necessaria nell'interesse preminente del fanciullo ... Tutte le parti interessate devono avere la possibilità di partecipare alle procedure e far conoscere le proprie opinioni» (art. 9 commi 1 e 2 Conv. N.Y.).

Anche il soggetto di età minore capace di discernimento ha il diritto di esprimere liberamente la propria opinione, «di essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo concerne sia direttamente sia tramite un rappresentante …» (art. 12 Conv. N.Y.).

Finalmente nel nuovo secolo le ultime riforme del diritto di famiglia (L. n. 219 del 2012 e D.lgs. n. 154 del 2012) hanno introdotto nel vecchio codice civile i diritti e doveri del figlio. Il nuovo articolo 315-bis stabilisce che ha il diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti. Ad essi corrispondono il dovere diritto dei genitori di mantenere, istruire ed educare il figlio riconosciuto fin dal 1948 dall'art. 30 della Costituzione.

In definitiva la relazione personale tra genitori e figli è, sotto il profilo giuridico, un diritto relazionale biunivoco che richiede una tutela giurisdizionale peculiare in caso di incapacità dei genitori, violenze nonché conflitti in materia di affidamento di un minorenne.

Non si tratta di attribuire la prevalenza di un soggetto nei confronti dell'altro ma di accertare le dimensioni e la portata obbiettiva della situazione, delle conseguenze che si producono sugli interessi dei soggetti coinvolti ivi compreso il fanciullo, e di verificare se la relazione che concretamente potrà svilupparsi soddisferà i diritti inviolabili di ognuno, tenendo conto però, secondo l'art. 3 della Convenzione di N.Y del 1989 che «in tutte le decisioni relative ai fanciulli delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali l'interesse superiore del fanciullo deve avere una considerazione preminente».

Dunque l'allontanamento, l'affidamento al servizio sociale e l'affidamento ad un solo genitore o addirittura a parenti o ad un'altra famiglia di un bambino o adolescente che vive in situazioni di grave pregiudizio non possono essere provvedimenti discrezionali adottati paternalisticamente nel suo interesse ma soluzioni dei problemi e regolazione giuridica delle relazioni familiari funzionali alla tutela dei diritti del bambino - adolescente e di ciascun genitore su un duplice piano, quello amministrativo sanitario e quello giurisdizionale.

Il legislatore, «al fine di rafforzare la tutela della salute intesa come stato di benessere fisico, psichico e sociale», ha instituito con la L. 11 gennaio 2018, n. 3 l'area delle professioni sociosanitarie individuando nuovi profili professionali e confermando comunque l'appartenenza a tale area dei profili professionali di «operatore sociosanitario, di assistente sociale, sociologo ed educatore professionale» (art. 5). Ha poi stabilito che «la professione di psicologo … è ricompresa tra le professioni sanitarie di cui al Decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato del 13 settembre 1946, n. 233 ratificato dalla Legge 17 aprile 1956 n. 561». (art. 9 comma 4°).

La protezione, la cura, il sostegno offerto dai servizi sociosanitari perciò devono svolgersi sulla base del principio del consenso informato degli utenti/pazienti, per assicurare ad ogni essere umano, e dunque anche ai bambini - adolescenti ed ai loro genitori, e comunque alle persone coinvolte in relazioni personali e familiari, mediazione, protezione, aiuti e cura sulla base delle risorse professionali e materiali disponibili. Ultimamente la L. n. 219 del 2017 (Norme in materia del consenso informato) ha ribadito e disciplinato anche a favore di minorenni ed incapaci il principio del consenso informato (art. 3) che tutela «il diritto alla vita, alla salute, alla dignità ed alla autodeterminazione della persona» (artt. 1 co. 1). In particolare il successivo comma 2 stabilisce che deve essere «promossa valorizzata la relazione di cura e fiducia tra il paziente (e/o utente) e medico (o professionista socio sanitario) che si basa sul consenso informato … ».

Dunque il piano della protezione, cura e sostegno dei soggetti deboli è assolutamente diverso da quello della tutela giurisdizionale dei diritti: l'art. 3 della Convenzione Europea di Strasburgo sull'esercizio dei diritti dei fanciulli (ratificata con L. n. 77 del 2003) stabilisce che «per prevenire o risolvere i conflitti ed evitare procedimenti giudiziari riguardanti minorenni gli Stati incoraggiano la mediazione o ogni altro metodo di risoluzione dei conflitti e la loro utilizzazione per raggiungere l'accordo».

Infatti la legislazione italiana più recente in tema di tutela dei diritti relazionali e protezione ed assistenza dei soggetti di età minore favorisce questa alternativa. L'articolo 337-octies c.c. stabilisce che il giudice, per favorire nell'ambito del processo per la separazione o divorzio oppure per l'affidamento dei figli minorenni di una coppia non sposata, può rinviare l'adozione dei provvedimenti che regolano l'esercizio della responsabilità genitoriale e consentire che i genitori, avvalendosi di un esperto, tentino una mediazione per raggiungere un accordo nell'interesse morale e materiale dei figli. Lo stesso indirizzo è previsto anche nell'ambito degli ordini di protezione contro gli abusi familiari: l'art. 342-ter c.c. stabilisce che il giudice oltre all'ordine di protezione «può disporre altresì, ove occorra, l'intervento dei servizi sociali del territorio, o di un centro di mediazione familiare, nonché delle associazioni che abbiano come fine statutario l'accoglienza di donne e di minori o di altri soggetti vittime di abusi e maltrattati …»

Dunque non un paternalistico provvedimento di affido al servizio sociale ma la sollecitazione dell'intervento professionale dei servizi, oppure di mediatori, di associazioni di volontari privati che svolgono attività di cura sostegno aiuto nel rispetto del principio del consenso informato.

 

2. Da quanto si è detto si comprende che le due funzioni, quella di protezione, cura e sostegno e quella di tutela dei diritti personali e relazionali dei soggetti di minore età e dei loro genitori e parenti non sono state ancora correttamente coordinate e distinte, e che l'incompleta riforma dell'istituto della potestà genitoriale - oggi chiamata formalmente «responsabilità genitoriale» - conserva i conseguenti poteri del tribunale per i minorenni di controllo discrezionale dell'esercizio della potestà come stabilito sin dal 1942 dagli artt. 330 e 333 c.c. mai modificati nella sostanza.

Tuttavia, dal momento che un tribunale non può non assicurare anche la tutela dei diritti personali e relazionali (finalmente inseriti anche nel codice civile) nel solco dei principi costituzionali di cui agli artt. 24 e 111 commi 1 e 2 Cost., laddove i servizi sociosanitari devono svolgere le loro funzioni nel rispetto del principio del consenso informato recentemente disciplinato anche dalla ricordata L. 219 del 2017, occorrevano ed ancora occorrono quanto meno integrazioni delle disposizioni processuali per salvaguardare il diritto di difesa, il contraddittorio tra le parti, il consenso informato degli utenti dei servizi, ivi compreso il soggetto di minore età, anche per favorire l'efficacia delle iniziative di protezione, cura e sostegno che presuppongono la c.d. “alleanza terapeutica”.

Una delle disposizioni non aggiornate è l'articolo 403 c.c. che prevede che «quando il minore è moralmente o materialmente abbandonato o è allevato in locali insalubri o pericolosi, oppure da persone per negligenza, immoralità, ignoranza o per altri motivi incapaci di provvedere all'educazione di lui, la pubblica autorità a mezzo degli organi di protezione dell'infanzia lo colloca in luogo sicuro sino a quando si possa provvedere in modo sicuro alla sua protezione».

La norma (testo originale del 1942) non considera la tutela dei diritti ma solo la protezione, non indica solo situazioni di emergenza che richiedono un soccorso immediato ma anche genericamente condizioni potenzialmente croniche, non stabilisce i tempi della comunicazione dell'allontanamento dall'ambiente in cui vive il minorenne, né tantomeno quelli delle decisioni giudiziarie perché secondo la concezione paternalista le azioni di protezione sono discrezionali.

Come mai ancora oggi una norma siffatta non è stata modificata? Semplicemente perché ancora oggi la giustizia che più si occupa di questi problemi è “minorile”, considera cioè soprattutto l'incapacità e la funzione di protezione discrezionale sancita dagli articoli 330 e 333 del codice civile.

Questa incongruenza, che ha ragioni soprattutto culturali, si manifestò a suo tempo addirittura con un larvato rifiuto della necessità della tutela giurisdizionale dei diritti personali e relazionali riguardanti bambini ed adolescenti.

Pochi mesi dopo la modifica dell'art. 111 Cost. (L. cost. del 23 novembre 1999, n. 2), la L. 28 marzo 2001, n. 149 aveva riformato la L. 4 maggio 1983, n. 184 a cominciare dal titolo che da Disciplina dell'adozione e dell'affidamento dei minori era stato modificato in Diritto del minore ad una famiglia. La riforma, nel rispetto del principio del contraddittorio e di terzietà ed imparzialità del giudice ribadito organicamente dal citato art. 111 Cost., riguardava in primo luogo la disciplina processuale della dichiarazione di adottabilità (Titolo II, Capo II della legge) che nel testo originale della legge n. 184 invece consentiva al tribunale per i minorenni di ricevere direttamente anche dagli operatori dei servizi sociali segnalazioni sulle condizioni di un minore, di aprire di ufficio il procedimento di adottabilità o quello di controllo dell'esercizio della potestà ex artt. 330 e seguenti del codice civile (quindi d'intesa con il servizio), nominando un tutore al minore, dichiarando poi l'adottabilità, o la decadenza dalla potestà, o adottando un provvedimento conveniente (in genere l'affido al servizio sociale) con un decreto di per sé non ricorribile in cassazione.

Dopo la eventuale dichiarazione di adottabilità il pubblico ministero, i genitori, parenti del minorenne ed il tutore avrebbero potuto con ricorso allo stesso tribunale opporsi (solo) al decreto di adottabilità nell'ambito di un procedimento contenzioso rispettoso della terzietà e del contraddittorio da definire con sentenza appellabile e successivamente ricorribile in cassazione (artt. 9, 10, 15 L. n. 184 del 1983). Dunque due funzioni giudiziarie: la prima paternalista, gestita d'intesa soprattutto con i servizi sociosanitari da concludere con provvedimenti discrezionali nell'interesse del minore comprensivi della dichiarazione di adottabilità del bambino - adolescente segnalato; la seconda, in caso di opposizione, di tutela giurisdizionale dei diritti relazionali con il minorenne (limitatamente alla dichiarazione di adottabilità), prima riconosciuti ai solo genitori e poi anche al fanciullo dalla Convenzione di New York del 1989.

Viceversa, secondo la legge 149 del 2001, le segnalazioni dei servizi sociali, di pubblici ufficiali, devono essere presentate al pubblico ministero minorile, cui è attribuita la legittimazione processuale per presentare il ricorso per la dichiarazione di adottabilità aprendo un procedimento rispettoso dei principi stabiliti dalla Costituzione: diritto di difesa obbligatorio con eventuale nomina difensore d'ufficio, contraddittorio, ascolto del minore, titolare anche lui di diritti personali e relazionali, dunque parte in senso sostanziale nel processo e perciò doverosamente assistito da un tutore/difensore (C. Cost., sent. 30 gennaio 2002, n. 1), accertamenti da effettuarsi nel rispetto del principio del contraddittorio (artt. 9 e 10 L. cit.).

L'altra importante modifica aggiungeva nel procedimento per i provvedimenti riguardanti l'esercizio della potestà regolato dall'art. 336 c.c. la necessità della assistenza di un difensore per le parti, dunque i genitori ma anche il minore, «anche a spese dello Stato nei casi previsti dalla legge». Significativo che la sentenza della C. Costituzionale ora citata nel sottolineare la qualità di parte del soggetto di età minore si riferiva all'art. 37 comma 3 della L. 149 del 2001 la cui applicazione sarebbe rimasta bloccata per anni.

Infatti queste innovazioni non piacquero a qualcuno, ed il legislatore fu costretto con il decreto legge n. 150 del 2001 a sospendere l'entrata in vigore di tali riforme in via transitoria e non oltre il 30 giugno 2002, per consentire «l'emanazione di una specifica disciplina della difesa d'ufficio» nei procedimenti di adottabilità e di una completa riforma del procedimento sull'esercizio della potestà disciplinato dall'art. 336 c.c. Tale sospensione fu prorogata di anno in anno con altri decreti legge fino al 30 giugno 2007 senza che mai fossero realizzate quelle ulteriori riforme che formalmente dovevano giustificarla. Una prova evidente della pretestuosità di questa operazione, che al di là della sua impotenza (era impossibile far revocare una legge definitivamente approvata dal Parlamento) aveva contrastato la riforma processuale dettata dalla L. 149 del 2001 non tanto per non rispettare il principio del contraddittorio sancito dalla riforma dell'art. 111 Cost. ma per mantenere il tradizionale carattere paternalista della giustizia minorile che sulla base della concezione della potestà genitoriale (rectius oggi denominata "responsabilità genitoriale") può funzionare solo conservando un rapporto fuso e confuso tra giudici e servizi sociosanitari, attribuendo ai primi la illusoria funzione di garantire con atti giudiziari - non i diritti - ma il benessere del minore.

 

3. Perciò bisogna riconoscere che la recente segnalazione del 29 luglio 2019 della Garante per l'Infanzia e l'Adolescenza Filomena Albano diretta ai titolari del potere di iniziativa legislativa, all'Autorità Giudiziaria ed ai Comuni, alle Regioni, ai Ministeri delle Politiche Sociali, della Giustizia, della Famiglia, nonché alla Scuola della Magistratura, al Consiglio Nazionale Forense, dell'Ordine degli Assistenti Sociale e degli Psicologi per migliorare il «sistema della tutela minorile» è un documento importante, redatto sia sulla base delle osservazioni conclusive del Comitato ONU sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza del febbraio 2019 sia perché «negli ultimi mesi il tema della tutela dei bambini in Italia ha interessato l'opinione pubblica per il verificarsi di casi di cronaca che hanno scosso le coscienze».

Queste le segnalazioni formulate per «disciplinare i procedimenti in materia di responsabilità genitoriale secondo i principi del giusto processo:

a) disciplinare la fase delle indagini del pubblico ministero minorile rafforzando la sua funzione di filtro rispetto alla necessità di instaurare il procedimento sulla responsabilità genitoriale, chiarendo tra le altre cose i poteri anche istruttori che gli sono attribuiti, i criteri secondo i quali orientare la sua azione, tesi a valutare la effettiva capacità del ricorso al tribunale, le modalità dell'ascolto della persona di minore età e della famiglia, i contenuti del ricorso, la comunicazione dell'archiviazione;

b) garantire il diritto all'informazione delle parti attraverso una puntuale disciplina del regime delle notifiche, a partire dal ricorso per l'instaurazione del procedimento ed una puntuale disciplina dell'accesso agli atti;

c) garantire il diritto alla difesa tecnica dei genitori, da rendersi obbligatoria con la previsione della nomina di un difensore di ufficio qualora non sia stato nominato quello di fiducia … con la possibilità di accesso al patrocinio a spese dello Stato;

d) garantire la nomina del curatore speciale e dell'avvocato per il minorenne;

e) stabilire attraverso la previsione di termini perentori tempistiche certe nel contemperamento tra l'esigenza di rapidità e l'esigenza di assicurare un'istruttoria adeguata;

f) stabilire termini particolarmente celeri, laddove il giudice intervenga in via d'urgenza inaudita altera parte, al fine di assicurare un contraddittorio attivo tempestivo;

g) riformare l'art. 403 c.c. stabilendo che il servizio pubblico che opera l'allontanamento d'urgenza informi immediatamente il pubblico ministero; il pubblico ministero, qualora ritenga fondata la misura, presenti richiesta di convalida dell'allontanamento entro un termine breve al tribunale per i minorenni; il tribunale per i minorenni in tempi rapidi, valuti la sussistenza dei presupposti per l'allontanamento effettuato e comunque entro il termine stabilito, proceda all'ascolto delle parti; tutti i termini indicati abbiano un carattere perentorio;

h) specificare il ruolo processuale del servizio sociale territoriale nell'ambito del procedimento;

i) stabilire le modalità dell'espletamento della fase istruttoria con particolare riguardo all'attuazione del principio del contraddittorio …

l) assicurare che il provvedimento - temporaneo o definitivo - sia adeguatamente motivato, sia circostanziato, vi siano indicate chiaramente le disposizioni concernenti le parti, le richieste rivolte al soggetto esecutore, le modalità ed i tempi di attuazione;

m) assicurare l'impugnabilità dei provvedimenti, anche temporanei nonché tempi certi e celeri per la decisione sull'impugnazione;

n) definire la fase esecutiva dei provvedimenti, delineando soggetti e competenze relative;

o) differenziare i soggetti cui sono demandati compiti valutativi, esecutivi e di controllo dei provvedimenti giudiziali da quelli chiamati a prendere in carico i minorenni e le famiglie per il sostegno genitoriale e la cura».

Per sottolineare l'importanza delle segnalazioni riportate ne illustriamo la portata con alcune osservazioni.

a), e), f), g), h), i), l), m): si tratta di proposte processuali che marcano in modo sistematico e funzionale la distinzione tra protezione, cura e sostegno dei soggetti di età minore da parte dei servizi sociosanitari, attività amministrative che si svolgono nel rispetto del consenso informato del paziente/utente e la tutela giurisdizionale dei diritti personali e relazionali che deve svolgersi nel rispetto dell'art. 111 della Costituzione.

Dunque, è il pubblico ministero minorile la parte pubblica che, svolgendo una funzione di filtro rispetto a tutte le segnalazioni trasmesse soprattutto dai servizi sociosanitari, può esercitare l'azione civile per la tutela giurisdizionale dei diritti personali e relazionali dei soggetti di età minore interessati, al di là della legittimazione spettante ai titolari dei diritti da tutelare. Ciò comporta la necessità di sviluppare comunicazioni e rapporti costruttivi tra operatori dei servizi e pubblici ministeri sia per chiarire la portata delle segnalazioni che per diffondere tra gli operatori informazioni sull'orientamento della procura in tema di rilevanza giuridica di situazioni, condizioni personali per la tutela dei diritti del bambino/adolescente, anche alla luce del principio stabilito dall'art. 13 della Convenzione Europea sull'esercizio dei diritti dei minori del 25 gennaio 1996 (ratificata con L. n. 77 del 2003) secondo cui «al fine di prevenire o di risolvere i conflitti, e di evitare procedimenti che coinvolgano minori dinanzi ad un'autorità giudiziaria, le Parti incoraggiano il ricorso alla mediazione e a qualunque altro metodo di soluzione dei conflitti atto a concludere un accordo, nei casi che le Parti riterranno opportuni».

Quest'ultimo principio, chiaramente anti paternalista, illumina il confine tra i due sistemi che il legislatore moderno deve rispettare valorizzando così un indirizzo consolidato dalle convenzioni internazionali.

Va poi ricordato che già la L. n. 154 del 2001 (Misure contro la violenza nelle relazioni familiari), che aveva introdotto gli ordini di protezione aveva marcato la durata dei provvedimenti che comunque incidono sui diritti fondamentali della persona stabilendone la non superiorità ad un anno (art. 342-ter commi 2 e 3 c.c.). Si comprende allora l'importanza delle segnalazioni del Garante che nel rispetto dei diritti umani di per sé inviolabili richiede al legislatore di stabilire termini «celeri e perentori» sia per la durata dei tempi processuali che per quelli dell'efficacia di provvedimenti che incidono sui diritti fondamentali delle persone, come nel caso della riforma dell'art. 403 c.c. assolutamente necessaria.

Va a tal riguardo ricordato che le Linee Guida 2008 per i servizi sociali e sociosanitari della Regione Veneto per la cura e la promozione dell'infanzia e dell'adolescenza ancora oggi in vigore già forniscono dettagliate indicazioni sugli interventi di protezione per un minore in situazione di emergenza e per la funzione svolta dal livello giudiziario in tali circostanze assolutamente conformi alla proposta formulata dalla Garante (lett. g). In presenza delle condizioni previste dall'art. 403 c.c. (minore moralmente o materialmente abbandonato o allevato in luoghi insalubri o pericolosi, oppure da persone per negligenza, immoralità, ignoranza o per altri motivi comunque incapaci di provvedere alla sua cura ed educazione) l'intervento di emergenza dell'allontanamento di un bambino /adolescente da adulti incapaci e/o inaffidabili con collocamento in luogo sicuro, «deve essere contestualmente segnalato al pubblico ministero minorile di turno che valuta se presentare una richiesta di convalida al tribunale per i minorenni…».

«Il magistrato di turno - reperibile 24 ore su 24 tramite il 112 o 113 per comunicazioni telefoniche urgenti. – così è posto nelle condizioni di formulare tempestive richieste al tribunale per i minorenni per la pronuncia del provvedimento urgente di allontanamento del minore. Tali comunicazioni oltre ad assicurare la correttezza dell'intervento d'emergenza di competenza del servizio nel rispetto della competenza giurisdizionale del tribunale per i minorenni e dell'imparzialità del giudice, consentono anche l'effettivo coordinamento tra le iniziative per la tutela giurisdizionale del minore – di competenza della procura per i minorenni - e l'azione diretta all'accertamento e repressione degli eventuali reati di maltrattamento, abuso sessuale, lesioni - della procura della Repubblica presso il tribunale ordinario competente - attraverso contatti diretti tra i pubblici ministeri interessati, nel rispetto del protocollo di coordinamento vigente tra le procure del Distretto [2]».

Il buon funzionamento fino ad oggi di quest'applicazione concordata dell'art. 403 c.c. tra servizi sociali e Procura per i minorenni del Veneto dimostra la fondatezza della proposta di riforma della Garante.

Infine va sottolineato che l'indicazione sub m) (assicurare l'impugnabilità dei provvedimenti anche temporanei …) è stata di recente confermata dalla Cassazione (Sez. I civ., ord., 4 febbraio2019 - 17 aprile 2019, n. 10777) che innanzi tutto riconosce che «tutti i procedimenti c.d. de potestate, ablativi o limitativi della responsabilità genitoriale, emessi dal giudice minorile ai sensi degli artt. 330 e 333 c.c. hanno attitudine al giudicato in quanto non revocabili o modificabili, salva la sopravvenienza di fatti nuovi» (Cass. n. 23633/2016; Cass. n. 19780/2018; Cass. S.U. 32359/2018).

Peraltro il provvedimento che incide su diritti di natura personalissima di primario rango costituzionale è immediatamente reclamabile (Cass. n. 12650/2015) perché, pur se adottato nell'ambito di procedimento ancora in corso, è già idoneo a produrre effetti pregiudizievoli per i minori e per il genitore, in ragione delle sue immediate ripercussioni sulla relazione parentale che ha un primario rango costituzionale. Il provvedimento è altresì suscettibile di acquisire la definitività equiparabile al giudicato, all'esito delle fasi impugnatorie, atteso che solo la sopravvenienza di fatti nuovi lo rende modificabile o revocabile.

b), c), d), riguardanti i diritti di difesa delle parti private nel processo.

Innanzitutto i procedimenti in materia di responsabilità genitoriale hanno la stessa natura e funzione: la tutela dei diritti personali e relazionali dei soggetti interessati, genitori, parenti bambini ed adolescenti. Dunque regole processuali comuni, quelle del rito camerale, anche perché le diversità riguardano solo i provvedimenti. Ricordiamo che gli artt. 10 e 16 della L. n. 184 del 1983 sia nella versione originaria che in quella modificata dalla L. n. 149 del 2001 stabiliscono - al di là della decisione di dichiarare l'adottabilità del minorenne da formulare con sentenza (art. 15) - che per gli altri provvedimenti «si applicano le norme di cui agli articoli 330 e seguenti del codice civile».

Ecco dunque l'importanza delle indicazioni fornite al legislatore dal Garante per assicurare sempre a tutte le parti, dunque anche al soggetto di età minore, il diritto all'informazione, il diritto di difesa e di rappresentanza autonoma da garantire ad ognuno, ivi compreso il soggetto di età minore che di per sé, se è stato avviato il procedimento, ha una posizione autonoma rispetto ai genitori.

Significativo è che recentemente la giurisprudenza, sia di legittimità che di merito, ha confermato che nei giudizi riguardanti l'adozione di provvedimenti limitativi, ablativi della responsabilità genitoriale, l'art. 336 c.c. come modificato dalla legge 149 del 2001, art. 37 co. 3) richiede la nomina di un curatore speciale ex art. 78 c.p.c. ove non sia stato nominato un tutore provvisorio, sussistendo un conflitto d'interesse verso entrambi i genitori. Perciò la mancata nomina di un difensore al minore nel primo grado di giudizio comporta una lesione del diritto di difesa del minore stesso che non ha potuto esercitare alcun contraddittorio su tutti gli atti processuali che hanno costituito il presupposto per la decisione impugnata (Cass., sez. I, 13 marzo 2019, n. 7196; C. d'Appello di Brescia sent. n. 81/20 del 14 febbraio 2020).

h), o), n): Altro profilo importante segnalato in tali punti è quello della differenza del ruolo dei servizi nel processo e fuori del processo. Se la protezione, la cura, il sostegno degli utenti, anche di età minore, si svolgono nel rispetto del principio del consenso informato ciò comporta, come prescrive l'art. 1 comma 2 della L. 219 del 2017, che sia «promossa e valorizzata la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico che si basa sul consenso informato nel quale si incontrano l'autonomia decisionale del paziente e la competenza, l'autonomia professionale e la responsabilità del medico». Non si tratta solo di rispetto reciproco, ma anche di favorire lo sviluppo della cosiddetta alleanza terapeutica, un rapporto di fiducia che facilita il raggiungimento di buoni risultati soprattutto se si tratta di psicoterapia o di indirizzi educativi per bambini ed adolescenti. Di qui la necessità di differenziare gli operatori sociosanitari che prendono in carico i minorenni e le famiglie da quelli demandati a compiti valutativi, esecutivi, di controllo sulla base di provvedimenti giudiziari (o). Ma a tal proposito è altrettanto necessario specificare i ruoli processuali svolti dagli operatori nell'ambito dei procedimenti. Fornire le informazioni richieste dal giudice (artt. 213 738 c.p.c.) è naturalmente un'attività semplice se si riferisce alle operazioni già svolte sul piano amministrativo-sanitario. Ma laddove il giudice voglia chiedere un contributo nell'ambito del processo, va rispettato il principio del contraddittorio sancito dall'art. 111 Cost. Dunque, come previsto dall'art. 10 della L. 184 del 1983 e succ., il giudice può disporre tramite i servizi sociali locali o gli organi di pubblica sicurezza, più approfonditi accertamenti sulle condizioni giuridiche e di fatto del minore, sull'ambiente in cui ha vissuto e vive ai fini di verificare se sussiste lo stato di abbandono o situazioni comunque pregiudizievoli ma le parti private (naturalmente anche il pubblico ministero), assistiti dal difensore, possono partecipare a tutti gli accertamenti disposti dal tribunale, presentare istanze anche istruttorie, prendere visione ed estrarre copia degli atti contenuti nel fascicolo previa autorizzazione del giudice.

Insomma i rapporti tra operatori ed utenti sono molto diversi ed è grave che ancora non siano state aggiornate le disposizioni che debbono consentire, come suggerisce la Garante, una posizione corretta e costruttiva agli operatori dei servizi impegnati nelle due distinte e diversamente disciplinate attività, quella di cura protezione e sostegno degli utenti, quella di tutela giurisdizionale dei diritti personali e relazionali dei soggetti anche di età minore coinvolti in un processo dal pubblico ministero o da una parte privata.

In conclusione le proposte formulate dalla Garante affrontano limiti e contraddizioni del sistema attuale ancora condizionato dalla tradizione paternalista della giustizia minorile e mirano a rafforzare le due azioni distinte che lo Stato attiva con la L. 149 del 2001 per la tutela del "Diritto del minore ad una famiglia" e cioè quella di protezione, sostegno, cura «nel rispetto della loro autonomia dei nuclei familiari a rischio, al fine di prevenire l'abbandono e di consentire al minore di essere educato nell'ambito della propria famiglia» e quella di tutela giurisdizionale dei diritti personali e relazionali incisi e compromessi per l'incapacità genitoriale (art. 30 co. 2 Cost).

 

Note

 

[1] Zatti P., Rapporto educativo e potere d'intervento del giudice, De Cristofaro, Belvedere (a cura di), L'autonomia dei minori tra famiglia e società, Giuffrè, Milano, 189 – 203, 1980.

[2] Cfr. Regione del Veneto, Quaderni =1/08, Linee Guida 2008 per i servizi sociali e socio sanitari per la cura e la promozione dell'infanzia e dell'adolescenza, pag. 87.

3.   Battute d'arresto nel dibattito sulla riforma del processo minorile

 

(Intervento tenuto in Firenze, il 13 novembre 2002, nel corso di un convegno sul giudizio minorile)

 di Andrea Proto Pisani

 

1. Il dibattito sulla riforma del processo minorile dal 1987 a oggi

Nel corso degli ultimi quindici anni, dal convegno veneziano del 1987 su «Le procedure civili a tutela dell'interesse del minore» (atti a cura di P. Dusi, Milano, 1990), al convegno cagliaritano del 1997 su «Quale processo per la famiglia e i minori» (atti a cura di L. FANNI, Milano, 1999), alle ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale della Corte d'appello di Genova del 4 gennaio 2001 (pres. Rovelli, est. Dogliotti) e della Corte d'appello di Torino del 3 gennaio 2001 (pres. e est. Pazè), cit., si è andato maturando un consenso diffuso circa l'inadeguatezza della procedura camerale ex artt. 737 ss. c.p.c. a dettare una disciplina procedurale adeguata ai diritti fondamentali (dei genitori e del minore) coinvolti nelle procedure di ablazione o di limitazione dell'esercizio della potestà parentale di cui agli artt. 330 ss. c.c., 317-bis c.c., 4, comma 2, I. 184/83.

Alcuni punti possono o devono o dovrebbero considerarsi acquisiti.

Innanzi tutto, nelle ipotesi ora richiamate si è alla presenza di una giurisdizione forte per i diritti fondamentali su cui essa incide: da un lato il diritto-dovere dei genitori a mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio (art. 30, comma 1, Cost.), dall'altro il diritto dei minori ad essere educati in modo adeguato allo sviluppo della propria personalità. Ma se è così, stante l'importanza primaria dei diritti su cui incide, la giurisdizione minorile al pari di quella penale che incide sulla libertà personale deve essere forte anche nelle garanzie.

In secondo luogo, garanzia processuale significa predeterminazione da parte del legislatore dei poteri-doveri e facoltà processuali delle parti e del giudice; significa giusto processo regolato dalla legge e non rimesso, quanto alle sue modalità di svolgimento, al potere sostanzialmente discrezionale del giudice. Le previsioni di un processo forte nelle sue garanzie per le parti sui cui diritti fondamentali è chiamato ad incidere, è tanto più indispensabile in un processo quale quello minorile in cui la regola di giudizio, la norma sostanziale da applicare, pur esistente, è a maglie estremamente larghe risolvendosi sempre in ultima analisi in un bilanciamento a favore dell'interesse del minore tra i due diritti fondamentali dei genitori e del minore di cui dicevo all'inizio.

In terzo luogo, presa di coscienza, presa di consapevolezza della assoluta inadeguatezza del modello di processo camerale disciplinato dagli artt. 737 ss. c.p.c. e richiamato espressamente per le ipotesi che qui interessano dal comma 2 dell'art, 336 c.c. e dal comma 2 dell'art. 4 l. 184/83. Il processo camerale ex artt. 737 ss. se può essere processo adeguato all'esercizio da parte del giudice di talune attribuzioni non contenziose unilaterali o bilaterali in assenza di conflitto d'interessi (quali le autorizzazioni, le nomine, ecc.), di certo non è adeguato ai processi minorili di cui stiamo parlando i quali sono caratterizzati dal livello elevatissimo del conflitto di interessi e dal carattere fondamentale dei diritti su cui comunque sono destinati ad incidere. Come è noto, infatti, le modalità di svolgimento del processo camerale ex artt. 737 ss. sono pressoché in toto rimesse al potere discrezionale del giudice, le uniche predeterminazioni legali concernendo la forma della domanda e del provvedimento finale del giudice, la nomina di un giudice relatore, il potere di assumere informazioni e il reclamo. Senza che sia necessario neanche sfiorare il vasto dibattito che in questi ultimi decenni ha investito il processo camerale e le utilizzazioni che ne ha fatto il legislatore (basti al riguardo rinviare al ponderoso lavoro effettuato da M.G. CIVININI, I procedimenti in camera di consiglio, Torino, 1994), il carattere fondamentale dei diritti dei genitori e del minore su cui i processi in esame sono destinati ad incidere, impone l'abbandono in materia minorile dell'autoritario o forse paternalistico processo camerale e l' adozione di un modello di processo garantista al pari di quanto da sempre avvertito per il processo penale.

 

2. I punti fermi emersi da tale dibattito

Di qui una serie di importanti corollari:

- necessità di prevedere per il processo minorile un modello di processo speciale a cognizione piena (cioè con modalità di svolgimento, di realizzazione del principio del contraddittorio, del diritto di difesa delle parti predeterminate dal legislatore e non rimesse al potere discrezionale del giudice) accelerato e semplificato rispetto al rito ordinario;

- esplicitazione della tipicità della prova, ed in particolare soppressione del valore probatorio delle relazioni dei servizi sociali, relazioni che dovrebbero avere come destinatario il pubblico ministero (il quale potrebbe desumere da esse l'esistenza di fonti di prova o la necessità di consulenze tecniche di cui chiedere l'acquisizione nel processo nel contraddittorio delle parti) e mai il giudice;

- attribuzione al giudice di poteri istruttori d'ufficio, ma sempre nel rispetto del fondamentalissimo principio del divieto di utilizzazione del proprio sapere privato (cioè del divieto di andare alla ricerca delle fonti di prova), principio fondamentalissimo perché posto a presidio della terzietà ed imparzialità del giudice;

- rivitalizzazione - nel settore civile·- dell'ufficio del pubblico ministero minorile quale organo dotato non solo, nelle ipotesi previste dalla legge, del potere di azione ma anche del potere di andare alla ricerca, se del caso con l'ausilio dei servizi sociali, delle fonti materiali di prova di cui chiedere poi l'acquisizione e l'assunzione nel processo nel contraddittorio delle parti; nella sostanza spostamento al pubblico ministero, se del caso adiuvato da procuratori onorari, del potere di indagine oggi irritualmente svolto dal giudice;

- previsione esplicita che in caso di urgenza sia possibile chiedere l'intervento immediato del giudice, ma sempre e solo nel rispetto degli artt. 669-bis ss. c.p.c. relativi al c.d. processo cautelare uniforme;

- opportunità di prevedere che nei processi relativi comunque alla potestà parentale sia attribuita al minore la qualità di parte con la nomina di un suo curatore;

- attuazione di un adeguato sistema di assistenza giudiziaria e di difesa c.d. d'ufficio.

Questi mi sembrano i punti lentamente emersi dal dibattito svoltosi dal 1987 ad oggi.

 

3. I problemi relativi al giudice

Quanto al giudice il pur ampio dibattito di questi ultimi anni non ha mai messo in discussione l'opportunità di conservare l'esperienza, tutta italiana, del giudice collegiale specializzato costituito da giudici togati e da giudici onorari; anche se varie sono state le proposte volte a cercare di attenuare o superare la eccessiva separatezza dei giudici minorili rispetto ai giudici ordinari di primo grado e rispetto alla stessa sezione specializzata della corte d'appello. Diverse le proposte avanzate.

Mi limito qui a ricordare quella della istituzione, presso i soli tribunali aventi sede nei capoluoghi di provincia, di sezioni specializzate per i minori, cui devolvere le attuali competenze civili e penali dei tribunali dei minorenni ed in più tutte le competenze in materia di famiglia e di persona, nonché, in via di composizione monocratica, tutte le competenze del giudice tutelare.

Da parte di alcuni si è auspicata inoltre la temporaneità delle funzioni dei giudici minorili: e ciò per assicurare al massimo la garanzia della terzietà del giudice ed evitare che esso diventi troppo «parente» degli interessi su cui è chiamato ad incidere.

 

4. Le ordinanze di rimessione delle Corti d'appello di Genova e Torino e la sconcertante risposta della Corte costituzionale

Questa la situazione che si presentava alla fine dello scorso anno.

Nel 2002 il quadro che ho cercato di riassumere è stato profondamente alterato, prima dalla emanazione della sentenza 30 gennaio 2002, n. 1, della Corte costituzionale, in esame, poi dalla presentazione, il 14 marzo 2002, del disegno di legge governativo relativo a «misure urgenti e delega al governo in materia di diritto di famiglia e dei minori».

Vorrei esaminare, sia pur sinteticamente questi due avvenimenti.

Innanzi tutto, la decisione della Corte costituzionale.

Nel gennaio 2001 le Corti d'appello di Torino e di Genova si erano rese interpreti del profondo disagio provocato dall'applicazione della procedura camerale ex artt. 737 ss. c.p.c. ai giudizi di ablazione e di limitazione dell'esercizio della potestà parentale.

Diverso lo stile delle due ordinanze di rimessione ma identica la sostanza della denuncia: l'art: 336, commi 2 e 3, c.c., specie alla luce delle sue prassi applicative (gli estensori delle due ordinanze sono due giudici fra i maggiori esperti del diritto minorile), non è in regola con il novellato art. 111, commi 1 e 2, Cost.

Non è questa la sede per l'esame analitico delle ordinanze di rimessione. Basti qui osservare che la Corte d'appello di Genova prende le mosse dal rilievo secondo cui «a fronte della latitudine della norma sostanziale che individua come regola di giudizio l'apprezzamento dell'interesse del minore, e della sua lesione, il principio di legalità deve essere particolarmente intenso, se si vuole mantenere il carattere giurisdizionale del procedimento, attraverso la garanzia del rito»: ne segue che il diritto fondamentale del genitore può essere inciso solo a seguito di un accertamento compiuto a termine di «un procedimento giudiziale che abbia, quanto meno, la prescrizione legislativa dei poteri processuali delle parti e del giudice (e consenta un controllo pieno delle parti sulla legalità degli atti del procedimento)». L'esigenza di un giusto processo «regolato dalla legge», come oggi prevede il comma 1 dell'art. 111 Cost., contrasta platealmente con la procedura camerale ex artt. 737 ss. c.p.c., tutta rimessa «alla discrezionalità del giudice cui le parti devono soggiacere», tutta «sommaria e semplificata, non regolata dalla legge nelle forme, nei tempi così come nelle modalità di svolgimento». «Nel novellato quadro costituzionale, “giusto processo” non può essere che quello “regolato dalla legge”: e quindi non si può non dubitare della legittimità costituzionale di una scelta normativa che affida la tutela di diritti, in un settore fondamentale dell'ordinamento, ad un modello processuale nel quale la decisione sui diritti è emessa a seguito di un processo le cui cadenze sono affidate esclusivamente al giudice, tenuto bensì a garantire i fondamentali diritti processuali delle parti, ma secondo modalità non predeterminate, e rimesse al suo apprezzamento». «La previsione costituzionale della riserva di legge, in un contesto tanto delicato, implica la necessità che sia il legislatore a disciplinare le regole del procedimento»; specie alla presenza di prassi diversificate e distorte quali la segregazione delle relazioni dei servizi sociali, l'incontrollata estensione dei provvedimenti urgenti emessi ex officio ed inaudita altera parte, l'assenza di precisi termini per il controllo.

Dal canto suo la Corte d'appello di Torino, fra l'altro, denuncia con particolare vigore i dubbi di costituzionalità, in riferimento agli artt. 3, 24, comma 2, e 111, commi 1 e 2, Cost., dell'art. 336, comma 3, c.c. il quale «legittima diffuse prassi autoritarie che contraddicono il principio del contraddittorio e non rispettano il diritto di difesa: tali l'inflazione di provvedimenti assunti al di fuori di reali situazioni di necessità ed urgenza ma definiti necessari ed urgenti solo perché non preceduti dall'ascolto delle parti; la mancanza di un successivo provvedimento che a seguito dell'ascolto delle parti confermi, modifichi o revochi il provvedimento così assunto; ovvero la dilatazione nel tempo - a volte anni e anni dopo - del provvedimento successivo deliberato a seguito di contraddittorio in modo che il primo provvedimento di urgenza assunto inaudita altera parte predetermina e sostanzialmente consolida la soluzione senza possibilità per le parti di opporsi».

Attraverso queste due ordinanze di rimessione la Corte costituzionale era chiamata a pronunciarsi, anche alla luce del novellato artt. 111, commi 1 e 2, Cost., sul risultato di un lungo e faticoso dibattito circa il grave deficit di garanzie insito nel richiamo della procedura camerale effettuato dal comma 2 dell'art. 336 c.c., e nell'ermetica formulazione del comma 3 dell'art. 336 c.c.

Mostrando - almeno apparentemente - una totale insensibilità nei confronti dei termini effettivi del problema che era stato sottoposto al suo esame, la Corte costituzionale ha emanato una sentenza a dir poco sconcertante.

La questione sollevata dall'ordinanza della Corte d'appello di Genova è stata dichiarata inammissibile perché il giudice rimettente non aveva motivato, adeguatamente le ragioni per cui «la normativa impugnata non è suscettibile di essere interpretata in senso conforme a Costituzione». Non una parola è spesa sulla verifica della compatibilità della procedura camerale ex artt. 737 ss. c.p.c., con le esigenze del «giusto processo regolato dalla legge» di cui al novellato comma 1 dell'art. 111 Cost.

Analogamente la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte d'appello di Torino è stata dichiarata inammissibile perché il giudice rimettente non aveva valutato la possibilità di interpretazioni costituzionalmente adeguatrici, quale l'applicabilità degli art. 669 bis ss. ed in particolare dell'art. 669-sexies, commi 2 e 3, c.p.c al comma 3 dell'art. 336 c.c. Nonostante l'esplicita denuncia di consolidate gravissime prassi difformi, la Corte costituzionale non ha avuto nemmeno il coraggio di emanare una sentenza interpretativa di rigetto.

 

5. Il disegno di legge governativo n. 2517 del 14 marzo 2002

Direi che il disegno di legge governativo del 14 marzo 2002 n. 2517 si muove secondo la medesima direttiva di voler negare l'esistenza di un problema di garanzie nel processo minorile. Nulla infatti il disegno di legge governativo dice quanto al procedimento, quasi che il 2° e 3° comma dell'art. 336 c.c. non abbiano fatto sorgere - nonostante quindici anni di dibattito e -le due recenti ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale - alcun problema al riguardo.

Il disegno di legge governativo (su cui, v. l'intervento di P. VERCELLONE, in Giur. it., 2002, 1339 ss.) va però oltre: esso manifesta il chiaro intento di voler sopprimere l'esperienza italiana del giudice specializzato: per un verso l'attuale tribunale per i minori sopravvive solo per le competenze penali, per altro verso le competenze civili (accorpate con quelle relative ai rapporti di famiglia e ai minori, nonché con talune ulteriori relative genericamente alla persona) sono attribuite a sezioni specializzate istituende prevalentemente presso la sede principale dei tribunali, e costituite unicamente da giudici togati («affidando invece - si legge nella relazione - alle competenze specialistiche degli attuali componenti privati compiti .di collaborazione tecnica e di ausilio alla formazione degli elementi necessari al giudice per formare il proprio convincimento»).

Il disegno di legge governativo lascia puramente e semplicemente esterrefatti per la incultura che esso manifesta.

L'esperienza del tribunale dei minorenni è stata spesso oggetto di critiche per la sua eccessiva separatezza rispetto ai giudici c.d. ordinari e per atteggiamenti autoritari e paternalistici. Ma, pur nella varietà degli accenti, nessuno ha mai messo in discussione né l'opportunità di conservare un organo unitario con competenze civili e penali né l'opportunità della composizione mista, in parte togata in parte onoraria. Una cosa è proporre - come è stato più volte proposto - di trasformare gli attuali tribunali per i minorenni in sezioni specializzate (aventi competenze civili e penali) del tribunale c.d. ordinario, tutta altra cosa è il voler distruggere l'esperienza in sé dei tribunali dei minorenni. Una cosa è richiamare, specie i giudici togati, al rispetto delle regole procedurali, altra cosa è sopprimere in materia civile la partecipazione della componente onoraria. Una cosa è proporre di aumentare le competenze civili delle istituende sezioni specializzate, altra cosa è isolare le competenze civili da quelle penali e sopprimere del tutto la. componente onoraria in materia civile.

La critica al disegno di legge governativo potrebbe continuare a lungo e facilmente. Al riguardo direi che i rilievi svolti da Paolo Vercellone sulla Giurisprudenza italiana sono tutti pienamente da condividere e ad essi mi sembra che in questa sede si possa rinviare.

 

6. Un'osservazione finale

Prima di concludere un'ultima osservazione.

Probabilmente perché pressata dalla presentazione del disegno di legge governativo l'opposizione credo abbia cercato di correre ai ripari presentando il 12 aprile e il 6 maggio 2002 alla camera dei deputati le proposte di legge n. 2641 e n. 2703. L'impressione che si ricava dalla lettura di queste proposte di origine parlamentare se per un verso è il loro saldo inserirsi nel dibattito di cui ho cercato di dare conto all'inizio del mio intervento, per altro verso è la fretta con cui sono state redatte utilizzando spesso materiale preesistente.

È auspicabile che occasioni come quella odierna siano idonee non solo a continuare un dibattito che la sentenza n. 1 del 2002 della Corte costituzionale e la presentazione del disegno di legge governativo sembrano avere bruscamente interrotto, ma anche a far riprendere il lavoro di elaborazione e di proposta normativa.

 

6 bis. Questo intervento era già stato scritto quando ho avuto conoscenza del d.d.l. n. 1633 presentato al senato nel luglio 2002 su iniziativa dei senatori Manzione ed altri.

A differenza di quelli precedenti, questo disegno di legge ha carattere organico e tendenzialmente esaustivo sia per quanto riguarda il giudice sia per quanto riguarda il o i procedimenti sia per l'investire il settore civile e quello penale.

Salvo una miriade di osservazioni specifiche, che non possono essere svolte in questa sede, mi sembra che il disegno di legge sia in linea di massima condivisibile. Il tribunale dei minorenni, quale organo specializzato - con la partecipazione di giudici onorari - del tribunale ordinario, è conservato anche se ne è prevista la dislocazione presso i tribunali (tendenzialmente aventi sedi in capoluoghi di provincia) e non presso le corti d'appello. Le sue competenze civili sono allargate al settore della famiglia e delle persone. Il procedimento (di separazione e di divorzio e soprattutto quello) per l'emanazione dei provvedimenti ex artt. 330 ss. c.c. è rivisto in senso garantistico, anche se probabilmente ancora molto è da fare per abbandonare del tutto lo schema del procedimento camerale ex artt. 737 ss. c.p.c. e adottare con coraggio lo schema di un procedimento autonomo destinato a concludersi con sentenza appellabile e poi ricorribile per cassazione. Quanto, infine, al pubblico ministero presso il tribunale dei minorenni, mi sembra sarebbe opportuna la previsione di sostituti procuratori onorari, nonché, per quanto concerne il settore civile, l'attribuzione specifica al pubblico ministero di quelle competenze di destinatario delle relazioni dei servizi sociali e di ricerca della prova che attualmente sono attribuite al giudice.

Pur con queste osservazioni, e le molte altre che potrebbero essere effettuate il d.d.l. n. 1633 costituisce, mi sembra, una buona e realistica base di partenza per riprendere quel dibattito sulla riforma del processo minorile che sembrava essere stato bruscamente interrotto.

4.   La giurisdizionalizzazione dei processi minorili c.d. de potestate

 

(Testo della relazione redatta in occasione del corso su «La giurisdizionalizzazione del processo minorile», tenutosi a Palermo il 15 e 16 giugno 2012, su iniziativa della formazione decentrata del Consiglio superiore della magistratura, e messa a punto il 10 ottobre 2012 nell'ambito di un seminario di aggiornamento organizzato dalla camera civile degli avvocati di Pordenone).

 di Andrea Proto Pisani

 

1. - Oggetto di questa relazione saranno i procedimenti ex art. 336 c.c. volti all'emanazione dei provvedimenti ex art. 330 (decadenza della potestà sui figli), 332 (reintegrazione nella potestà), 333 (provvedimenti «convenienti» nell'interesse del minore, consistenti anche nell'allontanamento del minore dalla casa familiare, ove la condotta del genitore o dei genitori, pur non essendo tale da dare luogo a decadenza della potestà, sia «comunque pregiudizievole al figlio»), 334-5 (rimozione e riammissione nell'amministrazione).

Tutti questi procedimenti sono soggetti alla disciplina dei procedimenti in camera di consiglio ex art. 737 ss. c.p.c.: in tal senso si esprime molto chiaramente sia l'art. 336, 2° comma, c.c., sia l'art. 38, 3° comma, disp. art. c.c. (il quale prevede anche la competenza del tribunale per i minorenni). Questa disciplina si applica anche ai figli naturali (art. 317-bis c.c. e 38, comma 1, disp. att. c.c.) [1].

Nel corso .della relazione, dopo qualche cenno introduttivo sulla c.d. giurisdizione volontaria, mi soffermerò principalmente sull'autoritarismo della disciplina procedurale dei procedimenti in camera di consiglio, sulla commistione che, anche per motivi storici, essa determina tra giurisdizione e amministrazione, sui rapporti, ma anche netta distinzione, tra attività del tribunale per i minorenni e attività dei servizi sociali, sul ruolo centrale che un pubblico ministero specializzato dovrebbe assolvere nella doverosa prospettiva della giurisdizionalizzazione dei procedimenti minorili c.d. de potestate.

 

2. - Qualche rapido cenno sui procedimenti in camera di consiglio ex art. 737 ss. c.p.c. Si tratta di procedimenti pressoché totalmente rimessi alla discrezionalità del giudice (per il significato di questa affermazione rinvio, se si vuole, ai miei Appunti sul valore della cognizione piena, in Foro it., 2002, V, 65 ss.). Le uniche predeterminazioni legislative attengono alla previsione del ricorso, come forma introduttiva del procedimento, alla nomina di un relatore tra i membri del collegio, alla possibilità per il giudice di «assumere informazioni», alla decisione con il decreto motivato reclamabile e in ogni tempo modificabile e revocabile.

Come è noto il codice di procedura civile del 1942 ha rifuggito in ogni modo dalla utilizzazione dell'espressione «giurisdizione volontaria» anche se gli interpreti hanno subito individuato negli artt. 737 ss. la disciplina generale da applicare ai casi di c.d. giurisdizione volontaria ove non diversamente disposto dalla legge.

Per cercare di superare le gravi incertezze e i gravi equivoci che si annidano dietro l'espressione «giurisdizione volontaria» la dottrina italiana (v. soprattutto Luigi Montesano) ha proposto per un verso di abbandonarla, per altro verso di sostituirla con la contrapposizione tra giurisdizione costituzionalmente necessaria e giurisdizione costituzionalmente non necessaria.

La giurisdizione costituzionalmente necessaria è la giurisdizione che la Costituzione impone di attribuire al giudice (ordinario ed eccezionalmente, nei limiti previsti dall'art. 103 Cost., ai giudici speciali): si tratta della giurisdizione c.d. contenziosa relativa ai diritti (ed interessi legittimi), nonché relativa alla cognizione e punizione dei reati.

La giurisdizione costituzionalmente non necessaria è costituita invece dalle ipotesi - sempre eccezionali - in cui al giudice (caratterizzato dalle guarentigie ex art. 101 ss. e 111 Cost.) è attribuito l'esercizio di poteri (o, più generalmente, di compiti) che il legislatore nella sua discrezionalità ben avrebbe potuto attribuire in prima battuta anche alla pubblica amministrazione o a poteri privati. Si tratta dei settori delle autorizzazioni, delle nomine di curatori, tutori, rappresentanti in genere, della revoca di amministratori di condominio o di società, di controlli preventivi di legalità: con riferimento all'esercizio di attribuzioni di tali specie la scarsa e deformalizzata procedura ex artt. 737 ss. c.p.c. si mostra come del tutto idonea e pone pochissimi problemi interpretativi.

 

3. - Nel caso, invece, degli artt. 330 ss. c.c. siamo nel settore della giurisdizione costituzionalmente necessaria, in quanto essa concerne la tutela di diritti fondamentali della persona (del minore e del genitore), di diritti - è bene· affermarlo sin d'ora - dello stesso rango del diritto alla libertà personale. Si tratta di attività che deve essere necessariamente attribuita al giudice e che deve essere svolta nel rispetto delle garanzie oggi previste dagli artt. 24 e 111 Cost.

Senza che sia necessario (almeno ora, v. infra par. 5) andare a scomodare le convenzioni internazionali e la carta europea dei diritti, negli artt. 330 ss. c.c. sono in gioco: da un lato il diritto dei minori all'equilibrato sviluppo della propria personalità in un ambiente idoneo (art. 2 Cost.), dall'altro lato il diritto, il diritto-dovere, dei genitori (anche naturali) a «mantenere, istruire ed educare i figli» (art. 30, commi 1, e 2 Cost.).

Ove questi due diritti fondamentali entrino in conflitto, la soluzione del conflitto deve essere necessariamente attribuita al giudice nel rispetto delle garanzie previste dagli artt. 24 e 111 Cost.

Già da queste prime considerazioni emerge, dovrebbe emergere con assoluta evidenza, l'inadeguatezza della disciplina dei procedimenti in camera di consiglio ex artt. 737 ss. c.p.c. per l'adozione dei gravissimi e delicatissimi provvedimenti ex artt. 330 ss. c.c. (provvedimenti che poi molto spesso costituiscono il primo passo di un cammino che può condurre alla dichiarazione dello stato di adottabilità prima e all'adozione poi con la normale cessazione di ogni rapporto anche giuridico tra minore e famiglia di origine).

A complicare ulteriormente la già delicatissima vicenda è da notare, infine, che quasi sempre l'intervento del giudice per risolvere i conflitti di cui si è detto, deve essere, almeno in prima battuta, urgente (talora urgentissimo), poiché i diritti del minore (o anche del genitore ad essere, ad es., reintegrato nella potestà) subirebbero un pregiudizio irreparabile ove dovrebbero rimanere insoddisfatti per tutto il tempo necessario allo svolgimento di un processo che tutelasse pienamente le garanzie costituzionali cui si è fatto riferimento.

 

4. - Nel corso degli ultimi venticinque anni, dal convegno veneziano del 1987 su «Le procedure civili a tutela dell'interesse del minore» (atti a cura di P. Dusi, Milano, 1990), al convegno cagliaritano del 1997 su «Quale processo per la famiglia e i minori» (atti a cura di L. Fanni, Milano, 1999), alle ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale della Corte d'appello di Genova del 4 gennaio 2001 (pres. Rovelli, est. Dogliotti, Foro it., Rep. 2001, voce Camera di consiglio, n. 10) e della Corte d'appello di Torino del 3 gennaio 2001 (pres. ed est. Pazè, ibid., n. 9), alla sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 2002 (id., 2002, I, 3302), si è andato maturando un consenso diffuso circa l'inadeguatezza della procedura camerale ex art. 737 ss. c.p.c. a dettare una disciplina procedurale adeguata ai diritti fondamentali (dei genitori e del minore) coinvolti nelle procedure di ablazione o di limitazione dell'esercizio della potestà parentale di cui agli artt. 330 ss. c.c. (v. anche gli artt. 317-bis c.c., 4, 2° comma, l. 184/83).

Alcuni punti possono o devono o dovrebbero considerarsi acquisiti.

Innanzitutto nelle ipotesi ora richiamate si è alla presenza di una giurisdizione forte per diritti fondamentali su cui essa incide: da un lato il diritto-dovere dei genitori a mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio (art. 30, comma 1, Cost.), dall'altro il diritto dei minori ad essere educati in modo adeguato allo sviluppo della propria personalità (art. 2 Cost.). Ma se è così, stante l'importanza primaria dei diritti su cui incide, la giurisdizione minorile, al pari di quella penale che incide sulla libertà personale, deve essere forte anche nelle garanzie.

In secondo luogo garanzia processuale significa predeterminazione da parte del legislatore dei poteri doveri e facoltà processuali delle parti e del giudice; significa giusto processo regolato dalla legge e non rimesso, quanto alle sue modalità di svolgimento, al potere discrezionale del giudice. La previsione di un processo forte nelle sue garanzie per le parti sui cui diritti fondamentali è chiamato ad incidere, è tanto più indispensabile in un processo quale quello minorile in cui la regola di giudizio, la norma sostanziale da applicare, pur esistente, è a maglie estremamente larghe risolvendosi sempre in ultima analisi in un bilanciamento a favore dell'interesse del minore tra i due diritti fondamentali dei genitori e del minore di cui dicevo all'inizio.

In terzo luogo presa di coscienza, presa di consapevolezza dell'assoluta inadeguatezza del modello di processo camerale disciplinato dagli artt. 737 ss. c.p.c. ad assolvere in toto la tutela giurisdizionale dei processi minorili de potestate.

 

5. - La Costituzione (art. 2 e 30, comma 1), la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (part. art. 14, 3° comma, 24), la convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989 (resa esecutiva in Italia con l. 27 maggio 1991, n. 176), la parallela Convenzione europea di Strasburgo del 1996 sull'esercizio dei diritti dei fanciulli (resa esecutiva in Italia con l. 20 marzo 2003 n. 77) impongono di ritenere che oggetto dei processi minorili ex artt. 330, 333 non sono «interessi» ma «diritti fondamentali della persona» dei genitori e dei figli, diritti che possono essere modificati solo a seguito dell'accertamento dei «fatti» di cui agli artt. 330, 333 c.c.

Il carattere fondamentale di tali diritti, la loro strettissima inerenza a quanto di più intimo vi è nella persona, li avvicina al diritto della libertà personale, ed avvicina, dovrebbe avvicinare, di molto le modalità di esercizio della giurisdizione che incide su di essi alle modalità di esercizio della giurisdizione penale (anche nella sua fase cautelare).

Come hanno recentemente ben messo in rilievo G. SERGIO (in Trattato di diritto di famiglia diretto da P. ZATTI, vol. VI, La giustizia minorile, 2a ed., Milano, 2012) e L. LENTI (in Giustizia minore? La tutela giurisdizionale dei minori e dei «giovani adulti», in Nuova giur. civ., 2004, suppl. al n. 3) la sottoposizione del processo minorile al procedimento camerale ex art. 737 ss. c.p.c., realizza una pericolosissima commistione tra giurisdizione su veri e propri diritti fondamentali (dei genitori e dei figli) e la «gestione» dell'interesse. pubblico alla «buona» educazione del minore, alla repressione delle devianze dei genitori o anche (nel penale) dei minori.

Nel 1934, anno cui risale l'istituzione dei tribunali per i minorenni, la mancanza a livello costituzionale (oltre che della categoria dei diritti fondamentali della persona, anche) della rigida distinzione tra giurisdizione e amministrazione, condusse (non solo) nel settore del diritto minorile all'attribuzione al tribunale per i minorenni di funzioni amministrative nell'«interesse» del minore, funzioni amministrative che sono ad un tempo (sia pure in situazione di soggezione gerarchica) attribuite ai servizi sociali.

Questa commistione oggi, a oltre sessant'anni dall'entrata in vigore della Costituzione, si pone in radicale contrasto non solo con la necessaria distinzione tra amministrazione e giurisdizione ma anche con la natura di diritti fondamentali della persona dei diritti dei minori e dei genitori.

 

6. - Di questo contrasto e del conseguente disagio a mio avviso nel gennaio 2001 si sono rese interpreti le ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale delle Corti d'appello di Genova e di Torino (entrambe redatte da due dei massimi esperti del diritto minorile).

Diverso lo stile delle due ordinanze di rimessione ma identica la sostanza della denuncia: l'art. 336, 2° e 3° comma, c.c., specie alla luce delle sue prassi applicative, non è in regola con il novellato art. 111, 1 ° e 2 ° comma, Cost.

Non è questa la sede per l'esame analitico delle ordinanze di rimessione. Basti qui osservare che la Corte d'appello di Genova prende le mosse dal rilievo secondo cui «a fronte della latitudine della norma sostanziale che individua come regola di giudizio l'apprezzamento dell'interesse del minore, e della sua lesione, il principio di legalità deve essere particolarmente intenso, se si vuole mantenere il carattere giurisdizionale del procedimento, attraverso la garanzia del rito»: ne segue·che il diritto fondamentale del genitore può essere inciso solo a seguito di un accertamento compiuto a termine di «un procedimento giudiziale che abbia, quanto meno, la prescrizione legislativa dei poteri processuali delle parti e del giudice (e consenta un controllo pieno delle parti sulla legalità degli atti del procedimento)».

L'esigenza di un giusto processo «regolato dalla legge», come oggi prevede il 1° comma dell'art. 111 Cost., contrasta platealmente con la procedura camerale ex artt. 737 ss. c.p.c., tutta rimessa «alla discrezionalità del giudice cui le parti devono soggiacere», tutta «sommaria e semplificata, non regolata dalla legge nelle sue modalità di svolgimento». «Nel novellato quadro costituzionale, “giusto processo” non può essere che quello “regolato dalla legge”: e quindi non si può non dubitare della legittimità costituzionale di una scelta normativa che affida la tutela dei diritti, in un settore fondamentale dell'ordinamento, ad un modello processuale nel quale la decisione sui diritti è emessa a seguito di un processo le cui cadenze sono affidate esclusivamente al giudice, tenuto bensì a garantire i fondamentali diritti processuali delle parti, ma secondo modalità non predeterminate, e rimesse al suo apprezzamento». «La previsione costituzionale della riserva di legge, in un contesto tanto delicato, implica la necessità che sia il legislatore a disciplinare le regole del procedimento»; specie alla presenza di prassi diversificate e distorte quali la segregazione delle relazioni dei servizi sociali, l'incontrollata estensione dei provvedimenti urgenti emessi ex officio ed inaudita altera parte; l'assenza di precisi termini per il controllo.

Dal canto suo la Corte d'appello di Torino, fra l'altro, denuncia con particolare vigore i dubbi di costituzionalità, in riferimento agli artt. 3, 24, 2° comma, 111, 1° e 2° comma, Cost. dell'art. 336, 3° comma, c.c. il quale «legittima diffuse prassi autoritarie che contraddicono il principio del contraddittorio e non rispettano il diritto di difesa: tali l'inflazione di provvedimenti assunti al di fuori di reali situazioni di necessità ed urgenza ma definiti necessari ed urgenti solo perché non preceduti dall'ascolto delle parti; la mancanza di un successivo provvedimento che a seguito dell'ascolto delle parti confermi, modifichi o revochi il provvedimento così assunto, ovvero la dilatazione nel tempo - a volte anni e anni dopo - del provvedimento successivo deliberato a- seguito di contraddittorio, in modo che il primo provvedimento di·urgenza assunto inaudita altera parte predetermina e sostanzialmente consolida la soluzione senza possibilità per le parti di opporsi».

Purtroppo la Corte costituzionale con la sentenza n. 1 del 2002; nonostante l'autorevolezza del suo estensore, sembra non aver avuto consapevolezza dei termini effettivi del problema che era sottoposto al suo esame; senza avere neanche il coraggio di emanare una chiara sentenza interpretativa di rigetto, ha emanato una (per molti versi) sconcertante sentenza processuale di inammissibilità.

La questione sollevata dalla ordinanza della Corte di appello di Genova è stata dichiarata inammissibile perché il giudice remittente non aveva motivato adeguatamente le ragioni per cui «la normativa impugnata non è suscettibile di essere interpretata in senso conforme a Costituzione». Non una parola è spesa sulla verifica della compatibilità della procedura camerale ex artt. 737 ss. c.p.c., con le esigenze del «giusto processo regolato dalla legge» di cui al novellato 1 ° comma dell'art. 111 Cost.

Analogamente la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte d'appello di Torino sopra riportata, è stata dichiarata inammissibile perché il giudice rimettente non aveva valutato la possibilità di interpretazioni costituzionalmente adeguatrici, quale l'applicabilità degli artt. 669-bis ss., ed in particolare dell'art. 669 sexies, al 3° comma dell'art. 336 c.c.

 

7. - Detto questo è però anche da dire che la sentenza n. 1 del 2002 della Corte costituzionale è stata chiara nel senso di pronunciarsi a favore dell'applicabilità ai procedimenti ex art. 336 c.c.:

a) del principio del contraddittorio, nel senso che entrambi i genitori devono essere messi in condizione di partecipare al procedimento;

b) degli art. 669-bis ss., e quindi in particolare:

b1) dell'art. 669 sexies nella sua interezza e quindi anche nel suo 2° comma che prevede l'ipotesi, eccezionale, di provvedimento emanato inaudita altera parte, e ne disciplina in modo rigoroso i limiti temporali di efficacia;

b2) dell'art. 669-octies in tema di efficacia del provvedimento di accoglimento;

b3) dell'art. 669-novies in tema di inefficacia del provvedimento;

b4) dell'art. 669-duodecies in tema di attuazione del provvedimento;

b5) dell'art. 669-terdecies in tema di reclamo.

Se questi suggerimenti della Corte costituzionale fossero stati accolti, in via di interpretazione costituzionalmente adeguatrice, da parte dei giudici dei tribunali per i minorenni, oggi non saremmo qui riuniti.

Purtroppo in molti tribunali per i minorenni è continuata la prassi, oltre che di procedere d'ufficio su diretta segnalazione dei servizi sociali, di non applicare il 2° comma dell'art. 669-sexies in ipotesi di procedimenti emanati in assenza di contraddittorio, ecc.

 

8. - In questa situazione che fare? Le strade possibili mi sembrano due, quella dell'intervento legislativo e quella di nuove rimessioni alla Corte costituzionale.

Cominciamo dalla prima.

Le linee ispiratrici di un intervento legislativo, gli obiettivi da perseguire possono così essere sintetizzati.

Innanzitutto, rottura del rapporto diretto tra giudice minorile e servizi sociali; superamento della prassi secondo cui è il giudice (e non il pubblico ministero) il destinatario e l'utilizzatore delle relazioni dei servizi sociali.

In secondo luogo, restituzione al giudice minorile non solo della sua terzietà ed imparzialità (valori lesi dalla violazione del principio della domanda e del divieto di utilizzazione del suo sapere privato formatosi fuori del contraddittorio delle parti) ma anche di garante della legalità, cioè della applicazione della legge al caso concreto sulla base di prove assunte in contraddittorio. Abolizione definitiva del giudice minorile gestore di interessi.

In terzo luogo, ristrutturazione e rivitalizzazione dell'ufficio del pubblico ministero in materia minorile. Attribuzione al pubblico ministero e non al giudice del potere di azione, di mettere in moto il processo; attribuzione solo al pubblico ministero e non al giudice della funzione di essere destinatario delle relazioni dei servizi sociali e delle loro richieste; attribuzione solo al pubblico ministero e non al giudice del compito di ricercare le fonti materiali di prova (se del caso sulla base delle relazioni o con l'aiuto dei servizi sociali) da riversare poi davanti al giudice nel contraddittorio delle parti (in questo contesto il problema della «secretazione» del materiale istruttorio scompare del tutto). Nella sostanza attribuzione al pubblico ministero dei poteri di indagine oggi a mio avviso impropriamente svolti dal giudice minorile.

Detto degli obiettivi di fondo, l'intervento legislativo dovrebbe consistere soprattutto nella riscrittura dell'art. 336 c.c. nel senso:

a) di sopprimere l'antistorico e autoritario potere del giudice di agire d'ufficio;

b) stante il carattere urgente delle controversie di cui agli artt. 330 ss. c.c., prevedere che esse, in prima battuta, devono essere trattate secondo le forme del procedimento sommario anticipatorio previste: dall'art. 669-bis, relativo alla forma della domanda introduttiva; dall'art. 669-sexies, relativo al procedimento, che eccezionalmente in via assolutamente provvisoria, può svolgersi anche inaudita altera parte; dall'art. 669-octies, 6°, 7° e 8° comma, relativi alla conservazione dell'efficacia del provvedimento sommario anche in caso di mancata instaurazione o estinzione del processo a cognizione piena; dall'art. 669-decies, relativo alla modifica e alla revoca; dall'art. 669-duodecies, relativo all'attuazione del provvedimento; dall'art. 669-terdecies, relativo al reclamo (se del caso da svolgersi davanti alla corte d'appello);

c) di prevedere la salvezza della possibilità, per ciascun genitore e per il pubblico ministero, una volta conclusosi il procedimento sommario, di adire il giudizio nelle forme del processo ordinario di cognizione (con applicazione dell'art. 669-novies, 3° comma, secondo cui il provvedimento sommario perde ogni sua efficacia se con sentenza anche non passata in giudicato è dichiarata l'insussistenza dei presupposti per l'emanazione dei provvedimenti ex artt. 330 ss. c.c.): ciò per la garanzia costituzionale del diritto di azione e di difesa, garanzia oggi platealmente pretermessa;

d) disporre per il giudice l'espresso divieto, a pena di nullità  rilevabile anche d'ufficio, di produzione o utilizzazione sotto qualsiasi specie (sia pure superficiale, sommaria, o di argomento di prova, ecc.) delle relazioni dei servizi sociali: come già accennato, destinatario delle relazioni, assunte e redatte in assenza di contraddittorio, dovrebbe essere solo il pubblico ministero specializzato il quale potrebbe trarre da esse fonti di prova (terzi a conoscenza di fatti rilevanti, documenti in senso tecnico) da riversare nel processo nel contraddittorio delle parti;

e) disporre il divieto espresso, fino a che non è passato in giudicato il provvedimento dichiarativo dello stato di adottabilità, di affidamento familiare a coniugi che abbiano presentato domanda di adozione: ciò per evitare di dar luogo ad una conflittualità e ad un consolidamento di fatto che contrasta alla radice il carattere ontologicamente provvisorio dei provvedimenti ex artt. 330 ss.;

f) prevedere la difesa d'ufficio dei genitori privi di difensori di fiducia e risolvere il problema della rappresentanza e della difesa tecnica del minore;

g) rivitalizzazione dell'ufficio del pubblico ministero minorile secondo le linee indicate poco sopra in questo paragrafo.

 

9. - Ove si eccettui il solo divieto per il giudice di agire d'ufficio, già de iure condito, muovendosi nello spirito della sentenza n. 1 del 2002 della Corte costituzionale, tutte le previsioni dell'intervento legislativo auspicato potrebbero già essere realizzate dalla prassi virtuosa dei tribunali per i minorenni, sol che si abbia un po' di sensibilità sul tema delle garanzie.

Purtroppo si è visto che molto spesso ciò non accade [2].

A me sembra, però, che, soprattutto dopo l'emanazione di Corte cost. n. 1 del 2002, il giudice che non si senta di pervenire de iure condito ai risultati interpretativi riassunti supra sub b), c), d) ed e), abbia il dovere di prendere atto che si è alla presenza di una questione di illegittimità costituzionale non manifestamente infondata, e quindi debba (abbia il dovere ex art. 101, 2° comma, Cost.) rimettere la relativa questione alla Corte costituzionale.

Le osservazioni or ora svolte circa la possibilità, già alla stregua del diritto vigente di realizzare prassi virtuose rispettose sia della necessità di provvedere in via urgente, sia del valore del giusto processo oggi solennemente affermato dall'art. 111 Cost., inducono a prendere atto che il problema dei processi minorili ex artt. 330 ss. è un problema non solo tecnico-normativo ma prima di tutto culturale.

Ben vengano quindi corsi di aggiornamento organizzati sull'argomento del Consiglio superiore della magistratura a livello accentrato e decentrato.

Ben venga una riflessione sulla diversità di ruolo tra giudice e pubblico ministero minorile, soprattutto sulla diversità di ruolo tra magistrati e servizi sociali, alla stessa stregua della diversità  di ruolo tra magistrati del pubblico ministero, giudici e polizia giudiziaria. Solo se si ha consapevolezza di queste diversità di ruolo ha senso la previsione costituzionale di non attribuire ai servizi sociali o alla polizia giudiziaria la risoluzione delle controversie minorili o delle controversie penali.

Ho piena coscienza del carattere provocatorio di una simile affermazione, ma ho ritenuto opportuno farla per non eludere la gravità dei problemi riassunti dal titolo di questa relazione dedicata alla giurisdizionalizzazione dei processi minorili c.d. de potestate.

 

10. - Prima di concludere vorrei svolgere due ultimi sinteticissimi rilievi.

A) Dopo la riforma degli artt. 114 ss. Cost. (operata dalla l. cost. 3/2001) compete alla pubblica amministrazione locale, ai servizi sociali degli enti locali elaborare strategie di sostegno delle famiglie (anche di fatto) in difficoltà (economiche o sociali in genere), elaborare provvedimenti amministrativi di intervento sociale per l'intera famiglia, i bambini o gli adolescenti in difficoltà.

Queste strategie di intervento o di sostegno non appartengono ai magistrati minorili, ai tribunali per i minorenni, ma appartengono immediatamente ai servizi sociali. Servizi sociali che sono istituiti innanzi tutto per la realizzazione di questo scopo, di questa funzione, e solo in via residuale possono assumere anche la funzione di ausiliari del pubblico ministero minorile per consentirgli di acquisire le informazioni necessarie per l'esercizio del suo potere di azione, o la funzione di ausiliari del giudice per l'attuazione dei suoi provvedimenti.

Nell'esercizio della loro funzione di sostegno, ove gli interventi dei servizi sociali non comportino l'allontanamento del minore dalla casa familiare, i magistrati dei tribunali per i minorenni (e qualsiasi altro magistrato) non sono chiamati ad intervenire in alcun modo, sono assenti del tutto.

Ove invece gli interventi dei servizi sociali comportino l'affidamento extrafamiliare del minore, occorre distinguere:

a) se vi è consenso dei genitori, la legge (art. 4 l 184/83) prevede solo un intervento formale (non di merito) del giudice tutelare allo scopo di rendere esecutivo il provvedimento disposto dal servizio sociale previo consenso dei genitori;

b) se non vi è consenso dei genitori, il servizio sociale dovrebbe rivolgersi al pubblico ministero minorile perché questi valuti se esercitare l'azione volta ad ottenere dal giudice minorile i provvedimenti ex artt. 330 ss. c.c.

B) Un'ultimissima osservazione.

Circa un anno fa recenti disposizioni di legge e circolari del Csm hanno introdotto la regola rigida secondo cui nessun giudice può trattare per più di dieci anni la stessa specie di controversie (nello stesso ufficio giudiziario). Tutti conosciamo lo sconquasso che l'attuazione di questa disposizione ha comportato nell'organizzazione degli uffici giudiziari, e come essa sia in contrasto - nella situazione di sottodimensionamento del numero dei giudici - con esigenze di efficienza nell'amministrazione della giustizia civile. Ancora, una tale regola, nella sua rigidità, appare poco comprensibile se non limitata ai giudici addetti al fallimentare e a quelli addetti nei grossi uffici alla trattazione della materia societaria e commerciale.

Orbene, indipendentemente da questi rilievi critici, la regola ora ricordata non si applica a due delicatissimi settori: quello delle controversie di lavoro e quello delle controversie devolute al tribunale per i minorenni: e ciò per la natura anche formalmente specializzata di tali uffici.

Questo mi sembra particolarmente grave poiché nei due settori or ora ricordati più forte è il pericolo che il giudice diventi troppo «parente» di uno dei due interessi in gioco: di qui l'opportunità tutta particolare che la suddetta regola c.d. decennale si applichi innanzitutto a tali giudici: ciò per garantire al meglio i valori della terzietà e imparzialità.

 

Note

 

[1] La recente modifica dell'art. 38 disp. att. c.c. (l. 10 dicembre 2012 n. 219, su cui v. G. DE MARZO, Novità legislative in tema di affidamento e di mantenimento dei figli nati fuori del matrimonio: profili processuali, in Foro it., 2013, V, 12; sui profili sostanziali della l. 219/12 cfr. G. CASABURI, ibid., 79, che segue) pur confermando l'applicazione alle controversie ex art. 317 bis c.c. della disciplina procedurale ex art. 737 ss. c.p.c., le ha sottratte alla competenza del tribunale per i minorenni.

[2] Sul difetto di sensibilità della Corte di cassazione, v., da ultimo, Cass. 8225/12, Foro it., 2012, I, 3116, con nota di richiami, che continua a confondere il requisito della (non) definitività con quello della decisione rebus sic stantibus in quanto relativa a rapporti di durata.

5.   Breve conclusione

 

di Andrea Proto Pisani

 

L'Europa, attraverso i finanziamenti privilegiati e straordinari, con riferimento alla giustizia civile chiedeva la riduzione e l'accelerazione dei processi, e pertanto soprattutto dei processi a cognizione piena e dei processi esecutivi.

Certamente l'Italia, e in particolare il Ministero della giustizia potevano estendere l'intervento urgente richiesto dall'Europa anche ai processi sommari attualmente previsti dal IV libro del c.p.c. ed in particolare:

a) ai processi sommari giustificati da esigenze di economia dei giudizi, caratterizzati dalla probabilità che si sia all'assenza non di una contestazione del se ma solo dalla volontà dell'obbligato di non volere adempiere: sono le ipotesi dei procedimenti per ingiunzione e da sfratto a seguito di scadenza o ravvicinata scadenza della locazione;

b) ai processi in cui il convenuto "abusi" del diritto di difesa, sollevando contestazioni o eccezioni "manifestamente" infondate: sono le ipotesi di c.d. condanna immediata con riserva di esame nell'ulteriore, eventuale, svolgimento del processo l'esame funditus delle eccezioni o contestazioni riservate: attualmente queste ipotesi sono tipiche ma da tempo importanti studi storici-dogmatici italiani e la rilevanza in Francia del c.d. référé provision hanno indotto l'attuale intervento legislativo ad adottare in via atipica ora secondo modalità che hanno, non si sa perché, in forme diverse da una recente proposta fiorentina;

c) ai processi contumaciali in materia di diritti disponibili attribuendo significato di ammissione o non contestazione legalmente presunta alla mancata costituzione del convenuto; anche in questo non si comprende perché l'attuale intervento legislativo non si sia avvalso della completa e garantista proposta fiorentina;

d) quanto infine alla tutela cautelare, alla presenza della riforma della I. n. 353/1990 (integrata da modifiche successive) direi che l'urgenza dell'intervento legislativo non consentiva la necessaria riflessione su proposte da me più volte avanzate di estensione di tale specie di tutela a soggetti diversi dagli imprenditori o proprietari;

L'osservazione effettuata da ultimo rende poco comprensibile perché l'intervento urgente richiesto dall'Europa abbia indotto il Ministero della giustizia ad occuparsi oggi anche di materie in rapida evoluzione come la separazione e il divorzio naturalmente destinate a confluire, in caso di controversia fra i coniugi, in un unico processo, progressivamente ancora a diminuire di numero.

Residuava solo il processo minorile. Avrebbe dovuto essere noto che si tratta di materia altamente incandescente, che necessita di certo di una radicale riforma, come è reso evidente anche dai pochi scritti pubblicati in questo dossier; l'unico dato certo che emerge dalla lettura è, sembra essere, la soppressione dell'inquadramento nel processo camerale; ma eliminata questa forma, nella sostanza i problemi reali restano intatti. Ciò perché una qualsiasi riforma della materia aveva bisogno di poter prescindere dai tempi ristretti imposti dall'Europa. Dei tempi necessari cioè per riflessioni pacate di carattere costituzionale, sistematico e storico per sbrogliare un tema destinato ad incidere su diritti fondamentali di persone deboli che proprio a causa della loro debolezza si trovavano coinvolte in un processo.

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