Sommario:
- 1. Attorno alle strutture rimediali delle sopravvenienze.
- 2. La posizione del legislatore pandemico.
- 3. Rinegoziazione e autodeterminazione delle parti.
- 4. I parametri guida della rinegoziazione.
- 5. (Segue): «equo» e solidale «contemperamento degli interessi delle parti» (art. 1371 c.c.).
- 6. Gli accordi di ristrutturazione della filiera produttiva. Cenno.
- 7. Intervento conformativo del giudice.
- 8. Obbligo di rinegoziazione e canone di buona fede.
- 9. (Segue): l'impatto nel diritto vivente.
- 10. La buona fede di rinegoziazione come criterio di lettura di altre norme.
- 11. L'eventualità di una rinegoziazione assistita per via extragiudiziale.
- 12. La proposta dell'associazione Civilisti Italiani.
1. Attorno alle strutture rimediali delle sopravvenienze.
Molto si parla, nei tempi di quest'emergenza, della rinegoziazione dei contratti pendenti. Il tema, può dirsi, rappresenta uno dei crocevia del dibattito che la pandemia è venuta a innescare.
Comunemente si segnala la diffusa esigenza di una simile operatività; taluni (pur pochi) ne affermano la positiva esistenza in termini di «obbligo»; frequente, in ogni caso, è il giudizio di opportunità di una soluzione orientata in tal senso [1]. Altri si spinge sino a designarla come la «strada maestra per salvaguardare il rapporto» [2].
In effetti, il rimedio generale dell'impossibilità sopravvenuta è di uso oggettivamente selezionato: molte volte, nel caso pandemico, la fattispecie non propone un'impossibilità (definitiva o temporanea e/o parziale). Manifesta, piuttosto, una difficoltà di adempiere (nell'esecuzione della prestazione e/o nell'apprestamento dei mezzi occorrenti per l'esecuzione). E ciò non solo, è naturale, in relazione alle obbligazioni pecuniarie.
L'eccessiva onerosità, poi, è rimedio che, stando in specie alla tradizionale e corrente ricostruzione della fattispecie rilevante, ha ben poche chances di riuscita: che, anche di fronte a vicende così «dirompenti» come le pandemie, può sembrare pressoché inutile [3]. Comunque, e soprattutto, nella versione delineata nell'art. 1467 c.c., il rimedio è di eliminazione radicale del futuro del rapporto: nella maggioranza dei casi, per contro, l'attuale emergenza sembra proporre problematiche di carattere solo temporaneo (o, almeno, così si confida).
D'altra parte, la rinegoziazione appare strumento in sé stesso morbido e alquanto flessibile. Nulla ovviamente esclude che essa si orienti, a livello concreto, su termini e modalità di un exit contrattuale; peraltro, la figura sembra spiccatamente vocata a condurre verso una prosecuzione del rapporto, con ridefinizione appunto del relativo programma negoziale (per misura delle prestazioni e magari anche per oggetto; sui tempi dell'adempimento; per le garanzie; le clausole penali; ecc.). Si tratta, comunque, di un rimedio da ascrivere al genere di quelli di sostanza correttiva: nel minimo, quanto a una conveniente modulazione dei termini di uscita dal contratto.
2. La posizione del legislatore pandemico.
Nonostante ciò, il legislatore della presente pandemia non ha ritenuto di provvedere al riguardo. O meglio: ad oggi non ha predisposto set normativi che - in generale, per categorie contrattuali, per singole fattispecie – dichiarino un dovere delle parti di procedere a rinegoziare il rapporto contrattuale tra loro pendente al sopravvenire pandemico.
Anche se – si deve pure annotare – per certe fattispecie peculiari, dichiarata la «sopravvenuta impossibilità della prestazione», ha dettato espresse discipline di carattere (non eliminatorio, ma) «sostitutivo»: così, ad esempio, ha assegnato al contraente liberato la facoltà di fornire all'altro un «voucher» per un diverso spettacolo o per un'altra vacanza (art. 88, legge «cura Italia») [4] ovvero per un altro periodo di fruizione della palestra o della piscina (art. 216 comma 4 decreto rilancio); come anche, constatato «il sopravvenuto squilibrio dell'assetto di interessi pattuito con il contratto di locazione» di palestre e piscine, ha d'autorità disposto la riduzione dei relativi canoni per un periodo di alcuni mesi (art. 216, comma 3, decreto ult. cit.) [5]. E pure ha dettato – e su questo punto (centrale nell'economia della legislazione odierna; cfr. infra, n. 10) – la norma «generale» dell'art. 91 legge «cura Italia».
Si possono pensare tante, e variate, cose della detta omissione: nell'attuale, comunque un'(eventuale) applicazione dell'idea di rinegoziazione dovrebbe passare attraverso la lettura – «nuova», magari, o anche riedita; in ogni caso importante – di vecchi istituti o, casomai, per il tramite di una lettura «forte», o «forzante», di quanto introdotto dal legislatore dell'oggi.
3. Rinegoziazione e autodeterminazione delle parti.
Nei fatti, però, fermarsi all'idea della rinegoziazione in quanto tale appare davvero troppo poco: la formula non ha valenza magica. Il tema non finisce con la sua evocazione: inizia qui, piuttosto. Altrimenti – si è efficacemente rilevato – la «rinegoziazione dell'emergenza sanitaria somiglia a qualsiasi negoziazione, in cui vince il più forte» [6].
Dunque, la rinegoziazione non può essere rimessa alle libere determinazioni delle parti. Non nel suo esserci [7]. Né nei suoi contenuti: e cioè per i parametri guida delle regole contrattuali sostitutive.
Con la precisazione, forse non del tutto scontata, che - dei due lati di cui aspira a comporsi il rimedio alle sopravvenienze, che è dato dalla rinegoziazione - la palma della (primaria) rilevanza va data al positivo esito di un intervento modificativo dell'originario tessuto contrattuale e adatto al bisogno, non certo alla circostanza dell'approccio diretto tra le parti in funzione di «trattative» modificative. A contare, insomma, è il risultato, non già il tentativo.
4. I parametri guida della rinegoziazione.
Paradossalmente (ma neppure tanto, forse), a me sembra meno arduo provvedere in relazione al secondo dei macro-aspetto cennati (quello dei parametri guida, cioè), pur nell'evidente riconoscimento della sua tutt'altro che lieve problematicità.
Perché nella specie si tratta, in fondo, di assorbire – e di distribuire - gli effetti negativi e le difficoltà che la pandemia viene a creare rispetto all'assetto dato dai termini dell'originario contratto: di porre rimedio a una congiuntura (pur certo gravissima) [8], non già a vizi di struttura basica del mercato e/o della società e/o di quel rapporto.
Nell'attuale, anzi, la rinegoziazione dovrebbe anche servire per concorrere allo scopo di scongiurare una simile eventualità (quella, cioè, del transito da congiuntura a elemento strutturale del mercato): a mezzo di mantenimento del rapporto, ove oggettivamente fattibile; a mezzo di opportune e ragionevoli condizioni di chiusura del rapporto, in difetto.
5. (Segue): «equo» e solidale «contemperamento degli interessi delle parti» (art. 1371 c.c.).
Non sembra vi sia poi bisogno di sottolineare – visto che di rinegoziazione si sta discorrendo, nel senso appunto di modifica e rimodulazione di un contratto già in essere [9] – che la indicata distribuzione delle negatività pandemiche dovrebbe avvenire lungo la linea fissata dal criterio «dell'equo contemperamento degli interessi delle parti», secondo quanto stabilito dalla norma dell'art. 1371 c.c.
Linea, questa, (non già «corretta», bensì) ab intrinseco innervata – ciò che, a fronte a un diritto vivente troppo spesso dimentico dell'esistenza dei valori costituzionali, occorre invece puntualizzare – dal necessario ricorso al principio di solidarietà economica e sociale (art. 2 Cost.): che prima di ogni altra cosa consiste, invero, nell'andare in soccorso alle altrui sofferenze, per mitigarle.
Non è facile immaginare, in realtà, una situazione in cui il principio di solidarietà possa prendere più urgenza che nella presente. Né pare agevole pensare a una situazione in cui il principio possa venire a dare colore e pregnanza sostantiva alla richiesta della legge di un contemperamento di interessi che, nel concreto, risulti effettivamente «equo» [10].
6. Gli accordi di ristrutturazione della filiera produttiva. Cenno.
Pur rapide, altre due osservazioni si pongono, a questo punto, come opportune.
La prima è che, nell'oggi, non risultano prevedibili tutti gli effetti negativi (per qualità e per quantità) della pandemia. Sarebbe assurdo che la rinegoziazione non tenesse conto di questa circostanza (in sé determinante, volendo ben vedere) [11]: i rilievi appena effettuati (se non altro) indicano che risposta congrua a questo profilo problematico non può essere l'allocazione definitiva e compiuta del relativo rischio su uno dei contraenti; occorre piuttosto la previsione di mantenere aperta (aggiornata) la via della rinegoziazione: occorre darle, insomma, il tratto espresso della continuità.
L'altra osservazione muove dal riscontro della realtà operativa. Se in molte occasioni la rinegoziazione del singolo rapporto contrattuale può risultare strumento idoneo (esemplare il caso della locazione commerciale, che spesso rappresenta, per le piccole imprese, il costo industriale di gran lunga più pesante) [12], in altre non appare invece sufficiente per porre rimedio al bisogno reale che l'operatività manifesta.
Il riferimento va, in modo particolare, a quei contratti che risultano immediata espressione di (stringenti) filiere produttive: la catena di dipendenze che viene così a determinarsi mostra che, per questa tipologia di situazioni, la rinegoziazione – potere essere realmente efficacie - dovrebbe avere oggetto più ampio, a seguire (da un certo stadio in poi) la stessa linea contrattuale di formazione del prodotto.
Per queste situazioni struttura acconcia si manifesta, dunque, la rinegoziazione, da parte dei più contraenti interessati, della contrattualistica della filiera: o in termini unitari (in termini, così, di accordo di «ristrutturazione della filiera produttiva») [13] o, quantomeno, coordinati.
7. Intervento conformativo del giudice.
Nel transito verso la questione relativa all'effettiva esistenza di un dovere di rinegoziazione dei contratti pendenti in ragione della sopravvenuta pandemia si pone un importante problema «intermedio», di cui occorre dare conto.
Si ipotizza, dunque, un dovere legale di rinegoziazione: come destinato, peraltro, a sfociare in un nuovo contratto, per l'appunto «modificativo» dell'originario ex art. 1321 c.c. Bandita a priori ogni eventuale rilevanza dei comportamenti opportunistici che, nel caso, siano tenuti da una delle parti del contratto [14], si tratta in realtà di individuare i termini contenutistici di questo nuovo - e modificativo - accordo.
Il punto non è, all'evidenza, il margine di discrezionalità che si apre nella scelta delle nuove e sostitutive condizioni: inevitabile, una banda di elasticità appare in principio senz'altro tollerabile. Il punto attiene, invece, alla definizione del ruolo da assegnare al giudice: che appare stretto nell'ineludibile alternativa tra provvedimento solo risarcitorio e intervento per contro conformativo – pur entro i limiti, direi, delle richieste in concreto formulate dalla parte interessata – delle condizioni sostitutive del contratto originario.
Nella prospettiva di questo secondo corno – la cui adozione appare necessaria per la reale credibilità dello strumento della rinegoziazione – appare fattore di orientamento la norma dell'art. 2932 c.c. A convincere, peraltro, sono soprattutto gli strumenti correttivi delle conseguenze delle sopravvenienze che il legislatore ha delineato negli artt. 1464 c.c. (per l'impossibilità parziale) e 1468 c.c. (per l'eccessiva onerosità nei contratti con obbligazione per una sola parte) c.c.: ché pure in queste situazioni – a cui la rinegoziazione appare intuitivamente prossima [15] – si tratta di «costruire» i termini contenutistici di una prestazione di ordine sostitutivo.
8. Obbligo di rinegoziazione e canone di buona fede.
Già si è detto che il punto dell'eventuale esistenza, nell'ambito del sistema vigente, di un dovere di rinegoziazione - in ragione della sopravvenienza pandemica - si manifesta particolarmente delicato.
Per fondarlo, non sembra vi siano alternative – tra gli strumenti generali della materia contrattuale – che il fare leva sul canone della buona fede oggettiva. Al più, potrebbe essere di un qualche ausilio la clausola di giusta causa: solo, però, nel ristretto significato di poter eventualmente fondare una facoltà di recesso dal rapporto (cfr. nel corso del n. 1), le condizioni di esercizio del quale rimanendo in ogni caso governate dal canone della buona fede.
Ora, fare effettivamente leva su questa clausola generale è possibile, forse. E tuttavia, a me pare, per il medio di un ragionamento che si presenta un poco articolato e tutt'altro che scontato.
In sostanza, il ragionamento muove dal riconoscimento che il sistema vigente conosce due forme operative della buona fede oggettiva: quella integrativa (art. 1375 c.c.) e quella valutativa (arg. ex art. 1460, comma 2, c.c.) [16]; e viene, nel suo svolgimento, a utilizzare sia l'una che l'altra.
Nel senso che la sopravvenienza pandemica può rendere non iure lo svolgimento del rapporto nei termini convenuti dal contratto originario: secondo una valutazione propriamente da compiere nel campo della fattispecie concreta. Segue la valutazione che, nel concreto, non iure appare, altresì fare senz'altro cessare il rapporto (come si vede, sin qui il ragionamento adopera lo schema dell'exceptio doli generalis). Posta una situazione siffatta, interviene allora la buona fede integrativa a richiedere l'adozione di congrue condizioni contrattuali, sostitutive di quelle originarie.
9. (Segue): l'impatto nel diritto vivente.
Non v'è dubbio che il ragionamento sin qui svolto predichi un utilizzo molto forte del canone della buona fede oggettiva. Non solo sotto il profilo dei contenuti della invocata rinegoziazione. E forse neppure tanto sotto questo profilo, mi pare di poter ritenere: ché, a conti fatti, quelli indicati si pongono sulla linea di base del buon senso sociale – in luogo di più o meno accentuati individualismi - e della lettura solidaristica delle fattispecie, come pure imposta dalla Costituzione [17]. Quanto, piuttosto (o soprattutto), sotto il profilo della conformazione strutturale d'intervento del canone, nei termini appena sopra riscontrati: a frangere e a riscostruire fattispecie contrattuali [18].
Se si trasporta – come pure si deve - questo rilievo sul piano del diritto applicato, ne segue che l'effettiva utilità dello strumento della rinegoziazione a risolvere i problemi creati dalla pandemia sui contratti già in corso di esecuzione si manifesta oggettivamente assai incerta. Tanto più che non constano interventi della Cassazione sul punto della rinegoziazione (in genere) e che, anzi, il recente intervento delle Sezioni Unite (19 ottobre 2017, n. 24675) in tema di usura sopravvenuta nel mutuo palesa sensibili chiusure nei confronti delle sopravvenienze contrattuali (come peraltro legate, nel caso esaminato, a ordinari fattori di evoluzione del mercato).
10. La buona fede di rinegoziazione come criterio di lettura di altre norme.
Ciò tuttavia non esclude - anche sul piano del diritto vivente - che l'idea, che sta alla base della teorica della rinegoziazione, possa comunque svolgere un ruolo di segno positivo nella soluzione di questi problemi pandemici. E così, in via segnata, nell'orientare e dirigere, a me pare, la lettura di altri strumenti normativi, in qualche modo più «immediati»: come sfondo di riferimento o anche, volendo, come chiave di supporto integrativo [19].
Il riferimento va, in particolare, alla disposizione dell'art. 91 legge «cura Italia» [20], norma generale introdotta dal legislatore emergenziale per i contratti già pendenti e norma non dotata di spazio applicativo solo temporaneo (come tante altre emanate nell'occasione), bensì «definitiva».
Ora, il tenore di questa disposizione appare ragionevolmente ricostruibile [21] – in base a una lettura attenta del suo testo – nel senso di consegnare al giudice (anche) il potere di fissare – con intervento conformativo sulle modalità di esecuzione dell'obbligazione – il nuovo momento di scadenza dell'obbligazione (per cui viene richiesta la tutela in discorso). La possibilità di un simile intervento rimediale, in effetti, può essere ritenuta implicita nel congiunto richiamo alle norme dell'art. 1218 e 1223 c.c.: ché l'ammissibilità di un intervento che coniughi pro rata temporis le due manipolazioni sembra proprio trasparire dal contesto normativo [22].
Profilo assai delicato si mostra, invece, quello attinente all'eventuale potere del giudice di «modificare» equitativamente la prestazione dovuta dal debitore in oggettiva difficoltà ad adempiere (fuor dall'ambito risarcitorio, naturalmente [23]): per riduzione o, comunque, per alterazione dell'oggetto.
Per sé, il tema della conformazione della prestazione dovuta potrebbe sembrare un po' estraneo all'orizzonte della norma, che muove da una considerazione di taglio risarcitorio (come comunque comprensivo del ritardo nell'adempimento, si è appena visto). Non v'è dubbio, però, che una simile eventualità costituirebbe una spinta (assai più) potente per condurre gli intendimenti delle parti verso la strada della rinegoziazione.
È allora da chiedersi se non sia sfruttabile a questo riguardo proprio l'impostazione fondante della buona fede oggettiva, quale base normativa per dare sfogo e soddisfare, nel caso occorrente, l'esigenza di adozione di contenuti sostitutivi degli accordi negoziali originari. E ciò anche facendo leva, in una prospettiva di tensione unitaria – e, va anche aggiunto, pandemica -, sulle norme che, in caso di sopravvenienze rilevanti sull'esecuzione contrattuale, ammettono il giudice a rideterminare la misura della prestazione dovuta dal debitore (artt. 1464 e 1468); come pure delle disposizioni introdotte dall'attuale legislatore pandemico in punto di sostituzione per «equivalente» di prestazioni divenute impossibili) ovvero ancora di rideterminazione dei canoni relativi ai «contratti di locazione di palestre, piscine e impianti sportivi» (si v. già sopra nel n. 2).
11. L'eventualità di una rinegoziazione assistita per via extragiudiziale.
Si è osservato che la «rinegoziazione dell'emergenza sanitaria» porta con sé, intrinseco, il rischio che ogni accordo «avvenga davanti al giudice»: ciò che «è di fatto impossibile» [24]. Il rilievo è serio, importante. Nel presente, il numero dei magistrati è sotto organico; l'organico attuale, ancor prima, appare in sé stesso non sufficiente.
Il rilievo, tuttavia, appare in buona sostanza scentrato. È facile previsione, infatti, che la pandemia in essere porterà con sé una grossa lievitazione del contenzioso civile. La gravità dell'attuale situazione economica parla proprio da sola. Questo problema, dunque, è del tutto indipendente dallo strumento della rinegoziazione: c'è comunque.
Anche perché la crisi è del mercato: la crisi dei contratti pendenti non è, dunque, che il primo anello di una catena, che rapida procede verso la crisi dei contratti inerenti alla filiera produttiva e quindi vira verso la crisi delle imprese del relativo settore; e via così a dilatarsi in modo esponenziale.
In ogni caso occorrerebbe, perciò, un pronto intervento del legislatore pandemico (pure) per questi riguardi. Che potrebbe anche dipanarsi – secondo una linea che in letteratura sembra stare emergendo – mediante la previsione di apposite strutture (ovvero «organismi») di risoluzione delle dette crisi, secondo i diversi livelli in cui queste vengono a disporsi [25]. E che ben può venire incoraggiata sin dal livello relativo alla rinegoziazione dei contratti pendenti: ferme le condizioni, però, che si tratti di un'assistenza non già di taglio mediatore, bensì di sostanza decisoria e che sia garantita l'elevata professionalità delle strutture decisorie.
12. La proposta dell'associazione Civilisti Italiani.
In questi giorni, l'associazione Civilisti Italiani [26], ha auspicato – riprendendo, per certi versi, un punto contenuto nel DDL Senato 1151, di delega al Governo per la revisione del codice civile [27] – l'adozione di un decreto delegato, che «inserisca dopo l'art. 1468 c.c. un nuovo articolo, il 1468-bis, che consenta alla parte pregiudicata di chiedere la rinegoziazione secondo buona fede delle condizioni contrattuali»: è «congrua» – si è in particolare osservato – «l'idea di tradurre l'obbligo di rinegoziare secondo buona fede nel potere-dovere delle parti di formulare proposte e controproposte di adeguamento fondate su ragioni giustificate»; «non sembra invece opportuno (ma il punto è controverso) affidare al giudice il potere di determinare le nuove condizioni contrattuali».
La proposta sollecita più riflessioni, anche al di là delle concordanze e delle non concordanze già emerse nello svolgimento delle presenti note. Due in particolare. Che passo brevemente a enunciare.
Là dove predica la conservazione dell'attuale norma dell'art. 1467 c.c., la proposta sembra presupporre come fattispecie rilevante della nuova disposizione una nozione di «eccessiva onerosità» diversa – e meno «impeditiva» - dell'asfittica versione che la comune opinione ritiene oggi presente nel codice. Non è invero pensabile – e tanto meno nella contingenza attuale – che la proposta intenda imporre al contraente [28], pregiudicato da una situazione che già presenti gli estremi di cui al vigente art. 1467 c.c., l'ulteriore chicane di una rinegoziazione, in thesi destinata solo a peggiorare la posizione così acquisita.
In punto di fattispecie, il problema di una «nuova» disposizione sull'eccessività è questo: la proposta non esplicita una «nuova» nozione [29]. Peraltro, potrebbe anche non essere inopportuno, a me pare, passare proprio ad abrogare la norma dell'art. 1467, sostituendola con più moderna ed equa previsione. Ché, anzi, l'occasione potrebbe essere adatta, in fondo, per una rimeditazione generale del fenomeno delle sopravvenienze contrattuali (prima in punto di fattispecie rilevanti e, poi, nella costruzione di opportune discipline). Come anche intesa a coordinare, nel contesto di una visione unitaria, le più norme sparse nel codice con riferimento a singoli contratti (cfr., così, gli art. 1818, 1623, 1664 c.c.); e, nel caso, altresì a valorizzare (per la costruzione delle fattispecie e/o delle discipline) i portati delle norme emergenziali che via via il legislatore sta sfornando.
L'altra riflessione si sostanzia nel rilevare che, nei termini in cui l'ha concepita l'Associazione, la nuova norma sembra essere distonica rispetto al contesto del sistema vigente. Abbandonato lo schema – fattispecie e disciplina – predisposto dall'art. 1467, il riferimento va qui diretto al sistema di disciplina sostitutiva che risulta delineato nella norma dell'art. 1468. Il confronto fa subito emergere due discontinuità.
Perso, con l'introduzione di una legge apposita, il ruolo di struttura portante di un obbligo di rinegoziazione, la buona fede – a cui pure si richiama la proposta – diventerebbe criterio guida dei contenuti da inserire nella rinegoziazione. La norma dell'art. 1468 c.c. richiama tuttavia l'equità. La diversità non pare giustificata: tanto più che, come si è visto (n. 5), la nozione di equità risulta direttamente ricollegabile a quella di contemperamento degli interessi delle parti, di cui all'art. 1371 c.c.
Nel sistema presentato dall'art. 1468 c.c., è il giudice a stabilire, nel difetto di accordo tra le parti, i termini contenutisti della prestazione sostitutiva (per riduzione e/o per modificazione delle modalità esecutive). La stessa falsariga è adottata, di base, dalla norma dell'art. 1464 c.c. (cfr. già sopra, n. 7). Pur se il punto viene dichiarato «controverso», la proposta dell'Associazione si orienta invece per assegnare al giudice compiti meramente risarcitori [30]: preferendo lasciare integro, così, il contratto originario. Com'è evidente, si tratta di strutture frontalmente contrapposte (cfr. n. 7). La seconda ferisce a morte il sistema rimediale delle sopravvenienze.
Riferimenti bibliografici:
[1] Il censimento dei contributi editi in questi tempi di pandemia e la ricognizione dei «padri nobili» della figura della rinegoziazione di contratti esulano dagli intendimenti del presente lavoro. Basta qui ricordare che, nel concreto, le acque sono state in sostanza «smosse» da due scritti proto pandemici: F. DI MARZIO, Comunità. Affrontiamo la nostra prova; F. MACARIO, Per un diritto dei contratti più solidale in epoca di “coronavirus”, entrambi comparsi su Giust.civ.com.
I lavori apparsi in questi mesi sono quasi tutti postati su siti internet; la bibliografia riportata in tali lavori conduce poi agevolmente alla letteratura non d'occasione.
[2] M. RABITTI, Pandemia e risoluzione delle future controversie. Un'idea «grezza», in www.diritto.bancario.it, 23 aprile 2020.
[3] Cfr., con diretto riferimento alla norma dell'art. 1467 c.c. A. GENTILI, Una proposta sui contratti d'impresa al tempo del coronavirus, in Giustiziacivile.com, 2020; U. SALANITRO, La gestione del rischio nella locazione commerciale al tempo del coronavirus, ivi.
[4] Su questa disposizione v. F. GIGLIOTTI, Considerazioni in tema di impossibilità sopravvenuta, per emergenza epidemiologica, di prestazioni dello spettacolo e assimilate, Giustiziacivile.com, 2020, che a p. 250 sottolinea, in specie, come si tratti di disposizioni di «sostegno di attività economiche pregiudicate dall'emergenza epidemiologica in atto».
[5] La norma pure dichiara testualmente che la riduzione viene disposta «ai sensi degli articoli 1256, 1464, 1467 e 1468 c.c.».
[6] D. MAFFEIS, Problemi dei contratti nell'emergenza epidemiologica da Covid-19, in Giustiziacivile.com, 2020.
[7] Per la verità, come figura di pura autonomia la rinegoziazione contrattuale non sembra sollecitare, in linea di principio almeno, rilievi particolari. Tanto più che, nella impostazione tradizionale, l'interesse va comunque (e significativamente) a focalizzarsi sulla rinegoziazione non del contratto, ma dell'obbligazione: cfr., per la linea strutturale, la disciplina della novazione; per quella funzionale, della datio in solutum, della cessione dei beni ai creditori.
[8] Oltre questa soglia (e a prescindere da quanto si viene ad accennare sul tema sulla filiera produttiva), il problema non ha più una dimensione di ordine «contrattuale», quanto ormai quella della (più o meno accentuata e/o variata) crisi d'impresa. Il che fa trapassare la materia a un altro dei crocevia del dibattito portato dalla pandemia: qual è appunto quello composto, da un lato, dalla giustificatezza o meno della mancata entrata in vigore di una o più parti del Codice della crisi e, dall'altro, dall'eventuale introduzione di procedure leggere per la soluzione di crisi temporanee delle imprese (tra amministrazione vigilata e concordato semplificato, per dire).
Per primi riferimenti in proposito si può rinviare ai tanti contributi apparsi in www.ilcaso.it e alle segnalazioni contenute in Comparative Covid Law.
[9] Quanto meno a livello operativo, un contratto di rinegoziazione può risultare molto vicino a una transazione. A me pare importante tenere rigidamente distinti i due fenomeni, soprattutto in ragione dei regimi di vizi che, nel sistema attuale, assiste il secondo.
[10] Rispetto al principio solidaristico – è da rilevare – «sarebbe scuramente errato fermarsi a una lettura posata sul solo debitore, senza dunque tenere conto di quella del creditore … e senza perciò procedere anche una comparazione, in chiave solidaristica, tra i detti due poli … Più ampiamente, anzi, occorre tenere in adeguato conto la complessiva posizione che connota le parti rispetto al titolo (contrattuale o non) che, nel concreto, governa il rapporto … Né d'altra parte si potrebbe trascurare - più ampiamente ancora - l'eventuale inserimento dell'operazione, che viene in concreto rilievo, nel contesto di uno specifico mercato di riferimento» (cfr. A.A. DOLMETTA, «Misure di contenimento» della pandemia e disciplina dell'obbligazione in Banca borsa tit. cred., 2020, I, 151 ss.).
[11] Cfr., in specie, D. MAFFEIS, Problemi dei contratti nell'emergenza epidemiologica da Covid-19, cit.; A, DOLMETTA, Prospettive e problemi del credito pandemico coperto da garanzia statale, in Riv. dir. bancario, 2020, 281.
[12] Diversamente orientato in proposito sembra A. GENTILI, Una proposta sui contratti d'impresa al tempo del coronavirus, cit., nella parte finale del n. 5.
[13] Per spunti in proposito v. A.M. SANDULLI, AGCM e tutela del consumatore ai tempi del coronavirus, in www.federalismi.it, 2020.
Un abbozzo di ristrutturazione della filiera contrattuale può forse leggersi nei commi 3 e 4 dell'art. 216 d. rilancio
[14] Cfr. sul punto A. GENTILI, Una proposta sui contratti d'impresa al tempo del coronavirus, cit., settimo capoverso del n. 7.
Vero è che il comma 3 dell'art. 1467 sembra invece abilitare il contraente avvantaggiato dall'eccessiva onerosità a tenere comportamenti opportunistici: tuttavia, il carattere del tutto eccezionale di questa disposizione sembra evidente, come pure il sospetto della sua incostituzionalità per contrasto (se non altro) con il principio base di solidarietà.
[15] Non pare dubbio, infatti, che il canone della buona fede oggettiva importi, per il soggetto la cui prestazione è diventata parzialmente impossibile o eccessivamente onerosa, un dovere di interpello dell'altro contraente, in prevenzione dell'azione giudiziale.
[16] Su questi profili , A.A. DOLMETTA, Exceptio doli generalis, in Borsa borsa tit. cred., 1998, I.
[17] Non sembra peraltro allineato con i contenuti espressi nel testo quelli affermati nel DDL Senato 1151 (presente legislatura), di delega al Governo per la revisione del codice civile: cfr. infra, la nota 27.
[18] Su quest'aspetto v. anche l'ultima parte del lavoro, sub n. 12.
[19] Per qualche spunto, ulteriore rispetto a quanto si viene a indicare nel testo, rinvio a Contratti pendenti e pandemia, di prossima pubblicazione in Il processo civile solidale a cura di De Santis e Didone.
[20] «Il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è sempre valutata ai fini dell'esclusione, ai sensi e per gli effetti degli artt. 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all'applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati od omessi pagamenti».
[21] Per l'approfondimento dei diversi temi implicati dalla norma dell'art. 91 v. «Misure di contenimento» e Contratti pendenti, cit.
[22] «È da aggiungere che a ben vedere – e cioè proseguendo sulla falsariga evocata da quest'ultimo rilievo – il potere del giudice può andare a toccare non solo le rate (già) scadute, ma pure quelle ancora a scadere (inevitabile il richiamo, in proposito, alla norma generale, e nobilissima, dell'art. 1183 c.c.). Come pure può condizionare l'assegnazione del nuovo termine all'apprestamento di apposite cautele, anche ai sensi dell'art. 1179 c.c. E anche provvedere, per lo sviluppo futuro del rapporto, sulle (ulteriori) modalità di esecuzione della prestazione debitoria (rateizzazione; luogo dell'adempimento) e sui poteri da consentire al creditore in proposito, a muovere dal punto della decadenza dal beneficio del termine ex art. 1186» (così in Contratti pendenti e pandemia, cit.).
[23] La parte dell'art. 91 che richiama le «penali» (cfr. nota 20) riprende la norma generale dell'art. 1384 c.c.: pur se – va aggiunto – il valore che quest'ultima disposizione dà all'«interesse del creditore» deve essere qui mediato dal rilievo oggettivo del fatto pandemico e dalla necessaria applicazione del principio di solidarietà costituzionale.
[24] D. MAFFEIS, op. cit.
[25] La proposta è stata formulata da M. RABITTI, Pandemia e risoluzione delle future controversie. Un'idea «grezza», cit.
[26] Una riflessione e una proposta per la migliore tutela dei soggetti pregiudicati dagli effetti della pandemia, sul sito dell'Associazione, 7 s.
[27] L' art. 1, comma 1 lett. i. del d.d.l. recita: «prevedere il diritto delle parti di contratti divenuto eccessivamente onerosi per cause eccezionali e imprevedibili di pretendere la loro rinegoziazione secondo buona fede o, in caso di mancato accorso, di chiedere in giudizio l'adeguamento delle condizioni contrattuali in modo che sia ripristinata la proporzione tra le prestazioni originariamente convenuta tra le parti».
[28] Che il contraente pregiudicato al punto da potere utilmente invocare la protezione data dalla norma dell'art. 1467 possa, ove interessato, promuovere la via della rinegoziazione è ipotesi, mi pare, che non ha bisogno di un'apposita prescrizione normativa.
[29] Per ragione ritengo non condivisibile la critica mossa in proposito da CAPAREZZA FIGLIA, Coronavirus e locazioni commerciali. Un diritto eccezionale per lo stato di emergenza?, riportato in Comparative Covid Law, per il quale «invocare una nuova disciplina della rinegoziazione … trascura che l'incidenza dell'emergenza COVID-19 e delle relative misure di contrasto non si atteggia generalmente a causa di eccessiva onerosità sopravvenuta».
[30] A sostegno di questa (prevalente) opinione l'Associazione scrive che la stessa è motivata sia dalla «eccessiva compressione» che la soluzione conformativa «determinerebbe dell'autonomia privata e della libertà di iniziativa economica garantita dalla Costituzione (art. 41)», sia dalle «ragioni per cui la migliore dottrina, e in specie quella di indirizzo gius-economico, perentoriamente esclude l'idoneità del giudice a “fare il contratto”».
A me pare che la prima di queste ragioni soffra di una visione alquanto unilaterale del vigente sistema costituzionale. Quello di autonomia viene invero a confrontarsi con l'intero assetto dei principi costituzionali, declinandosi per l'effetto: dal «nucleo indisponibile» della solidarietà sociale ed economica, in specie, al necessario rispetto dell'«utilità sociale» e della «dignità umana» di cui all'art. 41 comma 2, che per l'appunto si pongono come barriere comunque non superabili dall'autonomia dei singoli
Al di là della constatazione che collide con un considerevole numero di norme vigenti (quali, per fare solo un esempio, quelle appena citate nel testo), l'altra ragione addotta denuncia venature di autoreferenzialità, non essendo indicati i motivi per cui la professionalità imparziale del giudice non sarebbe in grado di fornire adeguati interventi conformativi.