Sommario:
1. Premessa.
Rispetto all'emergenza epidemiologica in atto, da più parti si afferma che le norme del Codice Civile consentirebbero la liberazione del debitore dall'obbligazione, o l'attenuazione o la riduzione dei suoi obblighi, qualora il suo adempimento sia ostacolato o reso notevolmente più gravoso dalle c.d. “misure di contenimento” adottate dal governo al fine di contrastare l'estendersi del contagio [1].
Il dibattito è sorto riguardo ai canoni dovuti dai conduttori degli esercizi commerciali che devono restare chiusi al pubblico, nonché, più in generale, con riferimento all'impatto delle misure di contenimento sull'approvvigionamento dei materiali, sulla circolazione delle persone e sull'organizzazione delle aziende, considerato, riguardo a quest'ultimo aspetto, che è stata sospesa l'attività delle aziende non essenziali e che, comunque, anche nei luoghi di lavoro è necessario evitare affollamenti e assumere misure adeguate a prevenire il contagio (tra le quali il ricorso alle modalità di c.d. “lavoro agile” o “smart working” e, qualora tali modalità non siamo possibili, l'adozione di opportune precauzioni, quali il rispetto di distanze minime tra i lavoratori e la loro dotazione di c.d. dispositivi di protezione individuale, o “DPI” – mascherine, guanti, ecc. –, peraltro di limitata reperibilità nel pieno dell'emergenza).
Indubbiamente, pertanto, in questo periodo l'adempimento di un insieme molto ampio di obbligazioni è diventato quanto meno più gravoso.
Occorre poi considerare che alcuni contratti hanno di fatto perso la loro funzione, non potendo più soddisfare l'esigenza in vista della quale furono conclusi.
Si pensi all'affitto di una casa per trascorrervi le vacanze, che non può essere raggiunta (dato che la villeggiatura non rientra tra le finalità per le quali sono ammessi gli spostamenti delle persone) e dalla quale, comunque, non è più possibile trarre le normali utilità (dato che spiagge, parchi, sentieri e locali pubblici non possono più essere frequentati).
2. Creditori e debitori.
A fronte di tali problematiche e del rischio di soluzioni semplicistiche ed emotive - come suggerire la liberazione totale o parziale dei debitori in difficoltà o la sospensione degli effetti di alcuni contratti (asserendo che tali rimedi discendono dall'applicazione dei princìpi vigenti, oppure che occorra introdurre, per attuarli, nuove norme ad hoc) - non è inutile ricordare che per ogni debitore c'è ovviamente un creditore e che addossare arbitrariamente a quest'ultimo il peso della crisi in atto avrebbe effetti imprevedibili e incontrollabili.
Non si tratta soltanto di una questione di principio, secondo cui le parti del rapporto sono uguali di fronte alla legge e hanno pari dignità, ma della necessità anche pratica di evitare il collasso del diritto dei contratti.
Se, per esempio, con l'intento in sé lodevole di soccorrere i conduttori degli esercizi commerciali chiusi d'autorità, si volesse liberarli dall'obbligo di corrispondere il canone per tutta la durata dell'emergenza, non si farebbe altro che spostare il danno causato dall'epidemia dal patrimonio del conduttore al patrimonio del proprietario.
Ma, anche senza considerare che di fatto in questo modo s'introdurrebbe surrettiziamente una tassa patrimoniale, la supposizione che il patrimonio del proprietario possa assorbire il danno meglio del patrimonio del conduttore può naturalmente rivelarsi infondata. Si consideri l'esempio di un'anziana signora che non abbia altro reddito diverso dal canone di locazione del negozio di sua proprietà, affittato a un ricco gioielliere. Aldilà di questo immaginario esempio, che peraltro rende chiaro come sia impossibile stabilire in via generale dietro quale parte del rapporto si nasconda il soggetto economicamente più forte al quale vorrebbe addossarsi il peso della crisi, non può dimenticarsi che il nostro sistema economico si fonda su rapporti obbligatori, la cui dissoluzione genera fatalmente incontrollabili effetti a catena.
Infatti, se i locatari fossero liberati, i proprietari non disporrebbero delle risorse attese per fare fronte ai propri debiti, fra i quali quelli inerenti all'immobile locato: dovrebbero forse essere anch'essi liberati da tali debiti? O essere liberati solo se dimostrano di essere in difficoltà finanziaria? E chi, e come, accerterebbe l'effettiva difficoltà? E se fosse liberato anche il proprietario, come farebbero i suoi creditori a pagare i loro debiti, per esempio il condominio riguardo alle spese di amministrazione?
È evidente che di questo passo si arriverebbe al caos: l'emergenza epidemiologica non può essere affrontata senza pensare ai problemi che comporterebbe l'allontanamento dalle norme e dai princìpi che normalmente governano il diritto delle obbligazioni e dei contratti.
Premesso quanto sopra, il primo principio che occorre rammentare è che la parte di un contratto tenuta a una prestazione in denaro può essere liberata da tale obbligazione se viene meno il vincolo contrattuale, in particolare per risoluzione, mentre non è liberata neppure parzialmente per il fatto che la sua condizione finanziaria si è deteriorata, quand'anche ciò sia avvenuto senza alcuna sua colpa.
Certamente nell'attuale situazione esiste una moltitudine di debitori in difficoltà, parte dei quali rischiano il dissesto, ma come si è detto la soluzione di tale problema non può essere la loro totale o parziale liberazione, né sul piano dei princìpi giuridici né sul piano pratico, perché così facendo si verificherebbe un'incontrollabile serie di liberazioni a catena, dato che i creditori di obbligazioni pecuniarie sono a loro volta debitori di altre obbligazioni pecuniarie, che rischierebbero parimenti di non essere adempiute.
Il Codice Civile è un corpo di norme sofisticato e complesso che mal digerisce interventi dettati da emergenze contingenti, interventi che, soprattutto se diretti al cuore del diritto delle obbligazioni e dei contratti, rischiano di sovvertire princìpi fondamentali e delicati equilibri.
3. I rimedi del Codice Civile.
Occorre dunque esaminare quali siano i rimedi offerti dalla disciplina generale dei contratti contenuta nel Codice Civile rispetto all'emergenza epidemiologica in atto e alla distruzione di ricchezza che essa sta provocando.
3.1. La risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta (art. 1463 c.c.) può trovare applicazione qualora l'emergenza epidemiologica rendesse la prestazione dedotta in contratto completamente e definitivamente impossibile, con l'avvertenza che le obbligazioni pecuniarie, come sopra ricordato, non diventano mai giuridicamente impossibili.
È peraltro difficile ipotizzare casi in cui la prestazione non torni a essere possibile una volta cessata l'emergenza. Può tuttavia accadere che il contratto debba necessariamente essere eseguito entro un termine, in quanto stabilito dalle parti o per la natura dell'interesse che il contratto è rivolto a soddisfare (per esempio, l'impresa incaricata dell'organizzazione di un evento che avrebbe dovuto tenersi durante il periodo dell'emergenza ma che è stato definitivamente annullato a causa dei provvedimenti governativi che vietano lo spostamento e l'assembramento delle persone). Si applica a tali casi il secondo comma dell'art. 1256 c.c., secondo cui il debitore non è responsabile del ritardo per tutto il tempo in cui la prestazione è temporaneamente impossibile, ma «l'obbligazione si estingue se l'impossibilità perdura fino a quando, in relazione al titolo dell'obbligazione alla natura dell'oggetto, il debitore non può più essere ritenuto obbligato a eseguire la prestazione ovvero il creditore non ha più interesse a conseguirla».
L'estinzione dell'obbligazione per impossibilità definitiva della prestazione, o per impossibilità temporanea nei casi stabiliti dal secondo comma dell'art. 1256 c.c., determina l'applicabilità dell'art. 1463 c.c., si sensi del quale «la parte liberata per la sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta non può chiedere la controprestazione, e deve restituire quella che abbia già ricevuta».
3.2. Spesso la prestazione dedottasarà solo parzialmente impossibile, o temporaneamente impossibile senza che ciò determini l'estinzione dell'obbligazione.Per esempio, l'adempimento di alcuni contratti potrebbe risultare ritardato (il rispetto delle misure di contenimento – e in particolare la sospensione delle attività produttive e commerciali non essenziali – potrebbe rallentare, se non addirittura bloccare, l'esecuzione dei contratti da parte di alcune aziende, permanendo però l'interesse delle parti all'esecuzione dell'accordo) o parzialmente impossibile (si pensi a un contratto che contempli alcune prestazioni che possono essere organizzate in modalità a distanza o di “lavoro agile” e altre prestazioni che non possono invece essere eseguite secondo tali modalità).
In questi casi può soccorrere la norma stabilita dal Codice Civile per l'impossibilità parziale (art. 1464 c.c.), che si considera applicabile – nel senso infra precisato – anche ai casi di impossibilità temporanea della prestazione che non determini l'estinzione dell'obbligazione ai sensi del secondo comma dell'art. 1256 cod. civ.
Secondo l'art. 1464 c.c. il contratto non si risolve, ma la parte creditrice della prestazione parzialmente impossibile ha diritto a una corrispondente riduzione della prestazione a suo carico e può recedere qualora non abbia interesse all'adempimento parziale (in caso di controversia, deve ritenersi a suo carico l'onere della prova rispetto a tale carenza di interesse).
Analogamente, deve ritenersi che il creditore di una prestazione temporaneamente impossibile possa sospendere l'esecuzione della prestazione da lui dovuta [2].
Deve peraltro avvertirsi che le suddette norme non possono ritenersi applicabili ai contratti di locazione, anche di beni produttivi (locali a uso commerciale o aziende), perché la prestazione di concessione in godimento resta possibile e continua a essere eseguita anche se per factum principis le facoltà di godimento del bene risultino temporaneamente compresse.
3.3. Non si ignora che secondo alcune pronunce di legittimità «l'impossibilità sopravvenuta della prestazione si ha non solo nel caso in cui sia divenuta impossibile l'esecuzione della prestazione del debitore, ma anche nel caso in cui sia divenuta impossibile l'utilizzazione della prestazione della controparte, quando tale impossibilità sia comunque non imputabile al creditore e il suo interesse a riceverla sia venuto meno, verificandosi in tal caso la sopravvenuta irrealizzabilità della finalità essenziale in cui consiste la causa concreta del contratto e la conseguente estinzione dell'obbligazione» [3].
Non è questa la sede per approfondire se le suddette pronunce, nel ricercare la giustizia del caso concreto, abbiano esteso il concetto di impossibilità entro oppure oltre i limiti massimi consentiti all'interprete [4]. In ogni caso, tali decisioni della Suprema Corte si riferiscono a fattispecie in cui era venuto completamente meno l'interesse di una parte contrattuale a ricevere l'intera prestazione dedotta in contratto, che nemmeno in parte poteva più assolvere la sua finalità essenziale (o causa concreta).
Ben diverso è il caso di un contratto di durata, in cui una parte continui a eseguire la prestazione a suo carico ma l'utilità della quale sia per l'altra parte temporaneamente ridotta.
È evidente, per esempio, che l'inquilino di un immobile a uso abitativo non può invocare l'art. 1464 c.c. e pretendere la riduzione del canone di locazione per il sopravvenire di una grave malattia che gli ha imposto un mese di ricovero in ospedale, argomentando che in quel mese è stato per lui impossibile utilizzare la prestazione del locatore, quando invece quest'ultimo per parte sua ha in quel mese continuato l'esecuzione del contratto, adempiendo integralmente – e non parzialmente – il suo obbligo di concedere il godimento dell'immobile, che è rimasto nella disponibilità dell'inquilino.
Non può dunque non rilevarsi come l'art. 1464 c.c., che come si è detto può applicarsi sia all'impossibilità parziale che a quella temporanea, si riferisca a fattispecie in cui l'impossibilità parziale (o temporanea) della prestazione dovuta da una delle parti del contratto ha determinato la sua parziale (o temporanea) liberazione, potendosi solo in tale caso giustificare una corrispondente riduzione (o sospensione) anche della prestazione a carico dell'altra parte.
Nei casi che qui si considera, invece, il locatore non è liberato dai suoi obblighi, restando il bene di sua proprietà nella piena disponibilità del locatario, per quanto il factum principis impedisca temporaneamente a quest'ultimo di trarne in tutto o in parte utilità.
Le norme sull'impossibilità sopravvenuta non consentono, pertanto, al locatario di sospendere o ridurre unilateralmente il pagamento del canone: dare di tali norme un'interpretazione infondata, significa, come si è già rilevato, spostare arbitrariamente le conseguenze finanziarie dell'epidemia da una parte all'altra del contratto, sulla scorta della considerazione, non giuridica, che tale soluzione sia più giusta o più opportuna.
In base alle norme generali del Codice Civile non è questo il modo di regolare l'eventualità che elementi sopravvenuti, quali le misure di contenimento adottate dal Governo, alterino l'equilibrio economico dei contratti in essere, ai quali può invece applicarsi, se ricorrono i presupposti stabiliti dalla legge, il diverso rimedio qui di seguito considerato.
3.4. Ai contratti a esecuzione continuata o periodica (c.d. contratti «di durata», tra i quali le locazioni), nonché a quelli a esecuzione differita, può applicarsi il rimedio dell'eccessiva onerosità sopravvenuta (art. 1467 c.c.), secondo cui il contratto può risolversi quando la prestazione, per il verificarsi di «avvenimenti straordinari e imprevedibili», è diventata per una delle parti «eccessivamente onerosa» rispetto al rapporto di scambio risultante dalle originarie pattuizioni contrattuali.
Le misure di contenimento stabilite dal governo, soprattutto se si protraessero, potrebbero infatti alterare definitivamente l'economia complessiva di alcuni contratti, rendendo eccessivamente gravosa la prestazione della parte che, a causa delle suddette misure, non può più trarre dal contratto le originarie utilità in considerazione delle quali esso è stato concluso.
Ma occorre, ovviamente, distinguere caso per caso. Per esempio, non può ritenersi risolvibile per eccessiva onerosità sopravvenuta una locazione della durata di sei anni di un ristorante che, per il rispetto delle misure di contenimento del contagio, debba restare chiuso uno o due mesi. È difficile stabilire in generale per quanto tempo la compressione delle facoltà di godimento debba durare perché il contratto possa ritenersi risolvibile ai sensi dell'art. 1467 c.c., ma è chiaro che l'alterazione del rapporto di scambio deve essere tale da giustificare la definitiva risoluzione del rapporto, non la temporanea riduzione del corrispettivo – rimedio, quest'ultimo, che la disposizione in commento non contempla. L'art. 1467 c.c. non distingue, infatti, tra eccessiva onerosità temporanea o definitiva, rilevando la prima solo in quanto dia luogo alla seconda.
Ciò comporta, tornando all'esempio, che se il ristorante dovesse restare chiuso per due mesi, il rimedio non sarà applicabile, per quanto possa teoricamente (ma non secondo diritto) ritenersi giusta, per quei due mesi, una riduzione del canone. Infatti, se l'alterazione dell'equilibrio complessivo dell'intero contratto non raggiunge la soglia richiesta, e di conseguenza il contratto non può essere risolto, esso deve continuare a essere regolarmente eseguito.
Inoltre, se il contratto è risolvibile, soltanto «la parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto» (art. 1467, comma 3, c.c.).
È pertanto contra legem l'idea, da taluni sostenuta, secondo cui i locatari di immobili a uso commerciale avrebbero il diritto di autoridursi il canone per tutta la durata dell'emergenza epidemiologica. Secondo tale opinione, sarebbe inadempiente della buona fede contrattuale il locatore che, in questa situazione, non offra la modifica di cui all'art. 1467, terzo comma, cod. civ., con la conseguenza che il locatario potrebbe rifiutare ex art. 1460 cod. civ. il pagamento integrale del canone per tutto il tempo in cui i provvedimenti governativi impediranno l'apertura del locale a uso commerciale [5]. Tale interpretazione contraddice due volte la legge: in primo luogo, come si è detto, non sempre la temporanea alterazione dell'equilibrio economico del rapporto giustifica la risoluzione ex art. 1467 cod. civ.; in secondo luogo, se il contratto è risolvibile, per legge è soltanto la parte contro la quale la risoluzione è domandata che «può» evitarla offrendo la modifica delle condizioni contrattuali: sostenere un'operazione ermeneutica il cui risultato è che la parola «può» equivale alla parola “deve” non è interpretazione della legge, è una proposta di modifica della legge secondo un proprio personale senso di giustizia.
Peraltro, l'impiego nell'art. 1467 c.c. della parola «può» e non della parola «deve», si ricollega a un principio fondamentale di diritto privato: l'equilibrio economico tra le prestazioni è contenuto contrattuale che non può essere modificato né dal giudice né da una soltanto delle parti del rapporto.
Infatti, a fronte della eccessiva onerosità sopravvenuta, cioè di eventi straordinari e imprevedibili che sconvolgono l'economia del contratto, esistono due possibili soluzioni: lo scioglimento del contratto oppure la sua riconduzione a equità, cioè la modifica dei suoi contenuti. Entrambe le soluzioni, per il principio sopra richiamato, richiederebbero l'accordo tra le parti. In mancanza di accordo, l'art. 1467 c.c. consente in via eccezionale alla parte eccessivamente onerata di ottenere lo scioglimento del vincolo, ma non di ottenere la modifica del contratto senza il consenso della controparte. Peraltro, la parte che chiede la risoluzione deve necessariamente essere disponibile a entrambe le prospettive, la risoluzione del contratto o in alternativa la sua modifica fino a ricondurlo a equità, poiché tale modifica fa venire meno l'unica ragione in considerazione della quale l'ordinamento le riconosce il diritto di domandare la risoluzione.
L'ordinamento, pertanto, accorda soltanto alla parte contro la quale è domandata la risoluzione il potere di evitarla, mediante l'offerta di riconduzione del contratto a equità, per una ragione ben precisa: tale offerta accoglie la volontà di porre rimedio all'eccessiva onerosità che la parte aggravata ha con la sua domanda già manifestato e che non può revocare, rifiutando l'offerta, senza sconfessare l'esigenza di riequilibrio del rapporto che l'ordinamento pone a fondamento della sua azione.
Nel sistema del Codice Civile è consentito dunque in via eccezionale che una delle parti, per la quale il rapporto è divenuto oggettivamente iniquo, possa liberarsi del vincolo contrattuale, ma non è ammesso neppure in via eccezionale che quella stessa parte possa unilateralmente imporre la modifica del contenuto economico dell'accordo.
Non a caso, anche in altre ipotesi in cui il vincolo è ingiusto (rescissione: art. 1447 ss. c.c.), può unilateralmente ottenersi soltanto la cancellazione dell'accordo, mentre la sua modifica richiede che la volontà di rimediare all'ingiustizia, manifestata dall'attore con la sua domanda, s'incontri con la volontà della parte contro cui la domanda è proposta, espressa dall'offerta di ricondurre il rapporto a equità (art. 1450 c.c.).
Consentire alla parte aggravata di chiedere e ottenere la modifica del rapporto senza che la controparte manifesti alcuna volontà, violando il terzo comma dell'art. 1467 c.c., significa rimuovere una pietra angolare del nostro diritto privato, attribuendo di fatto al giudice il potere di riscrivere il contenuto economico del contratto a seguito della unilaterale richiesta di una delle parti.
4. L’intervento normativo del Governo.
È ora opportuno esaminare il contenuto di una nuova norma di legge, recentemente introdotta con l'intento di evitare che i debitori possano ritenersi responsabili degli inadempimenti causati dalla necessità di rispettare le misure di contenimento del contagio adottate dal Governo.
Tale norma, contenuta nell'art. 91 d.l. 17 marzo 2020 n. 18, così recita: «All'articolo 3 del decreto – legge 23 febbraio 2020, n. 6, convertito con modificazioni dalla legge 5 marzo 2020, n. 13, dopo il comma 6, è inserito il seguente: «6-bis. Il rispetto delle misure di contenimento di cui presente decreto è sempre valutata ai fini dell'esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all'applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti».
Questa disposizione risulta di difficile interpretazione, considerato che la responsabilità del debitore, il quale non possa adempiere per la necessità di rispettare le misure di contenimento, avrebbe già potuto escludersi in applicazione dell'art. 1218 c.c. (uno dei due articoli richiamati dalla norma stessa), ai sensi del quale «il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l'inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile».
Inoltre, la norma non afferma che il rispetto delle misure di contenimento «esclude sempre» la responsabilità del debitore, ma che esso «è sempre valutato» ai fini del giudizio di responsabilità. Tale disposizione ammette dunque il caso del debitore che sia ostacolato dalle misure di contenimento e che sia nondimeno responsabile dell'inadempimento, come potrebbe accadere se egli, attivandosi secondo ordinaria diligenza, avesse potuto esattamente adempiere nonostante la necessità di rispettare tali misure (in particolare, adottando sistemi di adempimento idonei a superare l'ostacolo e non eccessivamente onerosi: è possibile, per esempio, che un'azienda non abbia potuto consegnare merce perché il corriere che normalmente utilizza non è riuscito ad attrezzarsi per rispettare le misure di contenimento, ma ciò non esclude la possibilità che altri corrieri fossero in grado di effettuare la consegna nel rispetto delle suddette misure). Anche sotto questo aspetto la norma non ha peraltro portata innovativa, essendo pacifico il principio secondo cui «spetta al debitore dimostrare di aver fatto uso della ordinaria diligenza per rimuovere gli ostacoli creati all'esatta esecuzione degli impegni contrattualmente assunti» [6].
Occorre tuttavia interrogarsi se le parole «il rispetto delle misure di contenimento (…) è sempre valutata (rectius, «valutato», n.d.a.) ai fini dell'esclusione (…) della responsabilità del debitore» non comportino una qualche modifica dell'ordinario regime probatorio (art. 1218 cod. civ.), in applicazione del quale il debitore, per liberarsi da responsabilità, dovrebbe fornire due prove: (1) che le misure di contenimento hanno reso l'esatto adempimento impossibile, e (2) che la causa impossibilitante non è a lui imputabile.
Quanto al primo aspetto, se la nuova norma dovesse interpretarsi nel senso di sollevare il debitore dall'onere della prova, allora al debitore basterebbe allegare (cioè affermare) che l'inadempimento è dovuto al rispetto delle misure di contenimento, mentre sarebbe il creditore, che ritenga tale affermazione infondata, a dovere provare che l'adempimento era possibile nonostante la necessità di rispettare dette misure. Tale esito interpretativo, cioè l'inversione dell'onere della prova rispetto all'impossibilità di adempiere, deve però escludersi, in quanto una tale grave deviazione dalla regola generale stabilita dall'art. 1218 cod. civ. sarebbe priva di qualsiasi giustificazione. Non esiste infatti alcuna ragione per ritenere che i debitori si trovino in difficoltà nel dimostrare in che modo la necessità di rispettare le misure di contenimento ha loro impedito l'esatto adempimento, essendo anzi tale prova relativa a circostanze che essi necessariamente conoscono e che l'emergenza epidemiologica non rende più gravoso dimostrare. Per il creditore, invece, sarebbe estremamente difficile provare che le misure di contenimento non hanno concretamente influito sulla sfera d'azione del debitore e sulla sua possibilità di adempiere, o che gli ostacoli determinati da dette misure erano in realtà superabili usando l'ordinaria diligenza, essendo tali prove riferite a circostanze (fra le quali l'organizzazione impiegata dal debitore) che il creditore nella generalità dei casi non conosce in dettaglio, o non conosce affatto.
Deve in proposito richiamarsi l'evoluzione della giurisprudenza di legittimità che ha elaborato il principio di c.d. vicinanza della prova, secondo cui l'onere della prova deve essere ripartito, anche in deroga alle generali norme di legge, tenendo conto in concreto della possibilità per l'uno o per l'altro dei contendenti di provare circostanze che ricadono nelle rispettive sfere d'azione, per cui è ragionevole gravare dell'onere probatorio la parte a cui è più vicino il fatto da provare [7].
La nuova norma può avere invece inteso determinare un'attenuazione dell'onere probatorio con riferimento al secondo dei suddetti elementi che il debitore deve dimostrare ai sensi dell'art. 1218 c.c., cioè che la causa impossibilitante non è a lui imputabile. Le parole «sempre valutato» implicano infatti che il giudice non potrà mai negare che la necessità di rispettare le misure di contenimento del contagio abbia costituito «causa non imputabile» al debitore, alla stregua di una causa di forza maggiore, ma ciò nel quadro di una più ampia valutazione, che come si è detto non esime il debitore dal dimostrare che tale causa di forza maggiore ha realmente impedito l'esatto adempimento.
In definitiva, le parole «il rispetto delle misure di contenimento (…) è sempre valutato (…) ai fini dell'esclusione (…) della responsabilità» possono considerarsi alleviare l'onere probatorio a carico del debitore nel limitato senso che la necessità di rispettare le misure di contenimento del contagio dovrà essere sempre considerata quale causa di forza maggiore, ma non nel senso che il debitore sia esonerato dal dimostrare che il suo inadempimento è effettivamente derivato da tale causa impossibilitante.
Può, infine, considerarsi pleonastico il richiamo all'altra disposizione del Codice Civile cui la nuova norma fa riferimento, l'art. 1223 c.c., che indica i criteri di liquidazione del danno («il risarcimento del danno per l'inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta»), dato che in assenza di responsabilità ovviamente non può esservi condanna al risarcimento del danno.
Tale richiamo, peraltro, svolge la limitata funzione di avvertire che l'ottemperanza alle misure di contenimento può, rispetto alla situazione di normalità in cui tali misure sono assenti, in certi casi ridurre l'entità del danno (se, per esempio, il debitore sia responsabile per non avere consegnato merce che, comunque, il creditore della prestazione non avrebbe potuto utilizzare, in quanto la sua attività era in quel momento completamente bloccata) e in altri casi aumentarla (si pensi alla mancata consegna di dispositivi di protezione individuale), anche se l'applicazione dell'art. 1223 c.c. e i conseguenti oneri di prova a carico del danneggiato escludono già di per sé la liquidazione di somme non corrispondenti all'entità del danno effettivamente subìto e provato.
Deve dunque escludersi che il legislatore abbia inteso introdurre deroghe o eccezioni rispetto agli ordinari criteri di liquidazione del danno da inadempimento.
5. Impossibilità della prestazione e impotenza finanziaria.
Si è da taluno sostenuto che la norma testé commentata dovrebbe essere interpretata come se si riferisse anche alle obbligazioni pecuniarie, giustificandone l'inadempimento o il ritardato adempimento da parte dei debitori le cui condizioni finanziarie siano deteriorate a causa della necessità di rispettare le misure di contenimento; altri hanno anche affermato che, indipendentemente dal contenuto della suddetta nuova norma, sarebbe ormai tempo di riconsiderare il concetto di impossibilità della prestazione fino a ricomprendervi, in accoglimento dei princìpi solidaristici anche costituzionali, i casi di c.d. impotenza finanziaria determinata da causa di forza maggiore, quale è l'attuale emergenza sanitaria [8].
Tali inviti non sembrano avere adeguatamente considerato quali sarebbero gli effetti della nuova regola che vorrebbero temporaneamente o definitivamente introdurre.
Infatti, come si è già illustrato, l'adozione di una tale soluzione provocherebbe un'incontrollabile serie di effetti a catena: se il locatario di un esercizio commerciale, chiuso per i provvedimenti adottati dal Governo al fine di limitare il contagio, fosse liberato dall'obbligo di pagare il canone, allora in virtù dello stesso principio anche il locatore, che impiega il canone per pagare le rate del mutuo bancario contratto per acquistare quell'immobile, dovrebbe essere liberato dai suoi obblighi nei confronti della banca. E così via di liberazione in liberazione.
La liberazione per impotenza finanziaria causata dall'epidemia e dalle conseguenti misure governative contagerebbe tutto il sistema, essendo palesemente iniquo liberare soltanto alcuni e non tutti i debitori che ne sono colpiti.
Ciò rende evidente quale sia il fondamentale ruolo assolto dal principio che nega all'impotenza finanziaria, anche incolpevole, l'effetto di liberare il debitore dall'obbligazione pecuniaria [9].
Questo principio svolge, fra le altre, la funzione di impedire che ci si possa liberare dei propri debiti per la difficoltà finanziaria causata dal mancato pagamento dei propri crediti, regola che non si giustifica soltanto perché ognuno è arbitro, e quindi pienamente responsabile, dei rischi finanziari che si assume contraendo obbligazioni pecuniarie (principio che talvolta, come nello scenario odierno, potrebbe risultare troppo severo), ma anche per l'esigenza pratica di evitare che il danno finanziario causato da un mancato pagamento possa propagarsi senza limiti, esigenza, questa, che nell'attuale situazione non viene affatto meno ed è anzi più forte che mai.
Infatti, in mancanza di tale principio, occorrerebbe per ogni mancato pagamento giudicare se sia vera l'affermazione del debitore di non avere potuto pagare per l'impotenza finanziaria determinata dall'impossibilità di riscuotere alcuni suoi crediti; e se tale giudizio, di per sé assai più complesso di un giudizio limitato al fatto in sé del mancato pagamento, conducesse alla liberazione di quel debitore, i creditori di quest'ultimo sarebbero legittimati ad avanzare analoghe istanze di liberazione dai propri debiti, istanze da considerare sulla base dello stesso principio e da decidere all'esito di ulteriori giudizi.
L'eliminazione o la sospensione del principio in esame rimuoverebbe dunque un fondamentale freno, che si oppone alla propagazione all'infinito del danno finanziario determinato dalle insolvenze, ciò che avrebbe l'ulteriore e deleterio effetto di moltiplicare e complicare le controversie e di vibrare un potentissimo colpo alla certezza delle contrattazioni, minata dall'introduzione di una nuova e ampissima causa di esclusione della responsabilità del debitore.
Se si vuole che l'enorme danno economico causato dall'emergenza sanitaria non resti a esclusivo carico delle imprese che ne sono direttamente colpite e sia invece equamente distribuito fra tutti i cittadini, che tale danno sia cioè sopportato, in applicazione di veri princìpi solidaristici, da ognuno in proporzione alla propria capacità di contribuire allo sforzo comune, allora la soluzione non può essere l'alterazione delle regole del diritto privato, che distruggerebbe l'economia e non garantirebbe affatto che le conseguenze finanziarie dell'epidemia siano distribuite in modo equo, ma soltanto l'intervento dello Stato, che impiegando il denaro pubblico, risorsa che tutti i contribuenti concorrono proporzionalmente a costruire, provveda ad aiuti finanziari, a interventi economici e a sgravi fiscali quanto più possibile intelligenti e mirati.
6. Conclusioni.
Tirando le somme di queste provvisorie considerazioni, scritte durante l'emergenza epidemiologica, credo debba ribadirsi che il legislatore non dovrebbe introdurre un diritto speciale, modificando la disciplina generale delle obbligazioni e dei contratti per fronteggiare i problemi creati dall'attuale situazione. Il Codice Civile, frutto di secoli di esperienza giuridica, regolamenta i casi di forza maggiore, quali sono certamente quelli determinati dall'epidemia in atto e dalle conseguenti misure governative. Ampliare le ipotesi in cui il debitore può essere liberato e il contratto può essere risolto, come si è detto, non eliminerebbe il danno causato dall'emergenza sanitaria, ma lo sposterebbe semplicemente dal patrimonio di una parte del rapporto al patrimonio dell'altra, senza alcuna garanzia che ciò avvenga nella direzione effettivamente voluta e determinando una serie incontrollabile di liberazioni a catena.
Ciò che è bene non faccia il legislatore, a maggior ragione è bene che non facciano gli interpreti. Correggere le norme, facendo loro dire quel che esse invece non dicono, è una cura peggiore del male, perché, oltre a causare problemi analoghi a quelli dell'intervento legislativo, introdurrebbe anche interpretazioni e concetti errati che sarebbe poi molto difficile tenere confinati ai particolari casi determinati dall'emergenza in atto.
I privati, infine, devono prendere atto del fatto che molti contratti sono esposti al rischio di risoluzione, non soltanto per impossibilità sopravvenuta o per eccessiva onerosità, ma soprattutto per inadempimento (ciò che potrebbe compromettere l'interesse della parte adempiente non meno dell'interesse della parte inadempiente) o, quando consentito, per recesso (per esempio ai sensi degli artt. 4 e 27 l. n. 392 del 1978, ipotesi che il presente lavoro non ha trattato in quanto focalizzato sui generali rimedi previsti dal Codice Civile), e devono valutare con attenzione se ritrovarsi con nessun contratto sia situazione preferibile rispetto ad avere un contratto che genera, anche solo provvisoriamente, un reddito inferiore a quello inizialmente atteso.
Né può sottovalutarsi il rischio che i giudici, chiamati a decidere le controversie aventi per oggetto gli effetti delle misure di contenimento sui contratti, ricorrano a un soggettivo senso di giustizia e a quegli strumenti (buona fede, causa concreta, generali princìpi costituzionali) che permettono di adattare la decisione alle esigenze del caso concreto, entro limiti che dovrebbero essere insormontabili (fra i quali astenersi dal compiere scelte che spettano al legislatore) ma che certe interpretazioni dottrinali e giurisprudenziali rendono, come si è visto, piuttosto evanescenti.
Si è accennato, in particolare, come sia da più parti sostenuto che a fronte di sopravvenienze straordinarie sussiste l'obbligo secondo buona fede di rinegoziare il contratto, per quanto tale tesi non abbia finora trovato accoglimento da parte della giurisprudenza e sia preferibile che non venga, proprio in questo momento, adottata in via legislativa, sia per il rischio di un'enorme inflazione di contenzioso coronavirus, sia perché gli investitori sarebbero scoraggiati se al ricorrere di determinate circostanze il giudice potesse di fatto riscrivere il contenuto economico dell'accordo, senza che esista più la possibilità di valutare liberamente se mantenere o cancellare il vincolo.
Riferimenti bibliografici:
[1] Tali opinioni sono state espresse nel corso dell'emergenza sanitaria su una moltitudine di siti internet. Possono per esempio citarsi gli interventi pubblicati online nell'àmbito dell'editoriale “Uniti per l'Italia – Speciale Emergenza Covid-19” sul sito internet di Giustizia Civile (giustiziacivile.com), fra i quali Cuffaro, Le locazioni commerciali e gli effetti giuridici dell'epidemia; De Mauro, Pandemia e contratto: spunti di riflessione in tema di impossibilità sopravvenuta della prestazione; Macario, Per un diritto dei contratti più solidale in epoca di “coronavirus”; Verzoni, Gli effetti, sui contratti in corso, dell'emergenza sanitaria legata al Covid-19.
[2] R. SACCO-G. DE NOVA, Il contratto, tm. II, Torino, 1993, 653.
[3] Fra le pronunce di legittimità che hanno affermato tale principio possono citarsi Cass. civ., 10 luglio 2018, n. 18047 (principio applicato al caso di una persona che non aveva potuto usufruire del “pacchetto vacanze” acquistato per il sopravvenire di una grave patologia che gli rendeva impossibile intraprendere il viaggio); Cass. civ., 20 dicembre 2007, n. 26958 (decisione relativa a un contratto di soggiorno alberghiero prenotato da due coniugi, uno dei quali era deceduto improvvisamente il giorno precedente l'inizio del soggiorno); Cass. civ., 24 luglio 2007, n. 16315 (caso di un “pacchetto vacanze” acquistato da due persone per un viaggio nell'isola di Cuba, dove si era poi diffusa un'epidemia di “dengue” emorragico).
[4] Tali decisioni hanno infatti suscitato nei commentatori forti perplessità: v. ex multis,con riferimento alla terza sentenza citata nella precedente nota, Parola, Recesso dal contratto di compravendita di pacchetti turistici e impossibilità di utilizzazione della prestazione, in Obbl. e contr., 2008, 1, 13 e ss. (cfr. in particolare le conclusioni a 23 s.).
[5] A.M. BENEDETTI-R. NATOLI, Coronavirus, emergenza sanitaria e diritto dei contratti: spunti per un dibattito, 25 marzo 2020, in www.dirittobancario.it.
[6] Così, fra le molte, Cass. civ. 16 aprile 2009, n. 9026.
[7] Il principio è ormai pacifico; tra le più recenti può citarsi la pronuncia di Cass. 9 gennaio 2020, n. 297.
[8] Tali opinioni si rinvengono negli articoli citati nella precedente nt. 1.
[9] Su tale principio, pacifico, si v. Cass. civ. 15 novembre 2013, n. 25777, Cass. civ. 20 maggio 2004, n. 9628, e Cass. civ., 16 marzo 1987, n. 2691, peraltro non sempre chiare nell'individuarne la ratio. La spiegazione formale del principio sottolinea infatti che non può esservi impossibilità oggettiva e assoluta di procurarsi il denaro per adempiere, essendo il denaro un bene generico (genus numquam perit). Ma vi è una spiegazione più profonda e complessa, che si collega alla responsabilità patrimoniale del debitore e alla funzione che il denaro assolve nel sistema del diritto privato. Per il disposto dell'art. 2740 c.c., «il debitore risponde dell'adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri», regola che trova attuazione pratica per la possibilità di convertire in denaro il valore dei beni del debitore mediante il procedimento esecutivo che conduce all'espropriazione e alla vendita di tali beni. Ciò comporta che il denaro in cui è possibile convertire tutti i beni presenti e futuri del debitore è posto a garanzia delle sue obbligazioni: ammettere per le obbligazioni che hanno per oggetto denaro la liberazione del debitore le cui condizioni finanziarie si siano incolpevolmente deteriorate, equivale a riconoscere al deterioramento incolpevole della garanzia costituita dal patrimonio del debitore l'effetto di far venire completamente meno tale stessa garanzia, sovvertendo il senso e la funzione del principio espresso dall'art. 2740 c.c Sul tema del collegamento fra i suddetti due princìpi può citarsi C.M. BIANCA, Diritto Civile, IV, L'obbligazione, Milano, 1993, 143 ss. (in particolare, laddove si afferma che nelle obbligazioni pecuniarie “la prestazione è sempre possibile in ragione della normale convertibilità in denaro di tutti i beni presenti e futuri”).