1. «È come essere in guerra».
E pensare che «secolo breve» è stato definito il Novecento (del primo millennio, s'intende), per la profondità dei mutamenti sistemici, il vorticoso susseguirsi di eventi traumatici, la rapidità di risposta dei tessuti socio-economici, l'accelerazione dello sviluppo tecnologico. Secolo breve in quanto proiettato in avanti da discontinuità espressive (non già soltanto di movimenti superficiali per quanto nervosi ma) di cambi di direzione delle correnti che – lo insegnava Fernand Braudel – scorrono al fondo e, nei limiti della loro continuità, definiscono periodi storici entro i quali ricomporre la frammentazione della superficie.
«Siamo in guerra». Il primo secolo del nuovo millennio ancora nel suo quarto iniziale sembra già avviato quantomeno a eguagliare i primati del secolo breve. In rapida successione: uno sviluppo tecnologico tale da rivoluzionare le forme di comunicazione del pensiero e la struttura delle relazioni sociali; una crisi finanziaria espressiva della fine del modello di vita e di benessere – quello del capitalismo borghese – che per due secoli ha guidato la tessitura delle trame socio-economiche del mondo occidentale; una crisi ecologica drammatica che porta all'evidenza l'insostenibilità, per il pianeta, degli stili di vita delle società contemporanee; infine la guerra, ossia la pandemia. Come in guerra, la vita è sospesa, l'attenzione esclusivamente intenta al contrasto del nemico, le risorse disponibili consumate dalle famiglie per soddisfare quotidianamente i loro bisogni fondamentali.
Quanto durerà non è indifferente. Non è indifferente per quanto tempo si dovrà consumare senza poter produrre. Tanto meno lo è in un sistema economico dove il consumo – che nei primi due secoli di esperienza capitalistica era fondato sul reddito e sul risparmio – si fonda sul debito, nelle pieghe di rapporti sempre meno autenticamente bancari e, invece, sempre più contaminati dalla finanza. Già prima che si materializzasse l'incubo della pandemia, insomma, le vicende del nuovo secolo profilavano una tensione tra componenti del sistema tale da farne apparire la riforma, ma dovremmo dire la ricostruzione, non opportuna bensì urgente. Tensione, si diceva: tra le componenti economica e finanziaria, politica, tra queste e la società civile; tra l'inclusività del reddito e la forza escludente del debito; tra la funzione di ammortizzazione del piccolo risparmio e quella alienante della disposizione preventiva del reddito.
2. Il primo scorcio di millennio consegna un'immagine delle categorie al fondo dei rapporti di credito alterata rispetto al disegno recatone dal codice civile e ancora di più, alterata, rispetto alla loro elaborazione classica, propria delle architetture concettuali trasmesseci dalla dottrina del secolo scorso. Alterata e, diremmo, deformata dalla tensione tra i due opposti poli della tutela dei debitori sovraindebitati, specie se consumatori, e della tutela dei creditori banche, nella prospettiva della prevenzione e della soluzione di crisi sistemiche e della implementazione di un mercato del credito europeo sano ed efficiente.
La direzione assunta nella tutela dei debitori è assai ben espressa dalla disciplina del c.d. piano del consumatore ove, in particolare, l'art. 68, comma 3, tra i «fattori pertinenti per verificare le prospettive di adempimento da parte del consumatore degli obblighi stabiliti dal contratto di credito» indica il «reddito disponibile, dedotto l'importo necessario a mantenere un dignitoso tenore di vita». È questo un segnale forte del passaggio da una ratio unicamente prudenziale – dunque da una dimensione soltanto sistemica – alla considerazione dell'interesse dei consumatori come persone e come lavoratori; un segnale del rilievo diretto, quali principi fondanti di quest'area dell'iniziativa negoziale, oltre e prima che dell'art. 47, anche degli artt. 3 e 39 Cost. Detto in altre parole è, o sembrerebbe essere, il sintomo di un approccio socialmente orientato alle vicende del credito. Questo, come pure, o ancora di più, l'ipotesi del «debitore incapiente» contemplata dall'art. 183 del codice della crisi: (al comma 1) il «debitore persona fisica meritevole, che non sia in grado di offrire ai creditori alcuna utilità, diretta o indiretta, nemmeno in prospettiva futura, può accedere all'esdebitazione solo per una volta, fatto salvo l'obbligo di pagamento del debito entro quattro anni dal decreto del giudice laddove sopravvengano utilità rilevanti» e (al comma 2), ancora una volta, la «valutazione di rilevanza di cui al comma 1 deve essere condotta» su base annua, «dedotte le spese di produzione del reddito e quanto occorrente al mantenimento del debitore e della sua famiglia».
Queste disposizioni forniscono un riscontro da parte del formante legislativo di posizioni elaborate dalla dottrina, in particolar modo da quella successiva alle crisi economiche d'inizio millennio, di revisione critica delle condizioni di esigibilità delle obbligazioni, in nome della solidarietà e della garanzia di una vita libera e dignitosa del debitore. Riscontro ancora estremamente parziale in quanto limitato alla patologia della crisi e non invece involgente appieno l'epicentro dei rapporti di credito nella loro fisiologia, costituito dall'esigibilità. Peraltro, in questa direzione, anche gli strumenti offerti dal codice civile – primi fra tutti quelli della impossibilità (art. 1256 c.c.) e della eccessiva onerosità sopravvenute della prestazione (1467 c.c.) – sono in realtà assai limitati. La loro rilettura in chiave costituzionale ha tuttavia consentito di scalfire significativamente il dogma della vincolatività, pilastro del sistema borghese del diritto dei privati.
3. Marciano in senso diametralmente e, diremmo, brutalmente opposto gli interventi legislativi assunti nel nostro Paese e quelli progettati dall'Unione Europea a tutela dei creditori banche, nella prospettiva della prevenzione e della soluzione di crisi sistemiche e della implementazione di un mercato del credito europeo sano ed efficiente.
Segnatamente, a far capo dalla disciplina di derivazione europea delle garanzie finanziarie (introdotta con il d.lgs. 21 maggio 2004, n. 170) – ove è contemplato «il contratto di trasferimento della proprietà» su attività finanziarie con funzione di garanzia ed è espressamente derogato il divieto di patto commissorio – passando per il prestito vitalizio ipotecario ex l. 2 dicembre 2005, n. 24, fino al pegno non possessorio e ai c.dd. «nuovi marciani», l'ispirazione dei legislatori sembra vieppiù motivata dalle spinte della prassi nel senso della dotazione delle situazioni creditorie di poteri di carattere dominicale, funzionali all'auto-soddisfacimento dei creditori, non con la ricerca di strumenti alternativi di carattere propriamente esecutivo, non già semplificandone il procedimento o sostituendo una forma di tutela a un'altra, bensì rendendo a monte inessenziale l'esecuzione.
È sufficiente la lettura dell'art. 1, comma 7, che disciplina l'escussione del pegno non possessorio disponendo che il creditore, con la sola formalità della previa intimazione scritta, può procedere: «a) alla vendita dei beni oggetto del pegno trattenendo il corrispettivo a soddisfacimento del credito fino a concorrenza della somma garantita […]; b) alla escussione o cessione dei crediti oggetto di pegno fino a concorrenza della somma garantita […]; c) ove previsto nel contratto di pegno e iscritto nel registro […], alla locazione del bene oggetto del pegno imputando i canoni a soddisfacimento del proprio credito fino a concorrenza della somma garantita, a condizione che il contratto preveda i criteri e le modalità di determinazione del corrispettivo della locazione […]; d) ove previsto nel contratto di pegno e iscritto nel registro[…], all'appropriazione dei beni oggetto del pegno fino a concorrenza della somma garantita, a condizione che il contratto preveda anticipatamente i criteri e le modalità di valutazione del valore del bene oggetto di pegno e dell'obbligazione garantita».
La dottrina usa ricondurre questi strumenti al fenomeno della c.d. autotutela esecutiva. Essi tuttavia, come sopra accennato, si mostrano in primo luogo il portato della ricerca di forme di garanzia assistite da prerogative proprietarie quale espressione dell'interesse del ceto creditorio al controllo diretto di una fonte di liquidità alla quale attingere senza intermediazioni. Ma, a questa stregua, il discorso non si colloca necessariamente sul piano della tutela ovvero dell'autotutela esecutive di un rapporto del quale siano presupposti immutati (e immutabili) i caratteri strutturali e sembra invece, piuttosto, rifluire proprio all'essenza del credito quale disciplina di una attribuzione patrimoniale (dunque alle sue regole sostanziali).
Non dissimile si mostra l'ispirazione del legislatore europeo della proposta di Direttiva 2018/0063 del 14 marzo 2018, «relativa ai gestori di crediti, agli acquirenti di crediti e al recupero delle garanzie reali». Tra gli obiettivi espressi da questa proposta vi è infatti quello di «rafforzare la capacità dei creditori garantiti di recuperare più rapidamente il valore dalle garanzie tramite procedure di escussione extragiudiziali», là dove i «creditori dovrebbero essi stessi poter eseguire i contratti di credito e recuperare gli importi dovuti o poter affidare tale recupero a un'altra persona che fornisce tali servizi nell'ambito di un'attività professionale». E, a tale scopo, è prevista l'introduzione da parte degli Stati membri di modi di «escussione extragiudiziale accelerata quale meccanismo rapido per il recupero del valore delle garanzie reali», il quale meccanismo «ridurrebbe i costi per la risoluzione dei crediti deteriorati e sosterrebbe quindi sia gli enti creditizi che gli acquirenti di crediti deteriorati nel recupero del valore» (sesto considerando).
In questo quadro, si mostra alterato il rapporto tra responsabilità personale e responsabilità patrimoniale rispetto alle costruzioni prevalenti nel secolo scorso, e fors'anche l'elemento dell'interesse del creditore in quanto qui centrato, dall'origine del rapporto, non già sulla prestazione ma sui diritti che gli consentono di esercitare prerogative di stampo dominicale direttamente su beni o porzioni di patrimonio destinati alla sua soddisfazione.
4. Insomma, l'obbligazione si presentava assai provata dai traumi d'inizio millennio, già prima che esplodesse la pandemia. Le crisi finanziarie e lo sviluppo tecnologico hanno forzato oltremodo le sue tradizionali linee con lo scopo di ricondurle a coerenza con un tessuto socio-economico e con meccanismi di circolazione della ricchezza affatto differenti, irriducibili a quelli dei due secoli precedenti.
Ora «siamo in guerra». Quando sarà finita, è facile prevedere che – come dopo i grandi traumi, esattamente, come dopo le grandi guerre – la corrente profonda cambierà direzione e vivremo una discontinuità. È facile prevedere che, tra le macerie delle economie delle persone prima che di quella del nostro Paese, il credito e il debito giocheranno il ruolo dei protagonisti. Ancora, è facile però prevedere che le opposte istanze, di preservazione della possibilità di vita libera e dignitosa dei debitori – che siano essi lavoratori dipendenti o autonomi o imprenditori – e di tutela dell'efficienza del sistema attraverso la concentrazione delle prerogative proprietarie nelle mani dei grandi creditori non saranno ancora conciliabili con semplici adattamenti interni al sistema.
Il punto della collisione si troverà nell'area ove si collocano l'esigibilità e l'esazione. Vero: per affrontare la guerra, gli Stati faranno ricorso al debito pubblico. V'è tuttavia un importante debito privato preesistente, al quale si aggiungerà quello necessario per riavviare la maggior parte delle attività ma, ancora prima, per garantire la sussistenza a individui e famiglie. Gli Stati, auspicabilmente, garantiranno i nuovi finanziamenti e ne neutralizzeranno il costo. Ma si tratterà pur sempre di debito, dinanzi al quale occorrerà chiedersi quali regole applicare in punto di esigibilità e di strumenti di esazione. La risposta dipende, com'è ovvio, da quanto si vorranno riconoscere mutati gli antecedenti. Le discipline più recenti, poco sopra evocate, costituiscono infatti tessere di un mosaico recante il disegno complessivo dell'economia (neo)liberale – a qualcuno piace dire ordoliberale – concepito e costruito sulle ceneri dell'economia mista, all'insegna dell'ideologia dello stato minimo.
Oggi, nel buio di una notte ancora fonda, possiamo soltanto cominciare a porci qualche domanda. Il disegno resterà immutato o gli Stati interverranno direttamente in economia, per sostenere anzitutto il lavoro? In uno scenario in cui ciascuna comunità nazionale raccoglierà da sé le proprie forze per ripartire – a seguito di una catastrofe che, nonostante abbia colpito tutti, ha fatto rifiorire sul mappamondo, ben marcati, i confini degli Stati e profila potenziali mutamenti anche radicali delle solidarietà e delle alleanze internazionali – e dove la dimensione pubblicistica dei rapporti economici è destinata inevitabilmente a riespandersi riconquistando agli Stati le prerogative progressivamente dismesse nel corso dell'ultimo mezzo secolo, in uno scenario siffatto, quanto senso avranno la concentrazione della proprietà in poche mani private e l'esclusione della mediazione giurisdizionale dai circuiti distributivi della ricchezza? Avranno ancora senso discipline che, per un verso – data per scontata l'esigibilità, a prescindere dalla condizione soggettiva del debitore – confinano l'applicazione del principio di solidarietà al momento della crisi e, per l'altro verso, assicurano al creditore un potere di esazione immediato e diretto, il cui esercizio non è controllabile dal giudice se non a posteriori?
Forse sarà opportuno prendere atto che la storia sta segnando una discontinuità: che sarà in primo luogo necessario ridiscutere le premesse e la logica interna al sistema. Perciò, nella prospettiva auspicabile, da diverse parti focalizzata, di una riforma del codice civile italiano, occorrerà riflettere con coraggio (anche) sul diritto delle obbligazioni e, in particolare, sulle condizioni di esigibilità dei crediti, semmai rinunciando a una disciplina unitaria e accedendo invece all'idea che non tutti i crediti sono uguali e che, soprattutto, non lo sono tutti i debitori, senza accomodarsi sull'approccio salottiero di chi prospetta un semplice lifting del nostro codice, semmai finalizzato a riallineare i formanti, legislativo e giurisprudenziale. Tale approccio finirebbe infatti nuovamente – per dirla rubando le parole a una memorabile pagina di Riccardo Orestano – «col mettere assieme e voler conciliare l'inconciliabile, dando luogo a soluzioni ‘miste' che rappresentano contaminazioni di premesse tra loro contrastanti: come delle equazioni nel cui svolgimento si cambiasse man mano il valore dei simboli assunti o il valore operativo dei segni impiegati».