1. Nel nostro ordinamento sembra prevalere la tutela della libertà individuale di scegliere se sottoporsi o meno al vaccino. È solo con riferimento a particolari categorie di lavoratori, identificate sulla base delle mansioni svolte, e dei relativi settori produttivi di riferimento, che il legislatore, bilanciando i molteplici interessi coinvolti da queste attività, ma soprattutto valorizzando il rischio contagio per i terzi a contatto con i lavoratori, è intervenuto introducendo uno specifico obbligo di vaccinazione. Come noto, infatti: (i) l'art. 4 d.l. n. 44 del 2021 ha introdotto l'obbligo di vaccinazione anti COVID-19 esclusivamente per «gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, parafarmacie e negli studi professionali»; (ii) analoga previsione è in discussione per ciò che attiene al personale scolastico.
2. Negli ambienti di lavoro uno specifico obbligo di vaccinazione non è stato introdotto dal nostro legislatore. Ciò nondimeno numerose sono le misure predisposte per promuovere e sostenere l'adesione dei lavoratori alla campagna vaccinale. Ond'è che, in buona sostanza, certamente non si può affermare, salvo valutare casi specifici, che lo svolgimento del rapporto di lavoro possa essere considerato un ostacolo alla vaccinazione. Anzi: (i) a livello nazionale è stata promossa una campagna di vaccinazione nei luoghi di lavoro attraverso l'adozione del «Protocollo nazionale per la realizzazione dei piani aziendali finalizzati all'attivazione di punti straordinari di vaccinazione anti SARS-COV-2/Covid-19 nei luoghi di lavoro» del 6 aprile 2021, integrato dalle «indicazioni ad interim per la vaccinazione guida anti SARS-COV-2/Covid-19 nei luoghi di lavoro» emanate da INAIL l'8 aprile 2021; (ii) le aziende, valutata l'efficienza della campagna vaccinale nazionale, hanno per lo più adottato specifiche misure (contrattuali) orientate ad agevolare la adesione dei propri dipendenti che contemplano, tra l'altro, riconoscimenti di permessi retribuiti a copertura dell'assenza dal servizio collegata alla vaccinazione o ai suoi effetti.
3. Nel contesto generale qui descritto il Governo, con il decreto approvato proprio in queste ore, oltre a differire il termine del periodo emergenziale al 31 dicembre 2021, promuove l'utilizzo del c.d. “green pass” la cui esibizione, ferma restando la libertà di non vaccinarsi, viene richiesta in sempre maggiori ambiti precludendo ai non vaccinati l'accesso a servizi (tra cui bar, ristoranti al chiuso, treni, aerei e navi a lunga percorrenza). Ne consegue che sebbene il Governo non abbia introdotto alcun obbligo di vaccinazione di portata generale la mancata immunizzazione preclude al cittadino un numero crescente di attività. Pochi giorni prima Confindustria ha assunto una specifica posizione diramando, in data 16 luglio 2021, una nota interna con la quale, al fine di tutelare tutti i lavoratori e lo svolgimento dei processi produttivi nel pieno rispetto delle libertà individuali, ha proposto l'estensione dell'utilizzo dei c.d. “green pass” per accedere ai contesti aziendali/lavoristici. L'approccio, in buona sostanza, ipotizza che l'avvenuta vaccinazione, certificata tramite green pass, possa assurgere a requisito necessario per legittimare lo svolgimento della prestazione lavorativa. Si apprende da dichiarazioni pubbliche del Governo che sono in corso confronti tra le Parti sociali per definire le modalità di utilizzo del green pass anche negli ambienti di lavoro.
4. Premessa l'inesistenza di un obbligo vaccinazione riferito agli ambienti di lavoro (poiché si tratta di un diritto individuale), ed in attesa che il dialogo tra le Parti sociali indichi una linea di comportamento generalmente esigibile, la prima questione che si impone di verificare per prendere consapevolezza dell'impatto giuslavoristico della scelta di non vaccinarsi è, chiaramente, quella di sapere se il datore di lavoro possa, o meno, acquisire il dato relativo alla vaccinazione di un dipendente.
Il Garante della privacy, come noto, ha assunto una posizione contraria e ha chiarito, con le FAQ pubblicate in data 17 febbraio 2021, che il datore di lavoro – nonostante gli oneri di cui è gravato - non può acquisire, nemmeno con il consenso del dipendente o tramite il medico competente, i nominativi del personale vaccinato o copia delle certificazioni vaccinali. Al contrario, il datore di lavoro può acquisire, in base al quadro normativo vigente, i soli giudizi di idoneità alla mansione specifica redatti dal medico competente. È bene chiarire che il provvedimento del Garante – a maggior ragione se si tratta di semplici FAQ pubblicate sul sito istituzionale – non vincolerebbe il Giudice del Lavoro, legittimato persino a disapplicare un provvedimento formale del Garante. Ciò fermo restando il rischio, questo piuttosto concreto, che il datore di lavoro venga sanzionato dal Garante stesso (impregiudicato, bene inteso, il diritto di impugnare la sanzione) ai sensi, tra l'altro, dell'art. 83 GDPR (Reg. CE 27 aprile 2016, n. 2016/679/UE).
La posizione assunta dal Garante è, a mio giudizio, errata. Come accaduto in altri ambiti applicativi del regime privacy anche in questo caso, infatti, il Garante non sembra considerare adeguatamente la specificità del rapporto di lavoro, e della sua peculiare disciplina, a partire dall'obbligo di porre in essere tutte le misure idonee a garantire la sicurezza e l'integrità psico-fisica di tutti i lavoratori, fragili e no vax compresi, all'interno dei luoghi di lavoro (art. 2087 c.c.). Ma vi è di più. Se è pur vero che non sono consentite discriminazioni in ragione delle convinzioni personali del lavoratore (art. 15 l. n. 300 del 1970), in applicazione dell'art. 8 l. n. 300 del 1970) il datore di lavoro, come noto, può legittimamente acquisire dal lavoratore tutte le informazioni dotate di rilevanza ai fini dell'esecuzione del contratto di lavoro in quanto rilevanti «ai fini della valutazione dell'attitudine professionale del lavoratore». Tale rilevanza contrattuale deve a mio avviso estendersi (anche) al dato relativo alla vaccinazione, laddove lo stesso è da considerare un dato rilevante ai fini della valutazione dell'attitudine professionale del lavoratore. Ciò nel senso, chiarisco meglio, che quel dato è essenziale per il proficuo, e sicuro, inserimento della prestazione lavorativa nell'ambito dell'organizzazione aziendale. Secondo la Cassazione «sono ammissibili tutte le indagini, anche su fatti privati e qualità personali, utili ad accertare la competenza, la preparazione e la compatibilità con il facere affidato» (Cass. civ. n. 2683 del 1990, in dottrina si v. PERRONE, Trattato Rescigno; DE CRISTOFARO, Riv. it. dir. lav., 1983; SCIARRA, Comm. Giugni, 1988).
È importante, infine anche considerare che il dato attinente alla vaccinazione potrebbe costituire, ai sensi dell'art. 9 del GDPR (Reg. CE 27 aprile 2016 n. 2016/679/UE), un «dato relativo alla salute» (definito dall'art. 4 come dato personale «attinente alla salute fisica o mentale di una persona fisica») e potrebbe essere lecitamente trattato, tra le altre ipotesi, qualora il trattamento sia necessario «per assolvere gli obblighi ed esercitare i diritti specifici del titolare del trattamento o dell'interessato in materia di diritto del lavoro e della sicurezza sociale e protezione sociale, e nella misura in cui sia autorizzato dal diritto dell'Unione o degli Stati membri o da un contratto collettivo ai sensi del diritto degli stati membri». La precisione valorizza ancora di più il dialogo sociale in atto, ma non è secondario ricordare che l'art. 29-bis d.l. n. 23 del 2020 prevede che ai fini della tutela contro il rischio di contagio da Covid-19 i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all'obbligo di cui all'art. 2087 c.c. mediante l'applicazione delle prescrizioni contenute nei protocolli condivisi. Orbene, come si dirà più diffusamente in avanti, il punto 12 del Protocollo del 6 aprile 2021, attivando le procedure ivi contemplate, demanda al medico competente il compito di individuare le misure di contenimento della diffusione del virus.
5. Affermata, nei termini e con i rischi qui esposti, la possibilità di accedere al dato relativo alla vaccinazione occorre, a questo punto, chiarire come tale dato sia utilizzabile e, in particolare, di quali strumenti organizzativi il datore di lavoro possa avvalersi nella gestione del rapporto di lavoro. Di recente, la giurisprudenza di merito ha fissato alcuni parametri utili per individuare le soluzioni organizzative da adottare. In particolare, con riferimento a quei lavoratori che svolgono prestazioni lavorative che comportano un costante contatto con il pubblico o l'utenza, l'ordinanza del Tribunale di Belluno del 19 marzo 2021 («ritenuto che è, pertanto, evidente il rischio per i ricorrenti di essere contagiati, essendo fra l'altro notorio che non è scientificamente provato che il vaccino per cui è causa prevenga, oltre alla malattia, anche l' infezione; ritenuto che la permanenza dei ricorrenti nel luogo di lavoro comporterebbe per il datore di lavoro la violazione dell'obbligo di cui all'art. 2087 c.c. il quale impone al datore di lavoro di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica dei suoi dipendenti; che è ormai notorio che il vaccino per cui è causa - notoriamente offerto, allo stato, soltanto al personale sanitario e non anche al personale di altre imprese, stante la attuale notoria scarsità per tutta la popolazione - costituisce una misura idonea a tutelare l' integrità fisica degli individui a cui è somministrato, prevenendo l'evoluzione della malattia»; il principio è stato confermato dal Tribunale di Verona con sentenza del 24 maggio 2021, n. 446 e del 16 giugno 2021, n. 626) – emessa prima dell'introduzione dell'obbligo vaccinale per il personale sanitario e, in verità, riferita in modo specifico a tale categoria di lavoratori - ha ritenuto legittima l'adozione da parte del datore di lavoro di misure «consequenziali» (in quel caso la collocazione in ferie forzate) come conseguenza del rifiuto a vaccinarsi di un operatore di una RSA che svolgeva di mansioni “di contatto”. Sulla base di analoghe motivazioni, il Tribunale di Modena, con ordinanza del 19 maggio 2021, ha ritenuto legittima la sospensione dalla prestazione di lavoro di una dipendente di una RSA in seguito al suo rifiuto di sottoporsi al vaccino contro il Covid-19.
Muovendo dai principi sino ad ora affermati dalla giurisprudenza di merito, e tenuto conto delle mansioni in concreto svolte dai lavoratori, ma anche del contesto organizzativo di riferimento, si possono ragionevolmente ipotizzare alcune misure improntate ad un principio di gradualità e proporzionalità nella gestione del personale che assume la determinazione di non vaccinarsi: adibizione a mansioni equivalenti, o anche inferiori, il cui svolgimento non richieda il contatto con pubblico/colleghi e che, dunque, possano essere svolte in ambienti che non prevedono contatti con terzi; svolgimento della prestazione di lavoro in modalità agile, qualora il contenuto specifico delle mansioni sia compatibile e purché le stesse continuino ad avere, per il datore di lavoro, un valore economicamente apprezzabile. Ma anche iniziative più drastiche quali, ad esempio, la collocazione del dipendente in ferie forzate (secondo le indicazioni fornite dal Tribunale di Verona con sentenza del 24 maggio 2021, n. 446) e, infine, la collocazione in aspettativa non retribuita e/o il rifiuto della prestazione in buona sostanza ipotizzato da Confindustria.
Si tratta di misure destinate ad incidere in modo significativo sullo svolgimento della prestazione di lavoro e sui connessi diritti del lavoratore, sino al punto si indurre l'azienda a sospendere il pagamento della retribuzione. Ne deriva che la loro legittimità presenta, oggettivamente, profili di consistente incertezza giacché in assenza di una specifica norma di legge che risolva la questione (oppure di un accordo tra le Parti sociali), ad esempio sancendo l'obbligo di vaccinazione, il bilanciamento tra il diritto alla autodeterminazione terapeutica e quello alla libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.) si espone alla mutevole percezione soggettiva dell'interprete. È, dunque, assai difficile prendere una posizione senza avvertire l'esigenza di un ulteriore e più sofisticato apparato argomentativo.
6. In questa prospettiva anticipo da subito la mia convinzione. L’unica via per legittimare tali misure è, probabilmente, quella di introdurle come misure volte al contenimento del rischio di contagio secondo quanto previsto dai Protocolli nazionali già stipulati, aggiornati e integrati da ultimo il 6 aprile 2021, per i quali, tra l’altro, «Il medico competente», oltre a «suggerire l’adizione di strategie di testing /screening», «collabora con il datore di lavoro, il RSPP e le RLS/RLST nell’identificazione ed attuazione delle misure volte al contenimento del rischio di contagio da virus SARS-CoV-2/COVID-19».
Alla base di tale convinzione ricordo il costante insegnamento della Corte Costituzionale (da ultimo sent. n. 58 del 2018) per il quale non esistono nel nostro ordinamento “diritti tiranni”, neanche quando è in considerazione il diritto alla salute (art. 32 Cost.), nessun diritto costituzionale è destinato a prevalere sull'altro, annullandolo e per la Core è pertanto necessario individuare il corretto bilanciamento tra i diversi diritti costituzionali coinvolti individuando, preventivamente, in via prioritaria, la specifica misura di sicurezza applicabile al caso di specie. Orbene, nel caso che stiamo considerando è stato proprio il legislatore ad indicare la tecnica di individuazione della misura di sicurezza applicabile identificandola nelle previsioni dei Protocolli nazionali e nelle procedimentalizzazioni ivi contemplate. L'art. 29-bis d.l. n. 23 del 2020 così dispone: «Ai fini della tutela contro il rischio di contagio da Covid-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all'obbligo di cui all'articolo 2087 del codice civile mediante l'applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del Covid-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni».
Se tale norma, in buona sostanza, individua il rispetto del contenuto dei protocolli quale condizione essenziale affinché possa dirsi adempiuto l'obbligo di sicurezza posto dall'art. 2087 c.c. in capo al datore di lavoro se ne deve ricavare che il datore di lavoro deve, per legge, applicare le misure di sicurezza previste dal protocollo o individuate nel rispetto delle procedure ivi previste. Mi riferisco, in particolare, al fatto i Protocolli nazionali da ultimo aggiornati il 6 aprile 2021 prevedono, tra l’altro, che:
- «nell'elaborazione dei piani aziendali oggetto del presente Protocollo, i datori di lavoro assicurano il confronto con il Comitato per l'applicazione e la verifica delle regole contenute nel Protocollo del 24 aprile 2020, tenendo conto della specificità di ogni singola realtà produttiva e delle particolari condizioni di esposizione al rischio di contagio e con il supporto del medico competente, ovvero con altri organismi aziendali previsti nell'ambito dei Protocolli di settore».
- «Il medico competente collabora con il datore di lavoro, il RSPP e le RLS/RLST nell'identificazione ed attuazione delle misure volte al contenimento del rischio di contagio da virus SARS-CoV-2/Covid-19”; ma anche che “Il medico competente, in considerazione del suo ruolo nella valutazione dei rischi e nella sorveglianza sanitaria, potrà suggerire l'adozione di strategie di testing/screening qualora ritenute utili al fine del contenimento della diffusione del virus e della salute dei lavoratori, anche tenuto conto dell'andamento epidemiologico nel territorio di riferimento e di quanto stabilito nella circolare del Ministero della salute dell'8 gennaio 2021»;
- il Comitato aziendale, con la partecipazione delle rappresentanze sindacali aziendali e del RLS, cura l’applicazione e e la verifica del Protocollo.
7. In conclusione, anche in applicazione dei principi affermati dalle sentenze della Corte Costituzionale qui sopra richiamate, in attesa che la questione venga affrontata ed eventualmente risolta direttamente dalle Parti sociali, come auspicabile, ritengo sia corretto affermare che nel difficile bilanciamento dei molti diritti coinvolti in questa materia il datore di lavoro possa legittimamente porre in essere, anche nei confronti dei no vax, tutte le misure di sicurezza contemplate dai Protocolli nazionali cui espressamente rinvia la legge e/o riconducibili alla loro diligente applicazione. Ciò, bene intese, intendendo il rinvio legislativo esteso, oltre che alle misure di sicurezza espressamente tipizzate dal Protocollo, anche a quelle dinamicamente individuate o individuabili nel necessario processo di adattamento dei Protocolli nazionali ai contesti aziendali. Con la centralità del ruolo del medico competente, nel rispetto delle procedure previste dagli accordi (a partire dal coinvolgimento del Comitato aziendale o territoriale) e con il coinvolgimento dei soggetti ivi previsti .