Sommario:
1. Il licenziamento per g.m.o. ai tempi del COVID-19.
Come noto, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (g.m.o.) è determinato da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa (art. 3, l. 15 luglio 1966, n. 604). È, altresì, noto che tali ragioni non si riferiscono solamente ad una crisi economica dell'impresa, bensì comprendono anche decisioni organizzative ovvero scelte imprenditoriali volte al conseguimento di un maggiore profitto [cfr. Cass. 7 dicembre 2016, n. 25201].
Nell'attuale stato di emergenza COVID-19, deliberato dal Governo il 31 gennaio 2020 con durata semestrale, ciascuna impresa ha dovuto fare i conti con un processo di riorganizzazione del lavoro e, spesso, di trasformazione aziendale. Ecco, allora, che non sembra difficile la sussistenza di quelle ragioni che legittimato il recesso del datore, appunto, per g.m.o.
Il legislatore è, così, intervenuto per limitare il potere di recesso del datore di lavoro anche in presenza della giustificazione che lo legittima. Infatti, nel decreto legge 17 marzo 2020, n. 18 viene prevista, come si vedrà, una sospensione di tale potere per un arco temporale di sessanta giorni dall'entrata in vigore del decreto. Prima di svolgere qualche breve considerazione su tale disposizione, ci si può soffermare un momento sul bilanciamento operato dal legislatore in questo tempo d'emergenza.
Nella relazione illustrativa al decreto, si dà atto che lo stesso «adotta i provvedimenti necessari per affrontare l'impatto economico di questa emergenza sui lavoratori, sulle famiglie e sulle imprese». Ciò al fine di conseguire tre obiettivi «prioritari: proteggere la salute dei cittadini, sostenere il sistema produttivo e salvaguardare la forza lavoro». Il legislatore ha, quindi, ritenuto di operare un restringimento tra la libertà di iniziativa economia (art. 41, comma 1, Cost.), e le scelte che da essa ne conseguono, ed un ampliamento del diritto al lavoro (art. 4, comma 1, Cost.), che in questo tempo d'emergenza sarebbe difficilmente mantenuto, in alcuni contesti produttivi, senza una norma limitativa del licenziamento datoriale per motivi oggettivi.
Tuttavia, si può osservare che una tale compressione del potere di recesso potrebbe comportare un sacrificio eccessivo delle esigenze datoriali, che godono anch'esse di protezione costituzionale. Occorre, però, notare che l'opera del legislatore è proprio quella di delineazione di un contemperamento tra i vari interessi: operando restringimenti ed ampliamenti in base alla discrezionalità politica e sociale del tempo in cui si pongono le norme [Crisafulli 1952, 37; H. Kelsen 1952, 52]. Il nostro ordinamento non si basa su una gerarchia tra i diritti costituzionali, bensì su un loro bilanciamento e ciò è da ritenersi valido anche nell'attuale stato d'eccezione [Schmitt 1972, 33, «sovrano è chi decide sullo stato d'eccezione»; Azzariti 2010], volendo altrimenti rinnegare la positività delle norme costituzionali [H. Kelsen 1985, 7; più di recente, v. Irti 2019, 117]. Bisogna, allora, considerare tale divieto nel contesto delle altre disposizioni che il decreto prescrive.
2. Divieto di licenziamento e misure assistenziali.
Nell'ottica dianzi descritta, si inserisce la previsione dell'art. 46, d.l. 17 marzo 2020, n. 18 (c.d. Cura Italia). La norma dispone un divieto, dal 17 marzo 2020 al 15 maggio 2020, di esercizio da parte del datore di lavoro, al di là del numero di dipendenti impiegati, del potere di recesso per giustificato motivo oggettivo dal contratto di lavoro.
Non serve, qui, soffermarsi oltre sul bilanciamento tra diritti costituzionali: la norma pone semplicemente un divieto temporaneo che rende l'esercizio del licenziamento per g.m.o. illegittimo.
Va, invece, inserito tale divieto nel contesto complessivo delle misure adottate dall'Esecutivo e, in particolare, con le previsioni del Titolo II, Capo I, d.l. n. 18/2020. Infatti, l'art. 19 consente ai datori di lavoro che sospendono o riducono l'attività lavorativa, a seguito dell'emergenza COVID-19, di presentare domanda di concessione del trattamento ordinario di integrazione salariale o di accesso all'assegno ordinario per periodi decorrenti dal 23 febbraio 2020, per un periodo massimo di nove settimane (pari a 63 giorni) e comunque entro il mese di agosto 2020. L'art. 20 estende il trattamento di integrazione salariale dell'art. 19 anche alle aziende che alla data del 23 febbraio 2020 hanno in corso un trattamento di integrazione salariale straordinario. L'art. 21 consente ai datori iscritti al fondo FIS (Fondo di integrazione salariale) che hanno in corso un assegno di solidarietà di sospendere e sostituire tale trattamento con la concessione dell'assegno ordinario ai sensi dell'art. 19 per un periodo non superiore a nove settimane (pari a 63 giorni). Infine, l'art. 22 prevede il riconoscimento, ad opera delle Regioni e Province autonome, di trattamenti di cassa integrazione salariale in deroga, per la durata della sospensione del rapporto di lavoro e comunque per un periodo non superiore a nove settimane (pari a 63 giorni).
È facile notare che il divieto di licenziamento per g.m.o. ha un'efficacia di poco inferiore (60 giorni) alle misure assistenziali (63 giorni) previste dal decreto e, di conseguenza nel suo periodo di vigenza il datore potrà, a condizione di soddisfare tutti i requisiti richiesti dalle richiamate norme, beneficiare di tali misure per, poi, in presenza di una ragione oggettiva, licenziare legittimamente il dipendente dal 16 maggio 2020 in poi.
L'art. 46 prevede, inoltre, per il medesimo periodo dal 17 marzo al 15 maggio 2020, il divieto di licenziamento collettivo ex artt. 4, 5 e 24, l. n. 223/1991 e la sospensione delle procedure stesse se avviate successivamente al 23 febbraio 2020. Tale preclusione viene esclusa, secondo l'aggiunta della legge di conversione del decreto, per «le ipotesi in cui il personale interessato dal recesso, già impiegato nell'appalto, sia riassunto a seguito di subentro di nuovo appaltatore in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro o di clausola del contratto d'appalto». Il legislatore fa' così salve quelle procedure di licenziamento collettivo nelle quali sia garantita, al di là del recesso dai rapporti di lavoro, la continuità dell'occupazione.
Restano esclusi dal divieto dell'art. 46 tutti i licenziamenti non rientranti nelle procedure della legge n. 223/1991 ovvero che non configurano un giustificato motivo oggettivo ex art. 3 della legge n. 604/1966, vale a dire: licenziamento disciplinare [salvo le ipotesi previste dagli artt. 23 e 24 (assenza del genitore per esistenza a figli fino a 16 anni di età) e dall'art. 47, comma 2, d.l. n. 17/2020 (assenza dal posto di lavoro da parte di uno dei genitori conviventi di una persona con disabilità, con tolleranza fino al 30 aprile 2020)], licenziamento ad nutum [per il caso dell'apprendista al termine del periodo di apprendistato ovvero del dirigente ovvero al termine del periodo di prova], licenziamento per superamento del periodo di comporto e licenziamento per sopravvenuta inidoneità/disabilità psico-fisica. Non sembra, invece, possa ritenersi ammesso il licenziamento per giustificato motivo oggettivo determinato da ragioni soggettive, in quanto incide comunque sulle ragioni individuate dall'art. 3 della legge n. 604/1966 ed esplicitamente richiamate dal legislatore.
Occorre, inoltre, precisare che per le aziende per le quali l'art. 1, comma 1, d.p.c.m. 22 marzo 2020 ha disposto la sospensione delle attività dal 23 marzo al 3 aprile 2020, l'art. 46 trova comunque applicazione. Durante tale periodo, infatti, si verifica un caso di impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa che risulta, pertanto, ipso facto sospesa. Ne consegue, pertanto, a seguito dell'impossibilità a rendere la prestazione, l'impedimento all'esercizio del licenziamento disciplinare ovvero ad nutum, ma non può essere, invece, escluso il recesso per g.m.o. Infatti, proprio a seguito della sospensione dell'attività, il datore potrebbe valutare di sopprimere una data posizione ovvero un dato reparto che erano, ad esempio, già in sofferenza. In questo caso, il licenziamento non trova luogo nell'impossibilità sopravvenuta, bensì nella ragione oggettiva individuata dal datore. Ecco, dunque, che non può escludersi l'applicazione dell'art. 46 anche per tali realtà produttive.
3. La non coincidenza tra fattispecie e sanzione.
Il punto di maggiore interesse che suscita, almeno per chi scrive, l'art. 46 è quello inerente le conseguenze sanzionatorie. Il legislatore non si è, infatti, preoccupato di far corrispondere al divieto posto una specifica sanzione in caso di violazione da parte del datore di lavoro. Bisogna, così, procedere in absentia alla ricerca della sanzione applicabile.
Per i licenziamenti collettivi, l'indagine risulta di maggiore facilità se si ammette che nessun sindacato proceda ovvero avalli una trattativa in costanza del divieto legale. Si può, pertanto, ritenere che l'ipotesi di illegittimità che si concretizza è, in questo caso, quella dell'aver attuato il licenziamento collettivo in violazione delle procedure dell'art. 4, comma 12, l. n. 223/1991 e, dunque, troverà applicazione, per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, l'art.18, comma 5, l. n. 300/1970 (indennità risarcitoria onnicomprensiva tra dodici e ventiquattro mensilità), mentre per quelli assunti dopo il 7 marzo 2015, l'art. 10 d.lgs. n. 23/2015 (indennità tra sei e trentasei mensilità).
Il discorso diviene più difficile per il divieto di licenziamento per g.m.o. individuale. In questo caso, infatti, sia l'art. 18, comma 7, l. n. 300/1970, sia l'art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015 definiscono con assoluta precisione la fattispecie di illegittimità: manifesta insussistenza del fatto posto a base ovvero non ricorrenza degli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Ora, risulta difficile, nello stato di emergenza COVID-19, che non sussista ovvero che non ricorrano per un'impresa le ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, al fine dell'esercizio del potere di recesso. Sicché, pur volendo dare attuazione alle sanzioni richiamate, ci si troverebbe dinnanzi alla mancata coincidenza tra fattispecie astratta e fattispecie concreta: con un licenziamento che viene intimato per un g.m.o. sussistente/ricorrente, ma che viene sanzionato da due norme che contemplano l'insussistenza ovvero la non ricorrenza. In altri termini: il giudice dichiara il licenziamento illegittimo per un vizio di cui il licenziamento non è affetto.
Direi, quindi, che non si possa percorrere tale strada, pena far dire alle norme ciò che non dicono [Come direbbe il Poeta, If, XXVII, 120: «per la contradizion che nol consente'»]. Si potrebbe tentare, allora, di ricorrere alle regole generali. L'art. 46, d.l. n. 18/2020 pone un divieto a licenziare per g.m.o.: se il datore licenziasse, violerebbe una norma imperativa. Ergo il licenziamento sarebbe nullo per violazione dell'art. 1418, comma 1, c.c. Sennonché, la previsione dell'art. 46 è proprio quella di impedire l'esercizio del recesso datoriale per g.m.o. per un dato periodo di tempo e, allora, si può affermare che la sua violazione rientri nel disposto dell'art. 1418, comma 3, c.c.: altri casi di nullità stabiliti dalla legge. La norma, infatti, non ha altro contenuto se non quello di porre un divieto e, dunque, di prevedere un'ipotesi di illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Si delinea, così, una fattispecie astratta che contempla tutti gli elementi del licenziamento per g.m.o., ma che diviene illecita perché posta in essere in un dato periodo (17 marzo-15 maggio 2020) in cui ricorre un divieto. L'illiceità non è, dunque, determinata dalla insussistenza del fatto posto a base ovvero dalla non ricorrenza degli estremi del licenziamento per g.m.o., bensì dall'aver esercitato il recesso per g.m.o., pur sussistente, in un periodo di tempo che il legislatore ritiene vietato. Tanto è vero che la stessa fattispecie di licenziamento per g.m.o. sussistente oggi e, quindi, illegittima, diviene legittima, se sussistono le ragioni di cui all'art. 3, a partire dal 16 maggio 2020.
Ecco, allora, che l'art. 46 prescrive, espressamente, un caso di nullità del licenziamento ex art. 1418, comma 3, c.c. Sul piano sanzionatorio, deve, dunque, trovare applicazione: per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, la tutela dell'art. 18, comma 1, l. n. 300/1970 (reintegrazione e indennità risarcitoria non inferiore a cinque mensilità); per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, la tutela dell'art. 2, comma 1, d.lgs. n. 23/2015 (reintegrazione e indennità non inferiore a cinque mensilità).
Un'ultima notazione deve essere fatta per la possibilità di accordo conciliativo ovvero di offerta conciliativa ex art. 6, d.lgs. n. 23/2015, con riferimento a questa ipotesi di illegittimità. Come detto, l'art. 46 pone solamente un divieto a licenziare per g.m.o. per il periodo dal 17 marzo al 15 maggio 2020; non interviene su nessun altro aspetto e, dunque, per tutto il resto seguono le ordinarie regole in materia di licenziamento. Non può, così, escludersi un'impugnazione del licenziamento da parte del lavoratore a cui segua un accordo conciliativo ovvero un'offerta conciliativa. A mio modesto avviso, sarà onere del conciliatore indicare nel verbale che la controversia sull'illegittimità del licenziamento è sorta in base alla violazione dell'art. 46, d.l. n. 18/2020, proprio per la temporaneità che tale illegittimità assume.
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