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Lavoro 19.03.2020

Emergenza COVID-19 e prime osservazioni in ordine agli effetti sulle controversie di lavoro

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Il differimento delle udienze nel “primo” periodo di emergenza (9 marzo – 15 aprile).

Già il d.l. 5 marzo 2020, n. 11, all'art. 1, primo comma, aveva introdotto un regime parzialmente generalizzato di sospensione delle udienze cadenti nel periodo 9-22 marzo, con loro differimento a data successiva al termine di tale periodo. L'art. 83, comma 22, d.l. 16 marzo 2020, n. 18 (in prosieguo anche D.L. Cura Italia) ha abrogato il predetto art. 1 del D.L. n. 11, così come l'art. 2, ma la relativa disciplina risulta pressochè integralmente riproposta, sia pure con alcune modifiche; per effetto della nuova disciplina, introdotta dal 1° comma del citato art. 83, il termine finale di questo periodo di rinvio delle udienze, decorrente dal 9 marzo, è stato prorogato al 15 aprile 2020.

Per quanto attiene, invece, al periodo temporalmente successivo rispetto a quello riguardato dal comma 1 (ovvero dal 16 aprile al 30 giugno 2020), l'art. 83, comma 7 lett. g), d.l. Cura Italia, ha inserito il differimento delle udienze (ovviamente a data successiva al 30 giugno 2020) tra le misure organizzative che i Capi degli Uffici Giudiziari possono adottare al fine di limitare il pericolo di contagio.

Entrambi i regimi di differimento delle udienze (necessario, il primo, discrezionale il secondo) hanno in comune la previsione (contenuta nell'art. 83, comma 3, n. 1 d.l.n. 18 del 2020) di una serie di eccezioni. Tra le quali, per quanto trova applicazione alle controversie di lavoro, rilevano principalmente due fattispecie: una di carattere generale, riguardante «tutti i procedimenti la cui ritardata trattazione può produrre grave pregiudizio alle parti» ed altra più specifica, relativa ai «procedimenti cautelari aventi ad oggetto la tutela di diritti fondamentali della persona».

Ad entrambe le ipotesi sembra applicabile la previsione, espressamente sancita solo per la verifica della sussistenza della fattispecie generale, in base alla quale, la ricorrenza della condizione di urgenza debba essere accertata, «per le cause già iniziate, con provvedimento del giudice istruttore o del presidente del collegio, egualmente non impugnabile», mentre nelle altre cause (ovvero – è da ritenere – quelle promosse dopo il 9 marzo e sino al 15 aprile o, in presenza di una misura organizzativa, dopo il 16 aprile e sino al 30 giugno), «dal capo dell'ufficio giudiziario o dal suo delegato in calce alla citazione o al ricorso».

Questa ultima previsione, con riferimento ai riti lavoristici, sempre introdotti con ricorso, lascia perplessi, poiché è sempre il giudice designato a fissare l'udienza di discussione della causa ed è difficile comprendere, a questi fini, in quali termini, sotto il profilo temporale, il giudice designato possa essere vincolato dalla dichiarazione d'urgenza emessa dal capo dell'ufficio giudiziario prima della assegnazione della causa, considerati, da un lato, il necessario rispetto dei termini a comparire e, dall'altro, la necessità per il Giudice designato, in aggiunta alle normali valutazioni di carattere organizzativo derivanti dal carico del ruolo, di considerare anche le straordinarie esigenze, determinate dall'emergenza e dalle conseguenti problematiche sanitarie costituenti il fondamento di tutta la disciplina in esame, di un più rigido scaglionamento degli orari di udienza.

È indubbio che la dichiarazione di urgenza, oltre a poter essere disposta d'ufficio dal Magistrato all'atto di verificare quali siano le cause da rinviare rispetto ad ogni udienza già fissata, può essere stimolata da un'istanza a lui rivolta telematicamente dalla parte interessata, istanza rispetto alla quale il provvedimento ben può essere emesso inaudita altera parte, avendo natura meramente ordinatoria, non incidente sul contraddittorio.

 

- Quando ricorre l'ipotesi del grave pregiudizio che impone la dichiarazione d'urgenza?

 

La formula utilizzata dalla disposizione riproduce quella di cui all'art. 642 c.p.c. (in tema di concessione della provvisoria esecuzione del decreto nella fase di emissione), denotando l'intenzione di attribuire al giudice, caso per caso, una certa discrezionalità nella valutazione di esigenze di urgenza, da ritenersi per lo più riconducibili, nelle controversie lavoristiche, a qualunque situazione di pericolo per l'attore di non vedere concretamente attuate le ragioni azionate in caso di differimento dell'udienza.

Ciò che comporta l'applicabilità della previsione anche alle controversie aventi contenuto economico, ad es., in tutti i casi nei quali il differimento della trattazione, alla stregua della natura del credito o di prospettazioni del ricorrente che appaiano, almeno prima facie, fondate, potrebbe incidere significativamente sulla sua condizione personale o familiare.

Sembra doversi comunque escludere un'interpretazione restrittiva che limiti la portata della disposta eccezione ai soli casi di irreparabilità del pregiudizio.

Va anche osservato che la disposizione ha inserito tra i procedimenti non rinviabili specificamente elencati quelli di cui agli artt. 283, 351 e 373 c.p.c., ovvero le inibitorie finalizzate alla sospensione della efficacia esecutiva o dell'esecuzione delle pronunce di primo grado, emesse con il rito di cognizione ordinario e di tutte quelle di secondo grado (oltre che in caso di revocazione e di opposizione di terzo); se l'art. 373 c.p.c. (applicabile anche alle sentenze di secondo grado emesse con il rito del lavoro) fosse stato richiamato solo con riferimento alle pronunce emesse con il rito ordinario di cognizione, il mancato rinvio all'art. 431 c.p.c. potrebbe spiegarsi ipotizzando la volontà di imporre, in materia di lavoro, una valutazione caso per caso dell'urgenza. Atteso il richiamo illimitato, sembra più plausibile che il mancato rinvio all'art. 431 c.p.c. sia il frutto di mera dimenticanza (peraltro dimostrata anche dal mancato richiamo di altre ipotesi di inibitoria non meno rilevanti: ad es. ex artt. 649, 615 c.p.c., etc.). È, tuttavia, indubbio che ciò comporterà l'esigenza della Corte di Appello di pronunciarsi sul pericolo di grave pregiudizio.

 

- Quali sono i procedimenti cautelari che hanno ad oggetto la tutela dei diritti fondamentali della persona?

 

L'individuazione dell'esatto contenuto della categoria giuridica “diritti fondamentali della persona” imporrebbe una trattazione sovrabbondante rispetto alle finalità della presente nota, involgendo l'esame di fonti sovranazionali (come la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e la Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo) e approfondimenti di carattere costituzionale (soprattutto alla luce della formula utilizzata dalla Carta Fondamentale nell'art. 2 e della sua qualificazione come clausola aperta).

È altrettanto noto il dibattito dottrinale tra chi ritiene che, per diritti della persona si intendano esclusivamente diritti assoluti (tutelati, quindi, erga omnes) e di natura non patrimoniale e chi, invece, esclude tale dimensionamento, osservando che la rilevanza patrimoniale di questi diritti emerge comunque all'esito della loro lesione.

Per quanto qui rileva, può pragmaticamente osservarsi che il riferimento ai diritti fondamentali della persona impone di ritenere che non ogni procedimento cautelare debba essere sottratto al rinvio, ma solo quelli aventi ad oggetto diritti che involgano i principi di cui agli artt. 1-12 Cost. ed alla successiva parte relativa ai diritti-doveri del cittadino, sì da includere, in particolare, e senza pretesa di esaustività, il diritto al nome, all'onore, alla salute, al ritratto, all'immagine, all'identità personale, alla riservatezza, all'integrità della vita di relazione, al lavoro, etc.

Il che non esclude necessariamente dall'eccezione al rinvio i procedimenti cautelari aventi ad oggetto diritti di contenuto squisitamente economico, ma – ad avviso di chi scrive – in applicazione della clausola generale sopra esaminata e, pertanto, sulla base della valutazione del caso concreto.

 

- Come vanno considerati i procedimenti oggetto della fase sommaria del rito ex art. 1, commi 47 ss., l. 92 del 2012 .

 

È noto che, secondo quanto ancora recentemente ribadito dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 194 del 2018, il diritto al lavoro sancito dagli artt. 1, 4 e 35 Cost. va qualificato come «fondamentale diritto di libertà della persona umana» e, pur non garantendo «il diritto alla conservazione del lavoro», tuttavia «esige che il legislatore (…) adegui (…) la disciplina dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato al fine ultimo di assicurare a tutti la continuità del lavoro, e circondi di doverose garanzie (…) e di opportuni temperamenti i casi in cui si renda necessario far luogo a licenziamenti» (così già Corte Cost. n. 45 del 1965). Anche più recentemente, la Consulta ha ribadito: che l'art. 4 Cost. garantisce il «diritto a non essere estromesso dal lavoro ingiustamente o irragionevolmente» (Corte Cost. n. 60 del 1991); la conseguente vigenza di una «garanzia costituzionale [del] diritto di non subire un licenziamento arbitrario» (Corte Cost. n. 541 del 2000); l'«indirizzo di progressiva garanzia del diritto al lavoro previsto dagli artt. 4 e 35 Cost., che ha portato, nel tempo, a introdurre temperamenti al potere di recesso del datore di lavoro» (Corte Cost. n. 46 del 2000); l'affermazione che «la materia dei licenziamenti individuali è oggi regolata, in presenza degli artt. 4 e 35 della Costituzione, in base al principio della necessaria giustificazione del recesso» (Corte Cost. n. 41 del 2003).

Se si considera che, secondo la consolidata ricostruzione del rito operata da dottrina e giurisprudenza, il procedimento previsto dall'art. 1, commi 47 ss., l. n. 92 del 2012, quanto meno nella fase sommaria, risponde all'esigenza di garantire con carattere di generalità una tutela sommaria, sebbene non cautelare, ma comunque urgente, ai diritti tutelati dall'art. 18 S.L., sorprende che questo procedimento non sia stato inserito ex professo tra le eccezioni all'obbligo, nel primo periodo, ed alla facoltà, nel secondo periodo, di differimento delle udienze. Si consideri, infatti, che trattasi di un procedimento per sua natura finalizzato esattamente alla tutela, nel senso sopra riguardato, del diritto al lavoro.

Ad avviso di chi scrive, tuttavia, anche al fine di adottare una interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione, che altrimenti non giustificherebbe la disparità di trattamento, va ritenuto che il rito Fornero, pur non potendosi qualificare come di natura cautelare, bensì sommaria, cumuli entrambe le rationes normative poste a fondamento della disposta eccezione alla previsione del rinvio e che, quindi, le relative udienze della fase sommaria non possano essere soggette a differimento.

 

Le misure organizzative per contenere il pericolo di contagio nel “secondo” periodo di emergenza (15 aprile – 30 giugno).

Relativamente al periodo decorrente dal 15 aprile al 30 giugno, l'art. 83, comma 6, d.l. Cura Italia (in conformità al precedente art. 2 d.l. n. 11) obbliga i «capi degli uffici giudiziari» (previe una serie di consultazioni) ad adottare «misure organizzative (…) al fine di evitare assembramenti all'interno dell'ufficio giudiziario e contatti ravvicinati tra le persone»; al settimo comma, la predetta disposizione, individua una serie di possibili misure riguardanti, sia l'organizzazione del lavoro degli uffici, che lo svolgimento delle udienze.

Per quanto attiene a queste ultime, possono riguardare le controversie di lavoro, le misure di cui: alla lett. f), che prevede udienze da tenersi «mediante collegamenti da remoto»; alla lett. g), che prevede il possibile rinvio «a data successiva al 30 giugno 2020»; alla lett. h), che prevede una sorta di trattazione scritta (a contenuto limitato) ed in via telematica.

Va precisato che, in virtù di quanto ora disposto dal comma 5 dell'art. 1 d.l.n. 18 del 2020, le misure organizzative di cui alle lett. f) ed h) possono essere facoltativamente adottate dai Capi degli Uffici anche nel primo periodo (9 marzo-15 aprile) per i casi di eccezione al differimento necessario delle udienze.

 

Venendo all'esame di tali misure:

 

- Sull'ipotesi di cui alla lett. g) si è già detto nel precedente paragrafo. È evidente che la scelta operata è nel senso di imporre che la soluzione del differimento facoltativo, per il periodo successivo al 15 aprile 2020, sia adottata da ogni Ufficio Giudiziario sulla base di criteri quanto più possibile uniformi e non rimessi al singolo magistrato.

- Per quanto attiene alle udienze da remoto di cui alla lett. f), la norma ha previsto che tale fattispecie sia consentita per tutte le «udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori e dalle parti»; ciò che porta immediatamente ad escludere l'utilizzabilità di questo strumento nelle udienze che prevedano la comparizione di ausiliari o di testimoni; rispetto alle quali, quindi, salvo che non ricorrano le eccezioni di cui al comma 3 n. 1, sarà giocoforza che i capi degli uffici, se ritengano che la trattazione nelle forme ordinarie non consenta, in relazione alle concrete condizioni logistiche degli Uffici, di garantire «il rispetto delle indicazioni igienico-sanitarie fornite dal Ministero della Salute» ed in particolare, di «evitare assembramenti all'interno dell'ufficio giudiziario e contatti ravvicinati tra le persone», dovranno prevedere il differimento a data successiva al 30 giugno 2020.

Per le udienze che potranno tenersi da remoto, la lettera f) dell'art. 1, comma 7, d.l. Cura Italia ha, poi, previsto che i collegamenti siano «regolati con provvedimento del direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della Giustizia».

Ciò è avvenuto con provvedimento in data 10 marzo 2020, che ha disposto che il collegamento debba essere «organizzato dal Giudice» ed ha individuato i programmi informatici utilizzabili ed a disposizione dell'Amministrazione.

La lett. f) dell'art. 1, comma 7, d.l. Cura Italia prevede testualmente: «Lo svolgimento dell'udienza deve in ogni caso avvenire con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l'effettiva partecipazione delle parti. Prima dell'udienza il giudice fa comunicare ai procuratori delle parti … giorno, ora e modalità di collegamento. All'udienza il giudice dà atto a verbale delle modalità con cui si accerta dell'identità dei soggetti partecipanti e, ove trattasi di parti, della loro libera volontà. Di tutte le ulteriori operazioni è dato atto nel processo verbale».

Tali previsioni rendono manifesto il timore di un utilizzo dello strumento informatico che, per il solo fatto di consentire che le parti ed i loro difensori formulino dichiarazioni a distanza, possa non offrire al giudice che le raccolga, una sufficiente garanzia di autenticità e libertà.

La diffidenza per questo strumento e per le ipotetiche violazioni del contraddittorio che potrebbero derivare soprattutto dalla inadeguatezza dello strumento elettronico nella concreta disponibilità della parte, appare alla base delle disposizioni contenute in alcuni (primi) provvedimenti dei capi degli Uffici Giudiziari, che condizionano la attuabilità dell'udienza da remoto ad una espressa manifestazione di consenso a questa modalità di trattazione ad opera di tutte le parti (così, ad es., il Pres.te della Corte di Appello di Roma con provvedimento 13 marzo 2020 prot. 9266).

- Per quanto attiene, infine, alle udienze con trattazione scritta di cui alla lett. h), la relativa disposizione facoltizza a questa modalità di svolgimento mediante il mero «scambio e deposito in telematico di note scritte contenenti le sole istanze e conclusioni e la successiva adozione fuori udienza del provvedimento del giudice” e solo per le udienze “che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti».

La prima considerazione, del tutto ovvia, riguarda l'inapplicabilità della disposizione, oltre che all'udienza in cui si svolga attività istruttoria, più in generale all'udienza ex art. 420 c.p.c., che impone la presenza delle parti anche ai fini del tentativo di conciliazione e ne qualifica l'assenza come «comportamento valutabile».

In realtà, la misura di cui alla lettera h) non si concilia facilmente con la vocazione orale del rito lavoristico.

Essa appare sostanzialmente compatibile con la sola udienza di discussione ai sensi del sesto comma del citato art. 420 c.p.c. A ciò non osta la previsione che l'udienza si realizzi mediante il deposito di «note scritte contenenti le sole istanze e conclusioni»,perché tale previsione può cumularsi con quella del citato sesto comma dell'art. 420 c.p.c., conciliandosi con essa, sol che vengano fissati distinti termini, dapprima per il deposito e lo scambio di «note difensive», eventualmente anche in replica, e, all'esito, per il deposito delle note (sostitutive) d'udienza, contenenti le «sole istanze e conclusioni».

La sospensione dei termini processuali e sostanziali.

Il comma 2 dell'art. 1 d.l. n. 11 del 2020 aveva previsto la sospensione, nell'arco del periodo 9-22 marzo, dei «termini per il compimento di qualsiasi atto dei procedimenti indicati al comma 1, ferme le eccezioni richiamate». Per effetto dell'art. 83, comma 2, d.l. Cura Italia, l'arco temporale all'interno del quale opera la sospensione è stata estesa sino al 15 aprile 2020.

Nell'immediatezza dell'entrata in vigore del d.l. n. 11, in alcuni commenti si era ipotizzato che, per effetto del rinvio al 1° comma che disciplinava il differimento delle udienze, la sospensione disposta dal comma 2 dell'art. 1, non riguardasse la generalità dei termini cadenti nel periodo riguardato, bensì solo quelli relativi ai procedimenti le cui udienze fossero fissate all'interno del periodo e rinviate d'ufficio.

La questione, ad avviso dello scrivente, era assai discutibile sul piano ermeneutico, sia considerando che nello stesso art. 1 del D.L. n. 11, al terzo comma, è prevista altra disposizione con la quale, allorquando si è inteso riferirsi ai soli procedimenti oggetto di rinvio, lo si è specificato, sia soprattutto in virtù dell'esigenza di privilegiare una lettura che eviti profili di irrazionalità della disposta sospensione.

In ogni caso, la questione appare risolta dall'abrogazione dell'art. 1 d.l. n. 11 del2020 e dalla nuova formulazione del comma 2 dell'art. 83 d.l. n. 18 del 2020, che ha statuito che la sospensione, all'interno del periodo 9 marzo – 15 aprile, riguarda «il decorso dei termini per il compimento di qualsiasi atto dei procedimenti civili e penali» ed ha precisato che vi soggiacciono «i termini stabiliti (…) per l'adozione di provvedimenti giudiziali e per il deposito della loro motivazione, per la proposizione degli atti introduttivi del giudizio e dei procedimenti esecutivi, per le impugnazioni e, in genere, tutti i termini procedurali».

Deve, quindi, ritenersi che la sospensione riguardi tutti i termini processuali cadenti nel periodo 9 marzo – 15 aprile, con la sola eccezione di quelli relativi ai procedimenti le cui udienze verranno comunque trattate in detto arco temporale (il terzo comma dell'art. 83 esclude espressamente l'operatività dei commi 1 e 2 in tutti i casi nei quali, in via di eccezione al 1° comma, le udienze non possano essere rinviate).

Nella relazione illustrativa al citato art. 83, si precisa espressamente che l'intento della disposizione è quella di far sì che la sospensione si applichi «a tutti i procedimenti civili e penali e non certo ai soli procedimenti in cui sia stato disposto un rinvio di udienza»; sempre all'interno della relazione è, inoltre, stato precisato che il generico riferimento a tutti i procedimenti «civili e penali», e non più a quelli di cui al primo comma (che aggiungeva l'aggettivo «pendenti»), risponde anche alla finalità di escludere il «dubbio» che la sospensione non possa trovare applicazione ai termini per l'impugnazione delle sentenze; in verità, anche tale dubbio appare privo di fondatezza, poiché, a realizzare la “pendenza” della lite, è necessario e sufficiente che il giudizio sia stato proposto in primo grado e che il termine per l'impugnazione sia cadente nel periodo di sospensione

Nel terzo periodo del comma 2 dell'art. 83 d.l. n. 18 del 2020, si prevede che, «ove il decorso» del termine sospeso «abbia inizio durante il periodo di sospensione, l'inizio stesso è differito alla fine» del periodo. La disposizione appare sovrabbondante e, salva una lettura che la renderebbe del tutto priva di razionalità, non può far opinare che la decorrenza dal 16 aprile 2020 del termine sospeso operi con esclusivo riferimento a quei termini che abbiano iniziato a decorrere soltanto all'interno del periodo di sospensione. L'istituto della sospensione introduce una parentesi temporale all'interno del periodo considerato, rendendo il decorso del tempo, in parte qua, improduttivo di effetti; conseguenza che opererà, quindi, sia rispetto ai termini che abbiano cominciato a decorrere prima del 9 marzo, sia rispetto a quelli la cui teorica decorrenza sarebbe iniziata dopo tale data e prima del 15 aprile.

Il d.l. n. 18 del 2020 ha inserito nel comma 2 dell'art. 83 un quarto periodo del seguente tenore: «Quando il termine è computato a ritroso e ricade in tutto o in parte nel periodo di sospensione, è differita l'udienza o l'attività da cui decorre il termine in modo da consentirne il decorso».

La disposizione risponde allo scopo di evitare che, rispetto a tali termini, la sospensione sia ritenuta non potere operare o addirittura produca l'effetto perverso di farne retroagire la scadenza ad una data antecedente all'inizio del periodo di sospensione.

Per effetto di detta disposizione, anche successivamente al 15 aprile 2020, gli Uffici Giudiziari dovranno provvedere al rinvio d'ufficio di tutte le udienze relative a procedimenti nei quali, ex lege, o in virtù di provvedimento del Giudice, fossero assegnati alle parti termini a ritroso (ad es., per la costituzione in giudizio ex art. 416 c.p.c.) per l'esercizio di attività difensive cadenti all'interno del periodo di sospensione.

È comunque indubbia l'esigenza che i Magistrati provvedano con tempestività (ovvero, possibilmente, prima dello spirare del termine a ritroso) rispetto a tutte le udienze che risultino fissate all'interno del “primo” periodo; l'astratta possibilità che tali udienze non siano differite, in quanto relative a cause ritenute “urgenti”, rende, infatti, incerta l'effettiva sospensione del termine.

Una questione irrisolta appare quella del termine a data fissa cadente all'interno del periodo di sospensione; tuttavia, poiché anche tale termine deve ritenersi sospeso, sarà dato alle parti interessate chiedere ed ottenere la concessione di un nuovo termine, in applicazione estensiva dell'art. 153,  comma 2, c.p.c.

La relazione illustrativa valorizza anche il fatto che la disposizione abbia puntualizzato che la sospensione «riguarda tutti i termini procedurali» e, quindi, involga «anche [i] procedimenti esecutivi e concorsuali»; ne dovrebbe, quindi, conseguire la sicura applicazione anche ai termini per la proposizione delle istanze di ammissione al passivo, che, peraltro, essendo previsti come termini a ritroso rispetto all'udienza di verifica dei crediti, imporranno la rifissazione di tale udienza da parte del Tribunale Fallimentare. Peraltro, rispetto a questi termini, la sicura qualificabilità della fase di verifica dei crediti come oggetto di attività giurisdizionale contenziosa impone di ricollegare l'effetto sospensivo già solo al riferimento, contenuto nella disposizione, a «qualsiasi atto dei procedimenti civili».

Quanto alla sospensione dei termini di prescrizione e decadenza, va ricordato che l'art. 10, comma 4, d.l. n. 9 del 2020 prevedeva tale effetto, relativamente al periodo 22 febbraio-31 marzo 2020, in favore dei residenti nei Comuni di cui all'all. 1 al d.P.C.M. 1° marzo 2020 (cd zona rossa). La sospensione riguardava «il decorso dei termini perentori, legali e convenzionali, sostanziali e processuali, comportanti prescrizioni e decadenze da qualsiasi diritto, azione ed eccezione, nonché dei termini per gli adempimenti contrattuali», nonché «i termini relativi ai processi esecutivi» ed «alle procedure concorsuali, nonché i termini di notificazione dei processi verbali, di esecuzione del pagamento in misura ridotta, di svolgimento di attività difensiva e per la presentazione di ricorsi giurisdizionali».

Il comma 18 di detta disposizione estendeva, poi, l'operatività territoriale-soggettiva di detta sospensione in caso di successivo ampliamento delle c.d. “zone rosse”.

Il progressivo ampliamento (attuato con i d.P.C.M. 4 marzo 2020, 8marzo 2020, 9marzo 2020 e 11marzo 2020) dell'area riguardata dalle misure di limitazione delle attività e soprattutto delle facoltà di mobilità, aveva indotto ad ipotizzare che la sospensione di tutti i termini, anche di carattere sostanziale, espressamente prevista dal citato art. 10, comma 4, potesse ritenersi estesa all'intero territorio nazionale. Conclusione, questa, ad avviso di taluni, avvalorata dalla previsione, nel terzo comma dell'art.1 d.l. n. 11 del 2020, della seguente disposizione: «Resta ferma l'applicazione delle disposizioni di cui all'articolo 10 del decreto-legge 2 marzo 2020 n. 9».

Quest'ultima disposizione, peraltro di incerta lettura, non essendo chiaro se il suo intento fosse quello sopra ipotizzato o, invece, quello di confermare l'efficacia dell'art. 10 con il suo originario ambito territoriale di applicazione nonostante la soppressione, nelle ex zone rosse, delle più stringenti limitazioni originariamente previste dal d.l. n. 9 del 2020, è stata anch'essa travolta dalla abrogazione dell'intero art. 1 d.l. n. 11 del 2020, ad opera del comma 22 dell'art. 83 d.l. Cura Italia.

L'unica disposizione contenuta, a riguardo di questa tematica, nell'art. 83 d.l. n. 18 del 2020 è ora quella di cui al comma 8: «Per il periodo di efficacia dei provvedimenti di cui ai commi 5 e 6 che precludano la presentazione della domanda giudiziale è sospesa la decorrenza dei termini di prescrizione e decadenza dei diritti che possono essere esercitati esclusivamente mediante il compimento delle attività precluse dai provvedimenti medesimi».

La disposizione riproduce parzialmente il comma 3 dell'art. 2 d.l. n. 11 del 2020, rettificando l'esclusione (ivi contenuta) dell'effetto sospensivo per i termini cadenti nel “primo” periodo di emergenza, ma ribadendo che la sospensione, quanto agli effetti sostanziali (prescrizione e decadenza), si realizza soltanto se non sia possibile evitare le conseguenze estintive del diritto con un atto stragiudiziale e sempre che «la presentazione della domanda giudiziale» sia preclusa dai «provvedimenti» di cui ai primi due commi della stessa disposizione.

Ora, se si considera che le previsioni di cui ai commi 1 e 2 dell'art. 83 non introducono discipline preclusive della «presentazione» di alcuna domanda giudiziale, sempre consentita, sia pure con modalità telematiche (ora, peraltro, non facoltative, bensì obbligatorie, sino al 30 giugno 2020, a sensi del comma 11 del medesimo art. 83), l'unico riferimento concreto che sembra ascrivibile, in parte qua, alla disposizione, per quanto attiene ai diritti tutelabili in sede civile, riguarda i procedimenti che si svolgano avanti agli uffici giudiziari per i quali ancora non opera il processo telematico, ovvero soltanto Cassazione e Giudice di Pace. Anche rispetto a detti procedimenti, tuttavia, la preclusione produce effetti squisitamente processuali, come tali già prevenuti dalla sospensione del termine disposta dal comma 2.

Ne consegue che, anche così come modificata dal d.l. n. 18 del 2020, la disposizione in esame appare priva di ogni concreta rilevanza applicativa, se non nel senso di chiarire il limitato effetto, ai fini sostanziali, della sospensione dei termini disposta dal comma 2 dell'art. 83.

Ciò è di particolare evidenza in tema di decadenza dall'impugnazione del licenziamento.

Ad avviso di chi scrive, infatti, proprio per effetto del citato ottavo comma dell'art. 83, l'effetto decadenziale è impedito dalla sospensione dei termini processuali disposta dal comma 2, soltanto nel caso del secondo alinea del comma 2 dell'art. 6 l. n. 604 del 1966, ovvero in relazione al termine di sessanta giorni susseguente al rifiuto del tentativo di conciliazione; ed infatti, la decadenza dagli altri termini, sia da quello di cui al comma 1 dell'art. 6 l. n. 604 del 1966 (sessanta giorni dal licenziamento), sia da quello di cui al primo alinea del comma 2 del medesimo art. 6 (centottanta giorni dall'impugnazione stragiudiziale), può essere impedita anche da un'attività stragiudiziale (la contestazione del recesso e, rispettivamente, la richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione) e ciò, di per sé, esclude la sospensione degli effetti sostanziali come prevista dal comma 8 dell'art. 83 d.l. n. 18 del 2020.

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