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Lavoro 14.12.2022

Riforma del processo civile in Cassazione: unificazione dei riti camerali e procedimento accelerato (focus sulle controversie lavoristiche)

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1.   La disciplina vigente

La recentissima riforma del processo civile (d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, attuativo della legge delega 26 novembre 2021, n. 206, in prosieguo, per brevità: la Riforma) non sembra catalizzare più di tanto l'interesse dei giuslavoristi, sul presupposto che, solo marginalmente, sia coinvolto in via diretta il processo del lavoro.

Abrogazioni e modifiche riguardano, in effetti, soltanto il “rito Fornero” (v. art. 37, comma 1, lett. e), d.lgs. n. 149/2022), con la connessa introduzione di un capo 1-bis (“Delle controversie relative ai licenziamenti”) dopo il capo I del Libro II, Titolo IV del codice di rito (v. art. 1, comma 32, d.lgs. n. 149/2022), che tuttavia riconduce nuovamente i giudizi di impugnazione dei licenziamenti nell'alveo del rito lavoristico ordinario, nonché le modifiche, per il grado di appello, ai soli artt. 430, 434, 436-bis, 437 e 438 c.p.c. (v. art. 1, commi 30 e 31, d.lgs. n. 149/2022).

Non va, tuttavia, sottovalutato che rilevanti effetti indiretti sul processo lavoristico saranno prodotti dalla introduzione, dopo l'art. 127 c.p.c., degli artt. 127-bis e 127-ter, che attribuiscono, con alcuni correttivi, carattere di definitività alle soluzioni “emergenziali” della udienza da remoto e dell'udienza con trattazione scritta, soprattutto la seconda delle quali manifesta alcune criticità, nel momento in cui sia estesa al rito del lavoro, in ragione dei principi ispiratori di quest'ultimo (con particolare riferimento all'oralità).

Ulteriori conseguenze sulle controversie lavoristiche vanno, poi, ricondotte alle modifiche di respiro “generale”, riguardanti, sia il Libro II, Tit. III, capo I e capo II, del codice (art. 1, commi 25 e 26, d.lgs. n. 149/2022) e, quindi, impugnazioni e procedimento ordinario in grado di appello, sia alcune disposizioni del Libro II, Tit. III, capo III e capo IV, riguardanti il processo in cassazione, la revocazione delle sentenze ed il giudizio di rinvio (art. 1, commi 27, 28 e 29, d.lgs. n. 149/2022).

Per quanto concerne il giudizio di cassazione (al cui ambito è circoscritto il presente commento), la novità più rilevante della Riforma è sicuramente costituita dalla soppressione della Sesta Sezione (ovvero della “apposita sezione” di cui al comma 1 dell'art. 376 c.p.c.), con la unificazione dei riti camerali, nell'ambito della quale, di notevole impatto sarà l'introduzione di quello che è stato definito un procedimento accelerato per la definizione dei giudizi.

Queste innovazioni assumono un particolare rilievo per le controversie di lavoro, se non altro perché rimuovono il risalente sospetto, insorto sin dalla istituzione della Sesta Sezione (ad opera della l. 18 giugno 2009, n. 69), della violazione del principio del giudice naturale (art. 25 Cost.), particolarmente rilevante nelle controversie di cui all'art. 409 e ss. c.p.c., in base all'art. 19 della l. n. 533/1973, che ne attribuisce la competenza naturale alla sezione lavoro della Corte [1]. In ogni caso, esse vanno considerate con immediatezza anche perché, mentre ogni altra modifica riguardante il giudizio di cassazione (e relativa alle norme di cui al capo III del titolo III del libro secondo del codice di procedura civile), a sensi del comma 6 dell'art. 35 del Decreto, si applicheranno “ai giudizi introdotti con ricorso notificato a decorrere dal 1° gennaio 2023”, modifiche ed abrogazioni specificamente riguardanti il rito camerale e l'udienza pubblica (artt. 375, 376, 377, 378, 379, 380-bis, 380-bis.1, 380-ter c.p.c. [2]) si applicheranno “anche ai giudizi introdotti con ricorso già notificato alla data del 1° gennaio 2023”, sempre che non sia stata ancora fissata udienza o adunanza [3] (art. 35, comma 7 del Decreto).

Per cogliere la rilevanza delle modifiche introdotte è opportuno premettere, sia pure in via di estrema sintesi, i tratti salienti della disciplina vigente.

L'art. 375 c.p.c., nel testo in vigore, stabilisce che, fatta eccezione per i casi di particolare rilevanza della questione di diritto, nei quali la causa deve essere scrutinata in udienza pubblica, la regola per la decisione è la camera di consiglio; inoltre, il rito camerale è riservato ai regolamenti (di competenza e giurisdizione) e, allorquando si opinino pronunce di inammissibilità, manifesta fondatezza e manifesta infondatezza.

A quest'ultimo proposito, l'art. 380-bis c.p.c., attribuisce la decisione camerale alla Sesta Sezione se, in sede di spoglio dei fascicoli (a sensi dell'art. 376, comma 1, c.p.c.), il relatore abbia, per l'appunto, ravvisato un'ipotesi di inammissibilità, di manifesta fondatezza o manifesta infondatezza ovvero (per consolidato orientamento pretorio) di improcedibilità del ricorso.

Attualmente è questa l'attività in funzione di “filtro” svolta dalla Sesta Sezione mediante il procedimento camerale.

A tale fine, la disciplina vigente prevede che il Presidente della “apposita sezione” su proposta del relatore, trattenga il ricorso fissando l'adunanza con decreto, nel quale deve essere indicato soltanto se sia stata ravvisata un'ipotesi di inammissibilità, di manifesta infondatezza o di manifesta fondatezza.

Il vigente art. 380-bis.1 c.p.c. disciplina, invece, il rito camerale avanti alla Sezione semplice nelle ipotesi di cui al comma 2 dell'art. 375 c.p.c. e all'ultima parte del comma 1 dell'art. 376 c.p.c., ovvero in tutti i casi nei quali, all'esito dello spoglio da parte della Sesta Sezione, non siano stati ravvisati i presupposti per la definizione da parte di quest'ultima e non sia fissata pubblica udienza (riservata, come detto, ai casi di particolare rilevanza della questione o alle rimessioni da parte della Sesta Sezione, ma non in conseguenza dello spoglio, bensì all'esito della camera di consiglio da questa tenuta, che non abbia definito il giudizio).

Entrambi i procedimenti camerali (avanti alla sesta sezione o alla sezione semplice) non contemplano la partecipazione all'adunanza dei difensori, ma prevedono il deposito di memorie, con termini diversi, sia per la comunicazione alle parti del decreto di fissazione (venti giorni per la Sesta Sezione; quaranta giorni per la Sezione Semplice), sia per il deposito degli atti difensivi (cinque giorni avanti alla Sesta Sezione; mentre, avanti alla Sezione Semplice: venti giorni per il deposito delle conclusioni da parte del Procuratore Generale; dieci giorni per il deposito delle memorie di parte).

2.   Con la Riforma

La soppressione della Sesta Sezione (espressamente prevista all'art. 1, comma 9 della legge-delega, confermata dalla riformulazione del comma 1 dell'art. 376 c.p.c., all'interno del quale scompare il riferimento alla “apposita sezione”) non determinerà l'eliminazione delle sue competenze, bensì l'attribuzione della “funzione filtro” alla Sezione Semplice.

Nella Riforma, ciò ha imposto la soppressione del procedimento camerale come era previsto dall'art. 380-bis c.p.c. avanti alla Sesta Sezione e la trasformazione del procedimento avanti alla Sezione Semplice (art. 380-bis.1 c.p.c.) come procedimento camerale unico, con la novità che esso diventa applicabile anche alle Sezioni Unite.

La modifica è stata attuata mediante una riarticolazione degli artt. 375 e 376 c.p.c., che, tuttavia, non ne altera la disciplina, se non per il termine per la presentazione al Primo Presidente dell'istanza di rimessione alle sezioni unite (quindici giorni prima dell'udienza o adunanza, anziché i dieci attuali).

La nuova disciplina dell'art. 375 c.p.c. conferma la natura residuale dell'udienza pubblica, che rimane riservata alle questioni di diritto di particolare rilevanza.

Sarà da trattarsi sempre in udienza pubblica il nuovo mezzo di impugnazione avente ad oggetto la revocazione per contrarietà alla CEDU, introdotto dall'art. 391-quater c.p.c.

Infine, a modifica della disciplina vigente, l'udienza pubblica verrà utilizzata anche per la decisione dei ricorsi per regolamento di competenza e di giurisdizione, attualmente esaminabili solo in camera di consiglio (art. 375, comma 1, n. 4, c.p.c.). Anche nel caso dei regolamenti, l'udienza pubblica sarà riservata alle questioni di particolare rilevanza, che in effetti possono presentarsi anche in questi procedimenti.

Il procedimento camerale, nelle modalità di articolazione, è rimasto sostanzialmente invariato; le uniche modifiche sono costituite: come detto, dalla sua applicabilità anche alle Sezioni Unite; dalla comunicazione della fissazione dell'adunanza almeno sessanta giorni prima (anziché quaranta); dalla precisazione che le memorie, da depositare dieci giorni prima dell'adunanza, hanno natura “illustrativa” e devono essere “sintetiche”; dal nuovo comma 2 dell'art. 380-bis.1 c.p.c.: “l'ordinanza, sinteticamente motivata, è depositata al termine della camera di consiglio, ma il collegio può riservarsi il deposito nei successivi 60 giorni”.

3.   Il procedimento accelerato

La vera novità, come si anticipava, è costituita dal c.d. procedimento accelerato per la definizione dei ricorsi inammissibili, improcedibili, manifestamente infondati.

Il nuovo testo dell'art. 380-bis c.p.c., al comma 1, prevede testualmente: “Se non è stata ancora fissata la data della decisione, il presidente della sezione o un consigliere da questo delegato può formulare una sintetica proposta di definizione del giudizio, quando ravvisa la inammissibilità, improcedibilità o manifesta infondatezza del ricorso principale e di quello incidentale eventualmente proposto. La proposta è comunicata ai difensori delle parti”.

Ai commi successivi, è previsto che, entro quaranta giorni dalla comunicazione, la parte ricorrente, con istanza sottoscritta dal difensore munito di una nuova procura speciale può chiedere la decisione. Se vi provvede, viene fissata udienza in camera di consiglio ma, qualora la decisione dovesse essere conforme alla proposta, è previsto vengano applicati il terzo ed il quarto comma dell'art. 96 c.p.c. [4].

Ovviamente, in questo caso, il ric.te, oltre ad essere condannato alle spese e alle sanzioni ex art. 96, comma 3 e 4, c.p.c., avrà anche l'onere del raddoppio del contributo unificato (ex art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115/2002), che – si ricorda – per il giudizio di cassazione, non subisce la riduzione alla metà prevista per le controversie di lavoro (per effetto del combinato disposto dell'art. 13, comma 3, e dell'art. 9, comma 1-bis, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115) [5].

4.   L'applicazione dell'art. 96, commi 3 e 4 c.p.c.

Il terzo comma dell'art. 96 c.p.c. è norma già esistente, applicabile alla generalità dei procedimenti civili [6], introdotta dall'art. 45, comma 12 della l. 18 giugno 2009, n. 69, a decorrere dal 4 luglio 2009 [7], contestualmente, quindi, alla abrogazione dell'art. 385, comma 4, c.p.c., che prevedeva una disposizione analoga, destinata, sempre a scopo deflattivo, al solo giudizio di cassazione.

La disposizione prevede che il giudice, sempre nei casi di mala fede o colpa grave di cui al comma 1 [8], quando pronuncia sulle spese, anche d'ufficio, può condannare il soccombente al pagamento in favore della controparte, di una somma equitativamente determinata.

Quanto al comma 4 dell'art. 96 c.p.c., trattasi di disposizione ora introdotta con la Riforma (art. 3, comma 6, d.lgs. n. 149/2022) che prevede che, nei casi di applicazione dei primi tre commi, il soccombente venga condannato anche al pagamento in favore della cassa delle ammende di una somma da € 500 ad € 5.000.

Il terzo comma dell'art. 96 c.p.c., nel prevedere l'importo da liquidare, non fissa alcun limite quantitativo, né massimo, né minimo [9].

In giurisprudenza si è, tuttavia, uniformemente affermato che la quantificazione va calibrata sulla misura del rimborso spese riconosciuto o su di un suo multiplo, con l'unico limite della ragionevolezza [10]; su questa lettura integrativa della disposizione si è fondato il rigetto, da parte della Consulta, della questione di costituzionalità della disposizione per indeterminatezza, escludendosi, quindi, la denunciata violazione dell'art. 23 Cost. [11]

È altrettanto incontroverso che l'applicazione del comma 3 dell'art. 96 c.p.c. prescinda dalla prova del danno, in quanto la liquidazione non ha natura risarcitoria, bensì “natura sanzionatoria dell'abuso del processo, commesso dalla parte soccombente”, sebbene “non disgiunta da una funzione indennitaria a favore della parte vittoriosa” [12]; parte della dottrina qualifica la previsione normativa come introduttiva di una vera e propria pena pecuniaria o di una sanzione di ordine pubblico [13].

Non sembra in linea con siffatta qualificazione di “sanzione di ordine pubblico” in funzione deterrente e di strumento repressivo del c.d. abuso del processo, l'affermazione, contenuta nella Relazione governativa al nuovo testo dell'art. 380-bis c.p.c., secondo la quale “la previsione non risponde ad un intento punitivo o sanzionatorio, ma è la realistica presa d'atto del fatto che la giurisdizione è una risorsa limitata”.

5.   La rinuncia tacita

Proseguendo nell'esame del nuovo istituto come introdotto dalla Riforma, se, invece di chiedere la decisione, il ricorrente, nei quaranta giorni dalla comunicazione della proposta di definizione, omette l'istanza, il ricorso si intende rinunciato e viene dichiarata l'estinzione del giudizio.

In questa ipotesi, a sensi dell'art. 391, comma 2, c.p.c., che è rimasto invariato, la parte ricorrente può essere condannata al pagamento delle spese di lite nei confronti della controparte, ma non sarà tenuta al raddoppio del contributo unificato, essendo stata introdotta (art. 18, d.lgs. n. 149/2022) una deroga in tal senso all'interno del relativo Testo Unico (art. 13, comma 1-quater.1, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115).

Ai fini dell'adozione del provvedimento, il nuovo comma 2 dell'art. 380-bis c.p.c. rinvia all'art. 391 c.p.c.; quindi, l'estinzione deve essere dichiarata con decreto dal Presidente.

Nella Relazione governativa, si afferma che il relativo pronunciamento possa essere emesso anche dal Consigliere delegato, ma ciò non pare conforme al dettato normativo, visto che l'art. 391 c.p.c. è rimasto invariato.

Come si vede, il legislatore della Riforma, pur revocando la propria fiducia – al fine di assolvere a quegli scopi deflattivi del contenzioso che sembrano essere divenuti l'unico obiettivo di ogni revisione delle regole del processo – alla “apposita sezione”, non solo conferma l'esigenza di un “filtro” per i giudizi in cassazione, ma non disdegna introdurre un inedito meccanismo deflazionistico di natura compulsiva e con funzione deterrente, finalizzato ad indurre il ricorrente ad abbandonare l'agone giudiziaria e ad accettare la pronuncia di merito.

È difficile dire se il tentativo avrà successo, ma non si può soprassedere dal formulare sin d'ora alcune riserve su razionalità e legittimità costituzionale della nuova disciplina.

6.   L'evoluzione (sino alla disciplina vigente) del “filtro” camerale per i giudizi di cassazione

A quest'ultimo fine, va ricordata brevemente l'evoluzione del meccanismo del “filtro” per i giudizi di cassazione, attuato per il tramite del procedimento camerale.

La “apposita sezione” di cui all'art. 376 c.p.c. è stata istituita dalla l. 18 giugno 2009, n. 69, prevedendo che tutti i ricorsi, ad eccezione di quelli di competenza delle Sezioni Unite, ex art. 374 c.p.c., ne subissero il vaglio preventivo, al fine di verificare la sussistenza dei presupposti per dichiararli, con procedimento in camera di consiglio, inammissibili, manifestamente fondati o infondati.

È importante notare che, contestualmente all'introduzione della “sezione-filtro”, l'art. 47 di quella legge, nel sopprimere il diverso meccanismo del c.d. “filtro-quesito” (art. 366-bis c.p.c.), ha introdotto anche il c.d. “filtro-precedente” di cui all'art. 360-bis c.p.c. (disposizione che ora la nuova Riforma non ha intaccato); sono così state previste due ulteriori specifiche ipotesi, definite di “inammissibilità”, ma, in realtà, integranti casi di “manifesta infondatezza” [14]: “1) quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della corte e l'esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l'orientamento della stessa, 2) quando è manifestamente infondata la censura relativa alla violazione dei principi regolatori del giusto processo”.

Si ricorda che, all'epoca, erano stati adombrati vari vizi di costituzionalità della nuova disciplina: dalla violazione degli artt. 111, comma 7, e 24 Cost. [15], alla violazione del principio del giudice naturale (art. 25 Cost.), come già ricordato, particolarmente rilevante nelle controversie lavoristiche in base all'art. 19 della l. n. 533/1973, che ne attribuisce la competenza naturale alla sezione lavoro della Corte [16].

Il legislatore del 2009, conscio della problematicità dei nuovi istituti, si era almeno preoccupato di non offrire il destro a critiche sul versante del diritto di difesa. Da un lato, aveva, quindi, conservato il sistema del c.d. “opinamento”. Ovvero, di quella previsione, introdotta dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, che imponeva al relatore, se riteneva ricorressero i presupposti per l'adozione del rito camerale, anziché di fissare l'udienza pubblica, al fine di definire, per l'appunto, il giudizio ex art. 375, comma 1, c.p.c., di depositare in cancelleria una “relazione con la concisa esposizione delle ragioni che possono giustificare la relativa pronuncia” [17]. La relazione veniva poi notificata ai difensori in uno con il decreto presidenziale di fissazione dell'adunanza almeno venti giorni prima.

Dall'altro, il legislatore del 2009 aveva conservato la facoltà dei difensori delle parti, oltre che di depositare le memorie fino a cinque giorni prima, anche di “essere sentiti” nell'adunanza.

La novella del 2016 (d.l. 31 agosto 2016, n. 168, convertito con modificazioni nella l. 25 ottobre 2016, n. 197) ha radicalmente modificato il procedimento camerale davanti all'apposita sezione; il novellato art. 380-bis c.p.c., al comma 1, nel confermare la facoltà del relatore della sesta sezione di segnalare il ricorrere delle ipotesi di cui all'art. 375, comma 1, n. 1 e 5, c.p.c. (inammissibilità, manifesta fondatezza o infondatezza del ricorso), non lo ha più onerato del deposito della “relazione con la concisa esposizione delle ragioni che possono giustificare la relativa pronuncia”, bensì solo di proporre al Presidente la trattazione in Camera di Consiglio a questi fini.

A seguito di queste modifiche, il comma 1 dell'art. 380-bis c.p.c. (tuttora vigente) ha previsto soltanto che il Presidente fissi con decreto l'adunanza, “indicando se è stata ravvisata” una delle ipotesi di cui sopra; inoltre, ai sensi del comma 2, in assenza della relazione, il solo decreto deve attualmente essere notificato almeno venti giorni prima dell'adunanza ai difensori delle parti, i quali potranno depositare le memorie illustrative non oltre cinque giorni prima.

Con le modifiche del 2016 è, inoltre, rimasta ferma la possibilità che, all'esito dell'adunanza, il Collegio, non ritenendo ricorrere le ipotesi di inammissibilità, manifesta fondatezza o infondatezza del ricorso, rimetta la causa alla pubblica udienza.

Non è, tuttavia, più stata prevista la facoltà dei difensori di “chiedere di essere sentiti” e, quindi, di discutere oralmente.

È evidente che, mentre, in base alla disciplina vigente prima del 2016, la “relazione” forniva al difensore la possibilità di conoscere anticipatamente le ragioni che avevano indotto il relatore a disporre la trattazione camerale, il nuovo rito camerale lo lascia nell'incertezza di quali siano concretamente i profili di inammissibilità o di manifesta fondatezza o infondatezza del ricorso, costringendolo alla redazione di una memoria non mirata.

Per completezza di esposizione, si deve dare atto che la Corte di cassazione si è resa conto immediatamente della incidenza sul diritto di difesa di questa disciplina e, con il “protocollo d'intesa tra la Corte di cassazione, il Consiglio Nazionale Forense e l'Avvocatura Generale dello Stato sull'applicazione del nuovo rito civile”, intervenuto in data 15 dicembre 2016, ovvero nell'immediatezza  dell'entrata in vigore della l. n. 197/2016, ha accettato di mitigare gli effetti della riforma sulle esigenze difensive delle parti, stabilendo un minimo di contenuto della “proposta” da notificare ai difensori delle parti insieme con il decreto.

Più esattamente, nel protocollo, si prevede che la “proposta dovrà indicare:

- quanto alla prognosi di inammissibilità o di improcedibilità, a quale ipotesi si faccia riferimento (tramite menzione del dato normativo, o in alternativa, del precedente, o ancora con breve formula libera);

- quanto alla prognosi di manifesta fondatezza, quale sia il motivo manifestamente fondato e l'eventuale precedente giurisprudenziale di riferimento;

- quanto alla prognosi di manifesta infondatezza, quali siano i pertinenti precedenti giurisprudenziali di riferimento e le ragioni del giudizio prognostico di infondatezza dei motivi di ricorso, anche mediante una valutazione sintetica e complessiva degli stessi, ove ne ricorrano i presupposti”.

Non è, tuttavia, dato sapere se ed in quali limiti il protocollo venga sempre rispettato, né tanto meno se lo sarà ancora in futuro, anche in considerazione del mutato quadro normativo.

7.   Il “filtro” come riarticolato dalla Riforma

Con la attuale Riforma sembra che il legislatore abbia ritenuto che le irrisolte esigenze deflazionistiche impongano un cambio di passo.

L'apposita sezione, evidentemente, non ha funzionato a questi fini; era, d'altronde, abbastanza prevedibile che la sua attuazione, attingendo all'organico delle sezioni semplici, non avrebbe potuto garantire concreti risultati, considerata la duplicazione dell'attività di verifica dell'ammissibilità dei ricorsi tra sezione filtro e sezione semplice [18].

A questa considerazione si deve, presumibilmente, la sua soppressione ed il trasferimento della funzione “filtro” alla Sezione semplice.

È, inoltre, stata ideata la fictio iuris della rinuncia tacita, desumibile dalla mancata presentazione di una istanza di decisione conseguente alla prospettazione presidenziale (o del Consigliere delegato) che il giudizio possa essere definito con una pronuncia di inammissibilità, improcedibilità, manifesta infondatezza, meccanismo che sembra parzialmente mutuato dalla perenzione nel giudizio amministrativo (artt. 81 ss. cod. proc. amm.), nell'ambito del quale, tuttavia, non viene attuato alcun meccanismo compulsivo e di deterrenza.

Nell'articolare questa sorta di induzione alla rinuncia per comportamento concludente, la legge delega aveva, tuttavia, ritenuto opportuno che, per convincere il ricorrente della fondatezza della questione, lo si informasse adeguatamente dei vizi del ricorso.

All'art. 1, comma 9 della l. n. 206/2021, nel prevedere l'introduzione di “un procedimento accelerato, rispetto all'ordinaria sede camerale, per la definizione dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati”, il legislatore delegante aveva, quindi, disposto che la proposta di definizione del ricorso contenesse “la sintetica indicazione delle ragioni dell'inammissibilità, dell'improcedibilità o della manifesta infondatezza ravvisata”.

In qualche modo, la legge delega aveva, quindi, ritenuto opportuno ripristinare l'opinamento con la formula del 2009.

Invece, nel nuovo testo dell'art. 380-bis introdotto dal decreto legislativo, questa specificazione sembra essersi smarrita.

Si prevede ora soltanto che “il presidente della sezione o un consigliere da questo delegato può formulare una sintetica proposta di definizione del giudizio, quando ravvisa la inammissibilità, improcedibilità o manifesta infondatezza”.

L'utilizzo della preposizione temporale “quando” potrebbe indurre a ritenere che l'obbligo di specificazione delle ragioni della proposta sia stato ulteriormente ridotto anche rispetto al testo vigente dell'art. 380-bis, comma 1, c.p.c., che, quanto meno, impone di “indicare se è stata ravvisata un'ipotesi di inammissibilità, di manifesta infondatezza o di manifesta fondatezza”.

Può solo confidarsi nella buona volontà della Corte di valorizzare (all'interno del nuovo testo dell'art. 380-bis) l'aggettivazione “sintetica” riferita alla “proposta di definizione del giudizio”, che perderebbe ogni significato se non presupponesse l'esplicazione delle relative ragioni; si può, altresì, confidare che si continui a dare applicazione al protocollo Corte di cassazione-CNF del dicembre 2016, anche se, allo stato, anche questo impegno non può più ritenersi pacificamente applicabile, essendosi modificato il contesto normativo.

La scelta di ridurre i margini di informazione e, quindi, la possibilità di replica, per il difensore del ricorrente, al di là dei sospetti di irrazionalità e di lesione del diritto di difesa, contraddirebbe lo stesso obiettivo pratico del meccanismo, la cui efficacia passa necessariamente – come osservato nella stessa Relazione governativa – per l'acquisizione di un adeguato livello di consapevolezza della fondatezza dei rilievi in ordine alla inaccoglibilità in limine litis dell'impugnazione e, quindi, della correttezza della “proposta di definizione del giudizio”.

Non si può fare a meno, infine, di osservare che l'inedito meccanismo compulsivo di induzione alla rinuncia tacita sembra articolato in modo da sottrarsi anche a qualunque valutazione di costituzionalità, nessuna questione incidentale essendo proponibile nella fase di decisione per difetto di rilevanza.

8.   Nuova linfa ai sospetti di incostituzionalità del regime camerale

Non c'è dubbio che, di fronte ad un meccanismo di pressione di questo genere, appaiano ulteriormente rafforzate tutte le obiezioni che erano state sollevate avverso il procedimento camerale e l'estensione dei casi di “inammissibilità” disposti dall'art. 360-bis.

Sotto il primo profilo, la trasformazione del giudizio di Cassazione in processo a trattazione scritta, con riduzione a residualità dell'udienza pubblica, aveva indotto parte della dottrina a segnalare un dubbio di legittimità costituzionale già con riferimento alla riforma del 2016, considerato che il principio di pubblicità dell'udienza è sempre stato ritenuto implicitamente previsto dall'art. 101 Cost. [19] ed è espressamente sancito dall'art. 6 della CEDU.

Al di là della fondatezza o meno della questione – sulla quale la Cassazione si è pronunciata negativamente [20] – non appare di scarso rilievo che la soppressione della possibilità delle parti, nel procedimento camerale, di discutere la causa mediante i loro difensori, azzeri la facoltà in tal senso anche del controricorrente non tempestivamente costituito, facoltà (che continua ad essere) prevista dall'ultima parte del primo comma dell'art. 370 c.p.c., ma che (sin dal 2016) è divenuta concretamente esercitabile solo nel caso di trattazione in udienza pubblica, mentre prima era ritenuta applicabile anche al procedimento camerale dalla giurisprudenza della Suprema Corte, proprio sul presupposto che “una interpretazione conforme ai principi costituzionali e di tutela del diritto di difesa” non consentirebbe di “differenziare, in relazione alla natura del rito, l'ipotesi in esame da quella prevista dall'art. 370 c.p.c.” [21].

Già la novella del 2016 ha prodotto rilevanti modificazioni nel giudizio di cassazione, rese palesi anche solo dal fatto che, storicamente, l'utilizzo del procedimento camerale da parte del giudice di legittimità, sino ad allora, aveva sempre inteso rispondere a meri fini di economia processuale, essendo stato per lo più circoscritto allo scrutinio di questioni preliminari di rito o di ammissibilità e, solo con l'introduzione (ad opera della l. 24 marzo 2001, n. 89) del n. 5 dell'art. 375 c.p.c., anche all'accertamento della “manifesta fondatezza o infondatezza” del ricorso e, quindi, ad una decisione nel merito.

L'eccezionalità di quest'ultima scelta legislativa era stata, tuttavia, bilanciata [22] dall'introduzione dell'obbligo (di cui all'art. 380-bis, comma 1, c.p.c.) per il relatore che proponeva la decisione in Camera di Consiglio, di manifestare e rendere conoscibile preventivamente ai difensori delle parti le “ragioni che possono giustificare la relativa pronuncia” (la relazione contenente il c.d. opinamento), estendendo il contraddittorio ad una dialettica tra la parte ed il giudice.

La soppressione di tale ampliamento delle prerogative difensive delle parti, attuata dalla riforma del 2016, aveva già indotto la migliore dottrina a rilevare che la Camera di Consiglio si era ridotta ad una “Camera di decisione” [23].

La riforma del 2016 aveva, infatti, realizzato l'effetto di ribaltare il rapporto tra pubblica udienza e Camera di consiglio, elevando quest'ultima a regola; questo quadro si è venuto consolidando ed aggravando nel momento in cui è stato concretamente imposto al giudice di legittimità di adottare provvedimenti decisori che, in nome di un obbligo di “sinteticità”, dovrebbero essere per lo più redatti in base ad “appositi moduli” (così il Decreto non giurisdizionale n. 136/2016 emesso dal Primo Presidente della Corte di Cassazione in data 14 settembre 2016 [24]) e che vengono emessi all'esito di un procedimento nel quale, seppure il contraddittorio sia garantito dalla trattazione per iscritto, la soppressione (di norma) dell'udienza pubblica elimina il rapporto tra le parti ed il giudice.

Ciò ha indotto, come si ricordava, parte della dottrina, già a seguito della riforma del 2016, a denunciare la violazione dell'art. 101 Cost., disposizione implicitamente contenente il principio di pubblicità delle udienze e l'art. 6 CEDU, che lo sancisce espressamente [25] e dell'art. 3 Cost., sul presupposto che la monocratica valutazione presidenziale (ovviamente del tutto sommaria) in ordine all'opportunità di rimettere o meno la causa alla pubblica udienza è sottratta al potere del Collegio di mutarla (se non rimettendo la causa alle Sezioni Unite, ex art. 374, comma 2, c.p.c.) oltre che al contraddittorio del P.M. [26].

Questi sospetti sembrano oggi aggravati dal procedimento per l'accelerazione dei giudizi, che sottrae una parte degli stessi anche al principio di collegialità; senza considerare che, se prevarrà l'interpretazione secondo la quale motivare sinteticamente significa adottare “appositi moduli” (come è stato scritto nel citato Decreto non giurisdizionale n. 136/2016), sarà difficile anche per il relatore più ligio alla tradizione motivazionale della Corte sottrarsi a tale vincolo, una volta lo si ritenga prescritto per legge.

9.   I profili di dubbia legittimità costituzionale del procedimento accelerato di decisione

È anche opportuno notare che, mentre, per i casi di inammissibilità, improcedibilità, manifesta infondatezza, la Riforma introduce un meccanismo di definizione “accelerato”, che può comunque produrre l'effetto di attivare, su impulso congiunto dell'ufficio giudiziario e della parte ricorrente, la fase decisoria del giudizio, la manifesta fondatezza del ricorso, con la nuova Riforma – con buona pace per il principio di uguaglianza e per l'attuazione del giusto processo – fa un passo indietro, perdendo quel carattere di priorità ai fini decisori che le era stato attribuito dalla parificazione alla manifesta infondatezza disposta dal n. 5 dell'art. 375 c.p.c. (ora soppresso) e regredisce a fondatezza semplice, potendo essere pronunciata solo nella tempistica ordinaria, previa fissazione della udienza pubblica o della camera di consiglio, a seconda che riguardi o meno una questione di particolare importanza.

Infine, anche l'applicazione alla fattispecie di cui al novellato art. 380-bis c.p.c.  delle duplici sanzioni di cui ai commi 3 e 4 dell'art. 96 c.p.c. appare di assai dubbia razionalità [27], soprattutto alla luce del disposto dell'art. 111, comma 7, Cost., se si considera che esse vengono irrogate per il solo fatto che le declaratorie di inammissibilità o di improcedibilità ovvero il rigetto per manifesta infondatezza ad opera del Collegio si appalesino conformi alla mera valutazione delibativa di cui alla proposta presidenziale di definizione, senza, quindi, che il relativo pronunciamento sia condizionato alla verifica della effettiva ricorrenza di un'ipotesi di mala fede o colpa grave.

Non vi è dubbio, d'altronde, che un'applicazione del terzo e quarto comma dell'art. 96 c.p.c. svincolata dalla verifica in concreto della temerarietà della lite e riconnessa semplicemente alla volontà di prosecuzione del giudizio, ridonderebbe anche in violazione dell'art. 23 Cost., difettando nella norma primaria il requisito (insito nella norma costituzionale) dell'individuazione dei presupposti cui viene ricollegata l'imposizione della prestazione patrimoniale [28].

Le considerazioni che precedono assumono un'enfasi particolare rispetto alle controversie di lavoro e in particolare alla posizione, all'interno di queste, del lavoratore che abbia agito in giudizio.

L'applicazione delle duplici sanzioni previste dall'art. 96, commi 3 e 4, c.p.c. anche a questi giudizi, in ragione dei peculiari interessi, di rilevanza costituzionale, in essi riguardati, nonché della necessità di considerare il lavoratore come parte “debole” del rapporto controverso [29], induce a sospettare la violazione dell'art. 3, commi 1 e 2, Cost., se si considerano: da un lato,  la palese sproporzione tra l'attuata scelta normativa, foriera di oneri insostenibili almeno per una delle parti del giudizio, nella generalità delle condizioni reddituali [30], e lo scopo di disincentivare e punire l'abuso del processo, fine apparentemente perseguito dal legislatore; dall'altro, l'esigenza – imposta dal principio di uguaglianza sostanziale e disattesa dalla norma, con conseguente grave limitazione della effettività della tutela giudiziaria – di prevedere un trattamento differenziato e non così gravemente punitivo per il soggetto più debole e costretto ad agire in giudizio [31].

Inoltre, la possibile applicazione delle citate disposizioni sanzionatorie anche ai casi di “inammissibilità” previste dall'art. 360-bis c.p.c., induce a sospettare della violazione degli artt. 24 e 111 Cost., considerato che la mera difformità delle soluzioni interpretative prospettate rispetto all'orientamento della Corte, sol perché la stessa non abbia ritenuto di mutare il suo indirizzo, soprattutto in una materia, quale quella lavoristica, contraddistinta dalla frequenza di clausole generali e norme di chiusura, e suscettibile di frequenti variazioni di orientamento, al di là dell'incertezza sui criteri di individuazione della fattispecie, non può di certo integrare un'ipotesi di abuso del processo e costituirebbe uno strumento punitivo incongruo, la cui unica ratio sarebbe quella di scoraggiare indebitamente l'esercizio dei diritti in sede giudiziaria.

Infine, la sproporzione rispetto allo scopo perseguito, la lesione del diritto di accesso alla giustizia e la mancanza di una previsione differenziata nei confronti della parte “debole” del processo, sembrano poter assumere una efficacia lesiva anche del diritto all'equo processo ed all'effettività della tutela giudiziaria, nonché del principio di non discriminazione, come garantiti dagli artt. 6, 13 e 14 CEDU (con conseguente violazione dell'art. 117, comma 1, Cost.).

La prima disposizione comporta, infatti, che i costi del giudizio debbano essere vagliati tenendo conto anche della capacità finanziaria del singolo; le successive, che un'eccessiva penalizzazione economica può essere di ostacolo al ricorso effettivo ad un giudice nazionale, mentre non è consentita una discriminazione nel godimento dei diritti fondata sulla ricchezza.

Da ultimo, suscita perplessità anche la previsione della applicazione del nuovo testo dell'art. 380-bis c.p.c. ai ricorsi notificati prima dell'entrata in vigore della Riforma e, quindi, con effetto retroattivo, senza adeguata e ragionevole giustificazione della deroga all'art. 11 preleggi e nonostante la sua natura squisitamente sanzionatoria, ovvero non meramente processuale [32].

In parte qua, le disposizioni di cui all'art. 35, comma 7, del decreto legislativo non sembrano trovare riscontro nella legge delega, che all'art. 1, comma 22, aveva, semmai, mandato al Governo perché “adottasse le opportune disposizioni transitorie” [33], così come risulta essere avvenuto per l'introduzione del terzo comma dell'art. 96 c.p.c., che l'art. 58, comma 1 della l. n. 69/2009 ha disposto venisse applicato solo ai giudizi instaurati dopo la sua entrata in vigore.

10.   L'aspirazione ad una evoluzione monocratica dei compiti decisori della Corte

Alcune notazioni conclusive vanno riservate alla previsione di cui al novellato comma 2 dell'art. 380-bis c.p.c., in base al quale l'istanza di decisione, a seguito della notificazione al difensore della proposta di definizione del giudizio, può essere efficacemente proposta dal difensore stesso solo se questi si munisca di “una nuova procura speciale”.

La prima domanda che sorge spontanea, sul piano della applicazione operativa della disposizione, è come essa si possa conciliare con l'inapplicabilità al giudizio di cassazione dell'interruzione in caso di morte, sia della parte che del difensore, e con l'impossibilità per gli eredi della parte deceduta di subentrare nel giudizio.

La prescrizione del rilascio di una nuova procura al fine di consentire la prosecuzione del giudizio collide con il rilievo che il giudizio di cassazione è dominato dall'impulso d'ufficio.

Questa previsione induce, peraltro, al sospetto che la scelta operata dal legislatore sia essenzialmente improntata a valutazioni di sfiducia e disistima per la classe forense, sembrando semplicemente finalizzata a prevenire che il difensore possa omettere di informare la parte della proposta di definizione e degli specifici ed ulteriori rischi ora connessi alla decisione della causa; se così fosse, il legislatore non avrebbe considerato che, ove ciò accadesse, il difensore incorrerebbe nella violazione di uno specifico obbligo di informazione sancito dal vigente codice deontologico (art. 27, punto 7).

La relazione governativa sembra voler celare i timori palesati dal testo legislativo e tenta di giustificare la prescrizione di una nuova procura, qualificando l'istanza come un atto rimesso alla parte personalmente, tanto da affermare, un po' impropriamente vista la estraneità alla previsione normativa, che “la richiesta di decisione da parte del Collegio deve essere sottoscritta dalla parte e dal suo difensore”.

La relazione osserva, poi, che la proposta presidenziale di rigetto in rito “prefigura […] un esito negativo per il ricorso, con un'uscita anticipata dalla Corte”; di talché, “per chiedere un'ulteriore valutazione, da parte di un Collegio della Corte in Camera di Consiglio, occorre un atto di impulso processuale che coinvolga personalmente la parte ricorrente”.

L'affermazione crea ulteriori perplessità, se si considera che, con essa, non si disdegna attribuire una sorta di contenuto decisorio, sia pure sulla base di una valutazione delibativa, alla proposta del Presidente o del consigliere delegato; tanto da ipotizzare che l'istanza di decisione che vi faccia seguito realizzi una richiesta di valutazione da parte del Collegio, definita “ulteriore”, quasi si trattasse di una sorta di reclamo.

La esplicazione in questi termini della (pretesa) volontà legislativa denota l'aspirazione ad una evoluzione monocratica dell'attività decisoria della Corte, che, almeno in parte, presenta elementi di già compiuta attuazione, se si considera che:

- da un lato, questa forma di definizione accelerata si realizza tutta nel rapporto tra parti private e Presidente o Consigliere delegato, in assenza, quindi, di ogni collegialità e senza la partecipazione anche del P.M., al quale non viene notificata la proposta di definizione e che non potrà, quindi, svolgere alcun ruolo, anche laddove potesse sussistere un interesse pubblico alla trattazione in Camera di Consiglio e, quindi, alla decisione;

- dall'altro, la Riforma ha introdotto una nuova ben singolare ipotesi di “doppia conforme”, atteso che la delibazione del Presidente o del Consigliere delegato, ove confermata dal Collegio, produce niente di meno che lo specifico effetto di trasformare la fisiologica aspirazione della parte ricorrente a sentir emettere la decisione, da diritto costituzionalmente garantito ad abuso del processo.

Riferimenti bibliografici:

[1] “Ai sensi dell'art. 19 l. n. 533 del 1973, la competenza naturale predeterminata dal legislatore a decidere questi ricorsi spetta esclusivamente alla Sezione Lavoro della Corte, ma questa predeterminazione soccombe alla valutazione che la sezione filtro faccia di sussistenza dei presupposti per dichiarare inammissibile (rectius: manifestamente infondato) ex art. 360-bis il ricorso oppure per dichiararlo manifestamente fondato o infondato ex art. 375 n. 5 c.p.c.” (così A. CARRATTA, Il filtro al ricorso per cassazione e i dubbi di costituzionalità, in Treccani.it).

[2] Unitamente ad alcune altre disposizioni qui non prese in esame: gli artt. 372, 390 e 391-bis c.p.c.

[3] Invece, la legge istitutiva della Sesta Sezione (l. 18 giugno 2009, n. 69) entrata in vigore il 4 luglio 2009, prevedeva che il nuovo rito camerale avanti alla “apposita sezione” trovasse applicazione soltanto ai giudizi di cassazione nei quali il provvedimento impugnato fosse stato depositato dopo la sua entrata in vigore.

[4] La previsione dell'applicazione dell'art. 96 c.p.c. ha sicuramente trovato spunto, oltre che nel disposto dell'art. 64, comma 8 del T.U. pubblico impiego privatizzato (d.lgs. 31 marzo 2001, n. 165), alla cui stregua la Corte di Cassazione, nelle controversie in tema di accertamento pregiudiziale sull'efficacia, validità ed interpretazione dei contratti collettivi pubblici, può condannare la parte soccombente al risarcimento del danno da lite temeraria anche in assenza di istanza di parte, in deroga, quindi, a quanto disposto nel 1° comma dell'art. 96 c.p.c., soprattutto nell'art. 385, comma 4, c.p.c., disposizione, aggiunta dall'art. 13 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, e abrogata dall'art. 46, comma 20 della l. 18 giugno 2009, n. 69, che, in tema di pronuncia sulle spese da parte della Suprema Corte, aveva previsto che “quando pronuncia sulle spese, anche nelle ipotesi di cui all'art. 375, la corte, anche d'ufficio, condanna, altresì, la parte soccombente al pagamento, in favore della controparte, di una somma, equitativamente determinata, non superiore al doppio dei massimi tariffari, se ritiene che essa ha proposto il ricorso o vi ha resistito anche solo con colpa grave”.

[5] Salva soltanto, per le controversie di previdenza e assistenza obbligatoria, nonché per quelle individuali di lavoro o concernenti rapporti di pubblico impiego, a seguito della sentenza del Consiglio di Stato 22 maggio 2019, che ha parzialmente annullato la circolare n. 65934 dell'11 maggio 2012 del Ministero della Giustizia, l'esenzione disposta a favore della parte che sia titolare di un reddito inferiore a tre volte l'importo previsto dall'art. 76 del d.P.R. n. 115/2002.

[6] Una disposizione analoga è stata introdotta dal d.l. n. 90/2014, nel cod.proc.amm., il cui art. 26 ora prevede che “il giudice, anche d'ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, in favore della controparte, di una somma equitativamente determinata, comunque non superiore al doppio delle spese liquidate, in presenza di motivi manifestamente infondati”. L'art. 96 c.p.c., commi 1 e 3, è richiamato, per il processo tributario, dall'art. 15, comma 2-bis del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546.

[7] L'art. 58, comma 1, della l. 18 giugno 2009, n. 69, ha previsto l'applicazione del nuovo disposto dell'art. 69, comma 3, c.p.c. soltanto ai giudizi instaurati dopo la data della sua entrata in vigore.

[8] Cfr. Cass., sez. un., 20 aprile 2018, n. 9912; Corte cost. 6 giugno 2019, n. 139.

[9] Viceversa, l'art. 385, comma 4, c.p.c. aveva introdotto il tetto di un importo “non superiore al doppio dei massimi tariffari”; l'art. 26 cod.proc.amm. (v. precedente nota 4) prevede il limite massimo del “doppio delle spese liquidate”.

[10] Cfr. Cass., sez. III civ., 11 ottobre 2018, n. 25177 e n. 25176; Cass., sez. VI, 30 novembre 2012, n. 21570.

[11] V. Corte cost. 6 giugno 2019, n. 139.

[12] In questi termini Corte cost. 6 giugno 2019, n. 139; Corte cost. 23 giugno 2016, n. 152; si v. anche la nota Cass., sez. un., 5 luglio 2017, n. 16601 in materia di “danni punitivi”, che ha inserito il terzo comma dell'art. 96 c.p.c. tra le disposizioni già presenti nell'ordinamento italiano connotate da finalità sanzionatorie e deterrenti.

[13] La letteratura sull'argomento è vastissima. Possono citarsi, tra gli innumerevoli autori che si sono cimentati sul tema della qualificazione dell'istituto: L. LOMBARDO, Abuso del processo e lite temeraria: la condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c., in Giust. civ., 2018, 4, 893 ss.; N.C. SACCONI, La responsabilità aggravata ex art. 96, comma 3, c.p.c., tra risarcimento punitivo e sanzione di ordine pubblico, in Resp. civ. e prev., 2020, 2, 589 ss.; C. TRAPUZZANO, La figura ibrida della condanna anche d'ufficio per lite temeraria, tra risarcimento punitivo e pena privata, in Resp. civ. e prev., 2021, 2, 412 ss.; C. DE MENECH, Alla ricerca del contenuto dell'art. 96, ult. comma, c.p.c., tra principi costituzionali e frammenti di disciplina (in margine a Corte Cost. 6 giugno 2019 n. 139), in Eur. e dir. priv., 2020, 2, 723 ss.; R. BRENDA, L'ultimo comma dell'art. 96 c.p.c. esce indenne dal palazzo della Consulta, in judicium.it.

[14] In tal senso, espressamente, Cass., sez. un., 6 settembre 2020, n. 19051; in dottrina, tra gli innumerevoli autori: F.P. LUISO, La prima pronuncia della Cassazione sul c.d. filtro, in judicium.it; R. POLI, Il c.d. filtro di ammissibilità del ricorso per cassazione, in Riv. dir. proc., 2010, 365. È appena il caso di ricordare che la questione non è meramente terminologica, perché, se trattasi di manifesta infondatezza, non potrà negarsi ingresso al ricorso incidentale tardivo, ai sensi dell'art. 334, comma 2, c.p.c.

[15] La questione è stata sollevata dalla dottrina soprattutto con riferimento all'art. 360-bis c.p.c. e al carattere “normativo” attribuito al precedente giurisprudenziale della Corte, osservandosi che ci si troverebbe di fronte ad una disposizione contraria al settimo comma dell'art. 111 Cost. perché “non è possibile impedire il ricorso per cassazione per violazione di legge, concedendo solo il ricorso per cassazione per violazione del diritto vivente” (così M. BOVE, in M. BOVE, A. SANTI, Il nuovo processo civile, tra modifiche attuate e riforme in atto, Matelica, Kindustria, 2009, 69) e che “la conoscibilità del precedente” diviene “ineludibile presupposto del diritto di difesa costituzionalmente garantito dall'art. 24 Cost. e, ancor prima, del diritto alla tutela giurisdizionale piena e effettiva ex artt. 6 e 13 CEDU” (M. GERARDO, A. MUTARELLI, Certezza del diritto e conoscibilità del filtro di cui all'art. 360-bis n. 1 c.p.c., in judicium.it).

[16] V. nota 1.

[17] In realtà, già questa formula era più riduttiva di quella del 2006 (“concisa esposizione dello svolgimento del processo e dei motivi in fatto e diritto in base ai quali ritiene che il ricorso possa essere deciso in camera di consiglio”).

[18] A. CARRATTA, Il filtro al ricorso in Cassazione e i dubbi di costituzionalità, in Treccani.it, mentre era ancora in fase di approvazione parlamentare il testo della l. 18 giugno 2009, n. 69, aveva preconizzato che l'istituzione della sezione-filtro avrebbe determinato “un effetto perverso decisamente contrario al principio della ragionevole durata del processo di cui all'art. 111, 2° comma Cost. E infatti, tutti i ricorsi avanzati (ad esclusione di quelli da sottoporre alla decisione delle Sezioni Unite a norma dell'art. 374) e solo parzialmente inammissibili (la maggior parte, probabilmente dopo l'esame della “apposita sezione” sono costretti a ritornare al primo Presidente per essere assegnati ad una delle sezioni semplici, la quale – evidentemente – dovrà ripetere l'esame sull'ammissibilità. Per la maggior parte dei ricorsi, dunque, si profila una duplice valutazione di ammissibilità: una prima davanti alla sezione filtro, per verificare se l'intero ricorso possa essere dichiarato inammissibile ex art. 360-bis (e del tutto inutile ove questa verifica dovesse sortire esito negativo); una seconda, davanti alla Sezione semplice, alla quale il ricorso verrà assegnato una volta che la Sezione filtro abbia escluso la sua inammissibilità”.

[19] In questo senso, si v. G. SCARSELLI, Il nuovo giudizio di Cassazione per come riformato dalla legge 197/2016, in questionegiustizia.it.

[20] V. Cass., sez. VI, 10 gennaio 2017, n. 395.

[21] Così, tra le altre, Cass., sez. lav., 7 settembre 2007, n.18906; cfr. Cass., sez. trib., 16 ottobre 2006, n. 22144, in Foro it., 2007, 3, 809.

[22] In questo senso, si v. G. SCARSELLI, Il nuovo giudizio di Cassazione, cit.

[23] In questo senso, B. SASSANI, Da Corte a Ufficio Smaltimento: ascesa e declino della “Suprema”, in judicium.it, il quale, nel 2016, rilevava: “A dispetto dell'identità di nome, la Camera di consiglio che emerge dalla nuova legge è però oggi un'altra cosa. Niente più “adunanza” (se piace chiamare così una udienza semplificata) ma solo camera di decisione: nessuna preliminare attività di confronto ma diretta fase decisionale. […] E, visto il clima di modernizzazione telematica, se ne può immaginare (suvvia, basta una norma regolamentare) la sua trasformazione in teleconferenza, con gran guadagno della produttività, visto che, senza la futile presenza dell'avvocato, si potrebbe partecipare alla camera in vestaglia, appunto, […] da camera, direttamente e comodamente dalla propria scrivania a Napoli, Firenze, Catania o Pieve di Cadore”. Il rilievo assume una valenza anche precognitiva, alla luce del comma 2 del neo-introdotto art. 140-bis disp. att. che, a proposito della adunanza camerale, prevede: “Il presidente del collegio, con proprio decreto, può disporre lo svolgimento della camera di consiglio mediante collegamento audiovisivo a distanza, per esigenze di tipo organizzativo”.

[24] Tale decreto ha imposto ai magistrati della Corte obblighi di “sinteticità” nella redazione dei provvedimenti civili della Corte, obblighi il cui rispetto viene indicato rientrare tra gli “indici di valutazione del Magistrato” e deve essere “specificamente scrutinato nel rapporto informativo del Presidente di Sezione” al C.S.M.

Il decreto ha imposto ai Giudici, “per tutti” i “provvedimenti per i quali non sia stata individuata ed esplicitata la valenza nomofilattica”, l'adozione di “tecniche più snelle di  redazione della motivazione”, anche omettendo l'esposizione dei fatti di causa (“quando […] emergono dalle ragioni della decisione”) e dei motivi di ricorso (quando risultino dal “tenore della risposta della Corte”), nonché mediante l'utilizzo di “appositi moduli per specifiche questioni, processuali o di diritto sostanziale, sulle quali la giurisprudenza della Corte è consolidata (salvo che il Collegio non ritenga di discostarsi, motivatamente)”.

[25] In questo senso, SCARSELLI, op. cit.

[26] V. C. GRAZIOSI, La Cassazione “incamerata”: brevi note pratiche, in judicium.it, la quale rileva: “La scelta del rito prevista in questo modo, sulla base di una valutazione sommaria e monocratica, potrebbe pertanto creare criticità sul piano dell'articolo 3 Cost., sempre che sia possibile far valere una concreta lesione al diritto di difesa per non essere stato tutelato integralmente sotto il profilo del contraddittorio”.

[27] Non si può fare a meno di ricordare che, per costante orientamento della giurisprudenza costituzionale, “nella conformazione degli istituti processuali, nella quale rientra la disciplina delle spese del processo, il legislatore gode di ampia discrezionalità, con il solo limite della manifesta irragionevolezza (ex plurimis, Corte cost. n. 58 e n. 47 del 2020; n. 271 e n. 97 del 2019; n. 225, n. 77 e n. 45 del 2018; ordinanza n. 3 del 2020)”.  Così Corte cost. 11 dicembre 2020, n. 268.

[28] È appena il caso di ricordare che le Sezioni Unite della Suprema Corte, con la pronuncia n. 16601/2017, avevano ritenuto che i c.d. “danni punitivi” “soggiacciono al principio di stretta legalità previsto dall'art. 25, comma 2, Cost.”. Da questa premessa, con tutti i necessitati corollari derivanti dalla affermata riserva assoluta di legge (in particolare: irretroattività, prevedibilità e determinatezza delle conseguenze sanzionatorie) erano derivati gravi sospetti di incostituzionalità del terzo comma dell'art. 96 c.p.c., così come di gran parte delle norme di natura civilistica applicative di sanzioni in funzione di deterrenza (basti qui citare, senza pretesa di esaustività, l'art. 614-bis c.p.c.; l'art. 70 disp.att. c.c.; l'art. 3, comma 3, l. 9 dicembre 1998, n. 431), in quanto disposizioni che generalmente non realizzano i connotati di determinatezza e prevedibilità delle conseguenze, imposti dalla riserva assoluta di legge.

Tali sospetti sono stati fugati dalla sentenza n. 139/2019 della Corte costituzionale, che ha ritenuto che l'obbligazione prevista dall'art. 96, comma 3, c.p.c., “pur perseguendo una finalità punitiva […] non identifica una sanzione in senso stretto, espressione di un potere sanzionatorio” e, come tale, non è sussumibile nell'art. 25 Cost., trattandosi, invece, “di un'attribuzione patrimoniale in favore della parte vittoriosa nella controversia civile e a carico della parte soccombente; prestazione che, in quanto istituita per legge, ricade nell'ambito […] [dell']art. 23 Cost., recante la prescrizione della riserva di legge che è solo relativa”. La Corte ha, tuttavia, ulteriormente precisato che “il rispetto della riserva di legge, seppur relativa, prescritta dall'art. 23 Cost. richiede che la fonte primaria stabilisca sufficienti criteri direttivi e linee generali di disciplina”. “La fonte primaria non può, quindi, limitarsi a prevedere una prescrizione normativa “in bianco”, genericamente orientata ad un principio-valore, senza una precisazione, anche non dettagliata, dei contenuti e modi dell'azione amministrativa limitativa della sfera generale di libertà dei cittadini, ma deve invece stabilire sufficienti criteri direttivi e linee generali di disciplina, idonei a delimitare la discrezionalità dell'ente impositore nell'esercizio del potere attribuitogli […]”.

[29] Del lavoratore come “parte strutturalmente debole del processo” parla anche la già citata Corte cost. n. 268/2020.

[30] Si consideri, in via di mero fatto, che, nel caso di un giudizio di impugnazione di un licenziamento ex art. 18 St. Lav., da qualificarsi di valore indeterminato, l'applicazione del novellato art. 380-bis, comma 3, c.p.c. ad una pronuncia dichiarativa di inammissibilità o manifesta infondatezza del ricorso, potrebbe esporre l'ipotetico lavoratore ricorrente licenziato alla condanna al pagamento di una somma, a titolo di rimborso di compensi professionali, fino ad € 10.636 accessori inclusi (in applicazione della tabella 13 allegata al d.m. n. 55/2014), oltre ad € 14.580, ex art. 96, comma 3, c.p.c., nel caso la norma sia applicata raddoppiando la misura dei compensi professionali liquidati (in applicazione analogica del vecchio testo dell'art. 385, comma 3, c.p.c.), nonché ad € 5.000 ex art. 96, comma 4, c.p.c. in favore della Cassa per le ammende; a questi importi si aggiungerebbe l'onere connesso al pagamento raddoppiato del contributo unificato, ex art. 13, comma 1-quater,d.P.R. n. 115/2002, pari, quindi, ad € 3.036, per un importo totale di € 33.252.

[31] Va ricordato che la già citata Corte cost. 11 dicembre 2020, n. 268 ha dichiarato infondata la questione di costituzionalità degli artt. 91 e 420 c.p.c. (questione che era stata sollevata sul presupposto che tali disposizioni avrebbero introdotto una possibile “scelta di conciliare la controversia non […] libera, poiché sanzionata attraverso uno sproporzionato rischio di aggravamento di spese” nei confronti del lavoratore, quale parte “debole” del processo) osservando che “la qualità di «lavoratore» della parte che agisce (o resiste), nel giudizio avente ad oggetto diritti ed obblighi nascenti dal rapporto di lavoro, non costituisce, di per sé sola, ragione sufficiente – pur nell'ottica della tendenziale rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale alla tutela giurisdizionale (art. 3, secondo comma, Cost.) – per derogare al generale canone di par condicio processuale espresso dal secondo comma dell'art. 111 Cost.”; ma, a questo fine, la Corte ha attribuito specifica rilevanza “alla circostanza che la situazione di disparità in cui, in concreto, venga a trovarsi la parte «debole» trova un possibile riequilibrio, secondo il disposto del terzo comma dell'art. 24 Cost., in «appositi istituti» diretti ad assicurare «ai non abbienti [...] i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione» (sentenza n. 77 del 2018)”. È di tutta evidenza che tali “appositi istituti” di garanzia non potrebbero operare rispetto al meccanismo sanzionatorio introdotto dal nuovo testo dell'art. 380-bis c.p.c.

[32] Come è noto, nella giurisprudenza costituzionale, si puntualizza il carattere eccezionale della deroga alla regola di cui all'art. 11 preleggi e la necessità di adeguata e ragionevole giustificazione soprattutto allorquando questa incida sulla tutela delle garanzie giurisdizionali e dell'affidamento dei cittadini nella portata di una norma preesistente (Corte cost. 22 novembre 2000, n. 525; Corte cost. 8 maggio 1995, n. 153; Corte cost. 5 febbraio 1975, n. 17; ecc.).

[33] Corte cost. 2 aprile 1964, n. 29 ha espressamente sancito che “anche nel fissare la data di decorrenza della disciplina delegata il Governo debba osservare i principi ed i criteri direttivi della legge delegante, in conformità dell'art. 76 della costituzione e che, di conseguenza, si debba, in relazione alle singole leggi di delega, accertare se il legislatore delegato abbia il potere di conferire alle norme un'efficacia retroattiva”.

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