Editoriali

Arbitrato e processo civile 19.10.2022

Più ombre che luci nel nuovo processo civile di primo grado

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Il d.lgs. n. 149 del 2022, dando attuazione ai principi di delega espressi dalla l. n. 206 del 2021, realizza una nuova e apparentemente monumentale riforma dei processi in materia civile, allo scopo di ridurne la durata, in modo significativo, anche per realizzare gli obiettivi del PNRR.

Il grande sforzo del legislatore delegato merita sicuro apprezzamento; tuttavia, una lettura attenta delle disposizioni tende a disvelare che la riforma, proprio rispetto agli obiettivi cui è orientata, rischia di portare con sé più ombre che luci.

Sicuramente in linea con la finalità di rendere più celere lo svolgimento dei giudizi civili sono le disposizioni che riguardano la mediazione obbligatoria e la negoziazione assistita. Le relative norme, infatti, per un verso ampliano l’ambito di applicazione di tali istituti e per un altro cercano di renderne l’utilizzo più appetibile per le parti. È finanche banale osservare che, se questi strumenti funzionano, il numero del contenzioso in entrata si riduce.

Il legislatore opera, tuttavia, una serie di interventi sul processo civile di cognizione di primo grado che non sembrano invece idonei a incidere in modo euristico sulla durata dei giudizi, ma anzi tali da incidere negativamente sulla stessa.

 

Si scommette, innanzi tutto, su una nuova struttura della fase introduttiva e di trattazione nella quale, antecedentemente alla prima udienza, le parti devono “dire e chiedere tutto” nelle memorie integrative che seguono i controlli sulla regolarità del contraddittorio demandati al giudice entro quindici giorni dalla costituzione del convenuto.

Nell’intento del legislatore la prima udienza dovrebbe essere così il momento più importante del processo nel quale il giudice, che si assume abbia approfonditamente studiato tutti gli atti e la documentazione allegata, potrà, nel contraddittorio con le parti, orientare in modo agevole il successivo svolgimento del giudizio, mediante l’ammissione dei mezzi di prova rilevanti ovvero la rimessione della causa in decisione.

Il meccanismo in questione – che appare un misto tra il processo del lavoro e l’abrogato rito societario – presenta criticità evidenti per chi abbia esperienza “pratica” dei giudizi civili.

 

In primo luogo, sembra utopico supporre che un giudice civile che ha di norma sul ruolo ottocento/mille fascicoli possa effettuare, senza neppure interloquire con le parti secondo il consolidato principio di oralità, un vaglio approfondito sulla regolare instaurazione del contraddittorio se non nei limiti, rimasto contumace il convenuto, di ordinare il rinnovo della notifica dell’atto introduttivo nei casi di cui all’art. 291 c.p.c. Di contro, è ben difficile che il giudice possa avvedersi senza un attento studio degli atti, ad esempio, della pretermissione di un litisconsorte necessario.

Non è di qui improbabile che in non pochi casi, quando si arriverà finalmente all’incontro tra il giudice e le parti alla prima udienza di trattazione, dopo il deposito delle memorie integrative, l’autorità giudiziaria ove si renda conto che il contraddittorio non è stato regolarmente instaurato sarà allora tenuta – con buona pace del principio di economia processuale – a fissare una nuova udienza, previa concessione alle parti di un nuovo termine per il deposito delle memorie integrative in data antecedente alla stessa.

Peraltro, è lo stesso legislatore della riforma a prevedere che solo alla prima udienza il giudice, dopo che le parti hanno tra loro interloquito in vari atti e memorie, possa autorizzare l’attore a chiamare in causa un terzo se una tale esigenza sorge dalle difese del convenuto (situazione che non di rado si realizza quando quest’ultimo contesta la propria legittimazione passiva). Il terzo è quindi destinato ad entrare in un giudizio nel quale le parti hanno già compiutamente svolto le proprie allegazioni e richieste di prove, in via diretta e contraria. Se è indubbio che al terzo dovrà essere data la possibilità di interloquire con pieni poteri processuali, i.e. senza che si possa ritenere maturata alcuna preclusione a carico dello stesso, riteniamo che non si possa prescindere dal consentire anche alle parti originarie di esercitare pienamente il proprio diritto di difesa (sia in via assertiva che probatoria) a fronte delle deduzioni del terzo.

La costruzione di uno schema che nella realtà giudiziaria potrà rivelarsi molto farraginoso non appare peraltro in piena sintonia con il dichiarato obiettivo di consentire al giudice di avere un quadro completo delle allegazioni e delle richieste delle parti sia per poter formulare alle stesse una proposta conciliativa adeguata sia, ove ciò non sia possibile, per avviare la causa lungo i binari dell’istruttoria o della decisione.

 

A nostro sommesso parere, infatti, il sovraccarico dei ruoli dei singoli giudici renderà ancora più difficile per gli stessi arrivare alla prima udienza preparati su tutti gli atti e la documentazione depositata dalle parti rispetto al sistema attuale, nel quale, almeno, di regola, occorreva a tal fine leggere solo l’atto di citazione e la comparsa di risposta. È allora prevedibile che la nevralgica prima udienza si concluderà nella maggior parte dei casi con una riserva sulla decisione delle varie questioni, un po' come oggi avviene all’udienza fissata per l’ammissione dei mezzi di prova dopo l’appendice scritta delle memorie di cui all’art. 183, sesto comma, c.p.c.

 

Un altro tratto caratterizzante la riforma appena varata rispetto al processo civile di primo grado, ove vengano in rilievo (come nella maggior parte dei casi) diritti disponibili, è la possibilità per il giudice, rispettivamente contemplata dai nuovi art. 183-ter e 183-quater c.p.c., di emanare ordinanze provvisorie di accoglimento o di rigetto della domanda.

Si prevede che tali ordinanze siano reclamabili ex art. 669-terdecies c.p.c. e, dunque, al collegio. La garanzia del reclamo, che la parte soccombente nella maggior parte dei casi, come l’esperienza insegna, con ogni probabilità non esiterà a proporre, aggraverà ulteriormente il carico dei ruoli dei giudici, determinando difficoltà anche organizzative negli uffici di minori dimensioni.

Peraltro, questa non insignificante attività processuale non sarà destinata alla pronuncia di un provvedimento idoneo a produrre, almeno all’esito del reclamo o scaduto il termine per la proposizione dello stesso, gli effetti del giudicato sostanziale. Sembra dunque che il legislatore abbia fatto un’ulteriore scommessa sul presupposto – temiamo illusorio – che le parti si “accontentino”, anche quando ad esse sfavorevole, dell’assetto di interessi configurato dalle ordinanze provvisorie e che non vadano ad incardinare un nuovo giudizio per ottenere un accertamento con efficacia di giudicato sul rapporto controverso.

La quasi certezza della proposizione del reclamo e il ben concreto rischio dell’introduzione di un nuovo giudizio sulla medesima vicenda sostanziale ad opera della parte soccombente determineranno un evidente aumento del contenzioso, ciò che incide negativamente, come è intuibile, sulla durata dei giudizi.

 

Ancor più queste conseguenze appaiono paradossali a chi scrive alla luce dell’obiettivo del nuovo istituto di consentire al giudice di definire le cause più semplici con un’ordinanza succintamente motivata, poiché il contenuto delle stesse (e quindi il relativo impegno argomentativo), a parte l’intestazione solenne “in nome del popolo italiano”, non si comprende in quale misura in concreto si discosti da una sentenza che già dalla riforma operata dalla l. n. 69 del 2009 deve contenere una concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione.

In definitiva ci sembra – e l’ottimismo della volontà non aiuta per dare un giudizio maggiormente positivo in attesa delle applicazioni pratiche – che le nuove regole avranno soprattutto l’effetto di innescare anni di contenzioso sull’interpretazione di esse, in contrasto con il fondamentale assunto per il quale l’obiettivo del processo non è discettare sulle “regole del gioco”, bensì dare una risposta sul merito alle domande delle parti rispetto al bene della vita in contesa (Corte cost. n. 77 del 2007).

 

La verità, molto banale e universalmente nota, è che cambiare la struttura del processo di primo grado non risolve il problema principale dello stesso, che è costituito dal c.d. collo di bottiglia, ossia dal rilevante periodo di tempo che in genere trascorre tra la fine dell’istruttoria e la pronuncia della decisione.

Per intervenire con efficacia euristica su questo annoso problema, dovrebbero piuttosto – oltre ad essere destinate significative risorse economiche al settore giustizia – essere introdotte norme di carattere ordinamentale e organizzativo che configurino l’esercizio dell’attività del giudice, e di qui ne orientino le valutazioni e il percorso professionale, come strumentale a fornire al cittadino una risposta, chiara, logica e sintetica, senza indulgere in inutili digressioni, ad una precisa domanda di giustizia.

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