Editoriali

Unione europea e diritti umani 22.04.2020

Europa: solida casa comune o fragile capanna dell’economia?

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1. Telefonate in Germania. Ovvero: cosa sono veramente gli Eurobond?

Le trascorse festività pasquali, quest’anno più del solito, sono state l’occasione per alcune telefonate in Germania: Monaco, Heidleberg, Speyer (già Hochschule, ora Deutsche Universität für Verwaltungswissenschaften), Würzburg, Berlino.

Saluti ed auguri fra vecchi amici, addirittura compagni di studi, ma anche scambio di opinioni con (ora) colleghi (ma sempre) amici che si occupano di diritto amministrativo, diritto comunitario, contabilità di Stato. E ricorrente, in ogni telefonata, il riferimento all’intervista televisiva del Presidente del Consiglio italiano al notiziario della Ard (cui ha fatto seguito un’altra al canale della Bild). Alcune considerazioni sono più generali: è la prima volta di un’intervista televisiva ad un politico italiano; ci si ricorda di un breve passaggio dell’allora Presidente Cossiga che – senza interprete – era stato in visita di Stato prima della riunificazione, tanto tempo fa; si guarda alla desolazione degli ospedali; si formula l’auspicio di saper profittare in Germania del vantaggio temporale sulla situazione italiana, agendo con incisività. Altre osservazioni sono più puntuali: la scelta di come mantenere “in vita” il Paese; cosa si può spegnere, cosa no; la filiera agroalimentare e la liquidità alle aziende che non possono fermarsi. Su di tutte, comunque, una: non sapevamo che l’Italia volesse solo una “garanzia europea sul debito, che ciascuno Stato paga comunque da solo”, pensavamo che la proposta di Italia e Spagna (ma c’era anche la Francia) fosse quella di “spartire con noi” (“mit uns teilen”), di mutualizzare fra tutti i Paesi dell’Unione i debiti contratti velocemente e senza previsione alcuna, come è tipico di una fase emergenziale che non si è preparati ad affrontare. L’equivoco viene finalmente chiarito. E così si può discutere ampiamente e con molto interesse di una garanzia comune per debiti singoli: ciascuno paga il suo, ma tramite un “Eurobond” che è garantito dall’Unione, con tasso di interesse, quindi, molto più basso di quello che avrebbe un titolo emesso da uno Stato già provato duramente dal morbo. L’Unione non resta solo mercato, una babele di compravendite, scambi ed affari, sotto lo sguardo distratto di un sorvegliante ambiguo, ma è anche garanzia, rete, protezione: è veramente “unita nelle diversità”, come recita il suo motto troppo spesso dimenticato, assieme all’inno musicale ufficiale, che però è privo delle bellissime parole di Schiller che adornano l’originale, composto per essere cantato, appunto.

Si parla allora di etica, di etica del lavoro, concetto che richiama rispetto e dignità in quel Paese, ove l’artigiano esibisce con orgoglio il suo grembiule bleu da lavoro, indumento riservato che indica l’appartenenza alla gilda o alla corporazione di riferimento. Il discorso scivola su un altro “Giuseppe”, sul libro di Joseph Martin Fischer, Se l’Europa fallisce? …  ha avuto molto seguito, ci si aspettava qualcosa di incisivo e che ponesse finalmente i quesiti su chi vogliamo essere. Quindi i saluti alle rispettive famiglie, ai bambini che sono cresciuti, il ringraziamento per l’importanza del chiarimento nell’intervista televisiva, ancora auguri e saluti. La telefonata si conclude. Silenzio, ricordi, riflessione.

Non mi stupisce, oggi, la reazione con l’attacco giornalistico di chi ritiene che nel torbido si peschi meglio. Agitare la clava della “mafia” (che, assieme all’espressione “calamari fritti”, è l’unica parola italiana conosciuta dal popolano astioso), significa tessere una equiparazione: la parte politica tedesca che richiama al rischio di fallimento dell’Europa, sta legittimando l’Eurobond, ossia la mutualizzazione generale e selvaggia del debito emergenziale, cioè la concessione di contributi a pioggia alla mafia, attinti dalle tasche del contribuente tedesco. L’avversario politico interno è dipinto come il sodale dell’italiano mafioso.

De minimis non curat praetor. Se non fosse che proprio minimalia non sono, per il momento di scadenza in cui si manifestano e per l’istanza “etica” che introducono in un luogo che si vuol misurato dal solo profitto, necessariamente amorale.

Del primo aspetto – cioè della coincidenza temporale – non è qui sede per occuparsene. Più ficcante il rapporto etica/profitto che viene (pur maldestramente) introdotto.  

          

 

2. L’aquila di Creta e l’aquila di Berlino. Ovvero: la rapacità su(ll’) Europa?

“Europa, infelice Europa: tocca a noi ricostruirti ancora una volta”.

No, questa citazione non è tratta dal comunicato stampa dell’ultimo incontro dei Capi di Stato e di Governo a margine della crisi dell’Eurozona. È invece quanto andavano ripetendo come una giaculatoria, ma con un certo compiacimento, i delegati al Congresso di Vienna, chiamati a ridisegnare la carta geografica dopo la temperie dell’Infame Corso, fattosi imperatore. E se quei pur dotti delegati non potevano immaginare nemmeno quali orrori sarebbero occorsi nei duecentocinque anni che ci dividono da loro, ebbene è lecito pensare che vi sia una sorta di pregiudizio, per non dire maledizione, su questo continente; qualcosa che ne impedisce la quiete, qualcosa che ne turba intimamente l’animo e di cui la grave crisi economica –ma non solo- che ci attanaglia quanto la pandemia ci piega, sembra essere il più recente episodio.

Europa deve forse la sua infelicità, il suo continuo travaglio alla sua stessa origine. E come spesso succede, si è appena visto, quando la scienza non ci aiuta, occorre rivolgersi al mito – con rispetto e cautela – per cogliere quei frammenti di verità su cui si agglutina, scostando delicatamente il velo del tempo e la patina che vi si è adagiata.

Pare furono i cretesi della potente civiltà minoica a chiamare Europa il continente a nord della loro isola. E ciò fecero in onore della madre del loro più grande re, Minosse. Sulle spalle di Esiodo, Ovidio ci informa infatti che Europa era la bellissima figlia del re di Tiro e dei fenici, il martoriato odierno Libano. Il solito Zeus se ne invaghì, secondo il suo costume, ed ordinò ad Ermes di condurre gli armenti del re fenicio in quei pressi; lì si fece trovare sotto forma di mansueto toro bianco, adottando la sempre efficace tecnica della seduzione per curiosità. Europa gli si avvicinò ed attirata dalla singolare bianchezza e mansuetudine provò a cavalcarlo. Il re degli dei non aspettava altro per rapirla, trasportandola in volo fino a Creta, ove cercò di farla sua; ma ella gli resistette, spingendolo così a prendere l’aspetto dell’aquila, a lui più congeniale, e in quella forma la prese. Ne nacquero tre figli, Minosse, Radamanto e Sarpedonte, che Asterione, re di Creta, adottò prendendo Europa in sposa. I suoi fratelli partiranno per cercarla, ma senza mai trovarla: il primo fratello, Fenice, divenne capostipite dei fenici, sulle coste settentrionali dell’Africa; il secondo, Cilice si fermò sulle coste della Turchia, dando origine al popolo dei Cilici, ed infine il fratello più giovane, Cadmo (quello delle nozze di Cadmo ed Armonia) arrivò in Grecia, nella Beozia, ove fondo Tebe. Fin qui il mito.

Europa porta dunque in sé le sue cicatrici: è rapita, è violentata e sottratta per sempre alla sua famiglia. I suoi figli ereditano dal padre la potenza, l’insofferenza e la bellicosità, ma lei porta loro in dote la bellezza. Così, è anche per gli Stati d’Europa: tra i più belli e più potenti per molti aspetti, ma insofferenti tra loro e capricciosi, proprio come gli dei degli antichi greci.

 

 

3. Etica del lavoro, etica del profitto. Ovvero: il ruolo (infungibile) del diritto nel mercato comune.

Ora, a questi Stati in crisi, a chi oggi li popola, dovremmo parlare di profitto ed etica, magari di profitto contrapposto ad etica, etica che hanno –abbiamo noi stessi- sempre irriso beffardi, con iattanza olimpica nei momenti di opulenza del mercato. Ed allora il discorso prenderebbe la piega sgualcita ed il dolciastro sapore della predica di un vecchio prete di periferia, quando viene a dirci che bisogna guardare all’etica e non al profitto, ma con il disincanto che egli stesso serba in cuor suo, nella piena consapevolezza cioè che tutti parlano di etica, ma ciascuno guarda al proprio profitto, personale ed immediato. Sennonché l’accostamento fra profitto ed etica stimola il gusto della ricerca oltre le banalità che usualmente ascoltiamo intorno a questa strana coppia. Di più: il binomio profitto ed etica ha il sapore di una relazione intrigante proprio perché pericolosa.

La nottola di Minerva - si sa - prende il volo al tramonto –“l’ora muta delle fate” - per raccogliere le suggestioni di quanto è stato detto. Sicché, provocatoriamente propongo –ancora - una doppia coppia per apparenti differenze. Profitto antitetico ad etica ed etica come veicolo di giustizia. Simbolicamente scriverei profitto ≠ etica; etica = giustizia.

Si diceva: c’è la crisi e bisogna uscirne; c’è fame di etica, quindi di giustizia e bisogna saziarla.

Bene. Alla domanda crescente di etica e di veloce giustizia si risponde in questi tempi creando nuove giurisdizioni, nuovi e speciali tribunali: concili locali, assise mandamentali, corti distrettuali, su su, fino al Lussemburgo o a Strasburgo. Una volta si diceva: Roma locuta, causa finita; oggidì, gli espropri per la terza corsia di un’autostrada sono materia per la Corte europea dei Diritti dell’uomo, sull’equiparazione – tutta lockiana, protestante e puritana – che la vita è la libertà, che la libertà è la proprietà, sicché chi mi espropria mi uccide, mi lede un diritto fondamentale come uomo, prima che come cittadino. Sempre più diritti riconosciuti e proclamati, dunque: c’è chi si occupa addirittura del diritto – parimenti puritano e protestante – della ricerca della felicità. Sempre più gradi di giudizio, dunque. Sempre più e diverse giurisdizioni, dunque. Con l’effetto, perverso, per cui ogni corte ribalta il verdetto di quella precedente, quasi ci provasse gusto a gettare scompiglio nel vere dictum, che traduciamo con il “detto secondo verità”, ciò che per definizione dovrebbe essere unico. E la contraddizione invece è fisiologica e naturale: a molteplici e diverse giurisdizioni, corrispondono molteplici e diverse procedure, con molteplici e diverse visioni della realtà, da angolazioni diverse: ogni corte giudica secondo la sua procedura, con i suoi limiti nell’ammissione della prova, con i suoi Grundbegriffe di riferimento. Se per rispondere alla crescente domanda di veloce giustizia abbiamo fondato nuovi diritti e nuovi tribunali per giudicarli, ciascuno con il suo compito e la sua ottica particolare, prepariamoci ad avere tante sentenze quante sono le teste e le procedure: tot capita, tot sententiae. Ma se così è, allora è probabile anche che chi ha tutta la ragione faccia fatica a vedersela sempre riconosciuta; specularmente, chi ha torto può trovare qualcuno disposto ad apprezzare, almeno in parte i suoi motivi, a valorizzare le sue ragioni. Ed ecco che chi ha veramente ragione non riuscirà più ad ottenerla tutta, ma dovrà pagare un piccolo prezzo a chi ha torto, tollerando il piccolo furto che gli vien fatto, pro bono pacis, per assicurare il quieto vivere ed il controllo sociale. In questa prospettiva vedo iscriversi l’istituto poco giuridico della mediazione, tradotta in una prevaricazione più crudele di quelle che si celebrano spesso nei tribunali.

Di più. Chi ha torto non cerca di avere ragione propriamente, quanto piuttosto di non essere colpevolizzato o umiliato, di potersi proclamare martire; perché se anche alla fine non gli verrà assegnata la res litigiosa, la cosa contesa, ebbene potrà sempre affermare che qualche motivo, anzi, che qualche giustificazione l’aveva anch’egli. Andrà avanti ed avanti nei gradi di giudizio, perché non si accetta più una sentenza negativa, così come non si accetta una bocciatura alle medie o ad un esame universitario. E se non si troverà più una corte disposta a dargli ragione, ebbene se ne fabbricherà una: andrà in televisione, in una trasmissione mimetica del processo ed in quell’arena, coram populo, con una visibilità – e quindi con una legittimazione – superiore a qualsivoglia ermellino, senza ministero di avvocato, ma con la verve sua propria, in piego sfogo emozionale, otterrà soddisfazione: non è un caso che queste trasmissioni, per lo più, si concludano con un esito opposto a quello dei tribunali ufficiali.

Aumentare le giurisdizioni non aiuta la giustizia e non è forse nemmeno etico. Etica e giustizia non stanno così in quella posizione di perfetta simpatia come ci sembrava all’inizio. Prendiamone atto e tiriamo innanzi, perché dobbiamo saggiare se veramente etica e profitto si pongono nella posizione antitetica da noi provvisoriamente assunta, ma ove vengono usualmente collocati dai più, anche oggi giorno – ed è il tema che ci occupa – per giustificare la piena libertà del mercato, che non dev’essere condizionato da esigenze di solidarietà, neppure fra Stati membri dell’Unione europea: sembra sentir dire che le istituzioni comunitarie non sono lì per occuparsi dello spread fra i Paesi.

Procediamo più rapidamente e per apparentamenti, quali al modo di Spinoza. Il profitto viene comunemente considerato contrario all’etica; il profitto è per sé stessi; l’etica è per (verso) gli altri, egoismo contro altruismo, quindi. Ancora: il profitto è quantità, l’etica qualità; il profitto è numerabilità e fungibilità, mentre l’etica è attenta all’individualità, alla necessità. Proviamo a riassumere in modo più ordinato e ficcante: profitto = egoismo, quantità, cioè numerabilità, fungibilità, sostituibilità. E queste cose si ottengono con una bassa formazione, una scarsa specializzazione, che rende tutti eguali e tutti sostituibili, l’uno vale l’altro. È la chiave propria della modernità, e delle sue tirannidi: tutti eguali, industrialmente massificati con abolizione delle differenze; chi si distingue è un provocatore e un ribelle, perché nega i fondamenti della democrazia egalitaria illuminista: one man, one vote, il presupposto della moderna legislazione su base pretesamente rappresentativa di un tutto asseritamente omogeneo iuris et de iure.

L’etica valorizza le differenze, le peculiarità, i valori, i talenti, le autonomie, le comunità e richiede un’alta formazione.

Il profitto è quantità, l’etica è qualità. Più radicalmente il profitto è immediatezza, quanto l’etica è di lungo respiro. Il profitto vuole tutto subito, anzi prima ancora.

E la crisi? È il tutto subito: vendo il prosciutto prima di averlo stagionato, vendo il formaggio prima di averlo lasciato maturare, vendo il grano prima di averlo raccolto, anzi prima di averlo. Vendo prima di (cioè senza) avere il bene; specularmente compro prima di (cioè senza) avere i soldi: i derivati ed i futures insegnano pur qualcosa, cioè che siamo passati dall’alea di impresa alla vendita (quotata) della scommessa.

E il rimedio? È la qualità, l’investimento, la formazione, la specificità. Chi è formato, chi è capace, non è fungibile, non è facilmente sostituibile non è “rottamabile” con leggerezza, forse anche perché non è omogeneo. All’immediatezza, al vendere prima ancora di avere, alla uguale (bassa) formazione che rende tutti sostituibili, contrapponiamo l’alta formazione, la certezza, la specificità, l’utilità, la necessità, l’investimento nell’essere più che nell’avere. Alla quantità sostituiamo la qualità. Qualità che non passa mai di moda, che non va in crisi.

Si parla di far ripartire i consumi? Si predica che la ricchezza è data non dalla quantità di denaro, ma dalla velocità con cui passa di mano, dal numero degli scambi? Bene, ricordiamo allora il mito platonico di quell’uccello che mangiava solo per defecare, e tanto più mangiava tanto più andava di corpo, cosicché il filosofo si chiede - e ci chiede - se lo scopo di quell’animale fosse mangiare o produrre escrementi, ma in ogni caso -  aggiungiamo - avendo già perso il gusto per il volo, se non addirittura la capacità di alzarsi, cioè la sua identità di uccello, di volatile. Parimenti noi sembriamo voler consumare solo per il gusto di produrre rifiuti. Non cadiamo allora nuovamente nel circolo vizioso del consumare per crescere, magari questa volta al prezzo di danni irreversibili per il pianeta che ci è dato solo in usufrutto, salva rerum substantia.

 

4. Giove a Creta. Ovvero: per una conclusione.

Possiamo trarre delle prime conclusioni: come etica non è solo domanda di giustizia, così profitto ed etica non sono antitetici, anzi, la seconda è la garanzia per il primo. Velocità, facilità, immediatezza, hanno declinato il profitto a scommessa. Ma la scommessa si fonda sul non sapere, sul non voler sapere: la forma peggiore dell’ignoranza. A ben vedere, invece, la formazione, l’infungibilità, le categorie dell’etica, sono le più sicure garanzie per un cospicuo profitto, per rimarginare le ferite di Europa, inferte dall’aquila, fin dai tempi dell’isola di Creta.

Ci dev’essere allora una primazia del diritto sull’economia, la prudentia iuris che orienta la mano invisibile –ma spesso armata- della concorrenza. E proprio a questo scopo - in Europa, anzi, nell’Unione Europea dai vaghi e pattizi confini -  si applica con diuturno impegno la Direzione generale V, intitolata Competition, che si limita a stemperare le diversità nella fungibilità, tramite il grande crogiuolo del mercato, di quel mercato, un luogo ove vivono, vigono e si rinnovano le stesse fondamentali semplici regole dell’economia prima che del diritto o del diritto in quanto funzionali all’economia.

Vi è un momento, ed è questo, in cui l’Unione non dev’essere solo mercato, non dov’essere solo economia, ma – foss’anche solo per lucrare di più –­ deve scoprire il suo lato etico. Sicché il diritto si dimostra l’unico medio fra etica ed economia, partecipando dell’una e dell’altra. È il diritto che deve indicare lo strumento di garanzia giuridica comune ai debiti dei singoli Stati, riportando la parità delle parti, rettificando le distorsioni del mercato, che resta altrimenti basato sulla pura Competition, cui è intitolata la potente D.G. V., ma Competition, da tradursi come concorrenza, ché un povero di spirito potrebbe tradurre come competizione: forse non avrebbe torto.

 

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