Editoriali

Soggetti e nuove tecnologie 27.03.2020

Privato sociale alla prova della videoconferenza

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Fermare il virus senza fermare il Paese.

 

È un po’ questo il senso che si trae dalle previsioni del d.l. n. 18 del 2020, alcune delle quali incrociano temi e questioni di teoria generale del diritto.

 

Fra queste, si segnala l’art. 73, comma 4, il quale stabilisce che fino alla data di cessazione dello stato di emergenza deliberato dal Consiglio dei ministri il 31 gennaio 2020, le associazioni private anche non riconosciute e le fondazioni che non abbiano regolamentato modalità di svolgimento delle sedute in videoconferenza, possono riunirsi secondo tali modalità, nel rispetto di criteri di trasparenza e tracciabilità previamente fissati, purché siano individuati sistemi che consentano di identificare con certezza i partecipanti nonché adeguata pubblicità delle sedute, ove previsto, secondo le modalità individuate da ciascun ente.

 

La norma tuffa in un futuro che è già presente queste espressioni della categoria delle formazioni intermedie, per consentire l’ultrattività delle rispettive strutture di governance e di quelle operative anche durante il periodo emergenziale.

 

Disposizioni analoghe, è da notare, sono state dettate per gli organi collegiali degli enti pubblici nazionali, degli enti territoriali, delle società, anche quotate.

 

Su un piano di politica del diritto, il segnale che arriva è, dunque, che il Paese non si ferma non solo nella cura degli interessi pubblici e di quelli privati orientati al profitto, ma anche nel perseguimento degli scopi tipici del privato sociale. Il che è tanto più rilevante se si considera il contributo, straordinario ed essenziale allo stesso tempo, che il mondo del volontariato sta assicurando in queste drammatiche ore allo sforzo collettivo di contrasto al dilagare del virus e ai suoi effetti.

 

Sempre sul medesimo piano, è ben noto che vi sono associazioni private anche non riconosciute e fondazioni che non incrociano il fenomeno del volontariato, e che purtuttavia amministrano interessi che non consentono la sospensione totale di qualsivoglia attività, ivi comprese quelle di minuto e minimo mantenimento (dalle comunità di recupero sino all’impiantistica sportiva). Da questo punto di vista, la disposizione esprime apprezzabile senso di concretezza, mostrando attenzione per le esigenze di continuità operativa, pur quando minimale, di queste realtà.

 

Infine, nel momento in cui – attraverso un imposto assetto di distanziamento sociale – raggiunge l’apice un senso di solitudine già altrimenti sviluppatosi, su differenti basi e per differenti cause, in tanta parte del mondo occidentale, l’art. 73, comma 4, lancia un chiaro segnale in controtendenza, riconoscendo ruolo e vitalità a quelle formazioni intermedie e, di riflesso, all’anelito e alla libertà di aggregazione fra individui che vi sono ontologicamente sottintesi.

 

Ciò detto in punto di politica del diritto, riguardo agli aspetti di dettaglio merita notare che la disposizione ha riguardo a tutte le forme di operatività che presuppongono o richiedano il riunirsi fra intranei, nell’ambito delle associazioni private anche non riconosciute e delle fondazioni. Non si indirizza, dunque, alle sole strutture di governance, ma anche alle unità operative intermedie.

 

Effetto della norma è l’eterointegrazione del quadro regolatorio, espressione dell’autonomia privata, proprio di ciascuna associazione o fondazione. Così, quand’anche non previsto da alcuna fonte interna, gli intranei potranno senz’altro ricorre alla videoconferenza, per riunirsi, invocando l’art. 73, comma 4.

 

Se ciò è vero – ai fini della validità della seduta (e delle decisioni che vi vengano prese), specie ove si tratti di strutture di governance – la disposizione esige tuttavia il «rispetto di criteri di trasparenza e tracciabilità previamente fissati, purché siano individuati sistemi che consentano di identificare con certezza i partecipanti nonché adeguata pubblicità delle sedute, ove previsto, secondo le modalità individuate da ciascun ente». In prima approssimazione, la sensazione è che sia richiesta anzitutto certezza legale della consapevolezza, in tutti gli aventi titolo a partecipare alla seduta, che una seduta – in modalità videoconferenza – è stata effettivamente indetta, comprensiva della conoscenza degli elementi di identificazione di mezzo (piattaforma adoperata), giorno e ora. In secondo luogo, l’impressione è che l’art. 73, comma 4, non intenda imporre un’adeguata pubblicità delle sedute attuate in videoconferenza a tutte le associazioni e fondazioni, ma solo stabilire che – per quelle fra esse che abbiano già deciso di autovincolarsi in tal senso, per le riunioni svolte in presenza – dovranno continuare a garantirla (seppure con modalità che a ciascun ente è rimesso di individuare) anche per le adunanze che si tengano facendo ricorso alla tecnologia.

 

Una norma densa di implicazioni, dunque. Pensata per l’emergenza, ma che prevedibilmente si proietterà – anch’essa – oltre l’emergenza.

 

 

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