Editoriali

Società e concorrenza 08.04.2020

Quantitative easing e finanziamento dei disavanzi pubblici tra narrazione e realtà

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Le discussioni dei giorni scorsi circa le strategie più opportune per salvaguardare le nostre comunità da una crisi economica di gravità preoccupante hanno spesso messo al centro dell’attenzione il ruolo dell’Europa. La presa di posizione della Presidente della BCE Lagarde, che ha rifiutato di intervenire a sostegno dei titoli di stato di alcuni paesi membri Ue attaccati dalla speculazione, è stata duramente criticata da opinionisti e studiosi. Anche la repentina correzione di rotta che la BCE ha effettuato due giorni dopo, deliberando interventi in acquisto sul mercato dei titoli di stato del valore di 750 miliardi di euro, è stata giudicata largamente insufficiente a far fronte alle gravissime tendenze recessive che presumibilmente seguiranno l’epidemia (ad esempio, in Temi.repubblica.it/micromega-online/ue-e-bce-non-e-cosi-che-si-supera-la-crisi-appello-di-67-economisti). I governi degli stati membri hanno allora preso in considerazione l’ipotesi di finanziare le misure anti-crisi con la politica fiscale in deficit, ovviamente mettendo in conto (soprattutto i paesi con un elevato rapporto debito pubblico/Pil) di doversi scontrare con la diffidenza dei potenziali sottoscrittori a concedere in prestito i loro risparmi, e di dover quindi pagare questa diffidenza in termini di interessi molto elevati. Dal cappello a cilindro di alcuni leaders europei è allora venuto fuori il coniglio degli Eurobond, ossia di un prestito garantito “solidalmente” dalle finanze di tutti i paesi membri dell’Ue (Ilfattoquotidiano.it/2020/03/25/coronavirus-la-lettera-di-conte-macron-e-altri-sette-leader-europei-per-chiedere-i-coronabond). Si tratta di una proposta che ricompare periodicamente nel dibattito ogni volta che l’Europa si trova coinvolta in un’emergenza: i paesi economicamente più fragili fanno fatica ad accedere ai mercati finanziari a costi ragionevoli e fanno appello alla solidarietà dei paesi con le finanze più “robuste”. Ma, come era già accaduto ripetutamente negli anni scorsi, anche stavolta Germania e Olanda hanno fatto muro e il Consiglio europeo in cui tale proposta è stata discussa si è chiuso con un nulla di fatto (Consilium.europa.eu/it/meetings/european-council/2020/03/26).

L’opinione pubblica segue la vicenda sui media e finisce inevitabilmente per dividersi in fazioni pro e contro l’Europa. Si tratta spesso di discussioni assai confuse. Questa confusione è in gran parte il risultato della difficoltà di afferrare la complessità dell’assetto istituzionale dell’Ue, caratterizzato dalla frammentazione delle competenze di politica economica tra BCE, stati membri e Commissione Europea. Non a tutti è infatti noto che, dietro quella rappresentazione simbolica che con un certo livello di approssimazione nel linguaggio mediatico è individuata come “Europa”, si nasconde in realtà una varietà di attori istituzionali che svolgono funzioni diverse e le cui linee di azione sono intrecciate per effetto di complessi rapporti di condizionamento reciproco. Purtroppo però, a volte, a questa confusione non è estraneo il contributo di alcuni esperti che, godendo di grande visibilità mediatica e di una reputazione di “tecnici” (quindi presumibilmente osservatori super partes), si trovano nella condizione di far passare per verità indiscutibili anche qualche ricostruzione assai fantasiosa circa la natura dei rapporti tra i suddetti attori istituzionali. È il caso del prof. Cottarelli, che in un video che gira sul web (Ilmessaggero.it/video/invista/cottarelli), pur dolendosi del fatto che non si sia raggiunto un accordo per l’emissione di Eurobond (»di cui in questo momento ci sarebbe un gran bisogno»), ci invita caldamente a non dimenticare che «le istituzioni europee stanno aiutando l’Italia in modo massiccio». In particolare, egli ci invita a dare il giusto peso all’azione della BCE, che «con le sue operazioni di Quantitative Easing si è impegnata a comprare quest’anno circa 220 miliardi di titoli di stato italiani». Si tratta, come giustamente fa notare Cottarelli, di una cifra enorme, corrispondente a circa il 12% del nostro Pil.

Niente da dire né sulla correttezza dell’informazione circa l’intervento della BCE, né circa la dimensione dell’intervento. Molto da dire invece sul modo in cui queste informazioni di eminente contenuto “tecnico” vengono tradotte a beneficio dei non addetti ai lavori: infatti, nel tentativo di avvalorare quel giudizio circa la dimensione “massiccia” dell’aiuto di cui staremmo beneficiando da parte delle istituzioni europee, il professor Cottarelli imbocca clamorosamente la strada della mistificazione, spiegando che quei 220 miliardi sarebbero «soldi che lo stato italiano può utilizzare direttamente per finanziare il proprio deficit». Insomma, la scena rappresentata è più o meno questa: lo stato italiano, alla ricerca disperata di fondi con cui finanziare le spese direttamente o indirettamente connesse all’emergenza sanitaria, emette titoli, organizza un’asta per venderli e si trova davanti Madame Lagarde che lo aspetta a braccia aperte, pronta ad acquistarne una gran quantità ed a trasferirgli in cambio un bell’assegno da 220 miliardi di euro. Ce n’è abbastanza per finanziare una spesa in deficit pari al 12% del Pil. Cari euroscettici, cosa volete di più dall’Europa?

 

Peccato che questa ricostruzione scenica sia una mera invenzione partorita dalla fantasia del narratore. Il prof. Cottarelli sa bene (e se non lo sapesse sarebbe assai grave) che la BCE con quei 220 miliardi non farà niente di tutto questo. E non lo farà perché non lo può fare! L’art. 123 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea molto semplicemente glie lo proibisce: è vietato, recita la norma in oggetto, «l’acquisto diretto» presso gli stati membri «di titoli di debito da parte della Banca centrale europea». Madame Lagarde, a prescindere dalla natura più o meno benevola delle sue intenzioni, non può farci proprio niente. La verità, per quanto possa sembrare sorprendente, è che la paghiamo (e anche profumatamente) proprio per fare questo: per negare qualunque sostegno finanziario “diretto” agli stati membri eventualmente in difficoltà. Quando nel 1991 a Maastricht si discusse di cosa avrebbe dovuto fare il banchiere centrale se uno stato membro avesse bussato alla sua porta, implorando di prestargli il denaro necessario per far fronte ad una situazione emergenziale, i paesi promotori della moneta unica furono d’accordo nel ritenere che sarebbe stato meglio per tutti non lasciare questa scelta alla discrezionalità del banchiere centrale. Se la BCE si comprasse i titoli di Tizio, poi Caio potrebbe dire: «E perché i miei no?». Facile immaginare che, nel giro di qualche giorno, tutti i soci del club finirebbero per bussare alla porta del banchiere centrale con richieste tutte altrettanto legittime, e quindi difficili da respingere, e governare la liquidità del sistema diventerebbe impossibile. Allora meglio niente a nessuno. Si può ovviamente discutere sull’adeguatezza di una norma così rigida a garantire la coesione di una federazione monetaria (sull’argomento S. D’ACUNTO, in G. TARANTINO, La sovranità in un mondo senza confini, Torino, 2015, 165), ma allo stato attuale l’art. 123 è un fatto che è impossibile ignorare.

 

È a questo punto facile prevedere che nella mente dell’uomo comune si faccia strada una domanda: «ma allora questi 220 miliardi sono una leggenda metropolitana?». Non proprio. La BCE effettivamente comprerà titoli del debito pubblico italiano per quell’ammontare. Purtroppo, rispetto alla scena prospettata dal prof. Cottarelli, c’è una piccola ma niente affatto insignificante differenza: la BCE non li comprerà dal governo italiano. L’unica opzione che l’art. 123 lascia alla BCE è infatti di comprarli sul mercato secondario: in altre parole, non nuove emissioni, ma titoli già emessi dal governo italiano qualche tempo fa e attualmente nella pancia di qualche banca, di qualche fondo pensioni o di qualche hedge fund. La differenza rispetto alla fattispecie che il Trattato definisce acquisto “diretto” è sostanziale: in quel caso, la liquidità creata dalla BCE andrebbe nelle casse dell’Erario dello stato italiano e si renderebbe quindi disponibile per l’effettuazione di spesa in deficit; mentre, nell’ipotesi che i titoli siano acquistati sul mercato secondario, quei 220 miliardi usciti dal forziere di Madame Lagarde si dissemineranno nelle casse delle istituzioni creditizie che glie li avranno ceduti.

 

Ovviamente, non si può escludere che gli intermediari finanziari beneficiari di questa improvvisa “inondazione” di liquidità reagiscano prestandola ad operatori desiderosi di indebitarsi per aumentare la propria spesa, e quindi non si può escludere che una parte anche significativa delle disponibilità liquide arrivate nelle loro casse finisca proprio nelle mani dello stato italiano. È quello che pensano molti studiosi di approccio mainstream, che ritengono di poter applicare senza grandi difficoltà al funzionamento dei sistemi economici una sorta di “principio dei vasi comunicanti”. Purtroppo, la teoria e la storia economica sembrano dimostrare che la liquidità creata dalle banche centrali è abbastanza refrattaria alle leggi dell’idraulica. Come scriveva un grande studioso del funzionamento delle economie moderne, «se ci venisse la tentazione di asserire che la moneta è la bevanda che stimola l’attività del sistema, dovremmo rammentarci che vi possono essere parecchi diaframmi fra il bicchiere e le labbra» (J.M. Keynes, Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta, Milano, 1936, 359). La liquidità creata dalle banche centrali non è dotata di un’energia propria capace di rompere le pareti dei forzieri in cui è stivata e di “tracimare” fino a raggiungere le casse dell’Erario di uno stato desideroso di spendere, ma si muove solo a condizione che gli intermediari che la detengono abbiano convenienza a prestarla. In caso contrario, la liquidità può rimanere “intrappolata” nelle casse di chi non ha nessuna intenzione di spenderla.

 

Purtroppo, capita che i periodi in cui le nubi di una recessione incombente si addensano nel cielo siano proprio quelli in cui la propensione degli intermediari finanziari a comprare titoli si riduce ai minimi termini. Una recessione incombente determina invariabilmente aspettative di riduzione dei flussi di cassa delle imprese e delle pubbliche amministrazioni, aumentando le preoccupazioni dei rispettivi creditori circa le prospettive di rimborso. In questo scenario, la caduta del prezzo dei titoli di debito è un’ipotesi tutt’altro che peregrina, e quindi niente di strano che banche ed altri intermediari siano riluttanti a sottoscriverne, a maggior ragione se gli emittenti sono governi già gravati da una pesante esposizione debitoria. Del resto, questa sostanziale incapacità della BCE di fornire supporto adeguato all’economia reale in tempi di crisi era emersa in maniera chiara già negli anni del bazooka di Draghi: immani disponibilità liquide nei portafogli delle banche e pochi spiccioli nei mercati delle merci. Non si capisce quindi perché le cose adesso dovrebbero andare in maniera diversa, visto che l’assetto istituzionale con cui l’Europa affronta questa congiuntura presenta esattamente le stesse rigidità di otto anni fa.

 

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