Editoriali

Società e concorrenza 10.01.2023

Le concorrenziali professioni intellettuali del futuro tra iperspecializzazione e “ibridazione” delle conoscenze

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1. Nel periodo di espansione industriale in Italia, conclusosi con gli anni '60 del secolo scorso, le professioni intellettuali sono state un mezzo di arricchimento e di miglioramento della vita civile, mentre nel periodo successivo hanno costituito la base umana del miglioramento di servizi nei settori della sanità, giustizia, difesa, urbanistica, cura del territorio, istruzione, comunicazioni.  Nel corso del XX secolo, nelle professioni intellettuali si sono formate diverse specializzazioni e le richieste di tanti studenti con aspirazioni di carriera più precise hanno portato alla formazione di diversi corsi di studi, poi facoltà universitarie trasformate da ultimo in dipartimenti. Nell'attuale secolo, però, molte professioni stanno “ibridandosi” tra loro e di conseguenza al professionista sono oggi richieste competenze poliedriche, spesso completate con precise conoscenze informatiche a causa della transizione digitale (si parla di un complesso mix di skill di diversa tipologia: cognitive, sociali, tecniche, oltre che propriamente digitali). Tra tecno-entusiasti della Generazione Z (“centennials”), tecno-adattati della Generazione Y (“millennials”) e tecno-rassegnati di quella X (come la mia), si apre la questione di fondo riguardante anche il tipo di istruzione richiesta per lo svolgimento delle professioni intellettuali nell'immediato futuro e, dunque, gli elementi di novità che vanno introdotti nei corsi di laurea. Non è possibile, però, realizzare un amalgama (che gli anglofoni – che anche io ho dovuto subire – chiamano blend) unico e particolare, ma il surplus di conoscenza è variabile a seconda delle attività da svolgere.

Il segnale per un necessario cambiamento nella preparazione (istruzione) e nello sviluppo (variazione) delle professioni intellettuali proviene dal mondo cinese. Tra i fattori che hanno consentito il rapido sviluppo dell'economia cinese, vi è stata inizialmente la rapida assimilazione delle scienze e delle tecnologie occidentali, unita alla costituzione di una classe molto estesa di knowledge workers (ingegneri, architetti, matematici, medici, biologi, chimici, geologi, economisti, ecc.) che è diventata parte essenziale della "classe media" cinese. La Cina (e a breve anche l'India) riesce a produrre un numero alto di knowledge workers tanto da diffondersi nel mondo occidentale. Eppure da noi, in Italia, si parla da tempo di crisi delle professioni intellettuali, almeno quelle tradizionali (Alpa, La triste sorte delle professioni intellettuali, in Altalex.com, 14 febbraio 2012) e quando chiedo ai miei studenti quanti di loro vorranno fare chi l'avvocato e chi il notaio, sono pochi quelli che alzano la mano. È un problema solo nel settore giuridico? In realtà, le trasformazioni economiche richiedono che siano accompagnate da abili professionisti, soprattutto di elevata specializzazione intellettuale; dunque, è bene affrontare il problema distinguendo diversi aspetti, iniziando da quello riguardante i processi cognitivi propedeutici all'esercizio delle professioni intellettuali.

 

2. Appare sufficiente un breve confronto con il passato. Nel mondo greco antico le conoscenze e le ricerche avvenivano senza una precisa demarcazione di singoli settori del sapere. La matematica finiva per essere una forma di filosofia e indubbie, infatti, erano le conoscenze matematiche da parte dei filosofi (Russo, La rivoluzione dimenticata. Il pensiero scientifico greco e la scienza moderna, Milano, 2001, 38 ss. e, sul significato originario del termine “matematica”, 211 ss.). Eratostene di Cirene, che giunse, anche se in maniera piuttosto rudimentale, a calcolare il valore della circonferenza della Terra in modo molto preciso, era matematico, astronomo, geografo, poeta, filologo e filosofo. Già Aristotele aveva, però, distinto le scienze teoretiche con cui si studia il “necessario” (che non cambia mai) - come filosofia, fisica e matematica - e le scienze pratiche, che vertono sul “possibile” - attraverso le quali si studia l'agire dell'uomo e dunque l'etica (individuale) e la politica (collettiva) - e poietiche (che si occupano della creazione artistica). Nel corso dei secoli, come noto, si è poi giunti ad una scissione tra materie scientifiche e umanistiche, ma non c'è da stupirsi se la prima calcolatrice l'abbia inventata un filosofo, Blaise Pascal, nel 1642: la “pascalina”, strumento che consente di addizionare e sottrarre numeri composti da un massimo di dodici cifre, operando automaticamente i riporti. Il primitivo modello di calcolatrice elaborato da Pascal verrà successivamente rielaborato e perfezionato da un altro grande filosofo dello stesso secolo, Gottfried Wilhelm von Leibnitz, che realizzò la Stepped Reckoner, la prima calcolatrice meccanica della storia in grado di eseguire tutte le quattro operazioni aritmetiche.

È un dato certo che le scoperte hanno man mano reso più complessi gli studi, andandosi a distinguere singoli “saperi” e, dunque, singole professioni intellettuali. Ma ancora fino agli inizi del secolo scorso erano essenzialmente (per importanza) quattro le discipline fondamentali che davano luogo alle professioni intellettuali “classiche”, corrispondenti ai settori fondamentali dell'organizzazione economica di un sistema economico-sociale: ingegneria (con l'architettura), giurisprudenza (con l'economia), lettere (con la filosofia) e medicina (con la chirurgia).  Naturalmente non si trattava delle uniche discipline presenti nei corsi di laurea. È sufficiente pensare all'importanza che ha avuto la zooiatria e la zootecnica nelle attività strategiche per gli Stati, oltre che per le necessità delle attività agricole e di allevamento, soprattutto per gli usi militari della cavalleria. D'altronde, tra i primati del Regno di Napoli e delle Due Sicilie, vi è l'istituzione nel 1806 della prima cattedra di zoologia in Italia. Oggi queste materie si sono aperte a ventaglio in sottosettori che a loro volta hanno dato luogo a formazioni intellettuali separate nel tentativo di avvicinare i giovani alle reali esigenze della collettività. Di fatto si è assistito al proliferare di corsi postuniversitari, creando un mercato in cui i giovani di oggi sono essenzialmente dei grandi consumatori, talvolta, purtroppo, diventati oggetto di sfruttamento, attraverso percorsi ad hoc a pagamento, mentre all'opposto la società vive una tale velocità di evoluzione, che il percorso formativo molto specialistico, appena completato, diventa dopo poco tempo già obsoleto. E non mancano disastri causati dalla stessa iperspecializzazione, a danno di singoli, come di chi è curato dal reumatologo per mesi in un centro universitario di eccellenza, riscontrando con estrema sicumera una grave malattia reumatica, per poi scoprire trattarsi di un'osteomielite infantile e dover rivolgersi, in preda ai dolori, d'urgenza, ad un infettivologo. Come fa il paziente a sapere da quale medico, tra i tanti specializzati, rivolgersi? Ricordo la citazione di Bertold Brecht riportata nel terzo volume del manuale di diritto commerciale del mio indimenticabile maestro, Gian Franco Campobasso: «tu, tu che sei una guida, non dimenticare che tale sei, perché hai dubitato delle guide! E dunque a chi è guidato, permetti il dubbio!».

Il problema è generale, perché manca una visione sistematica del sapere, pur nell'ambito della specifica attività professionale svolta, cosa che nel secolo scorso, pur in mancanza di conoscenze specifiche come quelle attuali, non accadeva.

Nasce allora la domanda: se Aristotele fu il maestro di Alessandro Magno, che, allievo brillante e capace, fino a quando, compiuta la formazione a 16 anni, diventò uno dei più celebri conquistatori e strateghi della storia, perché oggi si richiede tanto tempo per formarsi, malgrado gli indirizzi di studi anche nel corso del periodo scolastico (basti pensare agli istituti professionali) oramai sono specialistici?  Qualcuno dirà che, però, Alessandro divenne Magno perché era raccomandato dal padre Filippo, re di Macedonia e che, tutto sommato, erano altri tempi. Ciò nonostante, deve farci riflettere il paragone con i giorni d'oggi in cui un regnante inizia a sedersi sul trono quando oramai è anziano e un giovane inizia finalmente e liberamente una professione all'età in cui suo nonno il secolo scorso andava in pensione con la promozione del mese prima e l'ultima retribuzione. La domanda si sposta su “cosa fare da grande”, prima di rispondere al quesito principale sul futuro delle professioni intellettuali.

 

3. La domanda su “cosa fare da grande” trova le seguenti ovvie possibilità: il dipendente, a tempo determinato o indeterminato; l'imprenditore o il lavoratore autonomo. In Italia il numero di lavoratori dipendenti è circa 23 milioni, suddivisi tra impiego pubblico (sono circa 3 milioni quelli a contratto a tempo indeterminato) e privato, alle dipendenze di imprese e lavoratori autonomi (non catalogabili fra gli imprenditori). Interessante la relazione (quasi) di 1 a 1 tra numero di imprenditori (individuali e collettivi) e numero di professionisti. Le imprese sono circa un milione e 600 mila mentre i professionisti intellettuali sono un milione e 400 mila. Indubbiamente il confronto numerico è assai relativo, visto che molte imprese sono strutturate in forme societarie e attirano più dipendenti (si pensi alla grande industria), ma senza dubbio il tessuto economico del nostro paese è costituito in gran parte dalle professioni intellettuali, che hanno un ruolo oltretutto trainante per la formazione culturale del paese (si pensi ai convegni, agli interventi nei mass media, alla formazione della classe politica).

Impossibile qui ripercorrere, in poche battute, la storia delle professioni intellettuali e la loro differenza giuridica con l'impresa, per la peculiare disciplina civilistica cui sono soggette, con una regolamentazione per l'accesso per il sottoinsieme delle professioni protette (riservate). Ci è sufficiente ricordare che, ai fini della qualificazione di un'attività come professione intellettuale, occorre applicare un criterio sostanziale (e non fare riferimento alla mera etichetta legislativa) in relazione al carattere eminentemente intellettuale dei servizi prestati. Il classico esempio di applicazione del criterio sostanziale è la qualificazione del farmacista come imprenditore commerciale, perché la sua attività è prevalentemente quella di vendere al pubblico specialità farmaceutiche, non svolgendo alcuna prestazione d'opera intellettuale (il cliente è il più delle volte un acquirente obbligato da prescrizione medica e le preparazioni galeniche sono sostituite dai beni prodotti dalle imprese farmaceutiche).

Tanto acquisito, va anche precisato che il modello professionale si basa su caratteristiche molto peculiari: a) il lavoro del professionista intellettuale presuppone l'apprendimento di nozioni scientifiche di alto livello, cioè la conoscenza d'un comparto dello scibile che si apprende attraverso studi universitari o simili; b) è garantito al professionista un grado elevato di autonomia, eliminando la dipendenza rispetto a comandi o influenzamenti esterni di tipo gerarchico, spesso con la realizzazione di regolamentazioni attraverso ordini professionali, con codici etici che disciplinano i principali rapporti del professionista (con il cliente, gli altri professionisti, la società).

Quali sono, allora, i rischi che oggi rendono in Italia poco appetibile lo svolgimento della professione? Molti pensano all'abolizione del previgente sistema tariffario e quindi al decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito in Legge 24 marzo 2012, n. 27 all'epoca del Governo di Mario Monti, oltre alla disattenzione della politica sociale e fiscale verso i professionisti, rendendoli (apparentemente e vedremo perché) nuovi “proletari” del sistema consumistico, condannati alla totale precarietà. In realtà, occorre fare un passo indietro al tristemente noto il c.d. decreto Bersani: più precisamente al decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 del 2006, convertito in Legge 4 agosto 2006, n. 248, che abrogò le disposizioni legislative e regolamentari che prevedevano l'obbligatorietà dei minimi tariffari, garanzia civile e costituzionale della congruità dei compensi rispetto al lavoro. È vero, poi, che il definitivo sgretolamento del sistema tariffario è avvenuto successivamente, sotto la sferza del governo iperliberista Monti, che, con l'art. 9 del decreto-legge n. 1/2012, ha prodotto l'abrogazione definitiva delle tariffe delle professioni regolamentate (oltre ai minimi, sono stati abrogati anche i massimi tariffari), con il compenso professionale che diviene di fatto legato e soggetto alle sole leggi di mercato. Ed infatti, Mario Monti, quando era Commissario Europeo alla Concorrenza, nel 2003 aveva già affermato: «il ruolo degli ordini è essenziale, mentre non credo che gli ordini dovrebbero essere coinvolti nella sfera economica dei professionisti, dettando regole sul comportamento nel mercato dei loro iscritti, come per esempio fissando le tariffe o vietando la pubblicità». Indubbiamente, sono oggi preoccupanti i dati che registrano consistenti abbandoni da albi professionali (soprattutto si segnalano le cancellazioni degli avvocati). Il che è un segnale del fatto che la descritta crisi della libera professione non riguarda il passaggio – per profili organizzativi – da professionista autonomo a dipendente (come nel caso dei medici ospedalieri ma anche di ingegneri e architetti attratti da società di engineering), ma proprio dal sistema politico ed economico, che non lascia giusti spazi all'esercizio della professione intellettuale, implicando la scelta verso altre attività (ristorazione, turistico-alberghiere, commercio ecc. fino alla politica, regina delle garanzie di ottimo sostentamento economico).

Come mai, dunque, la conoscenza di alto profilo nel terzo millennio è così importante per entrare nel mondo del lavoro in modo competitivo, mentre le professioni intellettuali in Italia sono descritte in stato di crisi? È un problema di organizzazione produttiva (a causa delle grandi imprese che assorbono tutto) o di formazione culturale del paese (per i ritardi nella preparazione altamente specialistica dei giovani)?

 

4. La risposta va ricercata in due ordini di fattori: uno riguarda la struttura del sistema economico, per cui i vantaggi fiscali (si pensi alle spese detraibili) e finanziari (si pensi ai finanziamenti a fondo perduto in particolari settori produttivi) sono sempre stati proiettati verso chi fa impresa e non verso chi fa l'avvocato, il medico o l'ingegnere; l'altro riguarda il tipo di formazione universitaria, su cui vorrei dedicare alcune riflessioni, in quanto ritengo che l'università debba costituire un traino per la società civile e quindi non solo per il mondo delle professioni intellettuali classiche, ma anche per gli inventori e gli artisti. La mia riflessione coinvolge innanzitutto il modo con cui si fa ricerca, dovendo combattere con statistiche e parametri, senza avere la tranquillità di fare studi ed esperimenti che possono pure non dare i risultati sperati, ma che possono servire per correggere le ricerche successive.

Noi docenti inseguiamo le mediane attraverso le nostre pubblicazioni: secondo la legge dell'economista Charles Goodhart (nota anche come Legge di Goodhart e Strathern), quando la misura diventa l'obiettivo, essa cessa di essere una buona misura. In soldoni, un criterio di valutazione cessa di funzionare se diventa l'obiettivo proseguito da chi deve essere valutato. E stando dietro all'obiettivo da raggiungere per restare competitivi, abbiamo cessato l'attività creativa nello scoprire qualcosa di veramente nuovo. Sapendo di essere valutati con determinati indicatori, gli aspiranti accademici sono diventati ingegnosi nell'ottimizzare il lavoro in base agli stessi indicatori e finiscono, non di rado, per occuparsi solo di quelli, abbandonando progetti che abbiano un orizzonte temporale lungo e/o non assicurino ritorni certi (Mastrocola-Ricolfi, Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza, Milano, 2021, 74 ss.). Meglio dieci articoli di routine che un articolo innovativo (e per questo pure criticabile), che richiede anni di ricerche, perché quello che conta è la rivista che ti pubblica, non l'originalità e la novità di quello che hai scritto (non sia mai senza note). L'università italiana rischia di non trascinare più il sistema produttivo del paese e i professionisti intellettuali finiscono per non attingere più nulla dalla ricerca universitaria.  A ciò si aggiunge un enorme ritardo nella istruzione specialistica determinato da un necessario approfondimento delle conoscenze di base, che in alcune discipline restano, però, soffocate da un'eccessiva analisi dei temi su basi storiche (da un lato, si richiede la conoscenza del sistema, per risolvere problemi che sono altamente mutevoli nel corso della carriera, dall'altro, però, si insiste per un'analisi storica delle stesse basi conoscitive, il che implica un ritardo negli studi specialistici).

L'altro fattore di crisi è conseguenza delle innovazioni nell'ambito dell'intelligenza artificiale e del machine learning che consentono a macchine e ad algoritmi di svolgere attività complesse, che sino a pochi anni fa si pensava potessero essere svolte solo dalle persone. A ciò si aggiungono gli effetti dei c.d. protocolli, sistemi predefiniti di svolgimento di un'attività che consente l'esenzione da responsabilità, per cui sembrerebbe inutile sottoporsi alle cure di quel medico o quell'altro, perché il protocollo da seguire sarebbe sempre lo stesso. Il protocollo “ammazza” la libertà di iniziativa e dunque la stessa rilevanza della libera professione, soffocata da procedure standard. Scompaiono le capacità di inventiva e la stessa immaginazione, attraverso cui pensare al futuro ed esserne autori. È così anche nel campo del diritto.

Oggi il giurista è diventato un “applicatore di norme”, vecchie e nuove, talvolta avvolte dal “combinato disposto”, locuzione che imperversa in interventi, comizi, commenti, articoli giornalistici, testi più o meno qualificati e social network. Un “applicatore di norme” non è più un giurista e sembra che non riesca più a ragionare: le regole cambiano, mentre magari tenta di ragionare (quante volte mi chiedono che un saggio sia subito pubblicato, perché le norme stanno cambiando). Gran parte delle regole introdotte appaiono oltretutto inutili, in quanto alla medesima conclusione si sarebbe arrivati se si avesse avuto il tempo di finire il proprio ragionamento. E ciò senza contare la bassa qualità delle regole più recentemente introdotte (e in proposito rinvio al mio editoriale del 30 settembre 2014, Contro la volatilità delle regole per le imprese. Principi di Slow & Easy Law, in questa Rivista).

Scomparendo l'utilità della argomentazione, a favore della conclusione, rapida e possibilmente univoca, si chiede di qua e di là quale sia la soluzione, il più delle volte cercandola nelle banche dati. Il giurista fa la fine del farmacista, non svolge un servizio, ma vende un prodotto, che si chiami atto pubblico, sentenza o contratto, a seconda della professione o funzione svolta, è indifferente. Il giovane, che volesse fare l'avvocato, pieno di entusiasmo dopo aver visto al cinema “The social network” (che racconta del processo avvenuto nei primi anni del 2000, quando Mark Zuckerberg inventò Facebook, cercando di appropriarsi di tutti i diritti)  o “Il caso Thomas Crawford” (che si incentra nella continua sfida tra un giovane procuratore alla ricerca di giustizia e un diabolico magnate che si difende da solo dopo aver ucciso la moglie, avendone scoperto l'adulterio), si trova, invece, dinanzi ad uno scenario completamente diverso: quello di Charlie Chaplin in “Tempi moderni” (il film del 1936), nella più totale alienazione, dapprima teorizzata da Karl Marx nella industria, e poi estesa, grazie ai protocolli informatici, alle professioni intellettuali (nella gestione dei dati) e a breve nelle decisioni giudiziarie (con l'intelligenza artificiale e la blockchain).

Infine, il regime attuale della responsabilità professionale è diventato un fattore di rischio enorme tale da spingere a non cimentarsi a svolgere una professione libera. L'imprenditore rischia l'investimento, il proprio fatturato, ma sono elementi determinati e determinabili, mentre rari sono i rischi da prodotto (come nel caso di danni ambientali). Il professionista (si pensi ad un medico per le cure che decide di prescrivere, un ingegnere per la direzione di un'impresa edile o il sindaco di una società per azioni in caso di illeciti trasferimenti all'estero di disponibilità finanziarie e conseguente bancarotta) risponde cento, mille, diecimila volte in più rispetto al suo fatturato. E non si dica che sarebbe sufficiente per il professionista assicurarsi per danni a terzi nello svolgimento delle sue attività, perché ben sappiamo i problemi che si nascondono dietro le polizze, tra clausole claims made e altre limitazioni di garanzie.

 

5. Quali sono le soluzioni dei problemi fin qui affrontati? L'obiettivo è la riconquista della centralità delle professioni intellettuali nel progresso culturale della società contemporanea. Per farlo, è necessaria una politica legislativa che dia nuova linfa allo svolgimento delle professioni intellettuali, sia nel campo fiscale (perché non si estende l'esenzione da IVA alle attività legali?), sia in quello previdenziale (agevolando il riscatto degli anni di laurea, durante i quali il futuro professionista ha dovuto subire lo stress di molteplici esami da sostenere e dunque considerevoli sacrifici rispetto all'entrata diretta nel mondo del lavoro). Andrebbe, poi, accolto il principio di proporzionalità tra compenso e responsabilità. Poiché in tema di mandato gratuito, la responsabilità per colpa viene valutata con minor rigore (art. 1710 c.c.), allora in tema di mandato oneroso, quando il corrispettivo pattuito – a causa della concorrenza e soprattutto ad inizio attività – è esiguo rispetto al valore dell'opera, andrebbe liquidato il risarcimento in modo parziale rispetto al danno subito: X (corrispettivo pattuito) sta a Y (corrispettivo dovuto in base a tariffa media) come R (risarcimento dovuto) sta a D (danno subito). Andrebbero, poi, costantemente realizzati seri finanziamenti agevolati a favore dei giovani (considerando l'età avanzata per cui è possibile affacciarsi sul mercato, in considerazione dell'attuale sistema scolastico e universitario) nell'apertura di nuovi studi professionali. Andrebbero, tra l'altro, con particolare riguardo al campo giuridico, accelerate le procedure di liquidazione per gratuito patrocinio e i sistemi di pagamento da parte della pubblica amministrazione e dei tribunali per procedure concorsuali a favore di tutti i professionisti coinvolti.

Proprio nel settore dei servizi legali, va decisamente contestata la diffusa opinione secondo cui il cronico eccesso di burocrazia italiana sia determinato dall'alto numero di professionisti che vi operano. Le professioni legali, al contrario, fungono da mediatori qualificati tra le istanze degli utenti e le esigenze dell'ordinamento e, in particolare, gli avvocati sono presidio di garanzia per tutelare gli utenti e i notai, con il loro ruolo di pubblici ufficiali, garantiscono funzionamento e affidabilità dei pubblici registri (v. amplius Fuccillo, In difesa delle professioni giuridiche “classiche”: ripensiamo all'accesso, in Lettera150.it, 24 novembre 2020, il quale sottolinea come tali professionisti siano «baluardo di un bene diffuso quale è la “fede pubblica” »), malgrado la diffusione di blockchain non solo nel campo della circolazione di monete virtuali. Al contrario, proprio la diffusione dell'intelligenza artificiale, richiede il rinnovamento della Pubblica Amministrazione, da un lato, con nuove politiche di assunzione di impiegati e funzionari dotati di conoscenze giuridiche e informatiche adeguate, e, dall'altro, con l'adozione di richieste di consulenza esterna a favore di professionisti idonei a risolvere i problemi tecnici di funzionamento della macchina amministrativa. È sufficiente pensare all'atavico ritardo nella modernizzazione dei collegamenti in rete delle singole autorità giudiziarie presenti nel Paese (dai Giudici di Pace alla Cassazione) e nella più ampia diffusione del processo telematico. A ciò si aggiungono le competenze giuridiche richieste dalle varie Authority, le organizzazioni internazionali e gli organi della Unione Europea (Portale, Studiare «Giurisprudenza», in Banca e borsa, 2012, I, 497 ss., in part. 504).

In sintesi, «il diritto organizza il sociale» (Grossi, Prima lezione di diritto, Bari, 2003, 16), per cui più la società accelera il suo processo di trasformazione, maggiormente vi è bisogno di conformare le regole al cambiamento e di imporne nuove per organizzare il nuovo che si realizza per mano dell'uomo.

 

6. Attraverso le linee di modernizzazione delle professioni qui tracciate sia pur sinteticamente, si può realizzare un tessuto normativo e organizzativo tale da consentire la (ri)espansione del mondo delle professioni, che – come all'inizio anticipato – da (iper)specialistiche diventano (anche) “ibridate”. Il termine “ibridazione” sta ad indicare in biologia l'incrocio tra individui vegetali o animali di razze o specie diverse, atto a produrre una nuova razza o varietà. La cosiddetta “ibridazione delle professioni” è un concetto che è stato esposto nell'ambito dello studio Job 2030 (www.job2030.it), un progetto di ricerca che coinvolge professionisti con diverse competenze e che ha come obiettivo quello di prevedere quelle che saranno le professioni più comuni negli anni a venire. L'ibridazione più consueta è, secondo tale studio, quella tra professioni tecniche e professioni intellettuali o scientifiche di elevata specializzazione. In passato si trattava di ambiti lavorativi piuttosto distinti, per le ragioni prima spiegate. Oggi, invece, si intersecano sempre più spesso, perché la loro unione appare indispensabile per poter affrontare un mondo del lavoro sempre più competitivo, a causa del confronto con le strutture produttive cinesi, dotate di conoscenze intellettuali di alto livello. In campo giuridico, aggiungo quanto auspicava già Leibniz, secondo cui non solo i giuristi dovrebbero beneficiare dell'arte matematica della ragione, ma anche che, al contrario, matematici e scienziati ben farebbero tesoro della saggezza del mondo del diritto e della sua capacità di districarsi in situazioni di incertezza (Leonesi-Toffalori, Logica a processo. Da Aristotele a Perry Mason, Milano, 2016, 11 s.). Formule matematiche e formule filosofiche sono tra loro correlate (Zellini, La matematica degli dèi e gli algoritmi degli uomini, Milano, 2016, 46 ss.). Oggi il problema è connettere diversi linguaggi di diverse discipline.

Alla poliedricità, si accompagna la flessibilità e dinamicità, essendo sempre meno importante una precisa localizzazione a fronte di attività svolte oramai in smart working o comunque fuori ufficio (ad esempio, presso il cliente). Ma soprattutto prevarrà l'aggiornamento e in questa prospettiva il ruolo delle università è fondamentale: ad esempio, si dovrà dare accesso a specifici corsi nei dipartimenti di giurisprudenza ed economia anche ad ingegneri e medici, così come nei dipartimenti di ingegneria ad avvocati e magistrati per apprendere nuove tecnologie in campo della tutela brevettuale.

Accanto alle professioni “classiche” finora menzionate, cui si aggiungono – in modo non esaustivo – oceanografi, geologi, psicologi, sociologici, assistenti sociali ecc., si vanno configurando nuove attività intellettuali: ad esempio, oltre a disegnatori di moda, ci sono i progettisti multimediali; oltre agli statistici e analisti di sistemi, ci sono gli specialisti nella progettazione e amministrazione delle banche dati. Fin qui si potrebbe sostenere che si tratta, in parole povere, di una variazione della professione già esistente sulla base delle nuove tecnologie, talvolta attraverso definizioni con terminologia inglese per rendere più fresh l'attività che viene svolta: cyber security manager; esperto di digital marketing; fintech expert; growth hacker; social media specialist; virtual reality app developer; TikTok marketer; Tinder profile writer.

Il fatto, però, che le competenze digitali stiano diventando sempre più pervasive implica che molte figure professionali diventano così tanto collegate al mondo digitale da essere impiegate in settori molto eterogenei e dunque chiamate ad adattare profondamente le proprie competenze. Un disegnatore potrebbe anche non saper completamente utilizzare una matita su un foglio di carta, ma diventare un designer multimediale molto richiesto.

A ciò si aggiunge che lo svolgimento di tutte queste attività avverrà in una realtà completamente diversa da quella in cui siamo finora nati e cresciuti: il Metaverso, per cui rinvio per i problemi inerenti alla sua effettiva realizzazione ed alle attività intellettuali da espletarsi al mio editoriale del 16 novembre 2021, L'espansione economica nel Metaverso: i No Fungible Token (NFT), in questa Rivista. Magari nessuno si ammalerà nel Metaverso – e saranno messi al bando i medici se il sistema non li preveda – ma vi sarà bisogno di ingegneri come di avvocati per risolvere liti nel mondo virtuale. E nel contempo – per una particolare forma di alienazione degli utenti – crescerà il bisogno di psichiatri, psicologi e sociologi in quello reale.

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