Le recenti misure previste per il contenimento dell’attuale pandemia hanno sollevato numerosi interrogativi circa l’incidenza che le stesse avranno nei contratti di locazione in corso, in particolare in quelli di natura commerciale. L’attenzione è stata infatti immediatamente rivolta alla possibilità, per il conduttore, di sospendere il pagamento dei canoni fintanto che l’emergenza non sia finita. In particolare ci si è chiesti se lo stesso conduttore possa legittimamente invocare l’impossibilità sopravvenuta o l’eccessiva onerosità del contratto in essere.
Lo scopo del presente studio è quello di analizzare in chiave comparatistica la suddetta problematica al di fuori dei confini nazionali, ed in particolare nel mondo anglosassone, ove i principi di common law impongono all’interprete un approccio estremamente diverso.
In disparte la premessa di fondo che si è soliti associare ai sistemi di common law – nei quali il precedente costituisce regola generale, sicché l’attività creativa di interpretazione della norma risulta estremamente limitata, anche laddove la materia sia legiferata – quel che occorre sottolineare è che, in tali sistemi, per lungo tempo l’incidenza di eventi imprevedibili nella regolamentazione dei contratti si è dimostrata del tutto assente. Di fatto, fino alla prima metà dell’Ottocento, il noto broccardo latino – pacta sunt servanda – costituiva il principio cardine cui si uniformavano i giudici delle Corti anglosassoni, e ciò anche al cospetto di eventi che le parti non avevano in alcun modo previsto, e che improvvisamente si palesavano nel corso della vigenza del contratto.
Soltanto con il caso Taylor v. Caldwell – riguardante l’incendio del teatro Surrey Gardens Music Hall – venne stabilito che i proprietari di detto teatro non avrebbero dovuto pagare alcuna somma all’impresa che lo aveva preso in locazione per una rappresentazione teatrale, essendosi verificato un evento imponderabile, del tutto pregiudizievole sul piano del sinallagma contrattuale, e non riconducibile ad alcun comportamento delle parti. Da tale precedente nacque in sostanza la teoria in un certo qual modo assimilabile alla presupposizione, secondo cui ogni contratto, per essere (o continuare ad essere) valido e vincolante avrebbe dovuto presupporre la possibilità di adempiere la rispettiva obbligazione per ciascuna delle parti (“People wuold not ordinarily contract to do something they knew was going to be impossible”).
Parallelamente nacque il concetto di frustration del contratto, ovverosia di impossibilità di darvi esecuzione per una serie di ipotesi che, a parte il caso della menomazione fisica di una delle parti, potevano riguardare un evento bellico che improvvisamente rendeva impossibile il commercio di determinati beni, così come potevano riguardare il rinvio della data di incoronazione di Edoardo VII (caso Krell v. Henry del 1903) a causa di un improvviso stato influenzale del futuro monarca, con conseguente impossibilità di dare esecuzione alla locazione di un immobile dal quale il conduttore avrebbe potuto, e voluto, assistere all’evento nel giorno inizialmente stabilito.
In tale contesto si diffuse l’introduzione di determinate previsioni contrattuali (clausole di forza maggiore) con le quali le parti stabilivano che al ricorrere di determinati eventi il contratto si sarebbe risolto per l’impossibilità di darvi esecuzione (caso Super Servant Two). E difatti in tale contenzioso la Corte statuì la risoluzione del contratto essendosi verificato un evento sussumibile nella categoria degli accadimenti di forza maggiore previsti dalle parti (nella specie il noleggio di una imbarcazione che, per l’appunto, era divenuto impossibile a causa dell’improvvisa calamità naturale che si era abbattuta sulla navigazione che la stessa imbarcazione avrebbe dovuto effettuare dal Giappone al porto di Rotterdam).
Come si può comprendere, il fulcro di tale assunto (riassumibile nel principio del frustration contract) risiedeva nella regola secondo cui, a seguito del verificarsi dell’evento imprevisto e/o imprevedibile (e quindi anche in assenza della predetta clausola di forza maggiore), ciascuna delle parti poteva ritenersi esonerata dall’obbligo di eseguire la propria prestazione. Questo però mal si conciliava con le situazioni nelle quali una delle parti avesse dato corso all’esecuzione della propria prestazione consistente nel versamento di una somma di danaro. Ed è per tale motivo che, nel Regno Unito, nel 1943 venne introdotto il Frustration Act, che costituisce un vero e proprio spartiacque nella ricostruzione storica della incidenza dei concetti di forza maggiore e frustration nella disciplina contrattuale dei sistemi di common law.
Con tale disposizione normativa infatti venne stabilito che, al ricorrere di un’ipotesi di frustration del contratto, la parte che avesse versato una determinata somma di denaro in esecuzione della propria obbligazione, ne avrebbe potuto chiedere la restituzione, in tutto o in parte, secondo la discrezionalità del giudice, avuto riguardo alle specificità del caso concreto, ed in modo particolare alle eventuali spese frattanto sostenute dall’altro contraente («Adjustment of rights and liabilities of parties to frustrated contracts.(1)Where a contract governed by English law has become impossible of performance or been otherwise frustrated, and the parties thereto have for that reason been discharged from the further performance of the contract, the following provisions of this section shall, subject to the provisions of section two of this Act, have effect in relation thereto.
(2) All sums paid or payable to any party in pursuance of the contract before the time when the parties were so discharged (in this Act referred to as “the time of discharge”) shall, in the case of sums so paid, be recoverable from him as money received by him for the use of the party by whom the sums were paid, and, in the case of sums so payable, cease to be so payable.
Provided that, if the party to whom the sums were so paid or payable incurred expenses before the time of discharge in, or for the purpose of, the performance of the contract, the court may, if it considers it just to do so having regard to all the circumstances of the case, allow him to retain or, as the case may be, recover the whole or any part of the sums so paid or payable, not being an amount in excess of the expenses so incurred […]»).
In buona sostanza, con l’introduzione di detta novella legislativa nel mondo anglosassone iniziò a diffondersi la dottrina della frustration: come detto, per tale intendendosi la cessazione degli effetti di un contratto per il sopraggiungere di un determinato evento, al cui verificarsi ciascuna delle parti si sarebbe potuta ritenere svincolata dall’obbligo di continuare ad eseguire le proprie prestazioni.
Interessante è notare la definizione che della frustration venne data nel caso Davis Contractors Ltd v. Fareham UDCdel 1956: «…frustration occurs whenever the law recognises that without default of either party a contractual obligation has become incapable of being performed because the circumstances in which performance is called for would render it a thing radically different from that which was undertaken by the contract. Non haec in foedera veni. It was not this that I promised to do».
E tuttavia è ancor più interessante la pronuncia resa nel caso National Carriers Ltd v. Panalpina (Northern) Ltd del 1981. Con tale arresto, infatti, la Corte ha rigettato la richiesta del conduttore di un magazzino che, lamentando il mancato utilizzo dell’unica via di accesso a detto magazzino per venti giorni – a seguito di un provvedimento della pubblica autorità – in virtù dell’istituto della frustration aveva chiesto la risoluzione del contratto in questione. Motivo del rigetto, secondo la Corte, era stata la sostanziale tollerabilità della misura adottata dalla pubblica autorità (come detto di venti giorni), a fronte di un contratto che consentiva il godimento dell’immobile per la durata di ben dieci anni: in buona sostanza, ben altri avrebbero dovuto essere i presupposti per ravvisarvi un’ipotesi di frustration: «Frustration of a contract takes place where there supervenes an event (without default of either party and for which the contract makes no sufficient provision) which so significantly changes the nature (not merely the expense or onerousness) of the outstanding contractual rights and/or obligations from what the parties could reasonably have contemplated at the time of its execution that it would be unjust to hold them to the literal sense of its stipulations in the new circumstances: in such case, the law declares both parties to be discharged from further performance».
È infatti di palmare evidenza che, quanto più si dilata la durata del vincolo nascente dal contratto (è il caso per l’appunto dei contratti di locazione), tanto più risulta difficile individuare quelle “new circumstances” che, in concreto, facciano ritenere superata la regolamentazione contrattuale. E ciò in specie in una situazione, come quella attuale, in cui risulta difficile prevedere quanto durerà l’emergenza pandemica e, soprattutto, quanto essa renderà impossibile la prosecuzione di determinati rapporti locatizi nel territorio britannico o in altri paesi di common law.
Al riguardo, si può ravvisare un precedente di estremo interesse in una pronuncia dell’autorità giudiziaria del Regno Unito del 2007 (caso Edwinton Commercial Corporation v. Tsavliris Russ (Worldwide Salvage and Towage) Ltd) in cui il giudice relatore ebbe a sostenere quanto segue:
«In my judgement, the application of the doctrine of frustration requires a multi-factorial approach. Among the factors which have to be considered are the terms of the contract itself, its matrix or context, the parties’ knowledge, expectations, assumptions and contemplations, in particular as to risk, as at the time of the contract, at any rate so far as these can be ascribed mutually and objectively, and then the nature of the supervening event, and the parties’ reasonable and objectively ascertainable calculations as to the possibilities of future performance in the new circumstances».
Ed è proprio tale precedente che verrà poi citato in una recentissima pronuncia del 2019 (caso Canary Wharf (BP4) T1 Ltd v. European Medicines Agency) in cui è stata esclusa la sussistenza di un’ipotesi di frustration, ravvisabile unicamente in quei «common purposes cases», nei quali in concreto ciascuna delle parti avrebbe potuto dire: «it was not this that I promised to do».
Anche in tale precedente, in sostanza, la Corte, facendo leva sul principio sopra enunciato del “multi-factorial approach”, ha statuito che il conduttore (European Medicines Agency), benché pregiudicato dal verificarsi di un evento che per esso conduttore avrebbe reso impossibile l’utilizzo dell’immobile, avrebbe potuto trarre una utilità dalla prosecuzione del rapporto, potendo cedere la posizione contrattuale a terzi o concedere in sublocazione l’immobile per espressa previsione contrattuale.
Da quanto sinora detto emerge, dunque, la rilevanza che assumeranno le singole clausole inserite nei contratti di locazione commerciale sottoscritti nel Regno Unito (o in altri ordinamenti di common law): clausole che, oltre a riguardare la forza maggiore, potranno perfino disciplinare la sospensione del pagamento del canone (al ricorrere di determinate ipotesi) o la possibilità di destinare ad altra attività l’immobile in caso di impossibilità di proseguire l’attività inizialmente pattuita.
Con la conseguenza che, al cospetto di una situazione come quella attuale di emergenza pandemica che renda impossibile l’utilizzo dell’immobile per la finalità pattuita, l’interprete verificherà se il contratto ne preveda una diversa destinazione da parte dello stesso conduttore. In assenza di detta previsione (e di ulteriori clausole, come quella sopra citata, di sospensione del pagamento del canone) residuerà la comparazione tra la durata del contratto in essere e la presumibile durata del mancato utilizzo del bene a seguito dei provvedimenti restrittivi adottati dalle pubbliche autorità.
Quanto a tale profilo, si evidenzia come in un precedente della Corte di Hong Kong (caso Li Ching Wing v. Xuan Yi Xiong del 2004) il conduttore di un immobile concesso in locazione per la durata di due anni – improvvisamente reso inutilizzabile per dieci giorni, a seguito delle misure restrittive adottate dalle pubbliche autorità in relazione all’epidemia SARS – si è visto rigettare la domanda di risoluzione del contratto, a suo dire reso impossibile da un’ipotesi di frustration del contratto stesso. Anche qui il rigetto è stato motivato in relazione alle singole circostanze del caso concreto, e nella specie avuto riguardo al limitato periodo di tempo di divieto di utilizzo dell’immobile rispetto all’intera durata della locazione.
Acclarata dunque la sussistenza di un istituto anglosassone – la frustration – cui l’interprete potrà ricorrere nell’affrontare la risoluzione di un contratto di locazione reso impossibile nella sua esecuzione a causa dell’attuale emergenza pandemica, resta da stabilire come, e quanto, detti principi possano soccorrere al fine di adottare accorgimenti manutentivi volti a garantire la prosecuzione del rapporto locatizio.
E’ infatti evidente che, per quanto non se ne possa escludere l’aderenza agli interessi delle parti in una situazione di comprovata, ed irreversibile, impossibilità di dar corso alla prosecuzione della locazione, di per sé la risoluzione del contratto non risponde alle esigenze concrete delle parti contraenti: da un lato il conduttore, intenzionato a riprendere la propria attività compatibilmente con le misure adottate dalle pubbliche autorità, dall’altro il proprietario, normalmente interessato ad ottenere un’utilità economica dalla concessione in godimento dell’immobile.
Ebbene, proprio l’istituto della frustration – funzionalmente volto ad adeguare la fattispecie concreta al mutato scenario manifestatosi nel tempo – verosimilmente costituirà l’addentellato normativo cui ancorare la ricerca di soluzioni alternative alla risoluzione del singolo contratto di locazione; soluzioni alternative in quanto non finalizzate alla cessazione del vincolo contrattuale, bensì alla prosecuzione del rapporto stesso.
Non a caso il legislatore britannico con il Coronavirus Act 2020, non soltanto ha disposto la sospensione delle procedure di sfratto per morosità fino al 30 giugno 2020, ma ha altresì invitato i conduttori – che si trovino in difficoltà nel pagamento del canone – a mettersi temporaneamente d’accordo con i proprietari (c.d. short-term workouts) per ottenere una dilazione o la possibilità di provvedere al pagamento oltre i termini pattuiti. E non è da escludere che da detto invito possa discendere la prassi di addivenire ad una modifica del contratto in essere che, in via preventiva e con carattere di stabilità nel tempo, disciplini l’adeguamento del canone in considerazione di eventi di forza maggiore (come quello dovuto all’attuale emergenza pandemica). In tal modo consentendo che determinati contratti di locazione – di fatto sospesi nella produzione degli effetti a causa dei recenti provvedimenti restrittivi adottati dalle pubbliche autorità – possano riprendere, o continuare, a produrli per la durata inizialmente prevista.
Allo stesso modo, non è da escludere che, proprio dalla diffusione di una siffatta prassi, possa formarsi un nuovo orientamento delle Corti anglosassoni: un orientamento che, in una sorta di riscrittura delle nuove frontiere dei sistemi di common law, sancisca la legittimità, non soltanto di un accordo modificativo ed integrativo del contratto di locazione in essere, quanto della pretesa avanzata in tal senso dal conduttore, che in sede stragiudiziale si sia visto rifiutare la relativa proposta indirizzata al proprietario.
Tale orientamento potrebbe costituire un’ulteriore esplicazione del sopradescritto “multi-factorial approach”che, per quanto descrittivo della predetta dottrina della “frustration” (come tale rispondente all’esigenza di far cessare definitivamente un vincolo contrattuale “superato” dagli eventi), pur tuttavia nell’ambito delle finalità manutentive di un contratto di locazione potrebbe contribuire alla introduzione, anche nell’ordinamento britannico, del principio della buona fede oggettiva nella esecuzione del contratto; principio che, come è noto, costituisce uno dei pilastri della tradizione continentale del diritto civile.