Sommario:
1. Coronavirus e Contratti di appalto.
La crisi epidemiologica in corso e la relativa legislazione c.d. d'emergenza adottata dal Governo e dalle Regioni possono incidere sull'esecuzione dei contratti di appalto, in considerazione delle limitazioni all'attività d'impresa ivi contenute.
A tale riguardo, vengono in rilievo:
- il d.P.C.M. dell'11 marzo 2020, che contiene le prime misure di contenimento relative alle attività d'impresa (pur non comportando la completa sospensione delle stesse). In particolare, «in ordine alle attività produttive e alle attività professionali si raccomanda che: a) sia attuato il massimo utilizzo da parte delle imprese di modalità di lavoro agile per le attività che possono essere svolte al proprio domicilio o in modalità a distanza; b) siano incentivate le ferie e i congedi retribuiti per i dipendenti nonché gli altri strumenti previsti dalla contrattazione collettiva; c) siano sospese le attività dei reparti aziendali non indispensabili alla produzione; d) assumano protocolli di sicurezza anti-contagio e, laddove non fosse possibile rispettare la distanza interpersonale di un metro come principale misura di contenimento, con adozione di strumenti di protezione individuale; e) siano incentivate le operazioni di sanificazione dei luoghi di lavoro, anche utilizzando a tal fine forme di ammortizzatori sociali» (art. 1, comma 7); e ancora: «per le sole attività produttive si raccomanda altresì che siano limitati al massimo gli spostamenti all'interno dei siti e contingentato l'accesso agli spazi comuni» (art. 1, comma 8);
- il successivo d.P.C.M. del 22 marzo 2020, che ha, invece, disposto la sospensione di «tutte le attività produttive o commerciali, ad eccezione di quelle indicate nell'allegato 1» (art. 1, lett. a) individuate attraverso codici ATECO aggiornati a cura del Ministero dello sviluppo economico [1];
- il d.l.n. 19 del 25 marzo 2020, che prevede la possibilità di adottare «per periodi predeterminati, ciascuno di durata non superiore a trenta giorni, reiterabili e modificabili anche più volte fino al 31 luglio 2020» (art. 1, comma 1) ulteriori provvedimenti limitativi o sospensivi, inter alia, delle «attività d'impresa o professionali, anche ove comportanti l'esercizio di pubbliche funzioni, nonché di lavoro autonomo, con possibilità di esclusione dei servizi di pubblica necessità previa assunzione di protocolli di sicurezza anti-contagio e, laddove non sia possibile rispettare la distanza di sicurezza interpersonale predeterminata e adeguata a prevenire o ridurre il rischio di contagio come principale misura di contenimento, con adozione di adeguati strumenti di protezione individuale» (art. 1, comma 2, lett. z).
Il potere di adottare tali provvedimenti ulteriormente restrittivi è attribuito (i) al Presidente del Consiglio dei ministri a norma dell'art. 2 e (ii) alle singole regioni, nei modi e nel nei limiti previsti dall'art. 3. È quindi essenziale avere riguardo anche alla normativa regionale di riferimento che sarà emanata ai sensi dell'art. 3 d.l. n. 19 del 2020 per comprendere l'evoluzione delle citate restrizioni, nelle varie Regioni. Con specifico riferimento al settore degli appalti, si segnala che, già il 21 marzo 2020, la Regione Lombardia aveva disposto per il periodo 22 marzo/15 aprile 2020 «il fermo delle attività nei cantieri, previa concessione del termine per la messa in sicurezza, fatti salvi quelli relativi alla realizzazione e manutenzione della rete stradale, autostradale, ferroviaria, del trasporto pubblico locale, nonché quelli relativi alla realizzazione, manutenzione e funzionamento degli altri servizi essenziali o per motivi di urgenza o sicurezza» (ordinanza n. 541, lett. a), n. 15).
Chiarito il quadro normativo derivante dalla legislazione d'urgenza e considerato che lo stesso potrà mutare, tra l'altro, in sede di conversione in legge, si tratta di esaminare i possibili impatti di tali disposizioni sui contratti di appalto in corso, ferma restando la necessità di una valutazione caso per caso, che tenga conto delle pattuizioni contenute nei singoli contratti (ad esempio, la previsione di una specifica disciplina per le cause di forza maggiore) e della loro “tenuta” alla luce del carattere emergenziale delle citate norme [2].
In primo luogo, occorre considerare i contratti d'appalto afferenti ad attività non assoggettate alle restrizioni indicate supra, come quelli aventi ad oggetto l'installazione, la manutenzione e la riparazione di impianti elettrici (ad es., sistemi di allarme antifurto, reti di elaboratori, impianti fotovoltaici), nonché di impianti idraulici, di riscaldamento o condizionamento dell'aria (ad es., costruzione di torri di raffreddamento, caldaie, collettori di energia solare non elettrici).
In queste ipotesi, potrebbero registrarsi dei ritardi nell'esecuzione dell'opera da parte dell'appaltatore, a causa della necessità di rispettare le stringenti disposizioni in materia di sicurezza e salute sul luogo di lavoro, dell'assenza delle maestranze normalmente impiegate nell'organizzazione d'impresa e/o della difficoltà di reperire i materiali necessari al compimento dell'opera stessa.
In tale scenario, laddove il committente dovesse contestare ritardi e richiedere il pagamento di penali, l'appaltatore potrebbe:
(i) sostenere la non imputabilità della causa del ritardo ai sensi dell'art. 1218 c.c., essendo lo stesso determinato da cause di forza maggiore estranee alla sua sfera di organizzazione e di controllo [3]. Ed infatti, risultano riconducibili a tale categoria i citati provvedimenti legislativi d'urgenza che impediscono o limitano il corretto adempimento della prestazione, indipendentemente dal comportamento o dalla volontà dell'obbligato, e che, come tali, risultano idonei ad escludere la responsabilità da ritardo e il conseguente obbligo di pagamento delle penali (factum principis) [4]. Si pensi, ad esempio, ai casi di ritardo determinato dalla necessità di ridurre il numero di addetti al cantiere per rispettare le misure di sicurezza imposte dalle citate norme o dalle criticità legate all'attività di approvvigionamento dei materiali necessari all'esecuzione dell'opera (ad es., il fornitore – a causa dell'attuale situazione di emergenza – non riesce a sua volta a rispettare le tempistiche concordate con l'appaltatore nell'evasione degli ordini);
(ii) richiamare l'art. 1375 c.c.che impone alle parti di eseguire il contratto secondo buona fede: tale disposizione, che è espressione del dovere (di rango costituzionale) di solidarietà tra i consociati, potrebbe essere interpretata nel senso di ritenere abusiva la richiesta di pagamento di penali, dato che l'attuale situazione di emergenza dovrebbe imporre ad ogni creditore un margine di tolleranza “rafforzato” in relazione all'inesatto adempimento. Allo stesso modo, il principio di buona fede potrebbe imporre una rinegoziazione dei termini d'adempimento, al fine di adeguare – nel rispetto dell'originaria volontà delle parti – il regolamento contrattuale a tale sopravvenuto mutamento di fatto;
(iii) sostenere l'applicabilità diretta dell'art. 91 d.l. 17 marzo 2020, n. 18 [5], secondo cui «il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è sempre valutata ai fini dell'esclusione, ai sensi e per gli effetti degli artt. 1218 e 1223c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all'applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti». L'ambito applicativo della citata norma, tuttavia, non è certo: si potrebbe ritenere che la stessa sia dettata solo per i contratti “pubblici” disciplinati dal d.lgs. n. 50 del 2016 [6], mentre un'interpretazione estensiva alla luce dell'intero sistema normativo d'urgenza potrebbe consentire di estenderne l'operatività agli appalti “privati” [7].
Al contempo, anche il potere di controllo del committente in relazione allo stato dei lavori ex art. 1662 c.c. potrebbe subire delle concrete limitazioni. Così, nel caso in cui sia accertato che l'esecuzione dell'appalto «non procede secondo le condizioni stabilite nel contratto e a regola d'arte», il «congruo termine» da concedere ai sensi del comma 2 all'appaltatore per adeguarsi alle condizioni contrattuali dovrebbe tenere conto delle citate criticità [8].
Per le medesime ragioni, anche la disciplina del collaudo andrebbe interpretata ed applicata considerando le difficoltà connesse alla situazione di emergenza sanitaria: ad esempio, non potrebbe ritenersi accettata l'opera ai sensi dell'art. 1665, comma 3, c.c., in caso di ritardo del committente – determinato dall'emergenza de qua - nell'esecuzione del collaudo o nella conclusione delle verifiche già iniziate. Si pensi ai rallentamenti nell'attività di collaudo cagionati dall'impossibilità di garantire, durante i sopralluoghi, la presenza del personale chiamato ad eseguire le verifiche tecniche, a causa della necessità di rispettare le misure minime di sicurezza. In queste ipotesi, si potrebbe sostenere la sussistenza dei “giusti motivi” che, a norma della disposizione in esame, legittimano il ritardo del committente nell'esecuzione e nella conclusione delle verifiche.
Passando all'esame dei contratti d'appalto concernenti le attività di impresa che sono invece sospese, in termini generali e astratti, occorre anzitutto considerare la disciplina dell'impossibilità sopravvenuta, di cui agli artt. 1256, 1463 e 1464 e, con specifico riferimento al contratto d'appalto, 1672 c.c.
Nella specie, potrebbe venire in rilievo l'impossibilità di eseguire la prestazione oggetto dell'obbligazione principale dell'appaltatore, id est il compimento di un'opera o di un servizio verso il corrispettivo di un prezzo (art. 1655 c.c.).
La natura provvisoria delle misure di contenimento consente di ritenere configurabile un'impossibilità di carattere temporaneo, che determina una mera sospensione dell'esecuzione della prestazione dell'appaltatore: fino a quando perdura l'impossibilità, l'appaltatore «non è responsabile del ritardo nell'adempimento» (art. 1256, comma 2, c.c., primo periodo) ed è tenuto ad eseguire la prestazione quando la stessa diviene (nuovamente) possibile. Esemplificando: in forza delle citate misure restrittive, l'appaltatore si trova costretto a sospendere l'esecuzione dell'attività di costruzione di un complesso immobiliare; per effetto del superamento dell'emergenza sanitaria, i lavori potranno nuovamente essere eseguiti. Quindi, la prestazione dell'appaltatore tornerà possibile e il committente sarà tenuto a versare il corrispettivo del prezzo, senza risarcimento per il ritardo. A norma dell'art. 1256,comma 2, c.c. secondo periodo, l'impossibilità temporanea diviene però definitiva, con conseguente estinzione dell'obbligazione, nel caso in cui essa perduri «fino a quando, in relazione al titolo dell'obbligazione o alla natura dell'oggetto, il debitore non può più essere ritenuto obbligato a eseguire la prestazione ovvero il creditore non ha più interesse a conseguirla» [9]. Si consideri, ad esempio, l'appalto avente ad oggetto l'allestimento dei padiglioni di una fiera per un importante evento fissato dal 15 aprile al 15 maggio: nel contratto si precisa che l'evento ha natura stagionale e che è pertanto indifferibile. A causa delle limitazioni indicate, l'appaltatore è costretto a sospendere l'attività di allestimento già iniziata. In questa ipotesi, nel denegato caso in cui le citate misure restrittive dovessero essere prolungate per tutto il mese di aprile, il committente potrebbe sostenere di non avere più interesse a conseguire la prestazione dovuta dall'appaltatore.
Nell'ipotesi di sopravvenuta impossibilità definitiva di esecuzione dell'opera, viene, poi, in rilievo direttamente la norma speciale di cui all'art. 1672 c.c., in base alla quale, in caso di scioglimento del contratto d'appalto per impossibilità sopravvenuta dovuta ad una causa (oggettiva, assoluta e imprevedibile) non imputabile ad alcuna delle parti, il committente è tenuto a «pagare la parte dell'opera già compiuta, nei limiti in cui è per lui utile, in proporzione del prezzo pattuito» [10].
Nella distinta ipotesi, invece, di appalti aventi ad oggetto prestazioni continuative o periodiche di servizi per un determinato periodo (art. 1677 c.c.), l'impossibilità temporanea, a seconda dei casi, potrà anche considerarsi impossibilità definitiva, sia pure parziale, in quanto il periodo temporale di prestazione perduto per l'impossibilità sopravvenuta è perduto per sempre.
Inoltre, sia con riferimento ai contratti relativi ad attività non sospesa che con riguardo a quelli che subiscono le citate restrizioni, a causa della situazione di emergenza, è possibile che si verifichino i mutamenti (in aumento o in diminuzione) del «costo dei materiali o della manodopera» disciplinati dall'art. 1664, comma 1, c.c. Se tali sopravvenienze – certamente cagionate da «circostanze imprevedibili» quali l'epidemia in corso – dovessero risultare «superiori al decimo del prezzo complessivo convenuto», le parti potrebbero richiedere «una revisione del prezzo», solo «per quella differenza che eccede il decimo».
Risulta, invece, possibile escludere – con specifico riferimento all'attuale emergenza sanitaria – l'operatività del comma 2 della disposizione in esame: norma, questa, che disciplina le «difficoltà di esecuzione derivanti da cause geologiche, idriche o simili» (ad es., cause naturali riguardanti la conformazione del terreno su cui costruire l'opera oggetto dell'appalto o avversità atmosferiche), nell'alveo delle quali non paiono sussumibili le criticità derivanti, essenzialmente, dai citati provvedimenti emergenziali (factum principis) [11]. Si segnala, tuttavia, che, secondo una corrente minoritaria di dottrina (supportata da alcune pronunce arbitrali) [12], il termine «simili» comprenderebbe tutte le cause «esterne» non imputabili alle parti (come potrebbe essere il factum principis), anche di tipo diverso da quelle «geologiche» ed «idriche».
Qualora, tuttavia, dovessero verificarsi sopravvenienze diverse da quelle disciplinate dall'art. 1664 c.c. [13], potrebbe essere invocata la disciplina della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta di cui all'art. 1467 c.c. Tale rimedio presuppone che la prestazione di una delle parti sia divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili e che la sopravvenuta onerosità non rientri nell'alea normale del contratto. Ove queste condizioni ricorrano, la parte che deve eseguire tale prestazione può domandare la risoluzione e l'altra parte (e solo essa) può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto.
Appare comunque difficile stimare ex ante e in termini astratti se l'avvenimento straordinario e imprevedibile rappresentato dall'epidemia in corso e dai relativi provvedimenti emergenziali (allo stato) assunti possa rendere il contratto di appalto eccessivamente oneroso per il committente o per l'appaltatore. La stima dell'impatto economico della sopravvenienza in questione deve essere valutata caso per caso con riferimento allo specifico sinallagma contrattuale, anche in relazione all'alea normale del contratto e, ovviamente, ad eventuali pattuizioni in punto di ripartizione dei rischi.
Laddove non si volesse attivare il rimedio della risoluzione ma un diverso rimedio manutentivo, verrebbe in rilievo il già citato principio di buona fede ex art. 1375 c.c., al fine di ottenere la rinegoziazione delle pattuizioni oggetto dello squilibrio sopravvenuto (sebbene in giurisprudenza ciò non sia pacifico). Una possibile conferma del favor del legislatore per il mantenimento del rapporto negoziale, sia pure previa correzione dello squilibrio indotto da fattori esterni, può trarsi proprio dal summenzionato art. 1664 c.c. che prevede (i) la revisione del prezzo nelle ipotesi disciplinate dal comma 1 e (ii) il diritto dell'appaltatore ad un «equo compenso» per i maggiori oneri derivanti dalle difficoltà esecutive indicate nel comma 2.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI E GIURISPRUDENZIALI.
[1] Con decreto del 25 marzo 2020, il Ministero dello sviluppo economico ha apportato le prime modifiche al d.P.C.M. del 22 marzo 2020. Con d.P.C.M. del 1° aprile 2020 l'efficacia delle misure restrittive in vigore originariamente sino 3 aprile 2020 (tra le quali rientrano quelle adottate con il d.P.C.M. del 22 marzo 2020) era stata estesa sino al 13 aprile 2020. Con successivo d.P.C.M. del 10 aprile 2020, sostitutivo dei precedenti d.P.C.M., le misure restrittive sono state estese fino al 3 maggio 2020.[2] Nei primi commenti sulla normativa d'emergenza, è stato, infatti, sottolineato che la stessa tutela interessi di ordine pubblico e che, quindi, ad esempio, «eventuali patti, contenuti nei contratti in corso, che escludano l'applicabilità degli artt. 1463 e 1464 c.c. non dovrebbero considerarsi validi» (S. VERZONI, Gli effetti, sui contratti in corso, dell'emergenza sanitaria legata al COVID-19, in Giustiziacivile.com, 25 marzo 2020).
[3] In questi termini, si è espresso il Ministero dello sviluppo economico in una circolare del 25 marzo 2020 rivolta alle Camere di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura: in particolare, le società che hanno stipulato contratti di fornitura con soggetti esteri possono richiedere una attestazione camerale di «forza maggiore per emergenza COVID-19” al fine di certificare l'impossibilità di adempiere correttamente alle obbligazione assunte ed evitare la «risoluzione dei contratti in essere, con pagamento di penali e mancato rientro dai costi della commessa già sostenuti». La circolare è in https://www.mise.gov.it/index.php/it/normativa/circolari-note-direttive-e-atti-di-indirizzo/2040923-circolare-25-marzo-2020-attestazioni-camerali-su-dichiarazioni-delle-imprese-di-sussistenza-cause-di-forza-maggiore-per-emergenza-covid-19.
In generale, con riguardo alla definizione di impossibilità liberatoria ai sensi dell'art. 1218 c.c. rispetto a obblighi di fare mediante un'organizzazione, si rileva che l'appaltatore «sarà certamente liberato, se l'impossibilità deriva da una causa esterna alla sua sfera di organizzazione, quale ad esempio lo sciopero generale, il terremoto, il divieto della pubblica autorità non rivolto specificamente alla sua impresa, e qualunque fatto del creditore, o attinente alla sfera del creditore» (P. TRIMARCHI, Il contratto: inadempimento e rimedi, Milano, 2010, 40).
In relazione al “rischio” che l'appaltatore assume ai sensi dell'art. 1655 c.c. nel compimento dell'opera o del servizio, si precisa che lo stesso «non riguarda la sopportazione del caso fortuito, ma attiene alla situazione in cui l'appaltatore si obbliga ad operare, nel senso che, in sede di organizzazione ed esecuzione dei lavori, questi deve sopportare quei danni che provengono da forza maggiore o che più particolarmente possono essere a lui imputati o per cattiva organizzazione o per infelice scelta dei suoi collaboratori o ausiliari” (RUBINO- IUDICA, commento sub artt. 1655-1677, Dell'appalto, in Commentario Scialoja-Branca, Bologna, 1992). In giurisprudenza v. Cass. 3 luglio 1979, n. 3754, in DeJure (solo massima): “Il rischio o pericolo che l'appaltatore assume nel compimento dell'opera o del servizio, non è quello inteso in senso tecnico-giuridico, relativo, cioè, ai casi fortuiti, ma quello cosiddetto economico, che deriva dall'impossibilità di stabilire previamente ed esattamente i costi relativi, per cui l'appaltatore, che non ha il potere di interrompere i lavori per l'aumentata onerosità degli stessi, potrà anche perdere nell'affare se i costi si riveleranno superiori al corrispettivo pattuito, salve le modificazioni consentite in presenza di determinate circostanze e realizzabili col rimedio della revisione dei prezzi”.
[4] Al fine di escludere la responsabilità del debitore per inadempimento o inesatto adempimento in conseguenza di factum principis, è necessario:
(i) che il debitore non “abbia colposamente dato causa” all'atto impeditivo emanato dall'autorità o che - trattandosi di un atto illegittimo - si sia concretamente attivato per “ottenerne la revoca o l'annullamento” (v. Cass. 19 ottobre 2007, n. 21973 in DeJure; in termini analoghi, cfr. la giurisprudenza di legittimità e di merito indicata infra); (ii) che l'emanazione dell'atto impeditivo da parte dell'autorità non sia ragionevolmente prevedibile al momento del sorgere dell'obbligazione; (iii) che il debitore abbia - nei limiti dell'ordinaria diligenza - sperimentato ed esaurito “tutte le possibilità che gli si offrono per vincere o rimuovere” l'impedimento determinato dall'atto della pubblica autorità. V. ex multiis in giurisprudenza: Cass.22agosto2018,n.20908; Cass.8giugno2018,n.14915; Cass.25maggio 2017, n. 13142; Cass. 10 giugno 2016, n. 11914; Cass. 21973/2007, cit.; App. L'Aquila 11 gennaio 2019, n. 42, tutte in DeJure. Con riferimento diretto ai contratti d'appalto, v. Cass.28agosto2003, n.12235: fattispecie in tema di legittimità della sospensione dell'esecuzione dei lavori oggetto di un appalto pubblico; i giudici di legittimità, in termini generali, affermano: “a) che tra le obbligazioni le quali scaturiscono, come effetti naturali, dal contratto di appalto, vi è quella, gravante sulla parte committente, di assicurare all'appaltatore, fin dall'inizio del rapporto, e per tutta la durata di questo, la possibilità giuridica e concreta di eseguire il lavoro affidatogli, così che l'inadempimento di tale obbligo, cui non può non corrispondere il diritto dell'appaltatore alla relativa osservanza, è ben suscettibile di assumere, in astratto, valenza ai sensi degli artt. 1453 e seguenti c.c. (Cass. 22 maggio 1998, n. 5112); b) che la liberazione del debitore per sopravvenuta impossibilità della sua prestazione può verificarsi, secondo la previsione degli artt.1218e 1256 c.c., soltanto se ed in quanto concorrano vuoi l'elemento obiettivo della impossibilità di eseguire la prestazione medesima, in sé considerata, vuoi l'elemento soggettivo rappresentato dall'assenza di colpa da parte del debitore riguardo alla determinazione dell'evento che ha reso impossibile siffatta prestazione, onde, nel caso in cui lo stesso debitore non abbia adempiuto la propria obbligazione nei termini contrattualmente stabiliti, egli non può invocare l'anzidetta impossibilità, sotto le specie della forza maggiore idonea ad escludere l'imputabilità dell'inadempimento, con riguardo ad un ordine o divieto sopravvenuto dell'autorità amministrativa o giurisdizionale (factum principis) che fosse ragionevolmente e facilmente prevedibile, secondo la comune diligenza, all'atto dell'assunzione dell'obbligazione, ovvero rispetto al quale non abbia, sempre nei limiti segnati dal criterio dell'ordinaria diligenza, sperimentato ed esaurito tutte le possibilità che gli si offrivano per vincere o rimuovere la resistenza o il rifiuto della pubblica autorità, restando così inerte e ponendosi in condizione di soggiacervi senza rimedio”.
Sul punto, cfr. anche Cass.23.5.1990,n.4656, in DeJure: una società italiana si aggiudica un appalto volto alla realizzazione di un ospedale in Arabia Saudita e subappalta ad un'altra società italiana l'esecuzione dei lavori di movimento terra. Iniziati tali lavori, l'esecuzione dell'opera viene improvvisamente sospesa dal Ministero d ella Difesa dell'Arabia Saudita (committente) a causa dell'opposizione all'espropriazione da parte di alcuni proprietari delle aree interessate dai lavori. Trascorsi diversi mesi, la subappaltatrice comunica il recesso dal contratto di subappalto e propone domanda di arbitrato chiedendo il risarcimento dei danni subiti. Il collegio arbitrale accoglie la domanda. A seguito di impugnazione, il lodo viene dichiarato nullo dalla Corte d'Appello di Milano, la quale, decidendo nel merito, riconosce comunque la responsabilità della subcommittente per la sospensione dei lavori, con conseguente obbligo di risarcimento dei danni a favore della subappaltatrice. La Corte ritiene: “a) che, nel contratto di subappalto tra la IMES e la Feal, autonomo rispetto al contratto base da cui era derivato, la subcommittente era stata inadempiente, per non aver prestato la sua cooperazione, consistente nel porre la subappaltatrice in grado di eseguire l'opera consegnandole le aree di cantiere; b) che l'inadempimento non era giustificato da impossibilità sopravvenuta derivante da causa non imputabile (nonostante la sospensione dei lavori disposta dal Ministero saudita in seguito all'opposizione di proprietari delle aree sottoposte ad espropriazione), poiché un elementare dovere di diligenza avrebbe imposto alla Feal di accertare preventivamente la propria possibilità di prestare la dovuta cooperazione, espletando tutte le necessarie indagini sulla giuridica disponibilità dei terreni; c) che per la determinazione dei danni occorreva ricorrere ai criteri convenzionalmente stabiliti nella clausola contrattuale n. 15-10, con la quale i contraenti avevano inteso regolare la liquidazione dei danni derivanti al subappaltatore da un comportamento colposo della Feal, causativo - comunque - della sospensione dei lavori”. La Suprema Corte conferma l'impugnata decisione, escludendo, da un lato, “che l'inadempimento del committente nel contratto base potesse produrre, di per sé, effetti liberatori per il subcommittente nel rapporto derivato, non essendo consentito al debitore di allegare a proprio discarico (stante l'autonomia dei due contratti) l'inadempimento di un terzo estraneo al rapporto” (nella specie il Ministero committente) e negando, dall'altro, la possibilità di configurare un'impossibilità sopravvenuta per factum principis “dal momento che la sospensione dei lavori (in seguito all'apposizione di alcuni proprietari di terreni assoggettati ad espropriazione) era stata disposta dal committente principale (Ministro della Difesa dell'Arabia Saudita) in qualità di parte e non per atto di imperio”.
[5] Tale disposizione introduce il comma 6-bis all'art. 3 del D.L. 23 febbraio 2020, n. 6 convertito con modificazioni dalla Legge 5 marzo 2020, n.13.
[6] A sostegno di questa interpretazione restrittiva militano (i) la rubrica dell'art.91delD.L. 17marzo2020,n.18 (“Disposizioni in materia di ritardi o inadempimenti contrattuali derivanti dall'attuazione delle misure di contenimento e di anticipazione del prezzo in materia di contratti pubblici”), nonché (ii) il contenuto della Relazione al D.L. 17 marzo 2020, n. 18, secondo cui “L'articolo [91] interviene sulla disciplina dei ritardi o inadempimenti contrattuali derivanti dall'attuazione delle misure di contenimento e di anticipazione del prezzo in materia di contratti pubblici introdotta dall'articolo 3 del decreto-legge n. 6 del 202”.
[7] In tal senso, VERZONI, cit., pag. 4, secondo cui “Sebbene tale disposizione sia dettata solo per i contratti pubblici, l'eadem ratio imporrebbe di estendere il principio a tutti i contratti, indipendentemente dall'oggetto e dalla natura dei contraenti”.
Inoltre, con specifico riferimento agli appalti afferenti all'edilizia, il 24 marzo 2020, è stato assunto un “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contratto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro del settore edile”, siglato dalle associazioni di categoria.
In tale documento (riferito non solo ai contratti pubblici, ma ad ogni tipo di appalto relativo al settore edile), si effettua una “tipizzazione pattizia, relativamente alle attività di cantiere, della disposizione, di carattere generale, contenuta” nel citato art. 91: “La tipizzazione delle ipotesi deve intendersi come meramente esemplificativa e non esaustiva. 1) la lavorazione da eseguire in cantiere impone di lavorare a distanza interpersonale minore di un metro, non sono possibili altre soluzioni organizzative e non sono disponibili, in numero sufficiente, mascherine e altri dispositivi di protezione individuale (guanti, occhiali, tute, cuffie, ecc..) conformi alle disposizioni delle autorità scientifiche e sanitarie (risulta documentato l'avvenuto ordine del materiale di protezione individuale e la sua mancata consegna nei termini): conseguente sospensione delle lavorazioni; 2) l'accesso agli spazi comuni, per esempio le mense, non può essere contingentato, con la previsione di una ventilazione continua dei locali, di un tempo ridotto di sosta all'interno di tali spazi e con il mantenimento della distanza di sicurezza di 1 metro tra le persone che li occupano; non è possibile assicurare il servizio di mensa in altro modo per assenza, nelle adiacenze del cantiere, di esercizi commerciali, in cui consumare il pasto, non è possibile ricorrere ad un pasto caldo anche al sacco, da consumarsi mantenendo le specifiche distanze: conseguente sospensione delle lavorazioni; 3) caso di un lavoratore che si accerti affetto da Covid-19; necessità di porre in quarantena tutti i lavoratori che siano venuti a contatto con il collega contagiato; non è possibile la riorganizzazione del cantiere e del cronoprogramma delle lavorazioni: conseguente sospensione delle lavorazioni; 4) laddove vi sia il pernotto degli operai ed il dormitorio non abbia le caratteristiche minime di sicurezza richieste e/o non siano possibili altre soluzioni organizzative, per mancanza di strutture ricettive disponibili: conseguente sospensione delle lavorazioni; 5) indisponibilità di approvvigionamento di materiali, mezzi, attrezzature e maestranze funzionali alle specifiche attività del cantiere: conseguente sospensione delle lavorazioni”.
[8] V. LECCESE, commento sub art. 1662 c.c., in Il Codice dei Contratti Commentato, a cura di Alpa-Mariconda, Milano 2017: “non è possibile affermare in astratto quando un termine sia congruo o meno, ma si dovrà tenere conto di una varietà di elementi, che vanno dal numero degli inconvenienti ai quali occorre porre riparo, alla loro entità, alla possibilità di facili riparazioni ovvero alla necessità di demolizione per ricostruire di nuovo, alla maggiore o minore facilità di approvvigionamento dei materiali necessari e alle condizioni del tempo”.
[9] V. Cass. 17 ottobre 2014, n. 20811, in DeJure: pronuncia avente ad oggetto un caso di impossibilità sopravvenuta per factum principis, consistente nell'ordine di sospensione dell'esecuzione dell'appalto emanato dalla Pubblica Autorità a seguito della scoperta di un vincolo archeologico gravante sull'area interessata dai lavori. L'appaltatrice ha convenuto in giudizio la committente, chiedendo la risoluzione per inadempimento del contratto di appalto avente ad oggetto la costruzione di un complesso immobiliare. In particolare l'appaltatrice ha dedotto che a seguito dell'aggiudicazione dell'opera e dell'esecuzione degli adempimenti prodromici alla stipulazione del contratto si è trovata costretta a sospendere l'esecuzione dell'opera in forza di un'ordinanza emanata dalla Sovraintendenza ai Beni Culturali ed Ambientali che aveva imposto un blocco dei lavori. La convenuta si è costituita affermando che l'impedimento alla realizzazione dell'opera era stato determinato da un vincolo archeologico sull'area interessata dai lavori che non era conosciuto dalla committente al momento dell'aggiudicazione dei lavori. In primo grado la domanda dell'appaltatrice è stata rigettata “ritenendo che nonostante l'aggiudicazione non fosse intervenuta tra le parti la conclusione del contratto”. All'esito del giudizio di gravame, la Corte d'Appello pur considerando perfezionato il vincolo contrattuale ha ritenuto “infondata la domanda di risoluzione del contratto per inadempimento, escludendo che l'Istituto fosse venuto meno all'obbligo di assicurare all'appaltatrice la possibilità di eseguire l'opera commissionata, in quanto la realizzazione della stessa era stata impedita dal provvedimento della Sovrintendenza, qualificabile come factum principis idoneo a rendere impossibile l'adempimento dell'obbligazione per causa non imputabile al committente”; ha altresì escluso la conoscibilità del vincolo in questione da parte della committente dal momento che lo stesso non risultava trascritto nei registri immobiliari; ha quindi infine ritenuto “imprevedibili l'ordine di sospensione adottato dalla Sovrintendenza e le condizioni dalla stessa imposte per la ripresa dei lavori, le quali, imponendo una cospicua riduzione delle opere consentite ed il previo espletamento di indagini conoscitive di notevole costo, avevano reso obiettivamente antieconomica la prosecuzione del rapporto contrattuale”. I giudici di legittimità hanno confermato le valutazioni effettuate dai giudici a quo e, facendo applicazione dei principi generali ex art. 1256, hanno affermato che “In quanto idonee ad incidere sull'interesse di entrambe le parti alla realizzazione del programma negoziale originariamente concordato e sulla stessa corrispondenza dell'opera commissionata alle esigenze che era destinata a soddisfare, tali circostanze [n.d.r. maggiori oneri derivanti dal vincolo archeologico] possono ben essere ritenute idonee a giustificare l'affermata impossibilità della prestazione, la quale è configurabile non solo nel caso in cui sia divenuto impossibile l'adempimento da parte del debitore, ma anche nel caso in cui sia divenuta impossibile l'utilizzazione della prestazione ad opera della controparte, purché tale impossibilità non sia imputabile al creditore e il suo interesse a riceverla sia venuto meno, dovendosi in tal caso prendere atto che non può più essere conseguita la finalità essenziale in cui consiste la causa concreta del contratto, con la conseguente estinzione dell'obbligazione”.
[10] Per una rassegna di giurisprudenza in materia di impossibilità di esecuzione dell'opera per forza maggiore, v. LUMINOSO, Commento sub art. 1672c.c., in Codice dell'appalto privato a cura di ID., Milano, 2016, pagg. 785- 787.
[11] In giurisprudenza, esclude l'operatività del secondo comma dell'art. 1664, comma 2, c.c. nelle ipotesi di factum principis Cass. 14.1.1987, n. 173, in DeJure:“Gli istituti disciplinati dall'art. 1664 cod. civ., che correggono i rigori dell'alea contrattuale nell'appalto, riversando (anche) sul committente le conseguenze di determinate sopravvenienze, rivestono carattere eccezionale rispetto alla disciplina generale della risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta, di cui all'art. 1467 cod. civ., e sono perciò insuscettibili di applicazione analogica ad aventi sopravvenuti diversi da quelli considerati nella norma; è peraltro ammissibile l'interpretazione estensiva della norma, che, nel secondo comma, prevede il diritto dell'appaltatore ad un equo compenso per le difficoltà di esecuzione sopravvenute, derivanti da cause geologiche, idriche e “simili”, che rendano più onerosa la sua prestazione: nel senso che debbono ritenersi comprese nella previsione normativa tutte le difficoltà di esecuzione dipendenti da cause naturali, e cioè tutte quelle che presentino le stesse qualità e caratteristiche intrinseche delle precedenti, esplicitamente menzionate, ma non quelle provocate da sopravvenienze oggettive di tipo diverso, che provochino effetti identici o analoghi, ma il fatto del terzo - nella specie l'abusiva occupazione degli alloggi da parte degli aspiranti assegnatari comportante la ritenuta insorgenza della particolare situazione obiettiva presupposta - (o il factum principis), le quali possono rientrare nella disciplina generale dell'art. 1467 cod. civ.”; v. in termini, Cass. 28 marzo 2001, n. 4463, Cass. 24 aprile 1992, n. 4940, Cass. 16 gennaio 1986, n. 227 e Cass. 19 marzo 1980, n. 1818 (solo massima), tutte in DeJure. Risulta conforme la dottrina maggioritaria: v. ex multis RUBINO-IUDICA, op. cit.
[12] Per la ricostruzione degli orientamenti interpretativi v. LECCESE, commento sub art. 1664 c.c., in il Codice dei Contratti commentato a cura di Alpa-Mariconda, Milano 2017. V. in senso potenzialmente conforme all'orientamento minoritario, Corte d'Appello di Roma, 26 gennaio 2009, n. 349: fattispecie avente ad oggetto la maggiore onerosità dell'approvvigionamento di materie prime determinata da una delibera regionale volta a bloccare l'estrazione delle stesse; i giudici di merito affermano che: “la maggiore onerosità dell'approvvigionamento delle materie prime, non può addebitarsi a scarsa diligenza dell'Ente appaltante e dunque a sua responsabilità” e ritengono invece configurabile “un caso di forza maggiore, assimilabile all'ipotesi prevista dall'art. 1664 cc., che comporta per l'appaltatore solo un equo compenso per le sopravvenute difficoltà nell'esecuzione dell'opera, che non ha quindi - come ha correttamente argomentato e deciso il giudice di prime cure - natura risarcitoria, ma unicamente di reintegrazione in via equitativa dei maggiori costi sopravvenuti, non addebitabili a colpa di nessuno dei contraenti”.
[13] Per le sopravvenienze regolate dall'art. 1664 c.c., la giurisprudenza e la dottrina maggioritarie ritengono che tale norma costituisca una disciplina speciale rispetto a quella di cui all'art. 1467, con conseguente inapplicabilità dell'ultima: v. Cass. 3 novembre 1994, n. 9060, in Dejure, per cui “l'art. 1664 c.c. costituisce la particolare applicazione al contratto di appalto (che, pur essendo un contratto non aleatorio, comporta particolari tipi di rischio espressamente regolamentati) del principio contenuto nell'art. 1467 c.c.; norma quest'ultima, che può ritenersi applicabile ad un contratto di appalto solo nell'ipotesi in cui l'onerosità sopravvenuta sia da attribuire a cause diverse da quelle previste nell'art. 1664, dovendo altrimenti la norma speciale prevalere sulla norma generale, in quanto disciplina specifica di un contratto commutativo con caratteristiche particolari”; in senso conforme v. Cass. 173/1987 e Cass. 227/1986 cit.; in dottrina, cfr. RUBINO-IUDICA, op. cit.
2. Coronavirus e Opzioni.
Com'è noto, l'opzione è disciplinata dall'art. 1331 c.c. [1] e, nel caso in cui venga esercitata, determina la conclusione di un nuovo contratto che, a seconda della volontà delle parti, può essere preliminare o definitivo. Nella prassi, la tipologia più diffusa di opzione è quella che impone alla parte vincolata di vendere o comprare un bene a un prezzo che può essere predeterminato oppure da determinarsi secondo le formule e i parametri indicati nel patto di opzione. Di seguito, faremo particolare riferimento alle opzioni/contratti che hanno ad oggetto beni il cui valore è particolarmente sensibile alle oscillazioni del mercato di riferimento e, segnatamente, immobili e partecipazioni societarie. Peraltro, non ci occuperemo delle clausole di tag along e drag along (che pure certuni tendono a ricondurre, tra l'altro, alle opzioni) né di tematiche più strettamente societarie, quali le opzioni di cui all'art. 2441c.c.
Come altrettanto noto, l'opzione può essere pattuita dalle parti con un autonomo contratto che in essa si esaurisce, con un contratto collegato ad altri negozi oppure nell'ambito di un contratto (preliminare o definitivo) caratterizzato da contenuto e sinallagma più ampi. Qualora l'opzione sia stata pattuita nel contesto di un'operazione unitaria articolata in una pluralità di accordi collegati, oppure costituisca una pattuizione all'interno di un contratto di più estesa portata, occorrerà altresì valutare l'impatto sull'opzione che possono avere i rimedi inerenti a tali contratti così come la loro sorte.
Per esaminare quali siano - rispetto all'opzione - i possibili effetti della situazione emergenziale venutasi a creare a causa dell'epidemia da Covid-19 (la “Situazione Emergenziale”) e i relativi rimedi, occorrerà preliminarmente e di volta in volta verificare:
(i) se il patto di opzione o il contratto in cui quest'ultima sia stata inserita contengano una disciplina specifica delle cause di forza maggiore (aut similia) oppure clausole cosiddette di material adverse change o material adverse events; in tal caso, dovranno essere valutate (caso per caso) l'estensione e la “tenuta” di tali clausole rispetto alla Situazione Emergenziale e alla correlata normativa d'emergenza, tenendosi conto che quest'ultima è volta a tutelare in primis interessi e diritti di ordine pubblico e rango costituzionale;
(ii) quale sia l'alea insita nel patto di volta in volta in esame (dovendosi considerare che l'opzione è naturalmente caratterizzata da un'alea piuttosto marcata, atteso che si proietta nel tempo in relazione a beni di valore oscillante - ma sul punto torneremo in seguito) e se le parti abbiano escluso, o meno, la possibilità di invocare uno o più rimedi di legge (si pensi, per esempio, a un contratto che escluda i rimedi che conducono alla risoluzione per il caso di temporanea chiusura dell'attività aeroportuale, accordando un correlativo periodo di sospensione del canone relativo allo spazio concesso in locazione a un'impresa da parte dell'ente aeroportuale). In questi casi andranno attentamente valutate le singole pattuizioni contrattuali al fine di verificare se e quale spazio abbiano effettivamente lasciato le parti all'applicazione dei principi e dei rimedi generali in materia di obbligazioni contrattuali;
(iii) come sia modulato il periodo di esercizio dell'opzione: per esempio, là dove le parti abbiano pattuito un periodo particolarmente ampio oppure più finestre temporali a consistente distanza dagli eventi in corso, l'oblato sarà tenuto a comportarsi secondo buona fede con particolare riguardo alla scelta del momento in cui esercitare l'opzione e dovendo evitare abusi manifesti. Più complessa, sempre per esempio, è l'ipotesi in cui il periodo di esercizio dell'opzione venga a scadere durante o una volta cessata la vigenza dei provvedimenti emergenziali ma in un contesto in cui siano perduranti gli effetti sostanziali ed economici della crisi determinata dalla Situazione Emergenziale. Qui, inevitabilmente, occorrerà verificare il caso concreto.
Data la gravità della situazione, ricordiamo anzitutto che, sotto il profilo dei mutamenti soggettivi, l'opzione (stante l'espresso richiamo all'art. 1329 c.c. contenuto nell'art. 1331 c.c.) – in pendenza del termine pattuito tra le parti per il suo esercizio (o di quello assegnato dal giudice) – non perde efficacia neppure in caso di morte o sopravvenuta incapacità della parte che si è vincolata, “salvo che la natura dell'affare o altre circostanze escludano tale efficacia”. Sicché, salva altresì una diversa disciplina convenzionale, l'obbligo assunto con l'opzione difficilmente viene meno (e vincolerà pertanto anche i successori mortis causa), fatta eccezione per il solo caso in cui l'esercizio dell'opzione determini la conclusione di un contratto intuitu personae. Anche in proposito occorrerà fare una valutazione caso per caso: la persona può avere particolare rilievo nella cessione di una partecipazione in una società di persone; minor rilievo nel caso di società di capitali (con qualche attenzione per quelle particolarmente caratterizzate dalla figura imprenditoriale o manageriale di riferimento e dunque alle cosiddette key man clauses); difficilmente può rilevare nella cessione di un immobile; e così via.
Ciò detto, a una prima ricognizione, la Situazione Emergenziale pare poter incidere:
(iv) sulla capacità (temporanea o meno) della parte di far fronte alle obbligazioni conseguenti all'esercizio dell'Opzione: sia per quanto riguarda gli aspetti di pura esecuzione (il legale rappresentante non può recarsi dal notaio perché è all'estero o in isolamento o, peggio, in terapia intensiva etc.) sia, per esempio, in ragione di una carenza di liquidità ad essa eccezionalmente non imputabile [2] (il possibile riferimento è al caso in cui, per effetto della Situazione Emergenziale, alla parte venga impedito per mesi l'esercizio dell'attività di impresa), oppure
(v) sull'equilibrio sinallagmatico del contratto che si concluderebbe per effetto dell'esercizio dell'opzione (ci riferiamo in questo caso all'ipotesi in cui la prestazione divenga eccessivamente onerosa in ragione del valore nel frattempo acquisito o perduto dal bene oggetto della compravendita, che, nella specie, potrebbe anche essere sideralmente distante da quello che le parti avevano soppesato al momento della stipula del patto);
(vi) sull'oggetto del contratto a valle, si pensi, per esempio, al caso di sopravvenuta insolvenza della società target o alla requisizione in uso (che potrebbe protrarsi per l'intera durata dell'emergenza, e dunque a tempo indeterminato) delle strutture alberghiere previsto dall'art. 6 comma 7 del decreto Cura Italia [3], con la necessità di verificare se il mutamento debba considerarsi definitivo o temporaneo.
I rimedi che vengono variamente in rilievo rispetto a queste ipotesi vengono trattati qui di seguito.
Anzitutto, come abbiamo già accennato, l'esercizio dell'opzione dovrà essere conforme a buona fede: l'oblato, in altri termini, non dovrà approfittare di una situazione di vantaggio determinata dalla Situazione Emergenziale, là dove l'opzione possa essere esercitata anche in un momento successivo, in cui potrebbero essere venute meno l'attuale stato di eccezione e le correlate difficoltà (si pensi in particolare all'esercizio delle opzioni di vendita). In altri termini, data la Situazione Emergenziale e valutato caso per caso, è difficile immaginare che la parte possa pretendere di dare esecuzione al contratto come se nulla fosse accaduto, specie là dove il sacrificio per l'oblato fosse minimo (e, come accennato sopra, fosse sufficiente la proroga del termine di esercizio per evitare un sacrifico eccessivamente gravoso al soggetto vincolato). Il rimedio, in questi casi, potrebbe essere il richiamo all'abuso del diritto (cioè la violazione dei principi di cui artt. 1175 e 1375c.c.) e la proposizione di un'azione volta a far accertare che l'esercizio dell'opzione debba intendersi tamquam non esset.
Anche ammesso che l'opzione (il riferimento in particolare è a quella di vendita) venga esercitata secondo buona fede, comunque il soggetto vincolato potrebbe trovarsi in difficoltà in ragione della Situazione Emergenziale, sia in relazione agli adempimenti esecutivi necessari (per cui rinviamo amplius alla parte dedicata ai contratti preliminari) sia in ragione di carenze di liquidità (ad esso non imputabili, se dipendenti dai provvedimenti conseguenti alla Situazione Emergenziale [4]) che, com'è noto, non costituiscono una causa di impossibilità assoluta della prestazione. Il debitore può avvalersi del rimedio di cui all'art. 1256, comma 2, c.c. (oltre che dell'art. 91 del decreto Cura Italia) e ritenersi esonerato per il caso di ritardo dovuto a una impossibilità temporanea (ad esempio in ragione della chiusura temporanea dell'impresa imposta dai provvedimenti nazionali o regionali emanati), ma dovrà adempiere allorché la situazione sia tornata alla normalità che, nella specie, dovrà ragionevolmente intendersi come il recupero di un'operatività ordinaria da parte dell'impresa, anche in termini finanziari (salvi casi limite, nei quali l'impossibilità temporanea perduri in misura tale per cui, in relazione al titolo dell'obbligazione o alla natura dell'oggetto, venga meno l'interesse dell'oblato alla esecuzione del contratto: cfr. l'art. 1256, comma, 2 c.c.).
Nel caso in cui la Situazione Emergenziale abbia determinato un forte squilibrio tra le prestazioni [5] (perché il bene compravenduto ha perduto o acquisito valore in termini fortemente anomali ed eccedenti l'alea insita nell'opzione), la disciplina che dovrebbe venire in rilievo è quella dell'eccesiva onerosità sopravvenuta di cui all'art. 1467 c.c. [6], che prevede la risoluzione ope iudicis del contratto, e di cui all'art.1468c.c. (se si tratta di un contratto nel quale una sola delle parti ha assunto obbligazioni), che prevede (sempre ope iudicis) la riconduzione della prestazione o del contratto ad equità [7].
In proposito, occorre anzitutto ricordare per cenni che, secondo taluni (inclusa una giurisprudenza piuttosto datata), stante l'unilateralità del vincolo che sorge con la stipula del patto di opzione (che, come detto, vincola il proponente a mantenere ferma la propria proposta), la norma applicabile al patto sarebbe solo l'art. 1468 c.c., ai sensi del quale è consentita (come detto) la riduzione della prestazione dell'obbligato o una sua riconduzione ad equità ma non la risoluzione del contratto ex art. 1467 c.c., potendo un eventuale squilibrio tra le prestazioni delle parti sorgere solo con riferimento al contratto che viene a concludersi per effetto dell'esercizio dell'opzione e non con riferimento al patto di opzione in sé (fermo che, come abbiamo detto, rispetto al patto di opzione il sinallagma potrebbe anche risiedere in negozi collegati). Secondo talaltri, l'art. 1467 c.c. sarebbe invece applicabile in tutti i casi in cui il contratto che viene concluso con l'esercizio dell'opzione presenti prestazioni a carico di entrambi i contraenti (e cioè la gran parte dei casi), applicandosi invece l'art. 1468 c.c. al solo caso in cui il contratto “a valle” preveda obbligazioni a carico di una sola parte. Infine, ricordiamo anche una risalente giurisprudenza di merito secondo la quale chi intenda risolvere il contratto “a valle” dovrebbe impugnare anche il patto di opzione “a monte” [8]. Qui di seguito, in termini pratici, ragioneremo come se il rimedio di cui all'art. 1467 c.c. fosse azionabile fino a quando non sia stata data esecuzione al contratto (preliminare o definitivo) eventualmente concluso per effetto dell'esercizio dell'opzione (e cioè fino a quando non si siano “incrociati” gli atti di trasferimento dei beni compravenduti e il pagamento del relativo prezzo).
Ferma la varietà di opinioni di cui al punto precedente, il rimedio ex art. 1467 c.c. sembra effettivamente applicabile al caso in cui oggetto della compravendita che si conclude a seguito dell'esercizio dell'opzione sia un immobile e, per effetto della Situazione Emergenziale, il suo valore sia mutato in termini abnormi. Le ragioni di cui alla Situazione Emergenziale e alla correlata normativa sono certamente imprevedibili, straordinarie e oggettive. Come abbiamo già detto, se le parti hanno contrattualmente “gestito” le ipotesi di sopravvenienza, disponendo o escludendo aggiustamenti e diritti di recesso, solo a seguito di un'analisi delle varie clausole si potrà comprendere se la sopravvenienza (pur rilevante) abbia ecceduto l'alea accettata ab origine dai contraenti.
Più complesso è il caso in cui l'opzione sia funzionale alla conclusione della compravendita di una partecipazione societaria, considerato (come noto) che: (i) il bene compravenduto è rappresentato dalle azioni o quote della società e non dal patrimonio, dalla redditività o da altre “qualità” di quest'ultima; (ii) il contratto a valle spesso prevede clausole di aggiustamento prezzo e clausole di “sole remedy” che attribuiscono al compratore diritti di indennizzo da esercitare per il caso di violazione di singole dichiarazioni o garanzie normalmente riferibili al patrimonio netto della società delle cui quote o azioni si tratta e alle poste che contribuiscono a formarlo. In altri termini, fermo che occorrerà comunque una valutazione del caso concreto, il rimedio di cui all'art. 1467 c.c. risulta difficilmente applicabile alla compravendita di partecipazioni [9], sia (e anzitutto) perché le sopravvenienze riguardano il valore patrimoniale o quello di mercato o la profittabilità della società (e cioè il bene mediato anziché quello immediato della compravendita, che sono le azioni o le quote, attributive non di porzioni di beni sociali ma, come noto, di “posizioni giuridiche inerenti al funzionamento legale della società, e cioè alla sua organizzazione interna [10]”), sia (volendo superare il primo ostacolo [11]) per l'alea normalmente insita e già regolata nei contratti di compravendita ormai divenuti tipici nella forma del cosiddetto SPA o Sale and Purchase Agreement [12], a mezzo degli apparati di clausole testé menzionati (aggiustamento prezzo, spesso modulato sull'evoluzione dell'ebitda o della posizione finanziaria netta, e diritti di indennizzo in caso di distonie rispetto al consueto e fitto set di dichiarazioni e garanzie). In proposito, si ricorda che il Tribunale di Milano:
- in un caso del 2013 [13], ha ritenuto aleatorio un patto di opzione (relativo a una società chiusa) in cui veniva fissato un prezzo minimo, argomentando che “l'accordo con cui è stata concessa l'opzione non può essere risolto né per “presupposizione”, considerato che il risultato dell'attività di impresa è frutto e conseguenza della sinergia di svariati fattori, né per eccessiva onerosità sopravvenuta, tenuto conto che il rischio connaturato all'esercizio dell'attività imprenditoriale vale di per sé a rendere il patto di fissazione del prezzo minimo implicitamente aleatorio;
- in un caso del 2014 [14], riferito a un'opzione put avente ad oggetto azioni quotate, ancorché senza assumere espressa posizione sulla questione (pur sottoposta alla sua attenzione) della natura aleatoria o meno del contratto di opzione, ha esaminato in concreto la sussistenza dei singoli presupposti di cui all'art. 1467 c.c. ed escluso che potesse considerarsi straordinaria e imprevedibile la nota crisi del 2008 (originata dal crac della Lehman Brothers), in quanto [non] diversa dalle normali oscillazioni di valore del sottostante, la cui variabilità rappresenta appunto elemento connesso alla causa del negozio”. In proposito, è evidente che le opzioni aventi ad oggetto azioni quotate e negoziate sul mercato telematico regolamentato meriterebbero un esame a sé, considerata l'elevata alea e la funzione speculativa che le caratterizzano e altresì la ciclica ricorrenza delle crisi del mercato; sono note a tutti quelle del 2001 per l'attentato alle Twin Towers, del 2008 per il crac Lehman Brothers, del 2011 per la crisi legata al debito dello Stato italiano e allo “spread” che ha caratterizzato in allora i relativi titoli in rapporto a quelli del debito tedesco; peraltro, il crollo cui stiamo assistendo sembra allo stato (fermo che tutto potrebbe cambiare anche rapidamente) non avere precedenti ed essere paragonabile a casi di scuola di avvenimenti straordinari e imprevedibili quali i fatti di guerra o le storiche fiammate inflazionistiche.
Dunque, con riferimento alle opzioni aventi ad oggetto la compravendita di partecipazioni societarie, sarà rilevante (e talvolta dirimente) verificare (tra l'altro) i criteri con cui viene determinato il prezzo (ad es. mediante prezzo minimo, fair market value a una determinata data - data la cui fairness è tutta da verificare in rapporto ai recenti accadimenti e alla loro progressione temporale - o formule più complesse), atteso che il patto in sé potrebbe già prevedere meccanismi idonei a far fronte alle oscillazioni dovute alla Situazione Emergenziale. Peraltro, non si possono escludere in proposito soluzioni quale quella adottata da un recente lodo arbitrale [15] in cui, facendosi applicazione dell'art. 1374 c.c. (che prevede l'integrazione del contratto anche in via di equità), si è giunti a modificare parzialmente la formula pattizia di determinazione del prezzo di compravendita di alcune azioni, al fine di tenere conto dell'esponenziale crescita dell'ebitda della società acquisita nel periodo ricompreso tra la conclusione del patto e l'esercizio dell'opzione d'acquisto, in quanto evento non previsto né disciplinato contrattualmente.
Detto della difficile applicazione dell'art. 1467 c.c. all'opzione avente ad oggetto le partecipazioni societarie, occorre chiedersi se la Situazione Emergenziale non consenta un “rilancio” di altri rimedi e ricostruzioni, quale quello previsto dalla giurisprudenza in caso di aliud pro alio [16] piuttosto che la figura della presupposizione, di cui, ad oggi, si è fatta solo di rado concreta applicazione (ancor meno nell'ambito della vendita di partecipazioni societarie).
La fattispecie dell'aliud pro alio si ha quando viene consegnata una cosa radicalmente diversa da quella pattuita o quando viene consegnato un bene che assolve a una funzione economico-sociale diversa da quella presupposta dalle parti. Tipicamente, nella sua (cauta) applicazione giurisprudenziale, integra l'aliud pro alio l'immobile destinato ad abitazione ma privo del certificato di abitabilità. Nel caso di partecipazioni societarie, per esempio, si ravvisa l'aliud pro alio là dove sia stata dichiarata l'insolvenza - poiché fa venir meno lo scopo di lucro - o nel caso in cui manchi l'autorizzazione a svolgere l'attività alberghiera, là dove essa sia l'unica attività esercitata dalla società acquistata [17]. In questi casi, risulta del tutto compromessa la destinazione all'uso che abbia costituito elemento determinante per addivenire al contratto che, pertanto, può essere risolto ex art. 1453 c.c. e ss.. Peraltro, ove la compromissione della destinazione sia (possa essere) solo temporanea, la giurisprudenza tende a escludere una fattispecie di aliud pro alio [18]. Il rimedio resterebbe pertanto di dubbia applicazione nel caso (per tornare alla Situazione Emergenziale) di albergo requisito in uso sino al 31 luglio 2020 (ex art. 6 comma 7 del decreto Cura Italia), piuttosto che di una partecipazione in una società la cui attività sia temporaneamente impedita ma si possa ragionevolmente ipotizzare (ove sia mai possibile, allo stato, azzardare previsioni) una ripresa una volta che sia terminato lo stato di emergenza.
Come accennato, un'altra ipotesi che potrebbe avere un rilievo nella Situazione Emergenziale è quella della presupposizione. Nel caso delle partecipazioni sociali, il precedente più noto è quello deciso dalla Corte di Cassazione nel 1991 [19], in cui era stata venduta una società con un solo bene sociale, e segnatamente una imbarcazione, nel frattempo colpita da sequestro giudiziario; in allora il contratto venne risolto, tenuto conto che presupposto comune alle parti era la immediata utilizzabilità del natante. La presupposizione (cioè la mancanza del presupposto sulla base del quale i contraenti sono addivenuti alla stipula di un accordo) può condurre, in assenza di una norma che specificamente la riguardi e secondo giurisprudenza e dottrina piuttosto frammentarie [20], alla nullità per mancanza di causa, alla risoluzione per impossibilità o eccessiva onerosità sopravvenuta, alla inefficacia del contratto e, come si è ritenuto di recente [21], anche ad attribuire una facoltà di recesso. Per quanto qui interessa, non si può escludere che l'appartenenza e la libera e immediata utilizzabilità di un certo bene (d)alla società possano costituire presupposto di fatto comune ai contraenti, non incerto, di carattere oggettivo e indipendente dalla loro volontà, che le parti hanno tenuto ben presente, pur non facendovi espresso riferimento, in modo da assurgere a fondamento dell'esistenza ed efficacia del contratto [22] e che tali presupposti vengano meno per effetto della Situazione Emergenziale, con la conseguente applicabilità del rimedio della risoluzione.
Infine, là dove la Situazione Emergenziale abbia inciso in termini definitivi sull'oggetto dell'opzione – come accade per esempio nei casi in cui si addivenga alla dichiarazione di insolvenza della società le cui partecipazioni sono oggetto di compravendita oppure, sempre per esempio, alla requisizione in proprietà di presidi sanitari e medico-chirurgici (anche privati) da parte del capo del dipartimento della protezione civile – non ci pare dubbio che l'attivazione dei rimedi di cui sopra (fermo che, in un'eventuale azione, andrebbero diversamente proposti in via principale e subordinata alla luce del caso concreto) condurrebbe allo scioglimento del rapporto contrattuale.
RIFERIMENTI BIGLIOGRAFICI E GIURISPRUDENZIALI.
[1] Ai sensi del quale: “quando le parti convengono che una di esse rimanga vincolata alla propria dichiarazione e l'altra abbia facoltà di accettarla o meno, la dichiarazione della prima si considera quale proposta irrevocabile per gli effetti previsti dall'art. 1329. Se per l'accettazione non è stato fissato un termine, questo può essere stabilito dal giudice”.
[2] Il riferimento è alla delibera del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 2020 - con cui è stato dichiarato sino al 31 luglio 2020 lo stato di emergenza - e all'art. 91 del Decreto Cura Italia, ai sensi del quale “il rispetto delle misure di contenimento di cui presente decreto è sempre valutata ai fini dell'esclusione, ai sensi e per gli effetti degli artt. 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all'applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”.
[3] Il d.l. 17 marzo 2020 n. 18.
[4] Di nuovo, il riferimento è all'art. 91 del decreto Cura Italia, atteso che, ordinariamente, il debitore non è esonerato da responsabilità per inadempimento di obbligazioni pecuniarie, neppure quando l'impotenza finanziaria sia incolpevole (si pensi all'ipotesi che, in un momento di recessione, il fallimento di numerosi suoi debitori gli abbia fatto mancare l'afflusso di denaro liquido sula quale faceva ragionevole affidamento: così, quasi alla lettera, P. TRIMARCHI, Il contratto: inadempimento e rimedi, Giuffrè, Milano, 2010, p. 28, ove si trovano ampi riferimenti in nota).
[5] È quasi superfluo precisare che la parte che agisce per far valere i correlati rimedi deve provare che l'alterazione del sinallagma sia stata effettivamente determinata dalla Situazione Emergenziale e non da altre cause, spesso antecedenti, che talvolta possono trovare nella pandemia in atto una sorta di giustificazione posticcia.
[6] Ai sensi del quale: “nei contratti a esecuzione continuata o periodica ovvero a esecuzione differita” – tra i quali ultimi rientra l'opzione – “se la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto, con gli effetti stabiliti dall'art. 1458. La risoluzione non può essere domandata se la sopravvenuta onerosità rientra nell'alea normale del contratto. La parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto”.
[7] Ai sensi del quale, nelle ipotesi previste dell'art. 1467 c.c., “se si tratta di un contratto nel quale una sola delle parti ha assunto obbligazioni, questa può chiedere una riduzione della sua prestazione ovvero una modificazione nelle modalità di esecuzione, sufficienti per ricondurla ad equità”.
[8] Per una puntuale ricostruzione si veda E. PANZARINI, in A. GAMBARO e U. MORELLO, Lezioni di diritto civile. Casi, questioni e tecniche argomentative, Giuffrè, Milano, 2013, 103 e ss.
[9] Per una disamina sintetica ed efficace (anche se risalente), si veda D. GALLETTI, Brevi note in tema di vendita di quota sociale ed errore sui motivi, Banca borsa tit. cred., fasc.1, 1997, p. 25 e ss..
[10] Così già G. ROSSI, Persona giuridica, proprietà e rischio d'impresa, Giuffrè, Milano, 1967, p. 23.
[11] Uno spazio minimo sembra lasciarlo, in caso di “sproporzione enorme”, anche D. GALLETTI, op. cit., p. 28, per il resto molto critico circa l'applicabilità dell'art. 1467 c.c. alla vendita di quote o azioni.
[12] Per tutti, si veda G. DE NOVA, Il Sale and Purchase Agreement: un contratto commentato, Giappichelli, Torino, 2019.
[13] Trib. Milano 21 febbraio 2013 (ord.), pubblicata su www.giurisprudenzadelleimprese.it.
[14] Trib. Milano 30 gennaio 2014 pubblicata su www.giurisprudenzadelleimprese.it.
[15] Collegio composto da P. G. Marchetti, V. Mariconda e G. Portale, lodo del 5 novembre 2019, inedito.
[16] Merita di essere segnalata una recentissima sentenza della Suprema Corte, ad avviso della quale “le azioni (e le quote) delle società di capitali costituiscono beni di ‘secondo grado', in quanto non sono del tutto distinti e separati da quelli compresi nel patrimonio sociale, e sono rappresentative delle posizioni giuridiche spettanti ai soci in ordine alla gestione ed alla utilizzazione di detti beni, funzionalmente destinati all'esercizio dell'attività sociale; pertanto, i beni compresi nel patrimonio della società non possono essere considerati del tutto estranei all'oggetto del contratto di cessione delle azioni o delle quote di una società di capitali, sia se le parti abbiano fatto espresso riferimento agli stessi, mediante la previsione di specifiche garanzie contrattuali, sia se l'affidamento del cessionario debba ritenersi giustificato alla stregua del principio di buona fede; conseguentemente la differenza tra l'effettiva consistenza quantitativa del patrimonio sociale rispetto a quella indicata nel contratto, incidendo sulla solidità economica e sulla produttività della società, quindi sul valore delle azioni o delle quote, può integrare la mancanza delle qualità essenziali della cosa, che rende ammissibile la risoluzione del contratto ex art. 1497, c.c., ovvero, qualora i beni siano assolutamente privi della capacità funzionale a soddisfare i bisogni dell'acquirente, quindi "radicalmente diversi" da quelli pattuiti, l'esperimento di un'ordinaria azione di risoluzione ex art. 1453 c.c.”: Cass. (ord.) 12 settembre 2019, n. 22790.
[17] Si veda G. DE NOVA, op. cit., 230.
[18] Tra le altre, Cass. 29 gennaio 2016, n. 1669.
[19] Cass. 3 dicembre 1991, n. 12921, ricordata anche in G. DE NOVA, op. cit., 231.
[20] Per una chiara e sintetica ricognizione, si veda per tutti A. TORRENTE e P. SCHLESINGER (a cura di F. Anelli e C. Granelli), Manuale di diritto privato, Giuffrè, Milano, 2019, 684 e ss..
[21] Da ultimo Cass. 13 ottobre 2016, n.20620.
[22] Per utilizzare una massima consolidata già da Cass. 4 agosto 1988, n. 4825.
3. Coronavirus e Contratti di locazione.
I provvedimenti adottati dal Governo e dalle singole Regioni possono incidere sui contratti di locazione nelle ipotesi in cui il conduttore sia gravato dall'obbligo di corrispondere il canone sebbene non sia in condizione, a causa delle misure di contenimento prescritte dalla legge, di fruire (in tutto o in parte) del bene locato. È, ad esempio, il caso della locazione di immobile ad uso commerciale adibito allo svolgimento di attività temporaneamente vietate; fattispecie nella quale l'immobile perde per il conduttore ogni utilità, o conserva un'utilità significativamente inferiore (potendo continuare ad essere impiegato, in ipotesi, per il deposito o la conservazione delle merci).
Salvo che il contratto di locazione preveda una specifica disciplina per le cause di forza maggiore [1] (o altre clausole rilevanti) e ferma la necessità di verificare la “tenuta” di tali clausole alla luce del carattere emergenziale della legislazione sopravvenuta [2], occorre anzitutto prendere le mosse dai principi generali in materia di obbligazioni e considerare la disciplina dell'impossibilità sopravvenuta [3].
Nella specie non parrebbe venire in rilievo l'impossibilità di eseguire la prestazione dovuta dal conduttore (i.e. il pagamento del canone, che resta possibile anche nella contingenza in commento) [4] o quella dovuta dal locatore (che può continuare a lasciare il bene locato nella materiale disponibilità del conduttore), quanto l'impossibilità sopravvenuta e incolpevole di utilizzazione della prestazione che il conduttore deve ricevere dal locatore (i.e. un'ipotesi di irrealizzabilità della causa concreta del negozio), che la giurisprudenza (sia pure ai fini della risoluzione del contratto) equipara alla sopravvenuta impossibilità di adempiere la prestazione a carico del debitore [5].
Peraltro, la temporaneità delle misure di contenimento (e dei conseguenti effetti sull'affitto, che è per definizione un contratto di durata) pone un tema interpretativo, posto che gli artt.1463–1466c.c. disciplinano soltanto i casi dell'impossibilità totale e parziale e non quello dell'impossibilità temporanea. Tuttavia, se si ha riguardo per il solo periodo interessato dalle restrizioni dovute alla pandemia, è sostenibile che si tratti di un'impossibilità definitiva (essendo irreversibile la situazione di mancato godimento) e parziale dal punto di vista temporale (oltre che parziale rispetto a eventuali utilità di cui il conduttore abbia potuto comunque fruire) [6]. Su tali basi, argomentando in base all'art. 1464 c.c., il conduttore potrebbe rifiutare (totalmente o parzialmente, a seconda che abbia conseguito o meno utilità marginali) il pagamento del canone relativo al periodo interessato dalle restrizioni (e chiedere la restituzione dei pagamenti anticipati per il medesimo periodo) [7], ovvero (nei casi più gravi) esercitare il recesso (senza previsione di uno specifico termine di preavviso).
Ove l'impossibilità venisse considerata temporanea, troverebbe applicazione l'art.1256,co.2,c.c. (espressamente dedicato all'impossibilità temporanea della prestazione) [8]. In tal caso, l'impossibilità temporanea determinerebbe la sospensione delle prestazioni previste dal contratto (similmente, del resto, a quanto espressamente disposto dalla legislazione speciale conseguente a eventi sismici), senza liberare il conduttore dall'obbligo di pagamento [9]. Peraltro, sulla base del secondo periodo del medesimo comma, potrebbe ugualmente argomentarsi il venir meno della causa concreta del pagamento del canone per il periodo interessato dalle restrizioni, con conseguente estinzione del relativo obbligo di pagamento, quando il conduttore non abbia interesse a recuperare il mancato godimento mediante un prolungamento del rapporto.
L'ipotesi di riduzione del canone, peraltro, deve essere di volta in volta valutata con riferimento al valore economico del contratto ed alla sua causa concreta, all'importo del canone annuo, alla durata della crisi, nonché al pregiudizio effettivamente subito dal conduttore (che potrebbe registrare una contrazione dei ricavi, ma anche dei costi), considerando anche eventuali misure di sostegno adottate dal Governo per le singole attività.
La richiesta di riduzione del corrispettivo, come pure quella di sospenderne il pagamento per la durata delle misure restrittive, potrebbero, inoltre, essere argomentate in base all'art. 1375 c.c., che impone alle parti di eseguire il contratto secondo buona fede. Tale disposizione, quale espressione del dovere (di rango costituzionale) di solidarietà tra i consociati, potrebbe essere interpretata nel senso di richiedere al locatore un sacrificio che risulterebbe ampiamente inferiore al sacrificio cui il conduttore sarebbe soggetto ove fosse tenuto a corrispondere l'intero importo del canone a fronte di un'utilità temporaneamente azzerata (o comunque significativamente ridotta) [10]. Tali richieste, inoltre, potrebbero trovare un ulteriore supporto argomentativo nell'art. 91 del D.L. n. 18/2020 (sempre che la disposizione sia applicabile ai contratti tra privati e rimanga invariata all'esito del passaggio parlamentare), secondo cui “Il rispetto delle misure di contenimento di cui presente decreto è sempre valutato ai fini dell'esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all'applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”.
Una conferma del favor del legislatore per il mantenimento del rapporto negoziale, sia pure previa correzione dello squilibrio indotto da fattori esterni, può trarsi da una specifica disposizione del Codice Civile in materia di locazione. Ai sensi dell'art. 1584, co. 1, c.c., invero, ove il bene divenga parzialmente inutilizzabile a causa dell'impossibilità di eseguire le riparazioni cui è tenuto il locatore e tale inutilizzabilità si protragga per oltre un sesto della durata della locazione (e, in ogni caso, per più di 20 giorni), il conduttore ha diritto ad una riduzione del corrispettivo proporzionale all'entità del mancato godimento (mentre il secondo comma prevede la risoluzione per l'impossibilità di alloggiare nell'immobile). La legge, quindi, individua quale rimedio principale a fronte dell'indisponibilità parziale del bene la riduzione del corrispettivo, relegando la risoluzione del contratto ai casi di irreversibile o comunque perdurante impossibilità di trarre dall'immobile l'utilizzo presupposto dal conduttore in sede di stipulazione. Una possibile opzione interpretativa, coerente con il descritto quadro desumibile dai principi generali in materia di obbligazioni, potrebbe quindi essere rappresentata dall'applicazione analogica di tale disposizione alle fattispecie di temporanea impossibilità (parziale o totale) di utilizzo del bene locato indotte dalle misure di contenimento della pandemia.
Può essere utile ricordare che eventuali controversie in subiecta materia sarebbero soggette al procedimento obbligatorio di mediazione, ciò che potrebbe costituire un ulteriore incentivo al raggiungimento di soluzioni “bonarie” volte a riequilibrare il sinallagma.
Nella denegata ipotesi in cui le misure di contenimento della pandemia venissero prorogate per diversi mesi e vi fosse interesse a liberarsi definitivamente dal contratto, il conduttore potrebbe ritenersi legittimato a recedere per “gravi motivi” ai sensi dell'art. 27 della L. 392/1978 (osservando il preavviso di 6 mesi), fermo restando che lo scioglimento del vincolo contrattuale potrebbe in tal caso discendere anche dall'impossibilità sopravvenuta (ritenendola definitiva), nonché dal venir meno (in modo irreversibile) della causa concreta del contratto (mentre appare più dubbia la riconducibilità della fattispecie all'eccessiva onerosità sopravvenuta).
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI.
[1] Per un'analisi di tali clausole e delle problematiche ad esse inerenti, si v. BORTOLOTTI, “Le clausole di forza maggiore nei contratti internazionali, con particolare riferimento alla ICC force majeure clause 2003”, in Dir. Comm. Internaz., fasc.1, 2004, pag. 3 ss..
[2] Nei primi commenti sulla normativa d'emergenza, infatti, è stato rilevato che essa tutela interessi di ordine pubblico e che, quindi, ad esempio, “eventuali patti, contenuti nei contratti in corso, che escludano l'applicabilità degli artt. 1463 e 1464c.c.non dovrebbero considerarsi validi” (VERZONI, Gli effetti, sui contratti in corso, dell'emergenza sanitaria legata al COVID-19, pag. 12).
[3] Nel caso di specie, peraltro, verrebbe probabilmente in rilievo non già un'impossibilità c.d. assoluta (intesa come impedimento assoluto e oggettivo che rende di fatto impossibile la prestazione pattuita: cfr. Cass. 16.2.2006, n. 3440; Cass. 22.10.1982, n. 5496; Cass. 06.2.1979, n. 794), quanto un'impossibilità c.d. relativa, di cui soprattutto la dottrina ravvisa gli estremi esimenti ogni qualvolta la prestazione, pur essendo naturalisticamente e materialmente possibile, richiederebbe al debitore uno sforzo non esigibile, alla luce della generale situazione economica e contrattuale da cui scaturisce l'obbligazione, nonché del principio di buona fede nell'esecuzione del contratto (cfr. PALADINI, RENDA e MINUSSI, Manuale di diritto civile, Giuffrè, 2019, p. 1132: “relatività significa allora commisurazione dei mezzi da utilizzarsi per l'adempimento, al contenuto ed al tipo di obbligazione: in questo senso il principio di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.) può valere a costruire la cornice dei comportamenti richiesti al debitore dal contesto del rapporto obbligatorio”. Considerazioni simili erano svolte già da MENGONI, voce La responsabilità contrattuale (diritto vigente), in Enc. Dir., Milano, 1988, p. 1087 ss.: “il giudizio di impossibilità deve essere argomentato in relazione al contenuto del concreto rapporto in questione così come risulta determinato dalla sua fonte”. Si veda inoltre ID., “Obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi. Studio critico”, in Riv. Dir. Comm., 1954, I, 285, ove si configura la inesigibilità della prestazione come una species del genus dell'impossibilità e la si riferisce alle ipotesi “in cui l'attività diretta a procurare il bene dovuto richiederebbe al debitore un sacrificio personale o patrimoniale, astrattamente deducibile in obbligazione, ma la cui obbligatorietà in concreto è esclusa da una valutazione di buona fede, riferita al contenuto del contratto (art. 1366) ovvero al tipo di rapporto obbligatorio di che trattasi”).
[4] Cfr. Cass. 15.11.2013, n. 25777, che ha affermato come una circostanza riconducibile “sostanzialmente ad una situazione di mera difficoltà finanziaria” non potesse integrare un caso di impossibilità obiettiva ed assoluta di adempiere alla propria obbligazione; v. anche Cass.,20.5.2004,n.9645, ove si è negato che la responsabilità dell'ente gestore di un corso di formazione professionale per il pagamento del docente del corso potesse escludersi, ai sensi degli art. 1218 e 1463 c.c., sulla base di una mera impotenza economica derivante dall'inadempimento di un terzo ai suoi obblighi di finanziamento nei confronti dell'ente, non integrando tale ipotesi una impossibilità oggettiva e assoluta della prestazione retributiva. In senso conforme, v. Cass. 16.3.1987, n. 2691, secondo cui l'obbligazione avente ad oggetto una somma di denaro non è suscettibile di estinguersi per impossibilità sopravvenuta, nonché Cass., 7.2.1979, n. 845 e Cass. 14.4.1975 n. 1409. Per la tesi secondo cui l'emergenza da Covid-19, ai sensi dell'art. 91 del D.L. n. 18/2020, configurerebbe un'ipotesi speciale di impossibilità temporanea della prestazione del conduttore per causa allo stesso non imputabile, v. CUFFARO, Le locazioni commerciali e gli effetti giuridici dell'epidemia, 4.
[5] Si veda, con riferimento al noto caso del rischio di epidemia sull'isola di Cuba e del conseguente scioglimento di un contratto di vacanza all-inclusive per sopravvenuta impossibilità di utilizzazione della prestazione da parte del creditore, Cass., 24.7.2007, n. 16315. Cfr. anche Cass. 29.3.2019, n. 8766 (con riferimento all'interruzione di uno spettacolo lirico per avverse condizioni atmosferiche, che avrebbe determinato l'impossibilità di utilizzazione della prestazione artistica da parte dello spettatore/creditore, con conseguente risoluzione del contratto ex art. 1463 c.c. e diritto al rimborso del biglietto); in senso conforme Cass. 10.7.2018, n. 18047 (con riferimento allo scioglimento per impossibilità sopravvenuta di un contratto di pacchetto turistico "all inclusive" stipulato da una coppia sposata, in presenza di una grave patologia che aveva improvvisamente colpito uno dei due coniugi prima della partenza). Un altro esempio, ormai molto noto, della figura in esame si trova in Cass. 20.12.2007, n. 26959. Nel caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto risolto per impossibilità sopravvenuta il contratto di soggiorno alberghiero prenotato da due coniugi, uno dei quali era deceduto improvvisamente il giorno precedente l'inizio del soggiorno, e ha conseguentemente condannato l'albergatore a restituire quanto già ricevuto a titolo di pagamento della prestazione alberghiera. Il venire meno dell'interesse creditorio avrebbe infatti determinato, ad avviso della Suprema Corte, la “sopravvenuta irrealizzabilità della finalità essenziale in cui consiste la causa concreta del contratto e la conseguente estinzione dell'obbligazione”. In un recentissimo caso proprio in materia di locazione, la S.C. ha ritenuto applicabile sempre la risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta di utilizzazione della prestazione da parte del conduttore in presenza di una dichiarazione di inagibilità dell'immobile (che avrebbe dovuto essere destinato a scuola) conseguente al sisma dell'aprile 2009. In particolare, è stata ravvisata una “impossibilità di godere gli immobili locati e di utilizzarli per l'uso (scuola pubblica) cui gli stessi erano adibiti, tanto da essere conseguentemente oggetto di ordinanze sindacali di sgombero e di inagibilità” e dunque una “alterazione del c.d. sinallagma funzionale che rende irrealizzabile la causa concreta” (v. Cass. 26.9.2019, n. 23987, che richiama Cass. 22.8.2007, n. 17844). In tal caso la prestazione non era del tutto impossibile, in quanto le opere di manutenzione straordinaria e di adeguamento anti-sismico erano praticabili, tuttavia in tempi non compatibili con l'avvio (non differibile da parte del conduttore) dell'anno scolastico. In termini solo relativi, il conduttore non aveva interesse a ricevere l'immobile ristrutturato.
Sulla differenza tra impossibilità di utilizzazione della prestazione e impossibilità sopravvenuta (totale o parziale) della prestazione, cfr. Cass. 16.2.2006, n. 3440 e Cass. 2.5.2006, n. 10138.
Per le differenze tra gli istituti dell'impossibilità sopravventa e della eccessiva onerosità sopravvenuta, v. MOSCO, voce Impossibilità sopravvenuta della prestazione, in Enc. Dir., XX, 1970. Secondo l'autore “(…) il sopraggiungere dell'onerosità eccessiva è l'elemento che contraddistingue i due istituti nel senso che, mentre per la risoluzione per impossibilità nessuna norma autorizza a fissare un limite di sacrificio economico, per l'altro istituto il limite viene tracciato con riferimento all'alea normale del contratto” e proprio dall'esistenza dello specifico rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta trae una conferma del carattere oggettivo ed assoluto della impossibilità ex art. 1256 c.c., “in quanto non avrebbe alcuna ragione di essere un istituto che limita il sacrificio economico del debitore in un ordinamento che già limitasse tale sacrificio attraverso la disciplina dell'impossibilità sopravvenuta”.
[6] Cfr. CARNEVALI, Contratti di durata e impossibilità temporanea di esecuzione, in Contratti, 2000, p. 113; ROPPO, Il contratto, Milano, 2011, p. 941; FONDRIESCHI, L'impossibilità sopravvenuta per causa non imputabile al debitore, in MAFFEIS – FONDRIESCHI - ROMEO, I modi di estinzione delle obbligazioni, in Trattato di diritto civile diretto da Sacco, Milano, 2013, p. 316). V. anche TRIMARCHI, Il contratto: inadempimento e rimedi, Milano, 2010, p. 227, secondo cui “nel caso di contratti ad esecuzione continuata o periodica l'impossibilità temporanea è impossibilità parziale senz'altro, con la conseguente applicabilità diretta dell'art. 1464cod. civ.”.
[7] Sia pur con riferimento ad altre fattispecie, v. Cass. 28.3.2006, n. 7086; per un caso in materia di locazione, v. Trib. Milano, 5.10.2016, n. 10881, in Banca Dati Dejure.
[8] Per un cenno in tal senso, v. DE MAURO, Pandemia e contratto: spunti di riflessione in tema di impossibilità sopravvenuta della prestazione, 6.
[9] In tal senso, in dottrina, PERLINGERI, sub art. 1256 c.c., in Commentario Scialoja-Branca al c.c., 1975. In giurisprudenza, Cass. 28.1.1995, n. 1037 e Cass. 24.4.1982, n. 2548. E' pacifico che la sospensione riguardi le prestazioni di ambedue i contraenti: v., oltre alla già citata Cass. 28.1.1995, n. 1037, anche Cass. 22.10.1982, n. 5496: “l'impossibilità sopravvenuta della prestazione, se consiste in un impedimento, assoluto ed oggettivo, a carattere definitivo, dà luogo alla risoluzione del contratto, ai sensi dell'art. 1463 c.c., mentre, se ha natura temporanea, determina soltanto la sospensione (e non la risoluzione) del contratto stesso, ma non oltre i limiti dell'interesse del creditore al conseguimento della prestazione”. In tal senso, MIRABELLI, in Comm. Utet, 1984, p. 646. Questa ricostruzione è imposta d'altra parte sia dalla tutela del sinallagma contrattuale (che verrebbe pregiudicato se, in presenza di una temporanea impossibilità della controprestazione, l'altra parte fosse comunque tenuta ad adempiere) sia dalla migliore attuazione del principio di economia dei mezzi giuridici, in quanto la parte adempiente sarebbe altrimenti costretta, qualora l'impossibilità della controprestazione da temporanea diventasse definitiva (eventualità contemplata dall'art. 1256, co. 2, c.c.) e il contratto si sciogliesse quindi di diritto ex art. 1463 c.c., ad agire per chiedere la ripetizione di quanto corrisposto. Sul punto, PALADINI, RENDA e MINUSSI, Manuale di diritto civile, Giuffré, 2019, p. 1705. Una volta cessata l'impossibilità temporanea, il debitore dovrà ritornare ad adempiere, a meno che non dimostri il sopravvenuto disinteresse del creditore all'adempimento dopo la cessazione della causa di impossibilità temporanea (v. Cass. 18 febbraio 1986, n.956).
[10] La riduzione del corrispettivo può considerarsi un'ipotesi particolare di revisione (o rinegoziazione) del contratto. Per un caso particolare, in cui dall'art. 1375 c.c. è stato desunto un obbligo di rinegoziazione, cfr. Trib. Bari, 31.7.2012, in Foro it., 2013, 1, I, 375, secondo cui: “Sussiste l'obbligo di rinegoziare il contratto, in base alla clausola generale di buona fede, nel caso di contratti collegati in cui la sopravvenienza, che si sostanzia nel mancato perfezionamento di un contratto previsto in funzione di garanzia, incida sul complessivo equilibrio dell'operazione negoziale (nella specie, i contraenti avevano pattuito un meccanismo di garanzia nell'interesse dell'acquirente, secondo cui il venditore era tenuto a conferire un mandato a gestire somme depositate in funzione di garanzia ad una banca, la quale aveva rifiutato di accettare l'incarico)”. Sul tema della rinegoziazione, v. anche MACARIO, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli, 1996; TOMMASINI, Revisione del rapporto (diritto privato), in Enc. dir., Milano, 1989.
4. Coronavirus e Contratti di affitto di azienda.
I provvedimenti adottati dal Governo e dalle singole Regioni possono incidere sui contratti di affitto di azienda nelle ipotesi in cui il conduttore sia gravato dall'obbligo di corrispondere il canone sebbene non sia in condizione, a causa delle misure di contenimento prescritte dalla legge, di esercitare (in tutto o in parte) l'attività commerciale cui l'azienda è funzionale (come pure nel caso in cui le restrizioni imposte dalla pandemia rendano antieconomico l'esercizio di tale attività). È, ad esempio, il caso dell'affitto di un'azienda funzionale all'esercizio di un'attività commerciale temporaneamente vietata, ma si può ben immaginare che anche per le attività tuttora consentite le misure di contenimento (fra cui quelle di distanziamento sociale) siano idonee ad alterare la profittabilità dell'azienda.
Salvo che il contratto di affitto preveda una specifica disciplina per le cause di forza maggiore [1] (o altre clausole rilevanti) e ferma la necessità di verificare la “tenuta” di tali clausole alla luce del carattere emergenziale della legislazione sopravvenuta [2], occorre anzitutto prendere le mosse dai principi generali in materia di obbligazioni e considerare la disciplina dell'impossibilità sopravvenuta [3].
Nella specie non parrebbe venire in rilievo l'impossibilità di eseguire la prestazione dovuta dal conduttore (i.e. il pagamento del canone, che resta possibile anche nella contingenza in commento) [4] o quella dovuta dal concedente (che, sebbene la questione possa essere in certi casi controversa, può continuare ad adempiere alla propria obbligazione di mettere materialmente a disposizione la propria azienda), quanto l'impossibilità sopravvenuta e incolpevole di utilizzazione della prestazione che il conduttore deve ricevere dal concedente (i.e. un'ipotesi di irrealizzabilità della causa concreta del negozio), che la giurisprudenza (sia pure ai fini della risoluzione del contratto) equipara alla sopravvenuta impossibilità di adempiere la prestazione a carico del debitore [5].
Peraltro, la temporaneità delle misure di contenimento (e dei conseguenti effetti sull'affitto, che è per definizione un contratto di durata) pone un tema interpretativo, posto che gli artt. 1463–1466 c.c. disciplinano soltanto i casi dell'impossibilità totale e parziale e non quello dell'impossibilità temporanea. Tuttavia, se si ha riguardo per il solo periodo interessato dalle restrizioni dovute alla pandemia, è sostenibile che si tratti di un'impossibilità definitiva (essendo irreversibile la situazione di mancato godimento) e parziale dal punto di vista temporale (oltre che parziale rispetto a eventuali utilità di cui il conduttore abbia potuto comunque fruire) [6]. Su tali basi, argomentando in base all'art. 1464 c.c., il conduttore potrebbe rifiutare (totalmente o parzialmente, a seconda che abbia conseguito o meno utilità marginali) il pagamento del canone relativo al periodo interessato dalle restrizioni (e chiedere la restituzione dei pagamenti anticipati per il medesimo periodo) [7], ovvero (nei casi più gravi) esercitare il recesso (senza previsione di uno specifico termine di preavviso).
Ove l'impossibilità venisse considerata temporanea, troverebbe applicazione l'art.1256, co. 2, c.c. (espressamente dedicato all'impossibilità temporanea della prestazione) [8]. In tal caso, l'impossibilità temporanea determinerebbe la sospensione delle prestazioni previste dal contratto (similmente, del resto, a quanto espressamente disposto dalla legislazione speciale conseguente a eventi sismici), senza liberare il conduttore dall'obbligo di pagamento [9]. Peraltro, sulla base del secondo periodo del medesimo comma, potrebbe ugualmente argomentarsi il venir meno della causa concreta del pagamento del canone per il periodo interessato dalle restrizioni, con conseguente estinzione del relativo obbligo di pagamento, quando il conduttore non abbia interesse a recuperare il mancato godimento mediante un prolungamento del rapporto.
L'ipotesi di riduzione del canone, peraltro, deve essere di volta in volta valutata con riferimento al valore economico del contratto ed alla sua causa concreta, all'importo del canone annuo, alla durata della crisi, nonché al pregiudizio effettivamente subito dal conduttore (che potrebbe registrare una contrazione dei ricavi, ma anche dei costi), considerando anche eventuali misure di sostegno adottate dal Governo per le singole attività.
La richiesta di riduzione del corrispettivo, come pure quella di sospenderne il pagamento per la durata delle misure restrittive, potrebbero, inoltre, essere argomentate in base all'art. 1375 c.c., che impone alle parti di eseguire il contratto secondo buona fede. Tale disposizione, quale espressione del dovere (di rango costituzionale) di solidarietà tra i consociati, potrebbe essere interpretata nel senso di richiedere al concedente un sacrificio che risulterebbe ampiamente inferiore al sacrificio cui il conduttore sarebbe soggetto ove fosse tenuto a corrispondere l'intero importo del canone a fronte di un'utilità temporaneamente azzerata (o comunque significativamente ridotta) [10]. Tali richieste, inoltre, potrebbero trovare un ulteriore supporto argomentativo nell'art. 91 del D.L. n. 18/2020 (sempre che la disposizione sia applicabile ai contratti tra privati e rimanga invariata all'esito del passaggio parlamentare), secondo cui “Il rispetto delle misure di contenimento di cui presente decreto è sempre valutato ai fini dell'esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all'applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”.
Una conferma del favor del legislatore per il mantenimento del rapporto negoziale, sia pure previa correzione dello squilibrio indotto da fattori esterni, può trarsi da una specifica disposizione del Codice Civile in materia di affitto. Invero, ai sensi dell'art. 1623 c.c.: “Se, in conseguenza di una disposizione di legge, di una norma corporativa o di un provvedimento dell'autorità riguardanti la gestione produttiva, il rapporto contrattuale risulta notevolmente modificato in modo che le parti ne risentano rispettivamente una perdita e un vantaggio, può essere richiesto un aumento o una diminuzione del fitto ovvero, secondo le circostanze, lo scioglimento del contratto” [11]. La norma, chiaramente ispirata alla finalità di preservare il sinallagma alla base dell'originario programma negoziale, postula: (i) il “provvedimento dell'autorità” – che nel caso di specie non dovrebbe creare particolari problemi di interpretazione (non solo, infatti, vi sono misure che incidono direttamente sullo svolgimento di alcune attività, ma anche le altre misure, sia pure indirettamente, paiono idonee ad incidere sulle attività produttive); (ii) il concetto di notevole modificazione, per la cui concreta declinazione può verosimilmente farsi riferimento ad altre norme che individuano soglie prestabilite (ad es. l'art. 1584 c.c. in tema di locazione, ma anche gli artt. 1635-1637 c.c. in tema di affitto di fondi rustici), ovvero al generale parametro della buona fede; (iii) la relazione fra “perdita e vantaggio” in capo alle parti del contratto. Negli esempi sopra considerati, mentre è agevole riconoscere che il conduttore si trovi esposto al rischio di perdite, potrebbe non essere di immediata evidenza il vantaggio per il concedente. Tuttavia, il conduttore potrebbe sostenere che, in simili situazioni, mantenendo invariato l'importo del canone incassato, il concedente trarrebbe indirettamente dalla propria azienda produttiva un'utilità che non sarebbe in grado di ritrarre gestendo direttamente l'azienda stessa (mentre nel caso di assoluta impossibilità di esercitare l'attività aziendale vi sarebbe il vantaggio ulteriore di incassare il canone nonostante il bene concesso in affitto non subisca alcun logorio o diminuzione dovuta all'uso da parte del conduttore). La norma privilegia il rimedio dell'adeguamento del canone, nell'ottica della conservazione del rapporto, ma contempla anche lo scioglimento secondo le circostanze, locuzione che – previa indagine sugli interessi ex art. 1174 c.c. di volta in volta trasfusi dalle parti nel contratto – potrebbe portare alla soluzione più drastica nell'ipotesi in cui il mantenimento del contratto non rivesta più alcuna utilità economica per il conduttore.
Ulteriori spunti nella medesima direzione possono trarsi dalle disposizioni in materia di affitto di fondi rustici (fattispecie accomunata alla prima dalla natura produttiva del bene oggetto di affitto), e precisamente gli artt. 1635, 1636 e 1637 c.c.. Invero, nel disciplinare le ipotesi di perdita di più della metà dei frutti per caso fortuito, le disposizioni citate prevedono: (i) il diritto del conduttore a una riduzione del fitto, in misura comunque non superiore al 50%, salvo che le perdite siano compensate dai precedenti raccolti (cfr. artt. 1635, co. 1 e 3, e 1636 c.c.); (ii) la possibilità di chiedere al giudice (verosimilmente in via cautelare) la sospensione dall'obbligo di pagare una parte del fitto in misura corrispondente alla perdita (cfr. art. 1635, co. 2, c.c.); (iii) l'equiparazione tra perimento e mancata produzione dei frutti (cfr. art. 1635, co. 4, c.c.); (iv) la possibilità di accollo convenzionale del caso fortuito in capo al conduttore, ma con l'eccezione del caso fortuito straordinario (cfr. art. 1637 c.c.). I riferimenti quantitativi, la rilevanza attribuita al risultato dell'intero programma negoziale e l'indisponibilità delle conseguenze legate ad eventi straordinari paiono tutti spunti interpretativi di obiettiva utilità nell'analisi delle conseguenze del Covid-19 sui rapporti di affitto di azienda.
Può essere utile ricordare che eventuali controversie in subiecta materia sarebbero soggette al procedimento obbligatorio di mediazione, ciò che potrebbe costituire un ulteriore incentivo al raggiungimento di soluzioni “bonarie” volte a riequilibrare il sinallagma.
Nella denegata ipotesi in cui le misure di contenimento della pandemia venissero prorogate per diversi mesi e il conduttore intendesse liberarsi definitivamente da un contratto divenuto economicamente non sostenibile, lo scioglimento del vincolo contrattuale potrebbe essere argomentato sia (come detto) ai sensi dell'art. 1623 c.c., sia in forza dell'impossibilità sopravvenuta (se intesa in senso sostanzialmente definitivo), sia del venir meno (in modo irreversibile) della causa concreta del contratto (mentre appare più dubbia la riconducibilità della fattispecie all'eccessiva onerosità sopravvenuta).
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI E GIURISPRUDENZIALI.
[1] Per un'analisi di tali clausole e delle problematiche ad esse inerenti, si v. F. BORTOLOTTI, “Le clausole di forza maggiore nei contratti internazionali, con particolare riferimento alla ICC force majeure clause 2003”, in Dir. Comm. Internaz., fasc.1, 2004, pag. 3 ss..
[2] Nei primi commenti sulla normativa d'emergenza, infatti, è stato rilevato che essa tutela interessi di ordine pubblico e che, quindi, ad esempio, “eventuali patti, contenuti nei contratti in corso, che escludano l'applicabilità degli artt. 1463 e 1464c.c.non dovrebbero considerarsi validi” (VERZONI, Gli effetti, sui contratti in corso, dell'emergenza sanitaria legata al COVID-19, pag. 12).
[3] Nel caso di specie, peraltro, verrebbe probabilmente in rilievo non già un'impossibilità c.d. assoluta (intesa come impedimento assoluto e oggettivo che rende di fatto impossibile la prestazione pattuita: cfr. Cass. 16.2.2006, n. 3440; Cass. 22.10.1982, n. 5496; Cass. 06.2.1979, n. 794), quanto un'impossibilità c.d. relativa, di cui soprattutto la dottrina ravvisa gli estremi esimenti ogni qualvolta la prestazione, pur essendo naturalisticamente e materialmente possibile, richiederebbe al debitore uno sforzo non esigibile, alla luce della generale situazione economica e contrattuale da cui scaturisce l'obbligazione, nonché del principio di buona fede nell'esecuzione del contratto (cfr. PALADINI, RENDA e MINUSSI, Manuale di diritto civile, Giuffré, 2019, p. 1132: “relatività significa allora commisurazione dei mezzi da utilizzarsi per l'adempimento, al contenuto ed al tipo di obbligazione: in questo senso il principio di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.) può valere a costruire la cornice dei comportamenti richiesti al debitore dal contesto del rapporto obbligatorio”. Considerazioni simili erano svolte già da MENGONI, voce La responsabilità contrattuale (diritto vigente), in Enc. Dir., Milano, 1988, p. 1087 ss.: “il giudizio di impossibilità deve essere argomentato in relazione al contenuto del concreto rapporto in questione così come risulta determinato dalla sua fonte”. Si veda inoltre ID., “Obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi. Studio critico”, in Riv. Dir. Comm., 1954, I, 285, ove si configura la inesigibilità della prestazione come una species del genus dell'impossibilità e la si riferisce alle ipotesi “in cui l'attività diretta a procurare il bene dovuto richiederebbe al debitore un sacrificio personale o patrimoniale, astrattamente deducibile in obbligazione, ma la cui obbligatorietà in concreto è esclusa da una valutazione di buona fede, riferita al contenuto del contratto (art. 1366) ovvero al tipo di rapporto obbligatorio di che trattasi”).
[4] Cfr. Cass. 15.11.2013, n. 25777, che ha affermato come una circostanza riconducibile “sostanzialmente ad una situazione di mera difficoltà finanziaria” non potesse integrare un caso di impossibilità obiettiva ed assoluta di adempiere alla propria obbligazione; v. anche Cass.,20.5.2004,n.9645, ove si è negato che la responsabilità dell'ente gestore di un corso di formazione professionale per il pagamento del docente del corso potesse escludersi, ai sensi degli art. 1218 e 1463 c.c., sulla base di una mera impotenza economica derivante dall'inadempimento di un terzo ai suoi obblighi di finanziamento nei confronti dell'ente, non integrando tale ipotesi una impossibilità oggettiva e assoluta della prestazione retributiva. In senso conforme, v. Cass. 16.3.1987, n. 2691, secondo cui l'obbligazione avente ad oggetto una somma di denaro non è suscettibile di estinguersi per impossibilità sopravvenuta, nonché Cass., 7.2.1979, n. 845 e Cass. 14.4.1975 n. 1409. Per la tesi secondo cui l'emergenza da Covid-19, ai sensi dell'art. 91 del D.L. n. 18/2020, configurerebbe un'ipotesi speciale di impossibilità temporanea della prestazione del conduttore per causa allo stesso non imputabile, v. CUFFARO, Le locazioni commerciali e gli effetti giuridici dell'epidemia, 4.
[5] Si veda, con riferimento al noto caso del rischio di epidemia sull'isola di Cuba e del conseguente scioglimento di un contratto di vacanza all-inclusive per sopravvenuta impossibilità di utilizzazione della prestazione da parte del creditore, Cass., 24.7.2007, n. 16315. Cfr. anche Cass. 29.3.2019, n. 8766 (con riferimento all'interruzione di uno spettacolo lirico per avverse condizioni atmosferiche, che avrebbe determinato l'impossibilità di utilizzazione della prestazione artistica da parte dello spettatore/creditore, con conseguente risoluzione del contratto ex art. 1463 c.c. e diritto al rimborso del biglietto); in senso conforme Cass. 10.7.2018, n. 18047 (con riferimento allo scioglimento per impossibilità sopravvenuta di un contratto di pacchetto turistico "all inclusive" stipulato da una coppia sposata, in presenza di una grave patologia che aveva improvvisamente colpito uno dei due coniugi prima della partenza). Un altro esempio, ormai molto noto, della figura in esame si trova in Cass. 20 dicembre 2007, n. 26959. Nel caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto risolto per impossibilità sopravvenuta il contratto di soggiorno alberghiero prenotato da due coniugi, uno dei quali era deceduto improvvisamente il giorno precedente l'inizio del soggiorno, e ha conseguentemente condannato l'albergatore a restituire quanto già ricevuto a titolo di pagamento della prestazione alberghiera. Il venire meno dell'interesse creditorio avrebbe infatti determinato, ad avviso della Suprema Corte, la “sopravvenuta irrealizzabilità della finalità essenziale in cui consiste la causa concreta del contratto e la conseguente estinzione dell'obbligazione”. In un recentissimo caso proprio in materia di locazione, la S.C. ha ritenuto applicabile sempre la risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta di utilizzazione della prestazione da parte del conduttore in presenza di una dichiarazione di inagibilità dell'immobile (che avrebbe dovuto essere destinato a scuola) conseguente al sisma dell'aprile 2009. In particolare, è stata ravvisata una “impossibilità di godere gli immobili locati e di utilizzarli per l'uso (scuola pubblica) cui gli stessi erano adibiti, tanto da essere conseguentemente oggetto di ordinanze sindacali di sgombero e di inagibilità” e dunque una “alterazione del c.d. sinallagma funzionale che rende irrealizzabile la causa concreta” (v. Cass. 26 settembre 2019, n. 23987, che richiama Cass. 22 agosto 2007, n. 17844). In tal caso la prestazione non era del tutto impossibile, in quanto le opere di manutenzione straordinaria e di adeguamento anti-sismico erano praticabili, tuttavia in tempi non compatibili con l'avvio (non differibile da parte del conduttore) dell'anno scolastico. In termini solo relativi, il conduttore non aveva interesse a ricevere l'immobile ristrutturato.
Sulla differenza tra impossibilità di utilizzazione della prestazione e impossibilità sopravvenuta (totale o parziale) della prestazione, cfr. Cass. 16 febbraio 2006, n. 3440 e Cass. 2 maggio 2006, n. 10138. Per le differenze tra gli istituti dell'impossibilità sopravventa e della eccessiva onerosità sopravvenuta, v. MOSCO, voce Impossibilità sopravvenuta della prestazione, in Enc. Dir., XX, 1970. Secondo l'autore “(…) il sopraggiungere dell'onerosità eccessiva è l'elemento che contraddistingue i due istituti nel senso che, mentre per la risoluzione per impossibilità nessuna norma autorizza a fissare un limite di sacrificio economico, per l'altro istituto il limite viene tracciato con riferimento all'alea normale del contratto” e proprio dall'esistenza dello specifico rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta trae una conferma del carattere oggettivo ed assoluto della impossibilità ex art. 1256 c.c., “in quanto non avrebbe alcuna ragione di essere un istituto che limita il sacrificio economico del debitore in un ordinamento che già limitasse tale sacrificio attraverso la disciplina dell'impossibilità sopravvenuta”.
[6] Cfr. CARNEVALI, Contratti di durata e impossibilità temporanea di esecuzione, in Contratti, 2000, p. 113; ROPPO, Il contratto, Milano, 2011, p. 941; FONDRIESCHI, L'impossibilità sopravvenuta per causa non imputabile al debitore, in MAFFEIS – FONDRIESCHI - ROMEO, I modi di estinzione delle obbligazioni, in Trattato di diritto civile diretto da Sacco, Milano, 2013, p. 316). V. anche TRIMARCHI, Il contratto: inadempimento e rimedi, Milano, 2010, p. 227, secondo cui “nel caso di contratti ad esecuzione continuata o periodica l'impossibilità temporanea è impossibilità parziale senz'altro, con la conseguente applicabilità diretta dell'art. 1464cod.civ.”.
[7] Sia pur con riferimento ad altre fattispecie, v. Cass. 28 marzo 2006, n. 7086; per un caso in materia di locazione, v. Trib. Milano, 5.10.2016, n. 10881, in Banca Dati Dejure.
[8] Per un cenno in tal senso, v. DE MAURO, Pandemia e contratto: spunti di riflessione in tema di impossibilità sopravvenuta della prestazioneì, 6.
[9] In tal senso, in dottrina, PERLINGERI, sub art. 1256 c.c., in Commentario Scialoja-Branca al c.c., 1975. In giurisprudenza, Cass. 28 gennaio 1995, n. 1037 e Cass. 24.4.1982, n. 2548. E' pacifico che la sospensione riguardi le prestazioni di ambedue i contraenti: v., oltre alla già citata Cass. 28 gennnaio 1995, n. 1037, anche Cass. 22.10.1982, n. 5496: “l'impossibilità sopravvenuta della prestazione, se consiste in un impedimento, assoluto ed oggettivo, a carattere definitivo, dà luogo alla risoluzione del contratto, ai sensi dell'art. 1463 c.c., mentre, se ha natura temporanea, determina soltanto la sospensione (e non la risoluzione) del contratto stesso, ma non oltre i limiti dell'interesse del creditore al conseguimento della prestazione”. In tal senso, MIRABELLI, in Comm. Utet, 1984, p. 646. Questa ricostruzione è imposta d'altra parte sia dalla tutela del sinallagma contrattuale (che verrebbe pregiudicato se, in presenza di una temporanea impossibilità della controprestazione, l'altra parte fosse comunque tenuta ad adempiere) sia dalla migliore attuazione del principio di economia dei mezzi giuridici, in quanto la parte adempiente sarebbe altrimenti costretta, qualora l'impossibilità della controprestazione da temporanea diventasse definitiva (eventualità contemplata dall'art. 1256, co. 2, c.c.) e il contratto si sciogliesse quindi di diritto ex art. 1463 c.c., ad agire per chiedere la ripetizione di quanto corrisposto. Sul punto, PALADINI, RENDA e MINUSSI, Manuale di diritto civile, Giuffré, 2019, p. 1705. Una volta cessata l'impossibilità temporanea, il debitore dovrà ritornare ad adempiere, a meno che non dimostri il sopravvenuto disinteresse del creditore all'adempimento dopo la cessazione della causa di impossibilità temporanea (v. Cass. 18 febbraio 1986, n. 956).
[10] La riduzione del corrispettivo può considerarsi un'ipotesi particolare di revisione (o rinegoziazione) del contratto. Per un caso particolare, in cui dall'art. 1375 c.c. è stato desunto un obbligo di rinegoziazione, cfr. Trib. Bari, 31.7.2012, in Foro it., 2013, 1, I , 375, secondo cui: “Sussiste l'obbligo di rinegoziare il contratto, in base alla clausola generale di buona fede, nel caso di contratti collegati in cui la sopravvenienza, che si sostanzia nel mancato perfezionamento di un contratto previsto in funzione di garanzia, incida sul complessivo equilibrio dell'operazione negoziale (nella specie, i contraenti avevano pattuito un meccanismo di garanzia nell'interesse dell'acquirente, secondo cui il venditore era tenuto a conferire un mandato a gestire somme depositate in funzione di garanzia ad una banca, la quale aveva rifiutato di accettare l'incarico)”. Sul tema della rinegoziazione, v. anche MACARIO, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli, 1996; TOMMASINI, Revisione del rapporto (diritto privato), in Enc. dir., Milano, 1989.
[11] La norma in comento è stata applicata a un contratto di affitto di una stazione di rifornimento di carburante, per far fronte alla sopravvenuta richiesta, da parte dell'ANAS (proprietario della strada antistante), di una royalty a carico dell'affittuario per importo maggiore rispetto a quello che le parti avevano considerato nel contratto. Nella fattispecie, inoltre, è stato stabilito che il giudice può imporre il riequilibrio delle previsioni negoziali esclusivamente a far data dalla domanda (cfr. Cass. 23 novemrbre 2017, n. 5122). Per un'indiretta applicazione in caso di incremento del canone di una concessione demaniale, v. T.A.R. , Trieste, sez. I, 21 gennaio 2014, n. 18, in Foro Amm. 2014, 1, 247.
5. Coronavirus e Contratti preliminari.
La crisi epidemiologica in corso ed i provvedimenti adottati dal Governo e dalle singole Regioni, a partire dal 30 gennaio 2020, volti al contenimento della stessa possono incidere sulla regolare esecuzione dei contratti pendenti. Tale circostanza sembra essere stata presa in considerazione in più momenti e, segnatamente:
(i) dall'art. 10, comma 4, d.l. 2 marzo 2020, n. 9, secondo cui: «Per i soggetti che alla data di entrata in vigore del presente decreto sono residenti, hanno sede operativa o esercitano la propria attività lavorativa, produttiva o funzione nei comuni di cui all'allegato 1 al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 1° marzo 2020, il decorso dei termini perentori, legali e convenzionali, sostanziali e processuali, comportanti prescrizioni e decadenze da qualsiasi diritto, azione ed eccezione, nonché dei termini per gli adempimenti contrattuali è sospeso dal 22 febbraio 2020 fino al 31 marzo 2020 e riprende a decorrere dalla fine del periodo di sospensione. Ove la decorrenza del termine abbia inizio durante il periodo di sospensione, il termine decorre dalla fine del medesimo periodo. Sono altresì sospesi, per lo stesso periodo e nei riguardi dei medesimi soggetti, i termini relativi ai processi esecutivi e i termini relativi alle procedure concorsuali, nonché i termini di notificazione dei processi verbali, di esecuzione del pagamento in misura ridotta, di svolgimento di attività difensiva e per la presentazione di ricorsi giurisdizionali».
Appare però dubbio, in particolare, l'ambito soggettivo e temporale di applicazione della predetta previsione di cui al comma 4 e ciò alla luce del comma 18 della medesima disposizione, secondo cui: «In caso di aggiornamento dell'elenco dei comuni di cui all'allegato 1 al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 1° marzo 2020, ovvero di individuazione di ulteriori comuni con diverso provvedimento, le disposizioni del presente articolo si applicano con riferimento ai medesimi comuni dal giorno successivo alla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del relativo provvedimento»;
(ii) dall'art. 83, comma 8, d.l. 17 marzo 2020, n. 18, secondo cui «Per il periodo di efficacia dei provvedimenti di cui ai commi 5 e 6 che precludano la presentazione della domanda giudiziale è sospesa la decorrenza dei termini di prescrizione e decadenza dei diritti che possono essere esercitati esclusivamente mediante il compimento delle attività precluse dai provvedimenti medesimi».
Questa norma non appare tuttavia perspicua perché aggancia la sospensione dei termini processuali a due condizioni: a) che siano stati adottati i provvedimenti organizzativi che spettano ai capi degli uffici; b) che si tratti di diritti che possono essere esercitati esclusivamente mediante il compimento delle attività processuali precluse;
(iii) dall'art. 91, comma 1, d.l. 17 marzo 2020, n. 18, secondo cui: «All'articolo 3 del d.l. 23 febbraio 2020, n. 6, convertito con modificazioni dalla legge 5 marzo 2020, n. 13, dopo il comma 6, è inserito il seguente: ‘6- bis. Il rispetto delle misure di contenimento di cui presente decreto è sempre valutata ai fini dell'esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all'applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti'».
Appare però anche qui dubbio l'ambito di applicazione di tale disposizione alla luce della rubrica dello stesso art. 91 (“Disposizioni in materia di ritardi o inadempimenti contrattuali derivanti dall'attuazione delle misure di contenimento e di anticipazione del prezzo in materia di contratti pubblici”) e del contenuto della Relazione, secondo cui «L'articolo [91] interviene sulla disciplina dei ritardi o inadempimenti contrattuali derivanti dall'attuazione delle misure di contenimento e di anticipazione del prezzo in materia di contratti pubblici introdotta dall'articolo 3 del decreto-legge n. 6 del 202».
Tenuto presente quanto precede, nonché dell'impossibilità di sapere, oggi, se le disposizioni richiamate rimarranno invariate in sede di conversione in legge, o verranno adottate, come da più parti richiesto, disposizioni generali più chiare, occorre comunque considerare come le misure e i provvedimenti adottati per far fronte alla situazione di emergenza in corso, potranno incidere sui contratti preliminari sotto quantomeno tre profili:
a) gli impedimenti, per le parti, di addivenire alla stipula del contratto definitivo nel luogo, nei modi e nei termini indicati nel contratto preliminare che si potrebbero determinare (si pensi, a titolo di esempio, all'ipotesi di malattia di uno dei contraenti e, più in generale, alle limitazioni imposte alle persone fisiche concernenti gli spostamenti dalle proprie abitazioni e dal proprio comune di residenza);
b) le tempistiche necessarie per l'avveramento di eventuali condizioni sospensive cui è subordinata la stipula del contratto definitivo che si potrebbero dilatare (ad esempio, quelle dipendenti dal rilascio di un benestare da parte di una autorità amministrativa, la cui attività, stante la situazione emergenziale, potrebbe subire dei ritardi);
c) l'impossibilità di stipulare, definitivamente o temporaneamente, il contratto definitivo (ad esempio a causa del decesso di uno dei contraenti, oppure della circostanza che la totalità o parte dei beni oggetto del contratto definitivo siano, nelle more della sua stipula, requisiti al proprietario ai sensi dell'art. 6 d.l. 17 marzo 2020, n. 18 [1] per poter fronteggiare l'emergenza sanitaria).
Poiché gli effetti di tali misure e i provvedimenti sono molteplici e di diverso tipo, per valutare il loro effettivo impatto sui contratti preliminari stipulati prima della loro entrata in vigore, è essenziale compiere una valutazione caso per caso che tenga conto delle pattuizioni contenute nei singoli contratti preliminari, nonché dell'oggetto e del tipo di contratto definitivo.
Fermo quanto sopra, salvo che il contratto preliminare preveda una specifica disciplina per le cause di forza maggiore (o altre clausole rilevanti) e ferma la necessità di verificare la “tenuta” di tali clausole alla luce del carattere emergenziale della legislazione sopravvenuta, occorre, anzitutto, prendere le mosse dai principi generali in materia di obbligazioni e considerare la disciplina dell'impossibilità sopravvenuta, pacificamente applicabile al contratto preliminare.
Quanto alle problematiche illustrate sub a), viene in rilievo il disposto dell'art. 1256, comma 2, c.c., che dispone che l'impossibilità sopravvenuta di eseguire la prestazione (i.e. la stipula del contratto definitivo), se di carattere solo temporaneo (quale potrebbe essere il caso del ricovero in ospedale o della sottoposizione di una delle parti alla misura della c.d. quarantena), determina la sospensione della prestazione stessa per il periodo corrispondente al perdurare dell'impedimento e il relativo lasso di tempo non può essere considerato ritardo imputabile alla parte che non ha eseguito la prestazione [2]. Ovviamente anche tale impossibilità temporanea dovrà essere valutata alla luce sia della possibilità che la persona temporaneamente impedita possa farsi rappresentare da altri, che a quella delle vigenti disposizioni restrittive attinenti lo spostamento delle persone fisiche all'interno di tutto il territorio nazionale, che impediscono normativamente anche a eventuali delegati di porre in essere attività che presuppongano lo spostamento stesso.
Se, dunque, si esclude che la parte che non ha eseguito la prestazione possa considerarsi inadempiente agli obblighi assunti con il contratto preliminare, viene meno la possibilità per le parti di avvalersi dei rimedi che presuppongono l'inadempimento del contraente. Ne consegue che, fino a quando l'impossibilità perdura, la parte adempiente non può fondatamente:
(iv) risolvere di diritto il contratto tramite l'invio di una diffida ad adempiere ai sensi dell'art.1454c.c. la cui efficacia risolutiva presuppone, tra l'altro, la sussistenza di un inadempimento di non scarsa importanza [3]. Poiché l'efficacia della diffida ad adempiere è, in ogni caso, soggetta alla verifica della congruità del termine di adempimento indicato [4], pare utile ricordare che gli effetti conseguenti alle misure di contenimento possono rilevare sotto questo profilo anche laddove si decida di ricorrere a tale strumento dopo la fine della situazione di emergenza;
(v) risolvere di diritto il contratto tramite la manifestazione della volontà di avvalersi della clausola risolutiva espressa inserita nel contratto preliminare ai sensi dell'art. 1456 c.c. L'esclusione di qualsiasi sindacato in merito alla gravità dell'inadempimento indicato nella clausola risolutiva espressa [5] non esclude però che in sede applicativa la clausola debba essere valutata sotto il profilo del rispetto del canone di buona fede, sia quanto alla ricorrenza dell'inadempimento, sia del conseguente legittimo esercizio del potere unilaterale di risoluzione [6];
(vi) risolvere di diritto il contratto per effetto dell'inutile decorso del termine essenziale per l'adempimento di una prestazione ex art. 1457 c.c. [7]. Secondo la giurisprudenza di legittimità, tale risoluzione – pur operando a prescindere dall'indagine in ordine alla importanza del ritardo – è comunque subordinata all'esistenza dell'inadempimento e dell'imputabilità dello stesso in capo al debitore [8];
(vii) recedere dal contratto – e così risolverlo di diritto – trattenendo la caparra confirmatoria, ovvero pretendendo il doppio di quella versata. L'inadempimento cui si riferisce l'art. 1385, comma 2, c.c. deve infatti essere sotto il profilo oggettivo grave e sotto quello soggettivo imputabile [9]. Vale in proposito ricordare che l'esercizio della facoltà del recesso deve avvenire attraverso una dichiarazione unilaterale recettizia, con conseguente inidoneità ai fini del recesso del solo fatto che la parte che aveva ricevuto la caparra confirmatoria la trattiene per il tempo in cui perdura l'impossibilità;
(viii) agire fondatamente in giudizio per ottenere l'esecuzione in forma specifica del contratto non concluso, ai sensi dell'art. 2932 c.c., ovvero la risoluzione del contratto per inadempimento, ai sensi dell'art. 1453 c.c., e la condanna al risarcimento del danno o al pagamento di quanto previsto dalla clausola penale inserita nel contratto preliminare ai sensi dell'art. 1382 c.c. Anche quest'ultima, infatti, è soggetta alle regole delle obbligazioni in generale (art. 1218 c.c. e ss.) ed è quindi dovuta solo se l'inadempimento o il ritardo nell'adempimento sono imputabili al debitore [10].
Con riferimento sempre alle problematiche illustrate sub a), viene in rilievo anche la seconda parte del disposto dell'art. 1256, comma 2, c.c., che dispone che l'obbligazione si estingue qualora l'impossibilità (nel caso in analisi, di stipulare il contratto definitivo) – seppur temporanea – si protragga eccessivamente, per un periodo di tempo oltre al quale l'altra parte non possa più pretendere la prestazione o non abbia più interesse a conseguirla.
Quanto precede, riportato nell'ambito del contratto preliminare, impone di verificare se, ad esempio, vi sia un termine essenziale per l'adempimento, previsto come tale dalle parti, ovvero insito nella natura stessa del negozio. Laddove ciò sia desumibile dal contesto delle clausole contrattuali e dal comportamento complessivo serbato dai contraenti, l'essenzialità del termine consente di ritenere che il suo mancato rispetto dovuto alla impossibilità sopravvenuta, ancorché temporanea, comporti la cessazione dell'interesse dei contraenti alla stipula del contratto definitivo e, dunque, l'estinzione delle reciproche obbligazioni contrattuali [11], l'obbligo di restituzione delle prestazioni già adempiute (secondo le norme relative alla ripetizione dell'indebito), senza alcuna responsabilità risarcitoria per inadempimento contrattuale.
Quanto alle problematiche sub b), la giurisprudenza è concorde nel ritenere che, qualora la stipula del contratto definitivo sia sottoposta alla condizione sospensiva del rilascio di un benestare da parte di una autorità amministrativa, fino a che l'evento dedotto in condizione non si verifichi, l'obbligo di perfezionare il contratto definitivo resta sospeso e il relativo ritardo non è imputabile alla parte che si era obbligata con il contratto preliminare a ottenere tale benestare, perché i ritardi della pubblica amministrazione configurano una ipotesi di impossibilità sopravvenuta di natura temporanea ex art. 1256, comma 2, c.c. [12], fatti salvi i casi in cui il debitore vi abbia colposamente concorso [13]. Allo stesso modo, nel caso in cui a una o a entrambe le parti fosse attribuito un diritto di recesso qualora una determinata autorizzazione amministrativa non fosse intervenuta entro un determinato termine, l'obbligo di stipulazione del contratto definitivo non potrà che subire una protrazione del termine, non essendo parimenti imputabile il ritardo alla parte che si era obbligata con il contratto preliminare.
Valgono dunque anche per questa ipotesi le medesime considerazioni svolte ai precedenti punti 5 e 6.
Quanto alle problematiche sub c), si deve, anzitutto, rilevare che quando si verte in ipotesi di contratto preliminare non rileva solo la sopravvenuta impossibilità delle prestazioni che ne sono oggetto (ovverosia, l'obbligo di stipulare il contratto definitivo), ma anche quella delle prestazioni dedotte nel futuro contratto definitivo, rispetto al quale il preliminare è strumentale [14].
Ciò chiarito, occorre operare un distinguo, a seconda che la crisi epidemiologica in corso ed i provvedimenti di contenimento adottati dal Governo e dalle Regioni determinino una impossibilità permanente o solo temporanea dell'oggetto del contratto definitivo.
Si ritiene possano verificarsi ipotesi di impossibilità permanente dell'oggetto del futuro contratto definitivo allorquando la scelta del contraente è caratterizzata dall'intuitus personae e costui deceda nel periodo intercorrente tra la stipula del contratto preliminare e il termine previsto per la stipula del contratto definitivo. In questo caso, la morte di una parte la cui posizione giuridica è intrasmissibile mortis causa rappresenta una impossibilità totale della prestazione dedotta nel contratto definitivo non ancora stipulato, da essa o alla stessa dovuta. Viene, dunque, in rilievo l'ipotesi disciplinata dall'art. 1463 c.c. (dedicato, per l'appunto, alla “impossibilità totale”) e il contratto preliminare dovrà ritenersi risolto ipso iure [15].
Allo stesso modo, vi è impossibilità permanente quando la parte che si è riservata l'usufrutto del bene di cui vende la nuda proprietà deceda nel periodo intercorrente tra la stipula del contratto preliminare e il termine previsto per la stipula del contratto definitivo. Il venir meno per gli eredi dell'utilità rappresentata dalla riserva di usufrutto è, infatti, ritenuta dalla giurisprudenza circostanza ostativa alla pronuncia di una sentenza ex art. 2932 c.c. [16], norma che consente al giudice di emanare una sentenza che produca gli effetti del contratto non concluso soltanto “qualora sia possibile”, e cioè quando non si verificano impedimenti di fatto (es. sopravvenuta distruzione del bene) o di diritto (ad es,. perdita della proprietà del bene).
Vi può poi essere impossibilità permanente o temporanea nel caso in cui i beni, mobili o immobili, promessi in vendita, in locazione o in leasing (per fare alcuni esempi) alla controparte con il contratto preliminare siano requisiti – in proprietà o in uso – in forza dell'art. 6 d.l. 17 marzo 2020, n.18.
Se l'impossibilità è temporanea, perché, ad esempio, i beni sono requisiti in uso per un periodo di tempo limitato, valgono in proposito le considerazioni espresse ai precedenti punti. Se l'impossibilità è permanente è, però, necessario distinguere a seconda che la suddetta requisizione in proprietà riguardi tutti i beni, ad esempio, promessi in vendita, in locazione o in leasing con il contratto preliminare o solo una parte di essi.
Nel primo caso, il contratto preliminare dovrebbe dirsi risolto ai sensi del già citato art.1463 c.c. [17] e le parti saranno tenute a restituire le prestazioni eventualmente ricevute in esecuzione del contratto preliminare (dovranno, per esempio, restituire le caparre o gli acconti già incassati), ormai rimaste prive di titolo. La perdita della proprietà costituisce, infatti, impossibilità giuridica ostativa all'accoglimento di una domanda proposta ai sensi dell'art. 2932 c.c. [18].
Nel secondo caso, invece, viene in rilievo l'art. 1464 c.c. (dedicato alla “impossibilità parziale”), il quale prevede che, quando la prestazione di un contraente è divenuta impossibile solo in parte, l'altro contraente ha diritto di ricevere la parte di prestazione ancora possibile e, per converso, di ottenere una riduzione della sua prestazione. In tal caso, dunque, il contratto preliminare rimane efficace e il contraente legittimato dalla norma in parola, a fronte della inerzia della controparte di addivenire alla stipula del contratto definitivo, potrebbe agire nei suoi confronti ai sensi dell'art. 2932 c.c., limitando la propria pretesa alla porzione residua di beni e chiedendo la riduzione del corrispettivo dovuto [19]. Laddove, invece, il contraente che ha visto ridursi la prestazione dovutagli a causa dell'impossibilità sopravvenuta, non abbia un apprezzabile interesse al parziale adempimento del contratto definitivo, potrebbe recedere dal contratto preliminare in base a quanto previsto sempre dall'art. 1464 c.c. [20].
Se la conclusione del contratto definitivo e/o il suo oggetto non è diventato impossibile, ma solo più oneroso [21] perché, ad esempio, i beni oggetto del contratto definitivo non possono essere temporaneamente “sfruttati” per l'esercizio delle attività commerciali cui erano preposti (a causa, ad esempio, delle misure di contenimento che hanno comportato la sospensione di tutte le attività produttive industriali e commerciali), viene in rilievo lo strumento previsto dall'art. 1467 c.c.Rimedio che muove dall'esigenza di salvaguardare la parte dal rischio di sopravvenienze straordinarie e imprevedibili che incidono sul valore della prestazione imponendo all'obbligato un sacrifico economico che eccede la normale alea del contratto. Per queste ragioni l'ultimo comma della norma in esame prevede che la parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto [22]. Quanto precede, riportato nell'ambito del contratto preliminare, impone di verificare se, in primo luogo, possa ritenersi che la crisi epidemiologica e i suoi effetti integrino gli estremi dell'imprevedibilità. Per dare una risposta al quesito un primo elemento da tenere in considerazione è la data di stipulazione del preliminare. L'emergenza sanitaria e i conseguenti provvedimenti adottati potranno essere ritenuti una sopravvenienza imprevedibile se, ad esempio, il contratto preliminare è stato stipulato in un periodo in cui non era ragionevolmente possibile, secondo la diligenza media, prevederla.
L'onere della prova che grava in capo a chi agisce per ottenere la risoluzione ex art. 1467 c.c. concerne tutti i requisiti e, in particolare, anche la prova della sproporzione tra le prestazioni, verificatasi nel tempo compreso tra la conclusione del preliminare e la stipula del definitivo [23]. A tale proposito, pare opportuno evidenziare che, ad esempio, il progressivo aumento/decremento di valore di un immobile e la crescente svalutazione della moneta sono ritenuti eventi che rientrano nella comune alea contrattuale fintantoché non assumano proporzioni abnormi ed insolite [24], la cui sproporzione dovrà essere dimostrata in giudizio, assumendosi per altro l'emergenza sanitaria in atto quale fatto notorio.
Si è poi escluso che il rimedio di cui si discute sia applicabile al contratto preliminare a effetti anticipati. In caso di preliminare di vendita ad efficacia reale immediata (la cui configurazione può essere avanzata anche in termini di contratto definitivo di compravendita obbligatoria), nel caso in cui le parti abbiano rinviato ad un momento successivo la stipula dell'atto notarile al solo scopo di riprodurre la precedente scrittura per esigenze di pubblicità, la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta non può operare [25].
Posto che la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta non si verifica di diritto, ma necessita della presentazione di una domanda giudiziale, pare utile evidenziare che le vigenti misure di contenimento non impediscono di avviare un tale giudizio, salvi i casi in cui le misure adottate dai capi degli uffici giudiziari precludano la presentazione della domanda giudiziale [26]. Tuttavia, i termini per la trattazione del giudizio sono comunque soggetti alle disposizioni di cui all'art. 83 d.l. 17 marzo 2020, n. 18, e dunque sospesi, dopo il d.l. 8 aprile 2020, n. 23, fino al 11 maggio 2020.
In questa situazione, pare opportuno ritenere che per far fronte alla normativa e agli eventi sopravvenuti le parti possano avanzare in base all'art. 1375 c.c. – che, quale espressione del dovere (di rango costituzionale) di solidarietà tra i consociati, impone alle parti di eseguire il contratto secondo buona fede – richieste di revisione e rinegoziazione di alcune delle previsioni contenute nel contratto preliminare.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI E GIURISPRUDENZIALI.
[1] L' art. 6 d.l. 17 marzo 2020, n. 18 prevede «la requisizione in uso o in proprietà, da ogni soggetto pubblico o privato, di presidi sanitari e medico-chirurgici, nonché di beni mobili di qualsiasi genere».
[2] V., per il caso di malattia di uno dei contraenti, Trib. Parma,16 novembre 2010, n.1381, in Dejure, il quale ha qualificato come «impossibilità temporanea» – così escludendo qualsivoglia «responsabilità del debitore per l'inadempimento, ai sensi dell'art. 1256, comma 2, c.c.» – il fatto che il «legale rappresentante della promittente venditrice, accusando quest'ultimo un malore che lo costringeva ad attingere le cure mediche presso un presidio ospedaliero» non si fosse presentato dinnanzi al notaio nel giorno previsto dal contratto preliminare per la stipula del contratto definitivo.
[3] Le caratteristiche dell'inadempimento rilevante ai sensi dell'art. 1454 c.c. hanno costituito a lungo – e costituiscono ancora – terreno di scontro tra gli interpreti. Da un lato, chi reputa che l'inadempimento debba essere sempre imputabile al contraente infedele, dall'altro lato chi, al contrario, sostiene che lo stesso possa anche non esserlo.
[4] La valutazione di congruità del termine assegnato è un accertamento di fatto svolto dal giudice di merito. Secondo Cass. civ., 23 maggio 2014, n. 11493: «Non può essere unilaterale ed avere ad oggetto esclusivamente la situazione del debitore, ma deve prendere in considerazione anche l'interesse del creditore all'adempimento ed il sacrificio che egli sopporta per l'attesa della prestazione». Nello stesso senso, anche Cass. civ., 6 aprile 2009, n. 8250: «La Corte d'appello avrebbe dovuto, nello scrutinio in ordine alla congruità del termine di quindici giorni, valutare che nel lasso di tempo anteriore alla notificazione della diffida i debitori - acquirenti del bene sub condicione - avevano la possibilità di preparare almeno in parte l'adempimento, compiendo nei registri immobiliari le indispensabili visure per effettuare, una volta ricevuta l'intimazione, il pagamento necessario al fine di liberare il bene dai pignoramenti trascritti. Difatti, poiché il giudizio sulla congruità del termine di quindici giorni concesso con la diffida ad adempiere non può essere unilaterale ed avere ad oggetto esclusivamente la situazione del debitore, ma deve prendere in considerazione anche l'interesse del creditore all'adempimento ed il sacrificio che questi sopporta per l'attesa della prestazione, la valutazione di adeguatezza di quel termine compiuta dal giudice deve essere commisurata, tutte le volte in cui l'obbligazione del debitore sia divenuta attuale già prima della diffida, non rispetto all'intera preparazione dell'adempimento, ma soltanto rispetto al completamento di quella preparazione che si presume in gran parte compiuta, non potendo il debitore rimasto completamente inerte sino al momento della diffida pretendere che questa gli lasci tutto il tempo necessario per iniziare e completare la preparazione della prestazione».
Si v. con riferimento ai contratti preliminari, ad es., Cass. civ., 6 novembre 2012, n. 19105: «È noto che la regola secondo cui il termine concesso al debitore con la diffida ad adempiere, cui è strumentalmente collegata la risoluzione di diritto del contratto, non può essere inferiore a quindici giorni, non è assoluta, potendosi assegnare, a norma dell'art. 1454 c.c., comma 2, un termine inferiore ritenuto congruo per la natura del contratto e per gli usi. L'accertamento della congruità del termine costituisce un giudizio di fatto di competenza del giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità se esente da errori logici e giuridici (Cass. civ., 1° settembre 1990,n. 9085). Nella specie, la Corte territoriale ha ritenuto eccessivamente breve il termine di sette giorni assegnato dal F. al S. con la lettera del 3 febbraio 2000, sul rilievo che, gravando sul promittente acquirente la scelta del notaio, la condotta adempiente pretesa con la diffida doveva comprendere anche l'ottenimento di un appuntamento con il professionista per la predisposizione e la firma del rogito. Si tratta di un'argomentazione immune da vizi logici e giuridici, ancorando correttamente la valutazione della congruità del termine alla natura delle attività da compiersi dal promittente acquirente in base al contratto preliminare. L'apprezzamento espresso in proposito dal giudice di merito, pertanto, non è sindacabile in questa sede.»; Cass. civ., 9 novembre 1988, n. 6029: «In effetti, la sentenza impugnata, in relazione alla prima diffida del 22-8- 81, ha ritenuto che essa fosse "inidonea a produrre effetti sia per l'intervenuto decesso del destinatario (Belloni Michele) sia per il mancato rispetto del termine di 15 giorni», mentre, poi, ha ritenuto congruo tale termine minimo con riferimento soltanto alla seconda diffida dell'11-9-1981, pur giustificando in parte, attenuandone la gravità, l'inadempimento degli eredi del Belloni «sconvolti per l'improvvisa scomparsa del loro familiare" (peraltro, soltanto a brevissima distanza di tempo della scadenza del termine di cui alla seconda diffida, la ved. Belloni ricorreva al Presidente del tribunale per ottenere il sequestro dell'immobile e iniziava il presente giudizio per la convalida del sequestro e per l'esecuzione specifica dell'obbligo di concludere il contratto)».
[5] In merito alla necessità che si tratti di inadempimento imputabile, si v., ex multis, Cass. civ., 6 febbraio 2007, n. 2553: «l'apposizione di una clausola risolutiva espressa, anche valida, non comporta automaticamente lo scioglimento del contratto a seguito del previsto inadempimento, essendo sempre necessario, per l'art. 1218 c.c., l'accertamento dell'imputabilità dell'inadempimento al debitore almeno a titolo di colpa (Cass. civ., n.4591 del 1983, 9356 del 2000, 11717 del 2002)».
[6] Così Cass. civ., 23 novembre 2015, n. 23868: «Anche in presenza di clausola risolutiva espressa, i contraenti sono tenuti a rispettare il principio generale della buona fede ed il divieto di abuso del diritto, preservando l'uno gli interessi dell'altro. Il potere di risolvere di diritto il contratto avvalendosi della clausola risolutiva espressa, in particolare, è necessariamente governato dal principio di buona fede, da tempo individuato dagli interpreti sulla base del dettato normativo (art. 1175, 1375, 1356, 1366 e 1371 c.c., ecc.) come direttiva fondamentale per valutare l'agire dei privati e come concretizzazione delle regole di azione per i contraenti in ogni fase del rapporto (precontrattuale, di conclusione e di esecuzione del contratto). Il principio di buona fede si pone allora, nell'ambito della fattispecie dell'art. 1456 c.c., come canone di valutazione sia dell'esistenza dell'inadempimento, sia del conseguente legittimo esercizio del potere unilaterale di risolvere il contratto, al fine di evitarne l'abuso ed impedendone l'esercizio ove contrario ad essa (ad esempio escludendo i comportamenti puramente pretestuosi, che quindi non riceveranno tutela dall'ordinamento). Dunque, pure in presenza della clausola risolutiva espressa, per il contraente non inadempiente vige il precetto generale exart.1375c.c., il quale gli impone in primis di valutare la condotta di controparte in tale prospettiva collaborativa; quindi, sarà il giudice a dover valutare le condotte in concreto tenute da entrambe le parti del rapporto obbligatorio, allorché sia adito con la domanda volta alla pronuncia dichiarativa ex art. 1456 c.c. (cfr. Cass. civ.6 febbraio 2007, n. 2553); e, se da tale valutazione risulti che la condotta del debitore, pur realizzando sotto il profilo materiale il fatto contemplato dalla clausola risolutiva espressa, è conforme al principio della buona fede, ciò lo condurrà ad escludere la sussistenza dell'inadempimento tout court e, quindi, dei presupposti per dichiarare la risoluzione del contratto. L'inadempimento all'obbligazione, contrattualmente previsto come integrativo del potere di provocare in via potestativa la risoluzione del contratto, deve cioè essere effettivo, perché la previsione negoziale è da interpretare ed eseguire secondo buona fede».
[7] L'essenzialità del termine può derivare dalla volontà (espressa o implicita, purché inequivoca) delle parti di ritenere perduta l'utilità economica del contratto con l'inutile decorso del termine (c.d. termine essenziale “soggettivo”), ovvero può essere desunta dalla natura e dall'oggetto del negozio, laddove il ritardo dell'inadempimento comporti l'irrealizzabilità funzionale dell'operazione economica complessiva (c.d. termine essenziale “oggettivo”). In tema di contratti preliminari, è pacifico in giurisprudenza che il termine per la stipulazione del definitivo non è da ritenersi, di per sé, essenziale: tale lo diventa «solo quando, all'esito di indagine istituzionalmente riservata al giudice di merito, da condursi alla stregua delle espressioni adoperate dai contraenti e, soprattutto, della natura e dell'oggetto del contratto, risulti inequivocabilmente la volontà delle parti di ritenere perduta l'utilità economica del contratto con l'inutile decorso del termine medesimo; tale volontà non può desumersi solo dall'uso dell'espressione ‘entro e non oltre' quando non risulti dall'oggetto del negozio o da specifiche indicazioni delle parti che queste hanno inteso considerare perduta l'utilità prefissasi nel caso di conclusione del negozio stesso oltre la data considerata» (ex multis, Cass. civ.25 ottobre 2010, n.21838).
[8] Cass. civ. 18 febbraio 2011, n. 3993. Conf. Cass. civ., 24 giugno 2008, n. 17181: «al riguardo va, anzitutto, osservato che caratteri comuni degli istituti previsti dagli artt. 1456 clausola risolutiva espressa) e art. 1457 c.c. (termine essenziale per una delle parti), entrambi collocati nell'ambito della sezione I, capo XIV del libro IV, disciplinante le varie ipotesi di risoluzione per inadempimento del contratto, possono individuarsi nella sussistenza di un'ipotesi d'inadempienza contrattuale imputabile ad una delle parti e nell'attribuzione all'altra, in via di autotutela, di un diritto potestativo, comportante la facoltà di sciogliersi unilateralmente dal contratto […] Dall'esposizione dei suesposti elementi, comuni e differenziali, dei due istituti così come più volte evidenziati dalla giurisprudenza di questa Corte (v., tra le altre, Cass.civ.,n.8881 del 2000 e n. 102 del 1994), risulta palese come nell'uno e nell'altro caso la risoluzione, pur diversamente disciplinata nelle due ipotesi, debba essere comunque ricollegabile all'inadempimento di una prestazione imputabile ad una delle parti»; Cass.civ.26giugno1987,n.5710. In dottrina, cfr. C.M. BIANCA, Diritto civile, La responsabilità, V, Milano, 1994; 301; A. DI MAJO, Termine (dir. priv.), Enc. dir., XLIV, Milano, 1992, 206. La colpa della parte inadempiente non si atteggia, dunque, a requisito costitutivo della fattispecie risolutiva del contratto, ma solo ad elemento impeditivo della risoluzione, nel senso che, dinanzi al rifiuto di adempimento tardivo del creditore che assuma l'avvenuta risoluzione ex art.1457 c.c., il debitore ha l'onere di dimostrare che l'inadempimento relativo non è a lui imputabile. Cfr. Cass. civ., 22 luglio 1993, n. 8195, in cui la Suprema Corte – in occasione di un termine essenziale apposto ad un preliminare di compravendita – ha osservato che: «accertata l'essenzialità del termine per il pagamento del saldo e l'inadempimento del compratore rispetto ad esso, giustamente è stata ritenuta applicabile nella fattispecie la risoluzione di diritto del contratto preliminare, ai sensi dell'art. 1457 c.c., prescindendo dalla indagine sulla importanza di tale inadempimento. Ed invero l'essenzialità del termine, se da una parte consente, ed anzi impone al giudice di indagare, se necessario, ai fini del giudizio sulla risoluzione di diritto del contratto, se lo stesso termine sia stato violato con o senza colpa, dall'altra non permette allo stesso giudice di valutare, ai fini anzidetti, l'importanza del fatto di non avere il debitore adempiuto la sua obbligazione o le sue obbligazioni nel termine convenuto. Va ricordato, peraltro, al riguardo che il requisito della colpa, nella ipotesi di mancata osservanza del termine essenziale, non opera come elemento additivo della fattispecie, risolutiva del contratto, ma solo come elemento eventualmente impeditivo. La colpa del debitore inadempiente, in tal caso, può essere esclusa soltanto se lo stesso debitore riesca a provare che l'inadempimento è stato determinato da impossibilità obiettiva della prestazione, derivante cioè da causa a lui non imputabile». Sul punto, cfr. anche Cass. civ., 3 luglio 2000 n. 8881 (conf. Cass. civ., 30 gennaio 1992 n. 1020), secondo cui «nel caso di adempimento che richiede la cooperazione di entrambi i contraenti, sorge a carico di chi si oppone alla risoluzione del contratto, nonostante la scadenza del termine, l'onere di dimostrare che soltanto per effetto del comportamento della controparte, contrario a buona fede, l'adempimento non è stato reso possibile».
[9] Ex multis, Cass. civ., 8 agosto 2019, n. 21209: «Sul piano generale deve evidenziarsi che la disciplina dettata dall'art. 1385 c.c., comma 2, in tema di recesso per inadempimento nell'ipotesi in cui sia stata prestata una caparra confirmatoria, non deroga affatto alla disciplina generale della risoluzione per inadempimento, consentendo il recesso di una parte solo quando l'inadempimento della controparte sia colpevole e di non scarsa importanza in relazione all'interesse dell'altro contraente. Pertanto nell'indagine sull'inadempimento contrattuale da compiersi al fine di stabilire se ed a chi spetti il diritto di recesso, i criteri da adottarsi sono quegli stessi che si debbono seguire nel caso di controversia su reciproche istanze di risoluzione, nel senso che occorre in ogni caso una valutazione comparativa del comportamento di entrambi i contraenti in relazione al contratto, in modo da stabilire quale di essi abbia fatto venir meno, con il proprio comportamento, l'interesse dell'altro al mantenimento del negozio » (ad es., Cass. civ., n. 398 del 1989 e Cass. civ., n. 409 del 2012).
[10] Ex multis, Cass. civ., 10 maggio 2016, n. 9410: «secondo l'interpretazione fornita da questa Corte, a norma dell'art. 1382 c.c., la pattuizione di una clausola penale non sottrae il rapporto alla disciplina generale delle obbligazioni, per cui deve escludersi la responsabilità del debitore quando costui prova che l'inadempimento o il ritardo nell'adempimento dell'obbligazione, sia determinato dall'impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile, essendo connotato essenziale di tale clausola la sua connessione con l'inadempimento colpevole di una delle parti e non potendo, pertanto, essa configurarsi allorché sia collegata all'avverarsi di un fatto fortuito o, comunque, non imputabile alla parte obbligata».
[11] In questi termini, v. Trib. Siena, 14 dicembre 2017, n. 1269, in Dejure.
[12] Così Cass. civ., 4 marzo 2004, n.4415.
[13] V. Cass. civ., 6594: «La giurisprudenza di questo S.C. ha esaminato svariati casi di atti dell'autorità legislativa, amministrativa o giudiziaria, che incidendo negativamente sull'attuazione del rapporto obbligatorio, siano stati invocati dal debitore per giustificare l'inadempimento o il ritardo nell'esecuzione della prestazione. È stato ritenuto che nell'ipotesi di cd. factum principis, quale atto della pubblica autorità costituente impedimento della prestazione contrattuale nella misura in cui viene ad incidere su un momento strumentale o finale della relativa esecuzione, deve ritenersi sussistente la responsabilità del debitore laddove il medesimo vi abbia colposamente dato causa (Cass. civ., n. 21973 del 2007). Ciò in quanto il factum principis non basta, di per sè solo, a giustificare l'inadempimento e a liberare l'obbligato inadempiente da ogni responsabilità. Perché tale effetto estintivo si produca è necessario che l'ordine o il divieto dell'autorità sia configurabile come un fatto totalmente estraneo alla volontà dell'obbligato e ad ogni suo obbligo di ordinaria diligenza, il che vuoi dire che, di fronte all'intervento dell'autorità, il debitore non deve restare inerte nè porsi in condizione di soggiacervi senza rimedio, ma deve, nei limiti segnati dal criterio dell'ordinaria diligenza, sperimentare ed esaurire tutte le possibilità che gli si offrono per vincere e rimuovere la resistenza o il rifiuto della pubblica autorità (così, Cass. civ., n. 818 del 1970). Trattandosi di atto amministrativo illegittimo, è stata ritenuta esistente la responsabilità del debitore il quale non abbia posto in essere uno sforzo diligente volto ad ottenere la revoca o l'annullamento dell'atto (Cass. civ., n. 1706 del 1973, relativamente ad attività soggetta ad autorizzazione amministrativa; Cass. civ., n. 15712 del 2002 che ha escluso che potessero considerarsi causa non imputabile al debitore i provvedimenti di sospensione e di annullamento della concessione edilizia pronunziati dal giudice amministrativo, e determinanti per il debitore medesimo l'impossibilità di proseguire nell'attività di costruzione dell'immobile promesso in vendita; Cass. civ., n. 2059 del 2000 e n. 12093 del 1998, secondo cui il debitore non può invocare l'impossibilità della prestazione, con riferimento ad un provvedimento dell'autorità amministrativa che fosse ragionevolmente prevedibile secondo la comune diligenza; ed ancora, Cass. civ., n. 5231 del 1977 con riferimento alla vendita di bene immobile privo di licenza di abitabilità per difformità dal progetto approvato; e Cass. civ., n. 119 del 1982, che con riguardo alla promessa di vendere un locale ad uso commerciale, munito di licenza di esercizio, ha ritenuto non ravvisabile il factum principis nella mancata concessione di tale licenza, derivante dall'inosservanza da parte del richiedente delle prescrizioni all'uopo necessarie). Analogamente nel caso di obblighi imposti da provvedimenti dell'autorità giudiziaria, nel qual caso occorre valutare se questi ultimi siano stati adottati per effetto di una condotta colposa del debitore (cfr. Cass. civ. n. 18690 del 2003 in materia di provvedimento ex art. 28 statuto dei lavoratori interferente sul complessivo assetto degli obblighi previsti dal contratto di lavoro, e la citata Cass. n. 21973/07, relativa ad una consegna di carbone, impedita da un sequestro di p.g.). Diversamente nel caso di doveri imposti dalla legge (come nell'ipotesi della cd. sorpresa archeologica, che impedisce la prosecuzione dei lavori senza alcuna discrezionalità da parte del committente o dell'appaltatore: Cass. civ. n. 10133/05; o l'impossibilità per factum principis dello svolgimento di mansioni da parte del lavoratore subordinato: Cass. civ., nn.. 12719 del 1998 e 7263 del 1996), i cui divieti non sono imputabili al debitore»; Cass. civ, 13 marzo 2006, n. 5407: «soltanto nel caso in cui dovesse risultare la sussistenza di un'ipotesi incolpevole e solo temporanea impossibilità di adempimento, vi sarà spazio per eventuali valutazioni ai sensi dell'art. 1256c.c. comma 2»; Trib. Ivrea, 7 giugno 2018, n. 584, in Dejure: «in tema di responsabilità contrattuale la liberazione del debitore per sopravvenuta impossibilità della sua prestazione può verificarsi, secondo la previsione degli artt. 1218 e 1256 c.c., solo se ed in quanto concorrano l'elemento obiettivo dell'impossibilità di eseguire la prestazione medesima in sé considerata e quello soggettivo dell'assenza di colpa da parte del debitore riguardo alla determinazione dell'evento che ha reso impossibile la prestazione»; Trib. Prato, 26 settembre 2017, n. 783, in Dejure.
[14] Si v. Cass. civ., 7 giugno 1988, n. 3880, per cui «presupposto necessario per l'ottenimento della sentenza di cui all'art. 2932 c.c. è, incontestabilmente, l'inadempimento […] di un preliminare supposto efficace e, quindi, in grado di attivare il ricorso al giudice perché supplisca col proprio intervento all'inerzia della parte che non abbia adempiuto l'obbligazione di concludere il contratto definitivo. Di conseguenza ove il preliminare sia divenuto inefficace, per la sopravvenuta impossibilità, ad esempio, della prestazione o di una delle prestazioni corrispettive costituenti l'oggetto del futuro contratto definitivo, come non è dato immaginare la conclusione di quest'ultimo, così diviene, parallelamente, impossibile conseguire la sentenza che ne produca gli effetti, essendo venuto meno il titolo per (e non essendo, quindi, più realizzabile) la costituzione della situazione finale. Questi principi rispecchiano la configurazione tradizionale (e ancor oggi largamente maggioritaria) della sequenza “preliminare-definitivo”, che assegna al primo un ruolo essenzialmente strumentale rispetto all'effetti finale, la cui costituzione è demandata al secondo, il quale non può essere, dunque, degradato a mera tecnica di “definitivizzazione” o, più riduttivamente ancora, di documentazione degli effetti, asseritamente, prodotti dall'altro e non consente, quindi, di ravvisare in questo la fonte dell'assetto di interessi programmato dalle parti».
[15] Si v. Cass. civ., 2 agosto 1991, n. 8498, ove – in un caso di contratto preliminare di costituzione di rendita vitalizia – si afferma che «deceduto il promittente “alienante-vitalizzando” ed essendosi, perciò, automaticamente risolto, al momento del decesso, il contratto preliminare, per impossibilità sopravvenuta della prestazione di costituire a favore del beneficiario (ormai morto) la rendita finalizzata al suo mantenimento, non è ipotizzabile la sopravvivenza, a carico degli eredi, dell'obbligo di stipulare il contratto definitivo, a questo fine previsto, e non può, quindi, farsi luogo correlativamente alla sentenza sostitutiva (con efficacia ex nunc) per il preteso inadempimento, atteso che l'esecuzione specifica è qui preclusa dalla morte del vitalizzando e, cioè, dall'inesistenza della alea (connessa alla durata della «vita contemplata”), che del contratto de quo costituisce elemento essenziale ed indefettibile». Si osserva, tuttavia, che «di norma, la morte di una delle parti non dà luogo alla risoluzione per impossibilità sopravvenuta del contratto preliminare, in quanto, come nella specie, nella posizione del defunto subentra l'erede, salve le poche eccezioni, legislativamente determinate, di posizioni giuridiche intrasmissibili mortis causa» (Cass. civ., 11 giugno 2014, n. 13224). Ha, ad esempio, escluso che la morte di uno dei contraenti integrasse ipotesi di impossibilità sopravvenuta Cass. civ., 11 giugno 2014, n. 13224, secondo la quale: «il motivo è manifestamente infondato e non attinge la ratio decidendi della sentenza impugnata per la quale la prestazione che doveva essere adempiuta non era il pagamento del prezzo, ma la conclusione del contratto definitivo che, peraltro, non era resa impossibile dalla morte di uno dei contraenti in quanto allo stesso subentravano gli eredi e il contratto poteva essere concluso anche dalla stessa M. in proprio in quanto cofirmataria del preliminare. […] di norma, la morte di una delle parti non dà luogo alla risoluzione per impossibilità sopravvenuta del contratto preliminare, in quanto, come nella specie, nella posizione del defunto subentra l'erede, salve le poche eccezioni, legislativamente determinate, di posizioni giuridiche intrasmissibili mortis causa».
[16] Cass. civ., 7 giugno 2018, n. 14807, secondo cui il contratto preliminare di vendita della nuda proprietà “non è suscettibile di esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c nei confronti degli eredi del promittente venditore deceduto prima della stipula del definitivo, in quanto per gli eredi medesimi è venuta meno l'utilità rappresentata dalla riserva di usufrutto». Nello stesso senso, Cass. civ., 29 luglio2016, n. 15906, che ha confermato la sentenza impugnata specificando che “La Corte d'appello ha fatto applicazione dei principi suddetti, richiamando la risalente pronuncia n. 167 del 1976 di questa Corte, che costituisce uno dei tre precedenti (assieme a Cass. civ., sez. II, n. 12155 del 1993 e a Cass. civ., sez. II, n. 5618 del 1990) nei quali è stata esaminata la questione della esecuzione in forma specifica del preliminare di vendita della nuda proprietà a seguito di morte del promittente venditore. Le fattispecie esaminate dalle altre due sentenze erano differenti: la sentenza n. 12155 del 1993 ha deciso il caso in cui il promittente venditore era deceduto dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, ed ha statuito che l'evento non ostacolava la conferma della sentenza in sede di gravame e nei confronti degli eredi, in quanto non configurava una situazione di sopravvenuta impossibilità di adempimento del preliminare, ma comportava soltanto l'automatica variante del trasferimento della piena proprietà del bene. La sentenza n. 5618 del 1990 ha deciso il caso in cui la morte del promittente venditore era avvenuta tra la notifica dell'atto di citazione e la pronuncia della sentenza di primo grado, ed ha statuito che, in mancanza della prestazione del consenso da parte degli eredi, non è preclusa al promissario acquirente la possibilità di ottenere sentenza costitutiva a norma dell'art. 2932 c.c., non derivandone al riguardo alcuna impossibilità con riferimento alle pattuizioni del preliminare, salva l'automatica variante del trasferimento della piena proprietà all'acquirente. Le pronunce richiamate – nell'affermare che il decesso in corso di causa del promittente venditore della nuda proprietà non preclude l'accoglimento della domanda ex art. 2932 c.c., e quindi l'effetto diretto nei confronti degli eredi - hanno fatto applicazione del principio generale secondo cui la durata del processo non deve pregiudicare la parte che ha ragione, e ritenuto, di conseguenza, che la verifica della possibilità di emettere sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c., debba essere compiuta con riferimento alla situazione esistente al momento della domanda. 3.3. – Nel caso esaminato dalla sentenza n. 167 del 1976, invece, il decesso del promittente venditore della nuda proprietà si era verificato prima della instaurazione del giudizio avente ad oggetto la domanda ex art. 2932 c.c. Si tratta perciò di precedente specifico, che non è superato dalle due successive pronunce, e che il Collegio ritiene di confermare».
[17] Si v. Trib. Cagliari, 12 ottobre 1991, in Dejure (s.m.), per cui «Nell'ipotesi in cui un'area oggetto di un contratto preliminare di vendita venga successivamente espropriata con occupazione d'urgenza in forza di un vincolo di piano comunale per insediamenti produttivi, […] si verifica la risoluzione del preliminare di vendita per impossibilità totale sopravvenuta della prestazione».
Le medesime conclusioni sono state raggiunte dalla giurisprudenza con riferimento a ulteriori ipotesi di impossibilità sopravvenuta totale delle prestazioni oggetto del contratto definitivo, diverse da quella sopra riportata. A titolo di esempio, v. Cass. civ. , 17 ottobre 1992, n. 11426, che – in un caso in materia urbanistica – ha affermato che «pur essendo valido il preliminare alla stregua della l.n.765 del 1967, ne era diventato giuridicamente impossibile l'adempimento in base all'art. 17 della legge 28 gennaio 1977 n. 10 (entrata in vigore prima dell'inizio della causa e prima della scadenza […] fissata dalle parti per la stipulazione del contratto definitivo) a norma del quale l'inosservanza del disposto dell'art. 28 L.U. – e successive modificazioni – che impone la preventiva autorizzazione alla lottizzazione, costituisce reato. Che fosse diventato impossibile stipulare il contratto definitivo è evidente, dal momento che con esso si sarebbe attuato quel trasferimento di lotto concretante la lottizzazione abusiva penalmente vietata dall'art. 17. Conseguentemente, l'impossibilità obiettiva di stipulare il contratto definitivo, liberando entrambi i contraenti da ogni reciproca obbligazione, faceva sì che, da un canto, la penale – in difetto di un inadempimento colpevole [del promissario acquirente] – non era più dovuta, e, dall'altro, [il promissario venditore] era tenuto a restituire l'acconto sul prezzo»; ancora in materia urbanistica Cass. civ., 21 febbraio 2008, n. 4522, ove si legge che «Poiché nel caso di contratto preliminare di compravendita l'effetto traslativo è determinato soltanto dal contratto definitivo, sicché la ricorrenza dei requisiti di forma e sostanza necessari ai fini della validità del contratto traslativo non possono che fare riferimento alla legge vigente al momento della stipula di questo, la sopravvenienza, rispetto al momento di formazione del preliminare, della disposizione di cui all'art. 18, comma 2, l. 28 febbraio 1985 n. 47, con cui il legislatore aveva allora sancito il divieto di lottizzazione abusiva, opera […] come impossibilità oggettiva di concludere il contratto definitivo, e precludendo la stipulazione di questo, è ugualmente di impedimento all'emissione della sentenza costitutiva ai sensi dell'art. 2932 c.c., che allo stesso si sostituisce»; App. Lecce, 21 agosto 2017, n. 624, in Dejure, che, in un caso in cui “si sarebbe verificata una ipotesi di impossibilità sopravvenuta alla sottoscrizione del contratto [preliminare di locazione], costituita da un generale quadro normativo che, rimodulando le politiche sanitarie pugliesi, avrebbe imposto un Piano di Rientro necessario al raggiungimento dell'equilibrio economico – finanziario, con ciò impedendo sostanzialmente l'impegno di spesa», ha concluso nel senso che «Nel caso di specie si ravvisa il factum principis, l'intervento autoritativo che esula dalla sfera di controllo del debitore – e che come tale non gli è imputabile –, individuato dai provvedimenti legislativi ed amministrativi su citati, peraltro dettati a tutela dell'interesse generale costituito dal contenimento della spesa sanitaria, sia nazionale che specificamente pugliese, provvedimenti cui certo l'A. non ha dato causa, né poteva ragionevolmente prevedere, né poteva discrezionalmente sottrarsi (vedi Cass. civ,, sez. III, 10 giugno 2016, n. 11914) e che, pertanto, si ritiene abbiano costituito […] valida ragione di revoca della determinazione di sottoscrivere la locazione»; Trib. Roma, 23 febbraio 2016, in DeJure, per cui «la intervenuta estinzione della società determina lo scioglimento, per impossibilità sopravvenuta, del contratto preliminare anteriormente stipulato di compravendita delle azioni della stessa società, rendendo beni non più commerciabili le relative quote di partecipazione»; Trib. Salerno, 31marzo 2009,n. 765, in Dejure, che, in un caso cui la «entrata in vigore del Piano Territoriale Urbanistico e Paesaggistico […] l'assoluta inedificabilità del terreno» oggetto del contratto preliminare e rilevando che la «ragione determinante la stipula del preliminare era la edificazione del suolo», ha ritenuto che «È chiaro dunque che, venendo meno la ragione determinante e ispiratrice della stipula del contratto e divenendo impossibile l'oggetto della controprestazione per factum principis, non aveva più ragion d'essere il mantenimento in vita della pattuizione. A parere di Questo Giudicante ricorre, nel caso di specie, una ipotesi d'impossibilità sopravvenuta della prestazione che legittima, ai sensi dell'art 1463 c.c., la risoluzione del contratto».
[18] Cass. civ., 24 luglio 2014, n. 16965: «Il trasferimento, da parte del proprietario, della proprietà del bene promesso in vendita non è precluso fino a che egli non ne perda la proprietà e la proprietà del bene non gli è sottratta con il semplice avvio della procedura di esproprio, occorrendo invece il decreto di esproprio (cfr. Cass. civ., 13 giugno 1984, n. 3546; arg., a contrariis, Cass. civ., 10 marzo 2006 n. 5162; per principi analoghi applicati all'esecuzione immobiliare; Cass. civ., 9 dicembre 1995 n. 12633), ma la Corte di Appello ha rilevato che non risulta intervenuto alcun decreto di esproprio»; Cass. civ., 10 marzo 2006, n. 5162: «La Corte d'Appello non ha di conseguenza considerato che il decreto di esproprio – e la conseguente impossibilità del trasferimento correttamente evidenziata a norma dell'art. 345 c.p.c. nel testo previgente alla riforma – pur essendo posteriore alla sentenza che aveva trasferito la proprietà ma non aveva ancora in concreto prodotto i suoi effetti traslativi, non poteva essere confermata con una sentenza di secondo grado avente piena efficacia esecutiva ope legis a norma dell'art. 373 c.p.c., dato che l'art. 2932 c.c. consente l'emanazione di una sentenza che produca gli effetti del contratto non concluso soltanto “qualora sia possibile”, e certamente si verifica un caso di impossibilità giuridica quando il promittente venditore ha perduto la proprietà del bene»; Cass. civ., 13 giugno 1984, n. 3546, s.m.: «In relazione ad immobile oggetto di un preliminare di vendita, la sua sottoposizione a procedura espropriativa da parte della p.a., in mancanza del provvedimento ablativo non comporta preclusione all'accoglimento della domanda di esecuzione specifica del detto preliminare (art. 2932 c.c.), sempreché l'occupazione del bene con la definitiva ed irreversibile esecuzione della costruzione dell'opera pubblica non abbia determinato l'acquisto della relativa proprietà a favore dell'amministrazione stessa».
[19] Si v. Trib. S. Maria Capua, 19 febbraio 2018, n. 646, in Dejure, che – in un caso riguardante un contratto preliminare di compravendita di beni immobili, i quali, prima della stipula del contratto definito sono stati interessati da un «procedimento di esproprio per pubblica utilità per la realizzazione della strada” – ha statuito che “nel caso di specie viene […] in rilievo, in luogo della disciplina della nullità parziale, quella in tema di impossibilità sopravvenuta della prestazione parziale (art. 1464 c.c.) atteso che, nelle more del definitivo, è stata avviata una procedura espropriativa su parte dei beni del preliminare di vendita” e che “quando la prestazione è divenuta parzialmente impossibile, l'altra parte, salvo il diritto al recesso (ove ne ricorre il caso), ha diritto ad una riduzione del prezzo (art. 1464, c.c.) e, per converso, verrà fornita solo quella parte della prestazione non divenuta impossibile». Il Giudice ha, infine, aggiunto che «la parte non inadempiente che abbia proposto la domanda ai sensi dell'art. 2932 c.c., in caso di sopravvenuta ineseguibilità di parte della prestazione, può limitare la sua pretesa alla porzione residua del bene, purché questo non debba considerarsi, a motivo della sua riduzione, diverso da quello pattuito in contratto ed abbia conservato perciò la sua struttura e la sua funzione». La possibilità di ricorrere all'azione di cui all'art. 2932 c.c. nei termini appena descritti è stata ritenuta pienamente legittima in quanto «Una pronuncia del giudice che, sostituendosi al contratto non concluso, fissi un prezzo inferiore a quello pattuito con il preliminare configura un legittimo intervento riequilibrativo delle contrapposte prestazioni – teso, in sostanza, ad assicurare a condizioni parzialmente diverse da quelle iniziali, il rispetto del complessivo sinallagma contrattuale – rivolto ad assicurare che l'interesse del promissario acquirente alla sostanziale conservazione degli impegni assunti non sia eluso da fatti ascrivibili al promittente venditore».
Le medesime conclusioni sono state raggiunte dalla giurisprudenza con riferimento a ulteriori ipotesi di impossibilità sopravvenuta parziale delle prestazioni oggetto del contratto definitivo, diverse da quella sopra riportata. A titolo di esempio, v. Cass. civ., 24 febbraio 1982, n. 1139 (s.m.), per cui «In ipotesi di preliminare di vendita di costruzione ancora da realizzare, poi non ultimata perché in contrasto con le norme di piano regolatore […] si ha […] impossibilità solo parziale della prestazione, a fronte della quale unicamente il creditore è arbitro di stabilire la rispondenza al proprio interesse della parte di prestazione possibile (art. 1464 c.c.), senza che il debitore possa liberarsene, adducendo l'impossibilità parziale (art. 1258 c.c.)»; Cass. civ.,, 12 febbraio 1993, n. 1782, per la quale «la corte di merito ha ritenuto che la riduzione della edificabilità, sopravvenuta in conseguenza della citata variante al piano regolatore e durante la pendenza del termine previsto per la stipulazione del contratto definitivo, avesse comportato l'impossibilità parziale della prestazione del venditore. Donde il diritto del promissario acquirente ad ottenere una riduzione del prezzo proporzionale alla entità della cubatura non più realizzabile. […] Orbene la soluzione adottata è conforme a diritto, in quanto nella specie la sopravvenuta parziale impossibilità della prestazione, seppure non imputabile al promittente venditore, ha fatto sorgere nel promissario compratore in relazione alla pattuita essenziale corrispettività delle prestazioni, il diritto alla riduzione»; Cass. civ.,, 28 marzo 2001, n. 4529, la quale, in un caso in cui «con preliminare [i promissari venditori, n.d.a.] avevano promesso di vendere all'esponente o a persona da nominare l'immobile adibito a cinema […], e che recentemente tale bene era stato gravemente danneggiato da un incendio», ha affermato che «l'art. 1464 c.c. (per il quale, quando la prestazione di una parte è divenuta solo parzialmente impossibile, l'altra parte ha diritto ad una corrispondente riduzione della prestazione da esso dovuta, e può anche recedere dal contratto se non abbia un interesse apprezzabile all'adempimento parziale) essendo applicabile anche al contratto preliminare, consente al contraente che ai sensi dell'art.2932c.c. agisce per ottenere una sentenza che produca gli effetti del contratto non concluso, di chiedere al giudice anche la riduzione della propria prestazione», Cass. civ., 27 febbraio 2017, n. 4939: «Non è dubbio che la prestazione dei promittenti alienanti è divenuta impossibile solo in parte (per il giardino) [ai promittenti alienanti era stato riconosciuto nei confronti del comune di Terracina (che aveva assegnato l'alloggio a costoro, succeduti a congiunta) solo il diritto di proprietà sull'appartamento]. Non consta che nel giudizio di merito si sia appurato che una tale parziale impossibilità abbia privato della sua ragion d'essere il negozio, con la conseguenza che non emergono ostacoli a ritenere la prestazione parziale liberatoria per la parte debitrice (art. 1258 c.c.) e soddisfattiva, previa decurtazione del prezzo, per la parte creditrice (art.1464c.c.). Scandaglio questo quanto mai necessario tenuto conto della natura, incidenza e qualità del bene la cui cessione era divenuta impossibile (giardinetto accessorio all'appartamento) e dei principi regolanti la materia. Invero, l'impossibilità parziale ha effetto risolutivo sol quando, avuto riguardo all'interesse delle parti, investa l'essenza stessa dell'operazione negoziale, privando il resto, in parte significativa, di utilità o, comunque, mutando significativamente lo scopo perseguito con il negozio, apprezzabile attraverso le regole ermeneutiche di cui l'art. 1362 c.c. e segg.».
[20] Si v. Trib. Siena, 14 dicembre 2017, n. 1269, in Dejure, che, seppur in un caso d'impossibilità sopravvenuta parziale della prestazione diverso dalla espropriazione dei beni oggetto del preliminare, è giunto alle medesime conclusioni di cui sopra. Il Tribunale, infatti, ha rilevato che, poiché «con la IX ^ Variante al Regolamento Urbanistico, adottata con delibera del Consiglio Comunale […], il Comune […] riduceva le potenzialità edificatorie» dei terreni oggetto del contratto preliminare di compravendita, «l'oggetto della originaria obbligazione come prevista nel preliminare […] risultava ridotto e modificato, si da far venir meno l'interesse della promissaria acquirente alla stipula del rogito notarile» e, pertanto, «deve essere dichiarata la risoluzione del contratto preliminare di compravendita […] per sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione».
[21] Si veda, in proposito, il principio richiamato da Cass. 11 giugno 2014, n. 13224: «Con riferimento alla asserita impossibilità economica di corrispondere il prezzo (in tesi ridondante sull'impossibilità di stipulare il definitivo), neppure può ritenersi sussistente una sopravvenuta impossibilità della prestazione in quanto la giurisprudenza di questa Corte, che qui si condivide, è costante nel ritenere che l'impossibilità sopravvenuta che libera dall'obbligazione (se definitiva) o che esonera da responsabilità per il ritardo (se temporanea), deve essere obiettiva, assoluta e riferibile al contratto e alla prestazione ivi contemplata e deve consistere non in una mera difficoltà, ma in un impedimento, del pari obiettivo e assoluto, tale da non poter essere rimosso, (cfr. ex pluribus, Cass. civ. n. 15073 del 2009, n. 9645 del 2004, n. 8294 del 1990, n. 5653 del 1990 e n. 252 del 1953); l'estinzione dell'obbligazione per impossibilità definitiva, alla stregua del principio secondo cui genus nunquam perit, può verificarsi solo quando la prestazione abbia per oggetto un fatto o una cosa determinata o di genere limitato e non già una somma di denaro (cfr. Cass. civ., 16 marzo 1987n.2691; Cass. civ., 17/ giugno 1980 n. 3844; Cass. civ., 15 lulio 1968, n. 2555; nello stesso senso, in motivazione Cass. civ., 30 aprile 2012 n. 6594 e, da ultimo, Cass. 15/11/2013 n. 25777)». Nei medesimi termini, v. anche Trib. Bergamo, 5 marzo 2019, n. 544, in Dejure; Trib. Palermo, 22 settembre 2017, n. 4920, in DeJure; Trib. Siena, 2 febbraio 2017, n. 19, in Dejure; Trib. Palermo, 25 gennaio 2017, n. 402, in Dejure.
[22] Si v. Cass. civ., 8 settembre 1998, n. 8857: «Infatti, se in relazione ad un contratto preliminare, quale quello di specie, in ordine al quale il pagamento di parte del prezzo sia intervenuto in epoca anteriore al verificarsi del disquilibrio delle prestazioni è corretto il criterio applicato dalla corte di merito, di valutare l'eccessiva onerosità della prestazione del promittente venditore con riferimento alla controprestazione ancora da eseguire, escludendo cioè l'applicabilità del rimedio di cui all'art. 1467 c.c., per non essere ipotizzabile, in relazione alla prestazione già eseguita, alcuna alterazione dell'equilibrio contrattuale collegato ad eventi intervenuti successivamente all'adempimento; è viceversa errato ritenere congrua una offerta di reductio ad aequitatem, che pretenda di eliminare lo squilibrio economico sopravvenuto delle prestazioni, senza accertarsi del concreto valore patrimoniale raggiunto dalla prestazione onerata. Invero, come questa corte ha già avuto modo di affermare (si v. Cass., civ. n. 4023 del 1989) il contenuto dell'offerta, per riportare il contratto ad un giusto rapporto di scambio, deve essere tale da uniformare il corrispettivo ancora dovuto ai valori di mercato del bene da trasferire e, quindi, nel caso di specie, della parte di bene per la quale ancora il corrispettivo non è stato versato. L'indagine del giudice, perciò, per verificare la idoneità dell'offerta ad eliminare lo squilibrio economico delle prestazioni, deve essere condotta attenendosi a criteri estimativi oggettivi di carattere tecnico, e non a meri criteri equitativi».
[23] Si v. Cass. civ., 29 maggio 1998, n. 5302: «Si osserva poi che per verificare se una prestazione è divenuta eccessivamente onerosa, tanto da giustificare la risoluzione del contratto che la prevede, è necessario stabilire il valore della controprestazione, nel momento in cui entrambe sono sorte, e nel momento in cui devono essere eseguite» (Cass. civ. sez. II, 28 luglio 1990, n. 7626)”; Cass. civ., 3 agosto 1990, n.7833.
[24] Si v. Cass. civ., 16 novembre 1984, n. 5827: “La risoluzione del contratto a prestazioni corrispettive per eccessiva onerosità sopravvenuta è ipotizzabile anche quando il contratto sia stato stipulato allorché l'inflazione e la svalutazione siano in corso, poiché l'imprevedibilità dell'avvenimento può riguardare non solo l'evento fenomenico in sè stesso, ma anche la sua entità. In tale caso, però, perché possa portare alla risoluzione, è necessario che la graduazione dell'evento abbia assunto una misura assolutamente straordinaria ed imprevedibile rispetto al momento in cui il contratto venne concluso»; Cass. 13 febbraio 1995, n. 1559: «Perciò, con riguardo ad un preliminare di vendita di un fabbricato da costruire, ove la svalutazione – considerando la capacità di previsione di un uomo medio alla stregua della situazione in atto al momento del preliminare, nonché la sua incidenza sui costi di costruzione e sul guadagno ripromesso – presenti i connotati di un avvenimento straordinario ed imprevedibile, va riconosciuta al promittente venditore la possibilità di chiedere la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta in relazione alla svalutazione monetaria, determinatasi dopo la conclusione del contratto (Cass. civ., sez. II, 15 dicembre 1984, n. 6574). Appurato che il processo inflazionistico verificatosi nel biennio dal gennaio del 1973 al gennaio del 1975 era pari al 52, 16%, osserva il giudice del merito che tale percentuale, per la sua entità, doveva considerarsi del tutto straordinaria ed imprevedibile, anche perché un mutamento del valore della moneta di tale misura non poteva farsi rientrare nell'alea normale del contratto. Allo stesso tempo, aggiunge la Corte d'Appello, le modalità di pagamento non contenevano rimedi per adeguare il loro contenuto economico alle variazioni del valore monetario. Il primo versamento di lire 1.000.000, pari ad 1/9 del prezzo, era stato contestuale alla stipulazione del preliminare e quelli successivi, pari a lire 3.000.000 ciascuno, erano stati convenuti, con scadenze prossime alla fine del biennio, in misura definita e senza alcuna possibilità di adeguamento e di maggiorazione”; Cass. civ., 15 dicembre 1984, n. 6574: «Con riguardo ad un preliminare di vendita di un fabbricato da costruire, la possibilità di chiedere la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta, ai sensi dell'art. 1467 c.c., deve essere riconosciuta al promittente venditore quando la svalutazione monetaria, verificatasi dopo la conclusione del contratto, considerando la capacità di previsione dell'uomo medio, alla stregua della situazione esistente al momento della conclusione del preliminare, nonché l'entità della sua incidenza sui costi di costruzione e sul guadagno ripromesso presenti i connotati di un avvenimento straordinario ed imprevedibile»; Cass. civ., 20 giugno 1996, n. 5690: «Richiamato, in particolare, l'indirizzo giurisprudenziale di legittimità secondo cui gli aumenti dei costi della manodopera e dei materiali già in corso al momento della stipula dei preliminari di appartamenti da costruire fanno venir meno la straordinarietà ed imprevedibilità degli incrementi successivi che non si discostino in maniera apprezzabile della tendenza dei prezzi al tempo della conclusione delle promesse di vendita, hanno affermato quei giudici che questa era la situazione verificatasi nel caso in esame. Invero, lo stesso costo di costruzione che nel 1980-81 era cresciuto del 29,40%, aveva avuto un andamento assai simile (3,60% in più rispetto all'incremento precedente) nel 1982, subendo una crescita decisamente inferiore, del 22,89% nel 1983. Inoltre gli incrementi dei costi dei singoli materiali non erano stati nel periodo successivo alla conclusione dei contratti tra le parti sensibilmente diversi da quelli verificatisi nel periodo immediatamente antecedente ed erano perciò largamente prevedibili dal Roccheri esercente professionalmente l'attività di imprenditore edile, e privi quindi pure di straordinarietà perché in tutto simili a quelli che si erano verificati nel periodo immediatamente precedente la conclusione dei preliminari».
Conformi ex multis Cass. civ., 4 marzo 2004, n. 4423: «Ai fini della risoluzione del contratto preliminare di vendita di un appartamento, per eccessiva onerosità sopravvenuta nello spazio di tempo intercorrente tra la conclusione del preliminare medesimo e la sua esecuzione, l'aumento progressivo di valore dell'immobile e la progressiva svalutazione della moneta sono eventi (quando non assumono proporzioni abnormi ed insolite, che nella specie non sono state allegate dai ricorrenti) prevedibili, e rientrano nella comune alea contrattuale (cfr. le già citate sentenze n. 5960 del /1996 e n. 11637 del 1991)»; Cass. civ., 11 aprile 2017, n. 9314: «deve riaffermarsi il principio per il quale in tema di esecuzione specifica di un contratto preliminare, il mutamento della destinazione urbanistica del terreno promesso in vendita (nella specie, da agricola a edificatoria e residenziale) incidendo unicamente, senza mutarne la natura, sull'attitudine del bene ad una diversa utilizzazione o sfruttamento e, quindi, sulla utilità che da esso intende trarre il futuro proprietario, non costituisce ostacolo alla pronuncia ex art. 2932 c.c., a meno che non sia il promissario acquirente a dolersi della modifica (così Cass. civ., 6166 del 2006). Peraltro, come sottolineato dalla sentenza gravata, ai fini della risoluzione del contratto preliminare di vendita di bene immobile per eccessiva onerosità sopravvenuta nello spazio di tempo intercorso fra la conclusione del preliminare e la sua esecuzione, non costituiscono avvenimenti straordinari ed imprevedibili l'aumento progressivo di valore dell'immobile e la progressiva svalutazione della moneta, trattandosi di eventi che rientrano nella comune alea contrattuale (così Cass. civ., 4423 del 2004) così che la valutazione in fatto circa l'assenza di una situazione riconducibile al novero di quelle legittimanti una pronunzia ex art. 1467 c.c., è riservata all'apprezzamento discrezionale del giudice di merito, e come tale incensurabile in sede di legittimità se immune da vizi di motivazione”.
Nella giurisprudenza di merito v. Trib. Catania, 9 gennaio 2019, n. 88; Trib. Spoleto, 18 aprile 2019, n. 306, entrambe in Dejure.
[25] V. Cass. civ., 13 giugno 1997, n. 5349: «Invero, allorché le parti abbiano eseguito, anticipandole al momento del contratto preliminare, le obbligazioni che dovrebbero adempiere alla data del contratto definitivo – quali nel caso in esame di compravendita, il pagamento del prezzo e la consegna della cosa – rimane preclusa la domanda di risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta frattempo, mancando il differimento della esecuzione delle obbligazioni di carattere economico al successivo momento della stipula dell'atto definitivo ed essendo l'alterazione dell'equilibrio patrimoniale fra le prestazioni, intervenuta successivamente all'adempimento”; Cass. civ., 21 febbraio 1994, n. 1649: «Pertanto, con riguardo al preliminare di una compravendita del quale prima del completamento del pagamento del prezzo sia dedotta la sopravvenuta onerosità eccessiva per svalutazione monetaria, il rimedio della risoluzione exart.1467c.c. non è applicabile a favore del contraente che abbia già ricevuto la controprestazione consistente in una somma di denaro e che deduca la sopraggiunta svalutazione (si v. Cass., civ., 13 maggio 1982, n. 3005; Cass. civ., 9 gennaio 1980, n. 166)».
Conformi ex multis Cass. civ., 4 agosto 1990, n. 7876; Cass. civ., 16 maggio 1991, n. 5480; Cass. civ., 18 febbraio 1999, n. 1371; Cass. civ., 14 dicembre 1982, n. 6858.
Nella giurisprudenza di merito v. App. Catania, 19 aprile 2007, in DeJure.
[26] Ad es., protocollo adottato dal Presidente del Tribunale di Torino e dal Presidente dell'Ordine degli avvocati di Torino, che non consente il deposito di atti che non concernono i procedimenti non sospesi.