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Obbligazioni e contratti 07.05.2020

Coronavirus, legislazione emergenziale, e contratto: una fotografia

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1. La cornice: dal decreto “blocca Italia” al decreto “cura Italia”.

È finalmente apparsa sulla Gazzetta ufficiale la legge di conversione del cd. decreto “cura Italia” (d.l. 17 marzo 2020, n. 18, convertito con l. 24 aprile 2020, n. 27). Si tratta della seconda legge approvata dal Parlamento, posto che il d.l. 2 marzo 2020, n. 9, il d.l. 8 marzo 2020, n. 11, e il d.l. 9 marzo 2020, n. 14 sono stati tutti abrogati.

Il primo intervento emergenziale (d.l. 23 febbraio 2020, n. 6, convertito con l. 5 marzo 2020, n. 13, cd. “blocca Italia”) ha colpito al cuore libertà comunemente ritenute fondamentali in qualunque stato democratico. Prima dell'avvento del coronavirus era “normale” circolare sul territorio europeo, lavorare, partecipare a manifestazioni pubbliche o private, fruire senza limitazioni di prestazioni essenziali quali quelle erogate da asili, istituti scolastici e università, entrare in un cinema, in un teatro, o in un museo, viaggiare, acquistare liberamente beni e servizi, recarsi in uffici pubblici. Durante lo stato di emergenza – dichiarato dal Consiglio dei Ministri il 31 gennaio 2020 – i rapporti civili, sociali ed economici, pur costituzionalmente tutelati, hanno subito, e stanno tutt'oggi subendo, una fortissima compressione, frutto del bilanciamento con l'interesse collettivo alla prevenzione della pandemia.

Il secondo intervento emergenziale appena licenziato dalle Camere, oltre a potenziare le attività del Servizio sanitario nazionale, ha introdotto misure a sostegno del lavoro, delle imprese, e delle famiglie, con la dichiarata finalità di ammortizzare le più immediate ripercussioni economiche e sociali conseguenti all'attuazione ed al rispetto delle misure di contenimento.

L'eccezionalità che connota questo momento storico fa sì che il contributo che il giurista può dare sia per così dire a due dimensioni. È inevitabile partire dallo scrutinio delle centinaia di commi di cui si compone questo testo, mappando il perimetro di più stretto interesse per il civilista: l'esito dell'indagine è una fotografia che documenta i contenuti della nuova disciplina, ma non riesce a fornire una prospettiva adeguata sul futuro. È tuttavia necessario tentare di delineare le relazioni tra le nuove regole – elaborate in modo inevitabilmente frettoloso – ed il tessuto normativo preesistente, per comprendere l'effettiva portata delle novità introdotte dalla legislazione emergenziale e valutare in che misura essa possa riflettersi sui rapporti futuri. Se il presente contributo si colloca sul primo versante, quello informativo, non rinuncia del tutto ad offrire al lettore alcuni spunti per superare la (almeno apparente) frammentarietà della disciplina appena pubblicata.

2. Esiste oggi un generale diritto di rinegoziare?

Il confronto avviato dai civilisti in queste settimane ha un protagonista indiscusso: l'obbligo di rinegoziazione.

Alcuni autori [BENEDETTI-NATOLI] hanno affermato che in tempi eccezionali «si possono e si devono chiamare in campo la buona fede contrattuale e i principi costituzionali», onde preservare «scambi irrimediabilmente alterati». Di qui l'invocazione di un generale obbligo di rinegoziare i termini economici del rapporto contrattuale, in quanto «coerente con quella reciproca solidarietà tra i contraenti che il principio costituzionale di solidarietà economica e sociale impone». Onde assicurare la cooperazione della controparte, e non lasciare l'istituto privo di un meccanismo di tutela, è stato affermato che il rifiuto di ridiscutere «a tempo» il contenuto del contratto abiliterebbe la parte che invoca la rinegoziazione, non solo ad avvalersi dell'eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c., ma persino, attraverso una «modifica unilaterale dei termini [economici] del contratto», ad esercitare uno «ius variandi unilaterale» funzionale ad ottenere «l'autoriduzione della propria prestazione (fino alla misura che, consensualmente e solidaristicamente, poteva concordarsi)». Sempre in tale prospettiva, è stato suggerito che il contraente fedele possa fare ricorso anche all'art. 9, l. 1992/98, configurandosi il rifiuto di ricondurre ad equità i termini del rapporto contrattuale «come un abuso perpetrato in danno della parte che […] si trovi in una sopravvenuta situazione di dipendenza economica», cui porre rimedio attraverso la comminatoria di «nullità [del] patto originario non rinegoziato, sì da legittimare il rifiuto di adempiere agli originali termini» economici.

Non sono, per contro, mancate voci che hanno messo in dubbio la ricostruzione poc'anzi illustrata, evidenziandone l'indesiderabilità ove solo si presti attenzione agli incalcolabili costi transattivi che una rinegoziazione «affidata solo [alla] clausola generale di buona fede» porterebbe inevitabilmente con sé; costi che «non potrebbero essere verosimilmente sopportati dallo Stato, chiamato in questo momento ad uno sforzo finanziario di proporzioni inaudite» [Scognamiglio]. Non si può poi non considerare, come è stato osservato, che «l'incertezza del contesto, e l'impossibilità di fare previsioni, è tale da rendere insensato rinegoziare oggi le condizioni dei contratti in corso [in quanto] se contrattare vuol dire calcolare, è inutile contrattare dove non si può calcolare» [MAFFEIS].

Il rischio che al disastro sanitario, sociale ed economico segua «anche un'aspra e complessa contesa giudiziaria imperniata sulla disciplina delle sopravvenienze» [MACARIO] è tutt'altro che da scartare. Ciò induce ad affermare che il punto di partenza da cui il giurista deve necessariamente muovere, per una elementare ed insopprimibile esigenza di autoconservazione del sistema, è un'attenta valutazione in termini di politica del diritto: la cura che si somministra deve auspicabilmente far sopravvivere il paziente, non ucciderlo.

3. La cura somministrata dal legislatore: temporanea ibernazione dei contratti in essere.

Prima di avanzare qualche considerazione, occorre riordinare un poco il magmatico dato normativo. Nella rete a strascico con cui il giurista pesca nei commi della legislazione emergenziale finisce, infatti, una nutrita serie di disposizioni che è necessario provare a selezionare ed organizzare. Ecco i primi risultati.

(i) Il d.l. 23/2020 contiene all'art. 4 una regola in materia di conclusione del contratto. Come noto, il TUB, nel disciplinare la trasparenza delle condizioni contrattuali e dei rapporti con i clienti, ne prevede la forma scritta ad substantiam. L'osservanza di questa regola può collidere con la primaria esigenza di prevenire la diffusione della pandemia. È questo il motivo per cui la legislazione emergenziale dispone che sino al termine dello stato di emergenza «i contratti, conclusi con la clientela al dettaglio […] soddisfano il requisito [di forma] anche se il cliente esprime il proprio consenso mediante il proprio indirizzo di posta elettronica non certificata o con altro strumento idoneo, a condizione che questi siano accompagnati da copia di un documento di riconoscimento in corso di validità del contraente, facciano riferimento ad un contratto identificabile in modo certo e siano conservati insieme al contratto medesimo».

A questa novità viene naturale accostare la disciplina emergenziale in materia di rilascio della procura alle liti al difensore. In forza di quanto previsto dall'art. 83, c. 20-ter (ove non diversamente precisato, il riferimento sarà sempre da intendersi al decreto cura Italia), sino alla cessazione delle misure di distanziamento, il cliente, ancorché non munito di firma digitale (viene anche qui temporaneamente derogata la più severa disciplina di cui all'art. 20, c. 1-bis, d.lgs. 82/2005), può trasmettere al difensore via mail «copia informatica per immagine» (si legga: una scansione in pdf) della procura sottoscritta di proprio pugno, unitamente a copia del documento di identità. In tal caso, l'autografia viene certificata dall'avvocato mediante apposizione della propria firma digitale.

(ii) Di maggiore rilevanza è una serie di regole che possiamo ricondurre alla categoria dell'integrazione del contratto. Il legislatore ha, infatti, approvato specifiche norme imperative da ritenersi inserite nel contratto per effetto di sostituzione automatica ex art. 1339 c.c. Rientrano in questa categoria l'art. 56, c. 2, lett. c), in forza del quale il pagamento di rate di mutuo, di finanziamenti a rimborso rateale, nonché di canoni di leasing è per le piccole e medie imprese sospeso sino al 30 settembre 2020. La norma, detto altrimenti, introduce una proroga ex lege della durata convenzionale del rapporto contrattuale che comporta un'estensione del piano di ammortamento, conseguente al posticipato pagamento delle rate o dei canoni oggetto di sospensione, senza che ciò comporti nuovi o maggiori oneri a carico delle parti.

Di significativo impatto per le “casse” degli appaltatori è poi l'art. 103, c. 2-ter, che, oltre a prevedere una proroga ex lege di 90 giorni della durata dei contratti di appalto in corso tra privati aventi ad oggetto «l'esecuzione di lavori edili di qualsiasi natura», statuisce – in deroga al principio di post-numerazione ex art. 1665 c.c. e con sostituzione automatica di ogni diversa clausola negoziale – che il committente «è tenuto al pagamento dei lavori eseguiti sino alla data di sospensione».

Meritevole di segnalazione è, ancora, l'art. 125 che introduce due norme imperative ad integrazione del regolamento contrattuale dei contratti di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti. Si prevede, da una parte, che, sino al 31 luglio 2020, le imprese di assicurazione sono tenute a mantenere operante per trenta giorni successivi alla scadenza del contratto (e ciò in temporanea sostituzione dell'ordinario termine di quindici giorni previsto ex art. 170, d.lgs. 209/2005) la garanzia assicurativa prestata. Dall'altra, che, sempre sino al 31 luglio 2020, tali contratti di assicurazione possano essere sospesi, su richiesta dell'assicurato, con automatica proroga ex lege del loro termine finale. Con formula didascalica, la norma precisa che durante il periodo di sospensione il veicolo o natante «non può in alcun caso né circolare né stazionare su strada pubblica» in quanto temporaneamente privo della copertura assicurativa obbligatoria.

(iii) Il profilo di massimo interesse attiene, infine, alle disposizioni chiamate a disciplinare rimedi contrattuali. Rientrano in questa categoria l'art. 46, che ha «precluso per 60 giorni» al datore di lavoro di «recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo», e l'art. 56, c. 2, lett. a), in forza del quale – nei rapporti in essere con piccole e medie imprese – banche ed intermediari finanziari non possono «fino al 30 settembre 2020» recedere dai contratti di apertura di credito bancario né da altri contratti di finanziamento accordati a fronte di anticipi su fatture.

Più ampio spazio occorre per illustrare la disciplina introdotta con riferimento a «biglietti per spettacoli, musei e altri luoghi della cultura» (art. 88): ancorché il legislatore ne dichiari al primo comma – con una certa ipocrisia – l'intervenuta risoluzione «ai sensi e per gli effetti dell'articolo 1463 del codice civile», tali contratti – se si presta attenzione al regime introdotto dai successivi commi 2 e 3 – non sono affatto sciolti. Ove infatti il creditore della prestazione caratteristica presenti tempestiva «istanza di rimborso», è previsto che il debitore provveda alla «emissione di un voucher di pari importo al titolo di acquisto, da utilizzare entro un anno dall'emissione», e non alla restituzione del denaro. Anche a un non-tecnico di fiscalità pare piuttosto evidente che, onde evitare complicazioni se non duplicazioni d'imposta, tali «voucher» debbano essere considerati quali semplici documenti di legittimazione ex art. 2002 c.c. Il che conferma ulteriormente che questi contratti, che l'art. 1463 c.c. scioglierebbe generando effetti restitutori, sono ad esito di questo procedimento (non risolti ma) modificati nel loro oggetto [SANTAGATA, riferisce di «novazione oggettiva ex lege»]. Gli operatori della cultura sono, dunque, stati protetti dal legislatore: tramite il voucher, i creditori avranno esclusivamente titolo per fruire di una futura prestazione che sarà da loro scelta all'interno del programma culturale che sarà predisposto dal debitore.

Laddove tale «istanza di rimborso» non sia presentata, nel silenzio della nuova legge verrebbe da affermare che trovi comunque applicazione la disciplina di cui all'art. 1463 c.c., e ciò per un'elementare ragione: sciolto il contratto per impossibilità sopravvenuta non possono permanere in essere prestazioni sine causa, che debbono essere dunque restituite. Le lenti multifocali che il giurista deve indossare per cogliere da vicino (in sede di analisi delle disposizioni di legge), ma anche da lontano (in sede di verifica delle ricadute pratiche), la legislazione emergenziale si rivelano, però, indispensabili per suggerire una diversa lettura: l'«istanza di rimborso» va considerata al pari di un'adesione ad un obbligo di rinegoziazione che la legge pone a carico delle parti, obbligo che – congiuntamente al rapporto negoziale – si estingue, al più tardi decorsi 30 giorni (decorrenti dall'entrata in vigore dell'ultimo provvedimento con cui saranno state adottate misure di contenimento), ove non esercitato dal creditore della prestazione caratteristica.

Più problematica è la poco felice disposizione dedicata ai contratti «di viaggio, di soggiorno e di pacchetti turistici». Dopo aver passato in rassegna una serie di fattispecie in presenza delle quali ricorre «ai sensi e per gli effetti dell'articolo 1463 del codice civile» la sopravvenuta impossibilità della prestazione, l'art. 88-bis ripropone, con una modifica, la soluzione poc'anzi descritta: ove il creditore della prestazione caratteristica presenti tempestiva «istanza di rimborso», il debitore procede «all'emissione di un voucher di pari importo da utilizzare entro un anno dall'emissione» ovvero – ed in questo sta la novità – «al rimborso del corrispettivo versato» per il titolo di viaggio e per il soggiorno.

Disposizione poco felice, si diceva, in quanto tratta come “domestici” contratti regolati, invece, dal diritto dell'Unione europea. È il caso dei contratti di trasporto aereo, ferroviario, marittimo e terrestre tramite autobus disciplinati, rispettivamente, dal regolamento 261/2004, dal regolamento 1371/2007, dal regolamento 1177/2010 edal regolamento 181/2011. In forza di tale legislazione sovranazionale, ove il trasporto venga cancellato dal vettore (circostanza, almeno in oggi, a dir poco frequentissima), il passeggero ha diritto ad ottenere la restituzione del prezzo pagato e – diversamente da quanto la legislazione emergenziale poco utilmente ribadisce all'art. 88, c. 12 – può rifiutare ogni offerta sostitutiva che gli venga proposta. Il cortocircuito tra fonti concerne anche i pacchetti turistici: l'art. 12 della direttiva 2302/2015, recepita dall'art. 41, c. 4, d.lgs. 79/2011, prevede infatti che, in caso di «circostanze inevitabili e straordinarie verificatesi nel luogo di destinazione o nelle sue immediate vicinanze e che hanno un'incidenza sostanziale sull'esecuzione del pacchetto o sul trasporto di passeggeri verso la destinazione», il viaggiatore ha «diritto di recedere dal contratto», prima dell'inizio del pacchetto, «senza corrispondere spese di recesso» e con «diritto al rimborso integrale dei pagamenti effettuati». In sintesi, l'interprete del caso concreto dovrà tenere a mente che le menzionate regole di diritto privato europeo si sovrappongono, almeno in parte, all'ambito di applicazione dell'art. 88-bis, su cui necessariamente prevalgono.

Quanto, infine, ai contratti di «soggiorno» – la cui disciplina è nuovamente costruita sull'alternativa tra voucher o rimborso, frutto della scelta unilaterale del prestatore del servizio tra mantenimento e risoluzione del contratto – occorre registrare che in base al comma 10 dell'art. 88-bis le regole appena analizzate trovano applicazione anche nei casi in cui i contratti con i clienti finali siano stati stipulati per il tramite di un «portale di prenotazione, anche in deroga alle condizioni pattuite». L'approvazione al Senato del maxiemendamento con cui è stata introdotta la disposizione in esame è probabilmente la ragione pratica che ha indotto operatori del calibro di booking.com, che sino alla prima decade di aprile aveva rimborsato integralmente i propri clienti, sciogliendo unilateralmente i contratti a monte con gli albergatori, a modificare le proprie condizioni generali, consentendo ai debitori della prestazione caratteristica di essere arbitri del destino dei rapporti contrattuali.

(iv) Scattata la fotografia, emerge in modo piuttosto nitido la logicache ha animato il legislatore: ibernare temporaneamente i contratti in essere, nel tentativo di salvaguardarli dall'epidemia e dalla morte.

4. Per un temperato protagonismo della buona fede nella prima fase di risveglio dei rapporti contrattuali: il dovere di dialogo.

È indubbio che in una situazione di eccezionalità quale quella che stiamo vivendo le clausole generali svolgono un ruolo essenziale: al pari di membrane traspiranti, consentono difatti una via di comunicazione tra contratto e contesto storico in cui vive la società. Onde riavvicinarci alla domanda di partenza (§ 2), non può che convenirsi circa l'attuale ruolo di protagonista della buona fede, essendo questa chiamata ad apportare un importante contributo su almeno tre versanti.

(i) Il primo attiene alla fase di esecuzione del contratto ed è di facile percezione. In un momento storico in cui il contatto umano è vietato, o quantomeno sconsigliato, la buona fede impone al creditore di accettare che la prestazione sia eseguita a distanza. Il tema è davvero ampio. Tocca le obbligazioni pecuniarie, facendo sì che il debitore abbia diritto ad utilizzare mezzi di pagamento alternativi al danaro contante. D'altronde – non pare fuori luogo darne atto –nel settore della giustizia «gli obblighi di pagamento del contributo unificato» devono essere attualmente «assolti con sistemi telematici di pagamento» (art. 83, c. 11). Ma tocca anche le obbligazioni di facere,aprendo all'esecuzione della prestazione da remoto da parte del debitore. È, d'altronde, quanto stanno da settimane sperimentando i lavoratori subordinati (tramite cd. smart working), i professionisti (dagli avvocati, agli psicologi), ed altri soggetti ancora (si pensi al caso delle “palestre” che da tempo rendono ai loro “iscritti” servizi di fitness esclusivamente mediante “video-dirette” sui più noti social network). E ciò ben prima che l'art. 101, c. 4, intervenendo sulla disciplina dei contratti d'opera aventi ad oggetto attività d'insegnamento svolte nelle università da docenti “non strutturati”, confermasse che, nel periodo di chiusura degli atenei, «le attività formative ed i servizi agli studenti erogati con modalità a distanza […] sono computati ai fini dell'assolvimento degli obblighi contrattuali di cui all'art. 23 della legge 30 dicembre 2010 n. 240».

(ii) Il secondo versante ha a che vedere con i rimedi contrattuali ed è, invero, tutto da costruire. Il punto di partenza è dato dalla constatazione di un evento senza precedenti: i Tribunali italiani sono stati chiusi il 17 marzo 2020 (data di entrata in vigore del d.l. 18/2020) e lo rimarranno sino all'11 maggio 2020 (in forza della proroga disposta dall'art. 36, d.l. 23/2020). In linea a quanto previsto dall'art. 83, c. 6, è stato peraltro attribuito ai capi degli uffici giudiziari il compito di adottare linee guida di gestione della “fase due”, relativa al periodo 12 maggio-31 luglio 2020 (termine, da ultimo, esteso dal d.l. 30 aprile 2020, n. 28), in cui, per quanto è oggi dato sapere, saranno in buona sostanza trattati i soli procedimenti urgenti. Ebbene, il primo fatto su cui lo studioso dei contratti deve soffermarsi è che per circa due mesi i contraenti non hanno potuto adire la giustizia [MAFFEIS]. È ragionevole immaginare che il peso di questa disposizione di legge, di questo stop, non si riverberi sulla vita dei contratti? Proviamo, in punta di piedi, ad avanzare qualche ipotesi ovviamente collegata ai soli “inadempimenti da coronavirus”, ovvero a quegli inadempimenti manifestatisi a causa della pandemia, successivamente all'entrata in vigore delle misure di contenimento.

Non pare esservi dubbio che la gestione del ritorno alla “normalità”, con ciò intendendosi il regolare esercizio di azioni ed eccezioni contrattuali, vada mediata dal ricorso al principio di buona fede. Per meglio spiegare tale affermazione, occorre mettere in luce due premesse. La prima: è dato istituzionale che i rimedi contro l'inadempimento sono numerosi e si sviluppano, per così dire, in una scala che misura la (più o meno dirompente) portata dei loro effetti. La seconda: l'analisi della legislazione emergenziale – altro tassello fondamentale del ragionamento – ha evidenziato che il legislatore si è ben guardato dal mettere in discussione il contenuto economico dei rapporti contrattuali che sono stati, al contrario, ibernati.

Ebbene, se così stanno le cose, è ragionevole ritenere che il diritto emergenziale di oggi consentirà al creditore di agire in giudizio solo dopo aver esperito il primo rimedio possibile, e dunque dopo aver messo in mora il debitore. Un'azione di adempimento che si manifesti nel deposito di un ricorso per decreto ingiuntivo che non sia stato preceduto da un sollecito (che, a pena di inefficacia, sarà peraltro necessario inviare via PEC, posto che all'art. 108, c 1-bis il legislatore ha prescritto che «i termini sostanziali di decadenza e prescrizione di cui alle raccomandate con ricevuta di ritorno inviate nel periodo in esame sono sospesi sino alla cessazione dello stato di emergenza»), e da un confronto sulle ragioni dell'inadempimento, è contraria a buona fede, e dovrebbe condurre al suo rigetto. Non possiamo dimenticare che il legislatore, se è consentita una più forte espressione, ha procurato uno stato di coma ai contratti; l'interprete non può non immaginare che la ripresa debba necessariamente passare da un graduale risveglio. Stiamo, d'altronde, ipotizzando un dovere di dialogo tra contraenti che – in linea a quanto previsto dall'art. 10, d.l. 23/2020, in materia di dichiarazione di fallimento – può al più spingersi sino alla fine del mese di giugno, termine decorso il quale non sarà più ragionevole che il creditore faccia prevalere la solidarietà nei confronti del debitore, posto che a quella data quest'ultimo avrà avuto tempo sufficiente per valutare (a) se è in grado di “ripartire” e pagare i propri debiti, (b) se intende proporre un concordato preventivo o un accordo di ristrutturazione dei debiti, o (c) se, invece, il constatato stato di insolvenza, o sovraindebitamento, non lo debba condurre a portare i libri in Tribunale.

Riflettiamo ora sull'ipotesi opposta, prestando attenzione all'azione di risoluzione che per prima sarà decisa dai Tribunali: quella di sfratto per morosità. È opportuno, a tal proposito, una breve digressione: il legislatore non solo non ha in alcun modo messo in discussione l'equilibrio economico dei contratti ma, con riferimento alle locazioni commerciali, ha all'art. 65 indirettamente confermato l'integrale esigibilità dei canoni [CUFFARO], riconoscendo ai soggetti esercenti attività d'impresa (ancorché nei soli limiti in cui l'immobile locato rientri nella categoria catastale C/1) «un credito d'imposta nella misura del 60 per cento dell'ammontare del canone di locazione, relativo al mese di marzo 2020». Credito naturalmente non fruibile, ove l'attività esercitata dal conduttore-imprenditore rientri tra quei servizi di prima necessità che non hanno subito interruzione, elencati dagli allegati 1 e 2 del DPCM, 11 marzo 2020. Detto altrimenti, non appaiono sostenute dal dato normativo quelle opinioni che mettono in discussione il quantum debendi [SALANITRO], non ultimo perché – proprio con riferimento al caso del conduttore-imprenditore – la lamentata impossibilità ha ad oggetto non il godimento degli spazi locati ma, più in generale, lo svolgimento dell'attività economica organizzata. Si tratta di tipico rischio imprenditoriale che non può, neppure in parte, essere spostato in capo ai proprietari di immobili [GENTILI]. Ciò non significa che la buona fede non debba intervenire in maniera solidale a favore dei conduttori, anche nel diverso scenario dello scioglimento del rapporto. Si pensi al caso in cui il locatore notifichi sin dal primo giorno di cessazione della sospensione dei termini processuali (12 maggio 2020) un'intimazione ex art. 658 c.p.c. In una simile circostanza, ove sia mancato un confronto sulle ragioni dell'inadempimento, che è onere del locatore avviare, l'azione è contraria a buona fede e ciò potrebbe condurre il Tribunale a disporre un rinvio dell'udienza onde consentire al conduttore che voglia mantenere in essere il rapporto di ottenere un termine di grazia simile a quello previsto ex art. 55, l. 392/1978 per i contratti di locazione abitativi.

In conclusione, è ragionevole assegnare alla buona fede il compito di accompagnare il ritorno alla nuova “normalità”, incidendo sull'utilizzo dei rimedi contrattuali. L'intervento della buona fede, naturalmente, non si arresta certo alle due ipotesi per semplicità illustrate, ma andrà declinato nei singoli casi concreti. Pare, ad esempio, che dalla buona fede possa ricavarsi una presunzione iuris tantum di impossibilità derivante da causa non imputabile al debitore capace di sterilizzare, dal mese di marzo e sino al mese di giugno 2020, non solo il computo degli interessi, ma anche il risarcimento del danno e il pagamento delle penali conseguenti al ritardo nell'adempimento. Per tornare in ambito di locazione, è ragionevole ritenere che il conduttore che, per ridurre le spese o evitare il fallimento, decida in questo lasso di tempo di recedere ex art. 27, c. 8, l. 392/78, restituendo prontamente l'immobile, non sarà tenuto al pagamento delle sei mensilità, in quanto previste a titolo di risarcimento.

Tutto questo entro un arco temporale che abbiamo ipotizzato avere quale termine finale il 30 giugno 2020, dovendosi immaginare che la sospensione ex art. 10, d.l. 23/2020 del dovere di presentare istanza di fallimento porti con sé una sorta di moratoria nel diritto delle obbligazioni e dei contratti. E dopo? In tutti i casi in cui le parti, ad esito del loro dialogo, non abbiano rinvenuto un accordo sulle conseguenze dell'inadempimento, la buona fede solidaristica cesserà questo suo ruolo di protagonista assoluta. Il compito di valutare la situazione concreta, in caso di persistente conflitto, sarà inevitabilmente rimesso al giudice, il quale, nel dare applicazione alle regole di diritto comune (artt. 1218 e ss. c.c.), dovrà «sempre» valutare il «rispetto delle misure di contenimento». È questo quanto prevede l'art. 91, introducendo a favore del debitore un'attenuazione dell'onere della prova che sarebbe altrimenti a suo esclusivo carico.

(iii) Quindi nessuno spazio per una buona fede modificativa? Non è questa l'idea che si intende veicolare. Il fatto è che un più profondo intervento sul contenuto del contratto è bene che non riguardi i “contratti-spot”, dedicati ad un'unica operazione negoziale, ma sia limitato ai contratti relazionali, in quanto destinati a regolamentare non un affare, ma un rapporto economico di lunga durata. L'archetipo, come noto, è rappresentato dai contratti di distribuzione. Implicando simili rapporti una relazione a tal punto intensa tra le parti tale per cui almeno una di queste «organizza la propria sfera proprio in funzione di quel rapporto con l'altra, che diventa per lei assolutamente condizionante» [ROPPO], è piuttosto evidente che la buona fede, nella sua veste di strumento solidaristico di necessaria riscrittura di patti travolti dalle sopravvenienze, troverà qui fecondo terreno, e potrà anche rendere temporaneamente inefficaci una serie di clausole, tra cui, per fare un esempio, quella di minimum purchase commitment.

(iv) Avviandoci a concludere, l'opinione che fa discendere dal dovere di solidarietà economica e sociale (art. 2 Cost.) un indifferenziato obbligo di rinegoziazione pare pericolosa per le drammatiche ricadute che potrebbe determinare, e rischia di rivelarsi controproducente: è difatti necessario favorire la ripartenza del sistema-Italia, inevitabilmente soffocato dalla legislazione emergenziale, senza ostacolarlo e senza alimentare la proliferazione di costi di transazione. Non stupisce, allora, che – almeno, in questa prima fase – la via della rinegoziazione non risulti adottata dal legislatore.

Milita in tal senso un ulteriore argomento: quando il legislatore ha voluto obbligare due contraenti a rinegoziare, lo ha fatto espressamente così come accade all'art. 78, c. 4-sexies, ove è previsto il diritto dell'imprenditore agricolo di rinegoziare «i mutui e gli altri finanziamenti destinati a soddisfare le esigenze di conduzione o miglioramento delle strutture produttive, in essere al 1º marzo 2020», stabilendosi ivi persino che «la rinegoziazione, tenuto conto delle esigenze economiche e finanziarie delle imprese agricole, assicura condizioni migliorative incidendo sul piano di ammortamento e sulla misura del tasso di interesse».

5. Indifferibile urgenza di identificare una rotta.

Se è difficile distinguere cosa sta accadendo oggi, è praticamente impossibile immaginare il domani. Eppure è indispensabile, con coraggio, identificare una rotta. Diversamente il rischio, o meglio: la certezza, è quello di lasciare che la tempesta conduca la nave, ed i suoi passeggeri, dove il fato la spingerà.

Nella oggettiva drammaticità di queste settimane, la prima mossa del Governo è stata adottare misure di contenimento ponendo le «condizion[i] necessari[e] per la sopravvivenza della comunità» [DI MARZIO]. La seconda è stata ibernare i rapporti contrattuali, al fine di salvaguardarli.

Il più recente d.l. 8 aprile 2020, n. 23 si sta occupando di tenere a bordo le imprese: (a) sospendendo l'operatività delle norme che prevedono l'obbligo di riduzione proporzionale del capitale in caso di perdita superiore ad un terzo, nonché l'obbligo di aumento laddove il capitale si riduca al di sotto del minimo legale (art. 6, d.l. 23/2020); (b) stabilendo una presunzione di continuità aziendale per l'esercizio 2020, nel limite in cui la stessa risulti «sussistente nell'ultimo bilancio di esercizio chiuso in data anteriore al 23 febbraio 2020», così da evitare che amministratori diligenti richiedano il fallimento in proprio (art. 7, d.l. 23/2020); (c) prevedendo che ai finanziamenti a favore di società effettuati entro il 31 dicembre 2020 da soci o da società che esercitano attività di direzione o coordinamento non si applichi la regola della postergazione (art. 8, d.l. 23/2020); (d) differendo al 1° settembre 2021 l'entrata in vigore del codice della crisi d'impresa (art. 5, d.l. 23/2020).

Se è indifferibile rimettere in moto l'economia, servono idee che il legislatore possa sposare ed incoraggiare supportandole con la leva fiscale. Sia, in questa prospettiva, consentita una proposta. Il monitoraggio del Ministero della Giustizia riporta che il numero di controversie civili pendenti al 31 settembre 2019 è pari a 3.329.436. Perché non facilitare sensibilmente la conciliazione di ogni controversia di ogni ordine e grado instaurata prima del 1° gennaio 2020? Perché non prevedere, nello specifico, che ai clienti degli avvocati che transigono una di queste controversie entro i prossimi 12 mesi sia riconosciuto un credito d'imposta pari ai valori medi della fase di studio della controversia (da identificarsi in base al grado di giudizio in cui il procedimento si trova) e di assistenza stragiudiziale prevista alla voce 25 del d.m. 55/2014 (da identificarsi in base all'importo pagato con la transazione)? Perché non approfittare del disastro in corso per dare un calcio al passato, e cercare di costruire una giustizia più efficiente e, dunque, un'Italia migliore?

Riferimenti bibliografici.

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