I provvedimenti contro la pandemia hanno messo in tensione su scala amplissima il sistema economico e produttivo, seppure per un tempo ancora limitato. La situazione che si è venuta a creare, fornendo una casistica rilevante di conflitti, costituisce un'occasione unica per verificare la tenuta degli strumenti normativi per la gestione del rischio contrattuale, di concezione risalente all'emanazione del codice civile, in un momento in cui è già in corso una riflessione della disciplina sulle sopravvenienze in sede di proposta di legge delega.
Alcune questioni si presentano oggettivamente incerte e potrebbero costituire occasione per intervenire con norme di interpretazione autentica, che siano in linea con la soluzione più appropriata dei conflitti di interessi: siffatto intervento legislativo, aumentando il grado di certezza del diritto, avrebbe il vantaggio di consentire ai diversi attori del sistema produttivo di calcolare i costi delle proprie strategie di contenimento del rischio e produrrebbe un effetto indiretto di riduzione del contenzioso futuro.
Il settore in cui la possibilità di conflitto appare in questo momento più elevata, come si percepisce dalle discussioni sui siti giuridici on line, riguarda i contratti di locazione di immobili destinati ad attività commerciali, altre attività produttive o uffici: è ricorrente la domanda se il conduttore possa sospendere o ridurre il pagamento dei canoni per il periodo in cui non è consentito lo svolgimento dell'attività economica a causa della pandemia.
La risposta corrente è nel senso che il locatore sia solo tenuto al garantire il godimento dell'immobile e che la circostanza che l'attività non possa essere svolta sia un rischio che ricade sul conduttore. È il conduttore che non può svolgere l'attività: essendo il rischio pertinente alla sua sfera, non può trasferirlo sul locatore.
In tal senso sembra deporre anche la disciplina emergenziale la quale, nella parte tributaria, prevede che «Al fine di contenere gli effetti negativi derivanti dalle misure di prevenzione e contenimento connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19, ai soggetti esercenti attività d'impresa è riconosciuto, per l'anno 2020, un credito d'imposta nella misura del 60 per cento dell'ammontare del canone di locazione, relativo al mese di marzo 2020, di immobili rientranti nella categoria catastale C/1» (art. 65, comma 1, d.l. n. 18 del 2020).
La questione, tuttavia, esaminata dal punto di vista del diritto civile, si pone in termini più complessi.
È testualmente previsto che il locatore sia obbligato a mantenere la cosa idonea a servire all'uso convenuto (art. 1575 c.c.): nel contratto di locazione l'uso della cosa, nella misura in cui è convenuto o desumibile dalle circostanze, non attiene alla sfera dei motivi esterni al contratto, di pertinenza del conduttore, ma rientra tra gli elementi che descrivono l'obbligazione del locatore.
Occorre quindi chiedersi su chi ricada il rischio dell'impossibilità dell'uso convenuto.
Quando l'impossibilità dell'uso convenuto dipende da limitazioni all'attività del conduttore, ad esempio da una norma che impone una nuova abilitazione per il titolare o la trasformazione del sistema produttivo, il rischio non può essere trasferito sul locatore: il conduttore, che non utilizza l'immobile per un periodo, funzionale ad adeguare l'attività ai parametri di legge, dovrà continuare a pagare il canone. In senso diverso non depone la regola posta dall'art. 1623 c.c., che dispone la modifica del rapporto contrattuale in conseguenza di un intervento normativo sulla gestione produttiva, in quanto trattasi di disciplina che si riferisce al contratto di affitto.
Se l'impossibilità dell'uso convenuto attiene invece alle caratteristiche dell'immobile, non vi è dubbio che il rischio debba dislocarsi sul locatore: qualora una legge imponesse nuovi standard perché la cosa fosse utilizzabile per una determinata attività o il bene perdesse le caratteristiche a causa di un evento sismico, in assenza di uno specifico patto, il costo di adeguamento o di riparazione dell'immobile ricadrebbe sul locatore. L'impossibilità della prestazione liberebbe il conduttore dall'obbligo di pagare il corrispettivo e porterebbe allo scioglimento del contratto. In tal senso è la giurisprudenza che risolve per inadempimento il contratto in cui il locatore non abbia ottenuto per sua colpa l'agibilità, solo quando l'inagibilità o l'inabitabilità del bene attenga a carenze intrinseche o dipenda da caratteristiche proprie del bene locato, sì da impedire il rilascio degli atti amministrativi relativi alle dette abitabilità o agibilità e da non consentire l'esercizio lecito dell'attività del conduttore conformemente all'uso pattuito: Cass. civ. n. 16918 del 2019; Cass. civ. n. 19205 del 2018; Cass. civ. n. 15377 del 2016; Cass. civ. n. 666 del 2016; Cass. civ. n. 13651 del 2014. Anche se è ancora rilevante la giurisprudenza che pretende che l'uso sia pattuito specificamente in contratto, svalutando, per la posizione del locatore, la rilevanza dell'uso desumibile dalle circostanze: Cass. civ. n. 6123 del 2018.
Il rischio ricade sul locatore anche nel caso in cui l'uso convenuto fosse impossibile per ragioni che attengono in senso ampio alla sfera di utilità fornite dal bene: è il famoso caso della locazione del balcone per la visione del corteo reale, annullato dopo la stipulazione del contratto. Qui la specificità dell'uso convenuto, desumibile anche dall'ammontare del corrispettivo, fa ricadere nell'ambito dell'oggetto del contratto un evento esterno alla sfera di controllo di entrambe le parti: appare ragionevole che sia il locatore, che ha inteso valorizzare l'immobile per acquisire il valore di un fatto esterno – approfittando della posizione dell'immobile per monetizzare la visione di un evento eterorganizzato – a subire il rischio dell'impossibilità dell'evento. Al riguardo, si è ritenuto che il rischio possa essere ricondotto al locatore non in forza di un principio generale (c.d. presupposizione), quanto piuttosto per la specifica rilevanza della disciplina della locazione (Belfiore, La presupposizione, in Tratt. Bessone, Torino, 2003, 100 s.; in senso opposto, F. DEGLI INNOCENTI, Teoria della presupposizione e rimedi contrattuali alla luce di nuovi orientamenti ermeneutici, in Giust. civ., 2009, 76 ss.).
Occorre quindi distinguere a seconda che il rischio dell'impossibilità dell'uso convenuto pertenga alla sfera dell'attività o alla sfera di pertinenza del bene. Adottando tale criterio distintivo, si può sostenere che è ragionevole che il rischio ricada sul locatore ogni qualvolta l'attività non sia possibile perché l'immobile non è raggiungibile a causa di limitazioni alla libertà di movimento: ad esempio, un divieto di accesso causato da un cordone sanitario o dall'interruzione dell'unica via di accesso. Se l'attività non è possibile per ragioni attinenti al venire meno della possibilità di utilizzo del bene, quale strumento idoneo allo svolgimento dell'uso convenuto, appare ragionevole che il rischio ricada sul locatore.
Se si accede a questa lettura, la questione della distribuzione del rischio nel contratto di locazione in conseguenza dei provvedimenti per arrestare la pandemia si rivela più complessa rispetto alle idee correntemente praticate.
Occorre adesso esaminare analiticamente la disciplina emergenziale per verificare se le limitazioni si riferiscono alle attività o siano in qualche modo connesse ai beni in cui siffatte attività si svolgono: si anticipa che anche l'interpretazione delle disposizioni emergenziali su questo profilo si presenta incerta.
Per le attività commerciali l'art. 3 del d.l. n. 6 del 2020 usa un'espressione che sembra idonea a far ricadere il rischio sul conduttore, perché si esprime in termini di «j) chiusura di tutte le attività commerciali, esclusi gli esercizi commerciali per l'acquisto dei beni di prima necessità». Il riferimento letterale è all'attività commerciale, di cui è utilizzato come sinonimo anche il lemma “esercizio commerciale” (che nel linguaggio tecnico giuridico è usato anche come sinonimo di struttura per la vendita): dell'una e dell'altro sarebbe possibile disporre la “chiusura”, che è termine riferibile sia a un luogo, sia a un'attività. Nei successivi decreti attuativi il legislatore preferisce fare riferimento alla “sospensione di attività commerciali”, anche se, per le attività consentite, si trova un riferimento alle strutture da chiudere qualora non si possano garantire le regole di distanziamento.
Dall'esame del complesso della disciplina, si avverte tuttavia che le attività commerciali sono comunque consentite se si svolgono fuori dai locali commerciali, attraverso modalità a distanza: si può perciò avanzare il dubbio che la regola, la quale testualmente vieta l'attività commerciale salvo eccezioni, è rivolta in realtà contro il suo esercizio nei locali aperti al pubblico, dei quali è appunto disposta la chiusura. Quello che in apparenza è un divieto nei confronti delle attività, si rivela piuttosto un limite all'uso degli immobili (per le aree oggetto dei provvedimenti emergenziali, estese in forza dei provvedimenti più recenti a tutto il territorio nazionale): si potrebbe pertanto sostenere che, coerentemente con i criteri che si sono proposti, il rischio dell'impossibilità deve essere riferito all'uso convenuto del bene e conseguentemente ricadere sul locatore.
Ragionamenti analoghi possono farsi per le attività produttive, dove la disciplina emergenziale si esprime in termini di sospensione dell'attività, ma al contempo la stessa attività è consentita se svolta con lavoro a distanza o con lavoro agile.
Al medesimo risultato si perviene se si riflette sulla congruità delle conseguenze, mettendo in relazione gli interessi dell'una e dell'altra parte.
Non si intende insistere sul tendenziale favore che nel nostro ordinamento avrebbe l'impresa nel conflitto con i titolari della rendita, che pure sarebbe alla base della distinzione tra le discipline dell'affitto e della locazione: in un mercato capitalistico maturo la tendenza all'outsourcing dei fattori produttivi va valutata favorevolmente e richiede che al locatore sia garantita una rendita soddisfacente, che lo compensi non solo dell'investimento iniziale di acquisto o costruzione del bene, ma anche dei costi per garantirne il buono stato di manutenzione.
Se la sospensione del chiusura si protraesse, la soluzione che tiene ferme le obbligazioni di entrambe le parti porrebbe il locatore in una situazione di vantaggio che si potrebbe considerare eccessiva. Il locatore continuerebbe, infatti, a ricavare dal bene un lucro che non avrebbe potuto ottenere da una nuova locazione nella sopravvenuta situazione di mercato, anche qualora il bene fosse convertibile per attività consentite, perché in via tipica si deve ritenere che a seguito della compressione dell'attività economica il valore di godimento degli immobili destinati ad attività produttive si sia ridotto. La categoria dei locatori, titolari di immobili, sarebbe pertanto una categoria produttiva che risentirebbe meno degli effetti provocati dalla pandemia, senza che tale trattamento differente sia espressione di una ragione connessa alle esigenze primarie della produzione o alla tutela della salute. La posizione del conduttore, invece, sarebbe pregiudicata perché, pur non potendo continuare l'attività, per liberarsi da un rapporto contrattuale particolarmente svantaggioso, sarebbe costretto a un recesso per giusta causa con un preavviso di sei mesi: dovrebbe quindi essere costretto a pagare integralmente canoni per un bene che non gli è di alcuna utilità per un periodo esteso e decorrente dal momento in cui abbia acquisito consapevolezza del venire meno dell'interesse a mantenere il rapporto.
La possibilità di sciogliere il rapporto, invece, consentirebbe a entrambe le parti di riorganizzare la propria sfera economica e distribuire il rischio in modo meno squilibrato: il locatore, pur pregiudicato, avrebbe la possibilità di disporre altrimenti del bene, seppure in un mercato depresso; il conduttore, potrebbe svolgere la medesima attività con modalità diverse ovvero sospenderla per evitare perdite ulteriori.
La possibilità di riduzione del canone consentirebbe a entrambe le parti di pervenire a una soluzione equilibrata: con vantaggio per il locatore, che non dovrebbe assumere i costi transattivi per ricollocare il bene in un mercato depresso, e per il conduttore, che fosse interessato a mantenere la disponibilità del bene in vista di una ripresa dell'attività.
Trattandosi di una variazione qualitativa della prestazione del locatore, non sembra sia congrua la disciplina della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, la quale secondo la dottrina più accreditata è riferita alle sole variazioni quantitative (M. BARCELLONA, Appunti a proposito di obbligo di rinegoziazione e gestione delle sopravvenienze, in Europa e diritto privato, 2003, 467 ss.; T. MAUCERI, Sopravvenienze perturbative e rinegoziazione del contratto, ivi, 2007, 1095 ss.; E. TUCCARI, Sopravvenienze e rimedi nei contratti di durata, Milano, 2018, passim).
Si registra, al riguardo, la difficoltà di applicare la disciplina dell'eccessiva onerosità rispetto a quest'ordine di casi. La prestazione che si suppone sia divenuta eccessivamente onerosa sarebbe il pagamento dei canoni: ma tali canoni sarebbero eccessivamente onerosi non perché è aumentato il costo del denaro (né perché l'attività non consentirebbe margini di profitti idonei a consentire il pagamento dei canoni), quanto piuttosto perché non corrisponderebbero più al valore di godimento dell'immobile per l'uso convenuto, che si è fortemente ridotto. Si dovrebbe perciò fare riferimento alla giurisprudenza consolidata che ammette la risoluzione anche nel caso di svilimento della controprestazione: ma tale giurisprudenza si riferisce all'ipotesi speculare - di dubbia estensibilità alla fattispecie in esame - in cui il denaro si sia svalutato e la prestazione dovuta sia diventata eccessivamente onerosa perché i suoi costi di produzione, essendosi mantenuti fermi, non possono essere più sopportati al prezzo convenuto.
In caso di variazione qualitativa della prestazione del locatore, si dovrebbe ritenere invece che entri in gioco la disciplina dell'impossibilità temporanea (artt. 1256, comma 2, c.c.), la quale però andrebbe comunque integrata, perché manca una regola delle conseguenze sul contratto a prestazioni corrispettive dell'impossibilità temporanea non imputabile di una prestazione.
Il silenzio del legislatore non sarebbe però una tecnica di tutela volta a mantenere l'efficacia delle obbligazioni corrispettive: andrebbe considerata piuttosto una lacuna in senso proprio, da integrare attraverso il procedimento analogico.
Se si accetta questa impostazione, l'impossibilità temporanea della prestazione del locatore di garantire il godimento del bene, trattandosi di contratto a prestazioni corrispettive e perdipiù continuate del periodiche (da intendersi come contratti strutturati “a coppie di prestazioni”: sul tema da ultimo E. GABRIELLI, I contratti di durata, il diritto italiano e il nuovo codice civile argentino, in Giust. civ., 2018, 267 ss.), potrebbe incidere estinguendo il correlato obbligo di pagamento dei canoni, in forza dell'applicazione analogica dell'art. 1463 c.c. o se si vuole del principio inadimplenti non est adimplendum (art. 1460 c.c.), limitatamente al periodo correlato al mancato uso del bene.
Anche tale soluzione tuttavia può rivelarsi incongrua per la soluzione delle questioni sollevate.
Il locatore, infatti, sarebbe pregiudicato dal comportamento del conduttore che mantenga la detenzione dell'immobile, limitandosi a sospendere il pagamento delle rate. Il comportamento del conduttore, che non rilasci l'immobile nel momento in cui cessa di pagare i canoni, testimonia un interesse a mantenere il godimento del bene, presumibilmente funzionale a evitare la disaggregazione dell'azienda in attesa della ripresa dell'attività e non può giustificare una sospensione del pagamento del canone. In questo senso è da intendere la giurisprudenza consolidata secondo la quale «La sospensione totale o parziale dell'adempimento dell'obbligazione del conduttore è, difatti, legittima soltanto qualora venga completamente a mancare la controprestazione da parte del locatore, costituendo altrimenti un'alterazione del sinallagma contrattuale che determina uno squilibrio tra le prestazioni delle parti» (Cass. civ. n. 20908 del 2018; Cass. civ. n. 18987 del 2016; Cass. civ. n. 1317 del 2015).
Al fine di evitare comportamenti opportunistici del conduttore appare ragionevole applicare in via analogica il modello normativo tipico sul quale è stata organizzata la disciplina dei vizi e delle riparazioni nella locazione (artt. 1578 e 1584 c.c.): in tal modo, si va incontro a un assetto di interessi armonico, seppure attraverso la mediazione della decisione giudiziale, in quanto il conduttore deve scegliere tra la richiesta in via giudiziale di una riduzione dei canoni, che consentirebbe in linea di principio di tarare il corrispettivo sull'interesse a mantenere il godimento dell'immobile, e la risoluzione del contratto. Siffatto orientamento è stato accolto da una sentenza di legittimità riferita all'ipotesi, a mio avviso particolarmente rilevante, in cui la sede dell'attività del conduttore era stata isolata dall'interruzione dell'unica strada pubblica che ne consentiva il collegamento con la rete viaria e il conduttore aveva mantenuto il godimento dell'immobile rifiutandosi di pagare i canoni (Cass. civ. n. 14739 del 2005).
In realtà l'applicazione di questo modello normativo alla nostra fattispecie, più che un'operazione analogica, non è altro che la riesumazione della una regola tradizionale, già recepita nell'art. 1578 del codice civile del 1865, che disponeva «Se durante la locazione la cosa locata è totalmente distrutta, il contratto è sciolto di diritto; se non è distrutta che in parte, il conduttore può, secondo le circostanze, domandare la diminuzione del prezzo o lo scioglimento del contratto»: regola che la giurisprudenza ha applicato a casi in cui l'attività era divenuta impossibile per cause esterne che incidevano sull'utilità della cosa, come risulta dalla decisione che accoglie il ricorso del conduttore che lamenta l'impedimento dell'uso del fondo rustico a causa del fenomeno del brigantaggio (Cass. Napoli, 9 gennaio 1866, in Ann. Giur. it., 1866 del 67, 1 s.).
Il problema della distribuzione del rischio si pone anche per il noleggio di beni mobili destinati a strutture fisse, con particolare riguardo ai ponteggi e ai macchinari per l'edilizia.
Nel caso di noleggi a caldo, la prestazione comprende sia la locazione del materiale e dei macchinari, sia il contratto d'opera per l'attività (montaggio e smontaggio dei ponteggi, uso delle macchine).
Per il noleggio a caldo di macchinari, ove l'attività produttiva sia stata vietata, il contratto d'opera diviene impossibile e l'impossibilità incide sull'intera prestazione del noleggiatore. Alla medesima soluzione si potrebbe pervenire ove il contratto di noleggio sia ricondotto nella sua interezza all'appalto. Nell'uno e nell'altro caso si avrebbe risoluzione del contratto e restituzione del bene noleggiato.
Nel caso di noleggio a caldo di ponteggi, invece, il montaggio potrebbe essere stato già realizzato prima che l'attività venisse sospesa dai provvedimenti contro la pandemia. In questo caso si pone il problema se il canone del ponteggio sia dovuto anche quando l'attività del conduttore è stata sospesa: la questione si pone nei termini già illustrati per le locazioni, essendo il ponteggio destinato ad un uso specifico indicato in contratto o desumibile dalle circostanze. Ove quest'uso del ponteggio fosse richiesto anche nel corso della pandemia, ad esempio per ragioni di sicurezza o di ispezione dello stato dell'immobile, il conduttore dovrà chiedere la riduzione del canone. Ove invece il ponteggio non avesse alcuna funzione specifica in assenza di attività del conduttore, il conduttore potrebbe chiedere la risoluzione del contratto: poiché però il costo dello smontaggio è di norma di gran lunga maggiore rispetto al costo del canone del ponteggio, tale soluzione non sarebbe concretamente praticabile.
La questione è più delicata nel caso di noleggio a freddo. In astratto, trattandosi di beni mobili, questi potrebbero essere utilizzati in luoghi in cui non vi siano restrizione a causa della pandemia o comunque per attività che non siano vietate (costruzioni di ospedali, etc.). Nella misura in cui si qualifichi il contratto come locazione, si pone il problema di quale sia l'uso convenuto alla luce di quanto risulta dal contratto e, ove nel contratto non fosse indicato un uso determinato, di quanto si desuma altrimenti dalle circostanze.
Al fine di prevenire le incertezze sulle conseguenze dei provvedimenti contro la pandemia e limitare il contenzioso, se si condividono le suesposte riflessioni, si potrebbe introdurre una disposizione formulata in questi termini: «Nei contratti di affitto e di locazione di immobili per uso non abitativo e nei contratti di noleggio, la sospensione o la chiusura delle attività commerciali o produttive, ai sensi dell'art. 3 del d.l. n.6 del 2020, che non consente l'uso convenuto del bene, si intende quale impossibilità temporanea della prestazione del locatore».
Al fine di evitare dubbi sulle conseguenze di tale impossibilità e colmare una lacuna, spostando altresì sul piano stragiudiziale una parte almeno del riassetto negoziale, attraverso recesso e obbligo di negoziare (raccogliendo in tal modo le proposte della dottrina più autorevole: F. MACARIO, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli, 1996, passim), si potrebbe formulare la seguente regola: «In tal caso il conduttore può a sua scelta recedere dal contratto e restituire il bene, ovvero proporre al locatore una riduzione del canone; ove le parti non si accordino, la determinazione del canone spetta al giudice, che terrà conto dell'incidenza delle misure sospensive sul godimento dell'immobile, dell'interesse delle parti alla continuazione del rapporto e dell'uso che può presumersi dalle circostanze».