Approfondimenti

Obbligazioni e contratti 29.04.2020

Una proposta sui contratti d'impresa al tempo del coronavirus

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1.   Mali e rimedi nell'economia dell'emergenza.

Neppure la medicina più potente cura i mali per cui non è adatta. Per questo mi pare utile una messa a fuoco, nella prospettiva di un civilista, dei mali e dei rimedi dei contratti d'impresa al tempo del coronavirus. Perché come sempre una buona diagnosi è la condizione di un'efficace terapia. E perché rimedi in sé buoni, applicati a mali per cui non sono appropriati, potrebbero dare pesanti effetti collaterali.

L'epidemia in corso sta certamente arrecando grandi mali – oltre che naturalmente alla salute – all'economia. E le stesse misure restrittive, più che giustamente adottate, alla medaglia della difesa dal contagio aggiungono il rovescio del blocco di tantissime attività. Tutti siamo coscienti che quando l'epidemia avrà smesso di fare vittime potrebbe iniziare a farne l'economia. Di qui la necessità di venire in soccorso delle imprese in difficoltà, in nome della solidarietà. Ma dal punto di vista del diritto civile il problema è che ogni soccorso interpretativo o propositivo alle imprese per le difficoltà generate dalle circostanze rischia di aprire conflitti con opposte esigenze, che possono essere egualmente legittime. Non che questo sia l'unico problema economico innescato dalla pandemia, e forse neppure il maggiore (di questo dirò qualcosa in conclusione). Ma è il problema che un civilista si sente di affrontare, nella speranza di contribuire ad appianarlo.

Vanno allora attentamente considerate le diverse fattispecie che nella prassi si profilano. Fattispecie tutte riconducibili alle ripercussioni che la sopravvenienza delle circostanze eccezionali che stiamo vivendo avranno sui rapporti contrattuali. Ma anche molto diverse, sicché i problemi che pongono le une possono risultare del tutto differenti da quelli posti dalle altre. E quindi diverse le soluzioni.

A questi mali la civilistica italiana generosamente sta cercando di trovare rimedi [1]. Da un lato si cerca in una interpretazione affinata delle leggi che abbiamo, e nei principi che le governano, il giusto criterio di composizione di quei conflitti. Lo sguardo della dottrina si volge principalmente alle regole sulle sopravvenienze, in termini di impossibilità o in termini di onerosità, delle prestazioni contrattuali. Dall'altro si propongono integrazioni del dettato legale che, tenendo conto delle specificità dei casi, potenzino la risposta del diritto alle asperità del fatto. A questo scopo tiene il campo il ricorso alla rinegoziazione.

Di questo, qui, ho poco da dire. Posso solo apprezzare lo sforzo ricostruttivo e propositivo che si viene compiendo con grande acutezza. E – se mi è permesso dirlo – segnalare che l'associazione Civilisti Italiani (che in questo momento ho l'onore di presiedere) sta incoraggiando questi sforzi ed ha perciò chiamato a raccolta tutti i suoi soci perché contribuiscano a indicare, interpretativamente o propositivamente, i modi del miglior governo giuridico delle evenienze in corso. Mi limito ad osservare che il problema ha due facce: il generale rallentamento delle attività economiche determinato dalla pandemia, e il factum principis (cioè i provvedimenti emergenziali restrittivi di cui ho accennato) che ha disposto (ripeto: a giusta ragione e per interessi superiori) il blocco anche formale di certe attività.

Di qui l'impossibilità almeno temporanea di quelle prestazioni dedotte in contratto che trovano diretto ostacolo nei decreti dell'emergenza, e più in generale possibili aspetti di accresciuta onerosità di prestazioni ancora possibili in sé ma rese più gravose dalla situazione generale.

Di qui oltre ai rimedi che il codice civile già reca per le sopravvenienze, la proposta – che condivido – di contemperare istanze creditorie e debitorie relative alle prestazioni temporaneamente impossibili o eccessivamente onerose attraverso una nuova disciplina della rinegoziazione [2].

Va poi da sé che occorra studiare attentamente gli effetti che talune disposizioni contenute nei decreti emergenziali in corso di conversione potranno avere sulla casistica [3].

Fermo questo, vorrei in queste pagine segnalare ed approfondire un caso un po' diverso da quelli finora prevalentemente considerati dalla letteratura recente. Un caso che però anche grazie alla mia esperienza di avvocato mi risulta molto diffuso, non solo nel nostro Paese; e che come produce nei fatti grande stress agli operatori economici, specialmente di piccole dimensioni, così solleva non semplici problemi di inquadramento giuridico. Esso prospetta esigenze molto gravi, perché da un lato la sua diffusione rischia di affossare le sorti economiche di miriadi di operatori e dunque postula con urgenza un correttivo, ma dall'altro non è facile trovare quel correttivo senza pregiudicare interessi altrettanto legittimi delle controparti ed interessi generali del mercato. Passo dunque ad esaminarlo.

2.   Il problema delle prestazioni contrattuali che non sono direttamente incise dai provvedimenti restrittivi ma ne risentono di riflesso di questi e della crisi.

Una pluralità di soggetti sta incorrendo in pesanti difficoltà economiche in relazione all'adempimento di debiti contrattuali. Ma non, o non solo, in relazione alle prestazioni direttamente vietate dalle misure di contenimento (si pensi a tutte le attività dirette al pubblico che per ragioni sanitarie sono temporaneamente inibite) per le quali vanno invocati adattandoli al caso principi tradizionali ed emergenziali sull'impossibilità. Né in relazione alle prestazioni di fornitura di merci o servizi rese molto più difficoltose dalle attuali condizioni degli scambi (si pensi al rallentamento transfrontaliero in corso, alla riduzione della produzione e quindi dei rifornimenti, con aumenti dei costi e dei prezzi, e simili) per le quali vanno considerati adattandoli al caso i principi sull'onerosità di quelle prestazioni. Bensì in relazione a debiti contrattuali pecuniari, per definizione non impossibili, e in quanto nominalmente invariati e di valore inalterato non più onerosi. Però connessi alle prestazioni vietate dai decreti sull'emergenza, e comunque esposti ai negativi effetti economici di questa.

Esemplificativamente si pensi, in un cerchio più stretto, ai debiti che imprenditori la cui attività d'impresa rientra tra quelle temporaneamente vietate, hanno a titolo di corrispettivo verso i locatori dei locali dell'impresa [4], verso i fornitori, verso i dipendenti [5], verso professionisti che li assistono, e simili [6]. In un cerchio più largo, si pensi agli stessi debiti di imprenditori non formalmente bloccati dalle misure di contenimento ma di fatto soggetti al crollo dell'attività in conseguenza dell'inceppamento generale che sta subendo il mercato.

Tutti questi imprenditori, almeno in molti casi, per il venir meno per ragioni legali o per ragioni materiali della loro attività, stanno subendo anche il venir meno dei flussi di cassa. Spesso non dispongono di riserve pecuniarie sufficienti. E si chiedono se debbano fronteggiare, e subito, le loro obbligazioni per locali di cui continuano a godere ma che non possono utilizzare proficuamente, per prestazioni lavorative che non possono sfruttare o non appieno, per forniture ricevute o ricevibili che però ora non possono impiegare, per servizi di cui al momento non possono usufruire. O se possano invocare in nome del tanto sbandierato principio di solidarietà una sospensione, riduzione, postergazione delle obbligazioni pecuniarie che ora non sono materialmente in grado di adempiere.

Una soluzione va trovata. Ma – io penso – senza forzature, rispettando le controparti, e con lo sguardo all'economia in generale.

 

3.   Impossibilità dei corrispettivi?

Posso sbagliare, ovviamente; ma a me sembra – e mi preoccupa perché il problema è grave e serio – che la risposta dell'attuale diritto dei contratti all'esigenza segnalata sia necessariamente e rigorosamente negativa [7], anche rileggendolo alla luce del principio di solidarietà, anche vivificandolo attraverso la clausola di buona fede. Spiego perché. Più oltre dirò come forse si potrebbe venirne a capo, ma a livello propositivo e non interpretativo.

Per quelle obbligazioni pecuniarie non mi pare invocabile alcuna impossibilità. Il blocco formale recato dai decreti colpisce infatti l'attività e le sole prestazioni che la esplicano. Non le altre obbligazioni ex contractu dell'imprenditore. È se mai l'interruzione dei flussi di cassa delle imprese la cui attività è temporaneamente inibita che fa sorgere il problema. Parlare di impossibilità (o, come vedremo, di onerosità) è per i corrispettivi fuori luogo [8]. Basti dire che per molti imprenditori in difficoltà di cassa a pagare, ce ne sono altrettanti, anche bloccati dai decreti, che più forniti di liquidità o avendo predisposto un piano finanziario, continuano a pagare locazioni, forniture, servizi: e allora dov'è l'‘impossibilità'? Del resto, se per il solo fatto dell'emergenza e/o del factum principis fosse giusto ritenere sopravvenuta l'impossibilità dell'adempimento, allora i corrispettivi delle locazioni, delle forniture, dei servizi, non dovrebbe più pagarli nessuno (e non solo gli imprenditori in difficoltà) perché l'emergenza epidemiologica c'è per tutti [9].

La questione può però essere riproposta da un altro punto di vista. Ci si può chiedere se l'impossibilità della prestazione ora vietata dalle misure di contenimento si rifletta in base al diritto dei contratti sulle altre prestazioni, e come. Ma a stabilire questa ripercussione non basta – secondo me - invocare semplicisticamente e pietisticamente solidarietà e buona fede: la retorica non supplisce la logica. Tuttavia qualcuno ha offerto argomenti più elaborati per asseverare tecnicamente quella ripercussione. Vediamo allora le costruzioni attraverso le quali si cerca di fondarla.

Come spesso, si cerca di far ricorso alla causa. Ma mi pare inappropriato per questi fini fare appello alla causa del contratto: lo svolgimento utile dell'attività di impresa non è certo il diretto scopo, la causa, della locazione dei locali dell'impresa, o delle forniture all'impresa, o dei servizi all'impresa [10]: è solo il motivo per cui vengono conclusi dall'imprenditore, motivo certo noto ma del tutto estraneo agli scopi della controparte, e come tale assolutamente inidoneo ad assurgere al livello di ‘causa in concreto', che per quanto la si dilati deve esprimere qualcosa di comune e non qualcosa che resta nella sfera di rischio (o profitto, secondo i casi) di uno. Per sostenere il contrario, appellandosi alla solidarietà (purtroppo a volte in maniera facilona) bisognerebbe far entrare l'impresa, con i suoi rischi, nella causa del contratto di locazione, di fornitura, di servizio. Ma allora dovrebbe entrarvi per intero, nel bene e non solo nel male. Nessuno però ritiene che il locatore, il fornitore, il professionista, siccome in base alla causa in concreto dovrebbero ex lege partecipare ai rischi, possano richiedere di partecipare ai profitti. Una solidarietà a senso unico!

Né – penso - si possa qui supporre, in mancanza di un diretto scopo comune, almeno una presupposizione (‘si intende che pagherò i miei locatori, i fornitori, i servizi, se e finché potrò svolgere l'attività').

Primo perché questo preteso presupposto non è certo implicito nel consenso della controparte: questa, che non ha mai inteso concorrere nel rischio d'impresa, troverebbe del tutto ingiusto visto che continua a fornire all'impresa il godimento dei locali, o le merci, o i servizi, non ricevere il corrispettivo solo perché il conduttore non si è premunito di riserve finanziarie per i tempi difficili. Il rischio d'impresa ricade giustamente su chi ha il potere di gestirla e quindi di governare quel rischio (per esempio assicurandosi, o predisponendo riserve, e simili). Non si può chiedere alle controparti dell'imprenditore di condividere il rischio come base presupposta del contratto, visto che certo non condividono alcun potere gestorio. E allora i corrispettivi non cessano di essere dovuti solo perché la liquidità manca e i mezzi per surrogarla non sono stati predisposti.

Secondo perché la presupposizione opera per prestazioni di cui la parte non fruisce (del tipo: l'incoronazione è annullata e il contraente non va ad occupare il balcone per guardare il corteo), e qui invece l'imprenditore fruisce dei locali, delle forniture, dei servizi, anche se non del tutto utilmente. È vero che l'interesse del creditore – che si assume compromesso dal non poter utilizzare - è elemento del rapporto obbligatorio. Ma la giurisprudenza che ravvisa nel suo venir meno per non fruibilità di una prestazione una impossibilità, cancella la prestazione cui non si ha interesse, non il suo corrispettivo. Il corrispettivo cade solo perché cade il contratto. Qui invece si vorrebbe cancellare o almeno sospendere il corrispettivo senza cancellare la prestazione. Mi sembrerebbe però assurda la pretesa dell'imprenditore che continuando ad occupare, o a ricevere forniture o servizi, sostenesse di non dover pagare perché in conseguenza di un fatto esterno alle parti non ha interesse perché non gli è possibile l'utile fruizione [11]. Inoltre è discutibile se l'interesse dell'impresa momentaneamente inattiva alle prestazioni qui venga meno; è certo solo che essa ha interesse a sospendere i relativi corrispettivi. Infine, il rischio attiene all'attività di impresa ed al pericolo per la salute ad essa connesso, non certo all'immobile [12], o alla fornitura, o al servizio.

Inoltre, per definizione l'obbligazione pecuniaria non è mai impossibile [13]. Ed effettivamente qui non c'è materiale o giuridica oggettiva impossibilità ma solo soggettiva impossibilità [14], derivante dall'interruzione dei flussi di cassa.

Né infine il rallentamento generale del mercato è impossibilità: rientra nel rischio di impresa e come tale non rileva nell'ottica degli artt. 1463 ss. c.c. (vedremo tra poco se rientra in un caso di sopravvenuta onerosità). Impossibilità è il factum principis ma è da vedere, scartate le proposte costruttive appena rassegnate, e le troppo generiche invocazioni di principi, in quali forme concrete e da chi sia dovuta solidarietà per le prestazioni che direttamente non ne sono toccate. Ne riparlerò.

Insomma: l'impossibilità qui non è mai sic et simpliciter la risposta. È solo uno dei fattori alla cui luce darla (ma, come vedremo, in un altro contesto).

4.   Eccessiva onerosità dei corrispettivi?

Né per quelle obbligazioni pecuniarie è invocabile a mio avviso una sopravvenuta eccessiva onerosità. È vero che la pandemia e le relative misure di contenimento sono un evento eccezionale ed imprevedibile. Ma manca proprio l'onerosità nel senso dell'art. 1467 c.c. [15]

Questa richiede una oggettiva esplosione del valore e un aggravio del costo della prestazione da adempiere. Qui invece il canone locativo, il prezzo delle forniture o dei servizi, restano invariati, sia nominalmente, sia nel valore; anche se nelle condizioni sopravvenute divengono – ma in altro senso - molto più ‘onerosi' per l'impresa debitrice.

Anche l'utilità della prestazione ricevuta (il godimento dei locali, la fornitura delle merci e servizi) è invariata: potrà essere scemata agli occhi di quell'imprenditore che al momento non può sfruttarla appieno. Ma il suo valore sul mercato è immutato.

Inoltre, le relative disposizioni del codice operano per gli eventi eccezionali ed imprevedibili nel senso della risoluzione, non della riduzione o sospensione; e riservano alla controparte la scelta di modificare le condizioni contrattuali. C'è una ratio: sciogliendo il contratto ciascuno può tornare sul mercato, a meno che la parte favorita (ma qui il locatore non è affatto favorito: riceve esattamente lo stesso valore di prima) abbia interesse a proseguire riproporzionando.

Infine c'è da osservare che, a tutto concedere, l'applicazione delle regole sull'onerosità, come anche sull'impossibilità, sopravvenute, porterebbe ad un risultato incongruo: esse infatti cancellerebbero il debito del corrispettivo. Ma questo non si attaglia affatto ad un godimento dei locali che bene o male continua, a forniture e servizi che se anche non sfruttati oggi lo saranno domani. Sia che si muova dalla temporanea difficoltà di cassa, sia che si muova dalla temporanea inutilità delle altrui prestazioni, il rimedio appropriato non è l'eliminazione, ma la postergazione o riduzione del debito del corrispettivo. Che però non è l'effetto dell'impossibilità o dell'onerosità.

Un'ulteriore riprova della inattitudine del rimedio.

5.   Un profilo assiologico ed uno macroeconomico.

Ma non sono solo argomenti di tecnica giuridica a sconsigliare il ricorso a strumenti come le norme sull'impossibilità e l'onerosità. Anzi, nella mia prospettiva questi sono il meno. Sono conscio che le mie considerazioni indurranno gli indifferenti al problema a liquidarle come inutili (di ciò dopo), e i sensibili al problema a trattarmi da vieto formalista sordo al valore della buona fede e della solidarietà. Allora – rinviato il primo aspetto - trattiamo di questo.

A prima vista può sembrare generoso invocare la clausola di buona fede e il principio di solidarietà per slargare le regole su impossibilità e onerosità fino ad estenderle per riflesso a prestazioni che – se quanto ho detto è giusto – per sé impossibili o eccessivamente onerose non sono ma certo sono divenute pesanti. A ben vedere invece non è solo teoricamente improprio, è anche in molti casi ingiusto, e sempre pragmaticamente controproducente.

È in molti casi ingiusto. Supponiamo di concludere che il creditore dei corrispettivi per buona fede nel rapporto e per solidarietà debba sopportare sospensioni, riduzioni, postergazioni. Mi domando: e se (per esemplificare) il locatore non è un grosso imprenditore immobiliare [16] ma un privato per il quale il reddito del canone concorre agli strumenti di sussistenza? E se il fornitore o il professionista privato degli introiti di prestazioni fornite cade nella stessa crisi di liquidità da cui si vorrebbe salvare l'imprenditore suo debitore? Si dimentica spesso che la solidarietà è bilaterale. E che dall'altro lato possono stare esigenze di egual peso. Dipende dai casi. Ma si può distinguere così analiticamente? Forse sì. Vedremo come. Ma comunque distinguere bisogna, perché la solidarietà se è una cosa seria non guarda solo da un lato.

Ma non è tutto: manipolare le obbligazioni dell'imprenditore in nome della solidarietà e della buona fede è pragmaticamente controproducente. Il ricorso all'onerosità o impossibilità è improvvido non solo sul piano del singolo rapporto ma anche in termini di politica del diritto [17]. Qual è infatti l'effetto generale? Che a catena il (falso) rimedio che solleva dai suoi debiti l'imprenditore bloccato dai decreti o almeno dalla crisi, nuocerà alle sue controparti, che così cadranno in eguali difficoltà e vorranno bloccare i loro debiti, e così via. Insomma: per risolvere un problema nato dal blocco dell'economia bloccheremmo definitivamente l'economia.

Non sono un economista ma mi pare evidente che il rimedio giuridico debba essere di segno esattamente contrario: non si cura la paralisi con le manette. È vero che questo è un profilo macroeconomico, mentre qui discuto un problema microeconomico. Ma un po' di coerenza tra i due ci vuole. Ci tornerò.

6.   Diritto dei contratti e diritto della crisi.

In sintesi: quei rimedi, preziosi in altri casi, qui sono del tutto incongrui. Come tali non efficaci: non solo regolano problemi diversi, ma se usati condurrebbero ad effetti perversi. E si spiega: sono rimedi a ‘vizi' (sia pur esogeni) del contratto. Qui invece non c'è alcun ‘vizio' del contratto. C'è un ‘vizio' del mercato, nei termini di una crisi generalizzata dell'impresa per il blocco ex lege o per il fermo dell'economia. Ma il diritto di parte generale del contratto benché rimedio potente è impotente contro i vizi del mercato e la crisi d'impresa [18]. Se ammettiamo la rilevanza del problema occorre guardare altrove.

Potremmo però non ammettere la rilevanza del problema. Di contro ai cantori della solidarietà e della buona fede, pronti a invocarle senza tanto preoccuparsi della logica del discorso e dei legittimi interessi delle controparti, stanno i cantori del mercato, sempre convinti che quel che avviene conviene, che il mercato fa il meglio da sé, e tanto peggio per chi non ce la fa. Se a mio giudizio non possiamo farlo è per due motivi.

Il primo è la rilevanza sociale dell'impresa e l'interesse generale alla sua sopravvivenza. Si consideri che la difficoltà in discorso rischia di travolgere gli imprenditori con risorse limitate, perché l'adempimento non è materialmente possibile se non con nuovo indebitamento, non sempre ottenibile [19], raramente ottenibile in tempo utile, e comunque produttivo di ulteriori passività; ma l'inadempimento può determinare l'estinzione del contratto, penali, effetti risarcitori, e in definitiva la crisi irreversibile dell'impresa. Rei publicae interest offrire un rimedio giuridico.

Il secondo è che la tutela della sopravvivenza dell'impresa è un principio già presente nell'ordinamento. O meglio: latente ma in via di positivizzazione. Esso è infatti codificato in quello strumento legale de futuro [20] che è il Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza. Che a sua volta è concretizzazione di principi presenti nei Trattati e nelle direttive dell'Unione europea; e se non espressamente sanciti, comunque compatibili con la nostra Costituzione.

Per queste ragioni penso che come giuristi non si possa (e non si debba) essere indifferenti al problema. Ma che non essendo un problema di crisi del contratto ma di crisi dell'impresa, si debba affrontarlo con gli strumenti del diritto della crisi d'impresa e non con gli strumenti del diritto dei contratti.

Mi rammarico dunque, pur comprendendo certe preoccupazioni, che l'applicazione del codice della crisi sia stata interamente postergata [21]. Sembra quasi che il legislatore diffidi del suo prodotto. E mi chiedo se non sarebbe opportuna una disposizione della legislazione dell'emergenza che ne riprendesse qualche frammento. Magari con alcune modulazioni pensate per la situazione specifica, di cui ora dirò. Ma concepite, quantunque diritto dell'emergenza, in modo il più possibile coerente alle regole che già abbiamo [22].

Vado allora alla proposta.

7.   Una proposta: la ristrutturazione del debito con strumenti ripresi dal diritto della crisi.

Affrontare il problema dal punto di vista della crisi dell'impresa fa delle differenze. Asseverare attraverso il ricorso alla causa, all'impossibilità, all'onerosità, il principio che se l'impresa con quello che riceve non guadagna, allora non paga, significa infatti chiedere solidarietà per il suo profitto. E questo mi sembra per le ragioni che ho detto (si può chiedere solidarietà per il profitto altrui a chi non ne partecipa?) del tutto inammissibile. Asseverare invece attraverso il ricorso a strumenti di governo della crisi il principio che l'impresa in difficoltà superabili non deve estinguersi significa chiedere solidarietà per la sua sopravvivenza: un interesse generale, e anche dei creditori. Con la precisazione che la difficoltà deve essere reale e che la solidarietà va chiesta a chi può darla. 

A questo scopo mi parrebbe utile in particolare (e qui comincia la mia proposta) il recupero, con una disposizione ad hoc della legislazione dell'emergenza, di quello che l'art. 1, 1° comma, lett. a) della Direttiva UE n. 1023/2019 (già vigente) definisce ‘quadro di ristrutturazione preventiva'. Limitando però l'applicazione di tale disposizione a quei soli soggetti la cui attività sia stata bloccata dal factum principis, e per le sole obbligazioni in scadenza dalla data di efficacia delle misure di contenimento fino a (per esempio) trenta giorni dalla loro cessazione (il tempo di riavviare i flussi di cassa).

Questo introduce ad alcune precisazioni preliminari.

La prima è che il problema rileva solo laddove il debitore in crisi sia un'impresa la cui attività sia stata inibita dalle misure di contenimento. E più esattamente una piccola impresa. A tal fine si può adottare la nozione di ‘imprenditore minore' che è appunto nel Codice della crisi d'impresa. Sono imprenditori minori [23] quelli con un volume di affari contenuto, che dovrà essere rideterminato ogni tre anni da un decreto ministeriale. E qui si nota una variazione concettuale rispetto alla nozione di piccolo imprenditore, tuttora presente nel codice civile, perché l'imprenditore minore è connotato da una dimensione patrimoniale (attivo, ricavi, debiti) specificamente rilevante per il problema in esame, laddove il piccolo imprenditore è connotato o da una caratteristica merceologica (attività agricola o artigianale) o da una caratteristica organizzativa (prevalenza del lavoro proprio e dei familiari), non significative ai fini di ciò che qui discuto. Mi pare inoltre che altrettanto dovrebbe valere per i professionisti, che il Codice della crisi già equipara per molti aspetti.

La seconda è che il problema legittima la soluzione ad hoc ora in discorso solo dove la controparte non sia un privato, un lavoratore dipendente [24], o un altro imprenditore minore. Gli interessi di queste controparti pesano almeno altrettanto di quelli del piccolo imprenditore in difficoltà. La solidarietà bisogna chiederla a chi può darla. Con queste distinzioni, che non sono opinione morale ma nozione legale, otteniamo quella discriminazione analitica dei casi la cui difficoltà segnalavo più sopra. 

La terza è che salvo qualche aspetto che tratto subito appresso è adattabile al caso, per predisporre un ‘quadro di ristrutturazione preventiva', il rimedio alla crisi d'impresa che il Codice della crisi e dell'insolvenza prevede appunto quando l'imprenditore non sia in grado di far fronte con mezzi regolari alle sue obbligazioni per la riduzione o interruzione dei flussi di cassa: una segnalazione della difficoltà ai creditori, con una proposta [25] per venirne fuori.

Ho definito ‘preliminari' le tre considerazioni fatte sopra perché mi pare che preparino ma non integrino la definitiva soluzione. Si danno infatti due problemi che forse sono estranei al Codice della crisi ma non lo sono a questa crisi. E che mi sembrano il vero ‘cuore' del problema attuale. Non mi pare, invece, che il vero problema sia qui la crisi degli investimenti e, in generale, delle risorse necessarie per procedere a ristrutturazioni delle imprese che hanno giustificato il rinvio del Codice della crisi. Non mi pare perché nel caso che esamino la crisi si limita all'interruzione temporanea dei flussi di cassa, sicché è sufficiente ristrutturare il debito, e non l'impresa. Vedo però i seguenti due problemi, tipici di tutte le forme di rinegoziazione. Il primo è l'abuso del debitore: troppo facile invocare l'epidemia e le misure di contenimento e pretendere di sospendere, ridurre, postergare le proprie obbligazioni! La seconda è la renitenza del creditore: troppo facile dissentire e pretendere tutto e subito! Ci sono correttivi?

Il Codice della crisi rimedia – semplificando – con una negoziazione assistita. In teoria funziona. In pratica e nel caso di specie ho paura che intaseremmo gli organi deputati. E poi lo strumento è ancora da sperimentare. Inoltre sull'abuso e sulla renitenza non offre correttivi specifici, perché si affida a soggetti e procedimenti di assistenza alla rinegoziazione che verificano e mediano. Alternative? Forse.

Un correttivo all'abuso del debitore potrebbe essere questo: chi invochi senza fondamento (mancanza di liquidità per difficoltà nei flussi di cassa) la soluzione negoziata, e su tale base non adempia, non solo resterà soggetto (se del caso e secondo i principi comuni) a risoluzioni, recessi, penali, risarcimenti; ma in ogni caso dovrà corrispondere dall'ordinaria scadenza e per tutto il tempo del ritardo i cospicui maggiori interessi previsti dalla normativa sui ritardi nelle transazioni commerciali. Del resto qui si tratta appunto di ritardi nelle transazioni commerciali.

Un correttivo alla egoistica renitenza del creditore potrebbe essere questo: la domanda di rinegoziazione del debitore sospende ex lege le azioni a tutela del credito fino a una certa data (potrebbero essere gli stessi trenta giorni) posteriore alla cessazione delle misure di contenimento, come previsto dalla direttiva UE n. 1023/2019 [26]. Mi pare poi che l'art. 91 del d.l. n. 18/2020 già contenga - ma ora per i soli inadempimenti di prestazioni rese direttamente impossibili dalle misure di contenimento - un principio di giustificazione del ritardo che sarebbe opportuno estendere nei detti limiti ai corrispettivi, e di cui sarebbe anche per questi corollario che il mancato puntuale adempimento per reale interruzione dei flussi di casa, alla luce delle circostanze eccezionali e nei limiti della loro durata, non abbia la ‘gravità' necessaria agli effetti della risoluzione.

Cosicché o il creditore consente alla sospensione, o postergazione, o riduzione temporanea, o comunque deve nell'immediato tollerarla; ma con la possibilità di conseguire forti interessi e magari di sciogliere il contratto se è stata pretesa senza fondamento. Il tutto senza necessariamente passare in questo momento per i tribunali, o gli organismi specializzati (come quelli di mediazione), intasandoli mentre anch'essi operano a ritmo ridotto.

 

8.   Microeconomia e macroeconomia dei flussi di cassa degli imprenditori in crisi.

Non so dire se questo modello sia un'epifania della buona fede e della solidarietà. So dire che è un'epifania del diritto come non solo ars boni et aequi ma anche come sistema di regolazione sociale attraverso incentivi e disincentivi.

Devo poi aggiungere una osservazione. Ammesso che la mia modesta proposta sia buona sul piano microeconomico io stesso riconosco che lo è meno sul piano macroeconomico. È vero che potrebbe impedire gli inadempimenti abusivi. E quelli non abusivi sono un'evenienza ineluttabile per la dinamica economica. Ma è ancor più vero – dal punto di vista macroeconomico – che la nostra economia ha soprattutto bisogno di tornare a correre. Certo, se lasciamo morire le piccole imprese esse sicuramente non torneranno a correre. Ma resta il problema di incentivare la ripresa.

Però non è nelle competenze di un civilista fare proposte su questo. Io posso solo rallegrarmi dei provvedimenti già adottati o di cui si discute, e sperare che funzionino. C'è tuttavia una osservazione che vorrei fare su quello che, come dicevo in apertura, mi pare il maggior problema, quello cioè macroeconomico. La faccio, nel modo più sommesso, perché è strettamente connessa al dato cui ho agganciato tutto il discorso: l'interruzione dei flussi di cassa. E quindi lo completa.

L'osservazione è questa: le misure adottate o di cui si discute sono o agevolazioni al credito o provvidenze. Saranno pure utili ma le prime aumentano l'indebitamento, le seconde gonfiano l'assistenzialismo. È un'ovvietà che l'optimum per riavviare l'economia sarebbe alimentare a livello macroeconomico i flussi di cassa senza contemporaneo indebitamento e senza surrettizie provvidenze. Non sono un economista, l'ho detto. Ma so che la mano pubblica (Stato, enti locali, enti istituzionali) attualmente ha un debito di circa 53 miliardi di euro [27] principalmente verso le imprese. Saldarlo a breve usufruendo delle risorse straordinarie che forse saranno rese disponibili equivarrebbe ad una manovra economica monstre, che rinsanguando le imprese avvierebbe a catena, questa volta in positivo, la dinamica economica, senza indebitamenti, senza provvidenze, e con sollievo del debito pubblico. Non ho speciali competenze in materia e non ho voce in capitolo. Ma mi spiace non sentire, nel fervido dibattito avviatosi, parlare di questa possibilità.

Concludo osservando che mi è parso strano nel tempo della crisi che il legislatore non vedendovi utilità semplicemente rinvii e la dottrina trascuri del tutto il diritto della crisi. Ma si sa, spesso le cose che non vediamo sono quelle che abbiamo sotto gli occhi.

Riferimenti bibliografici:

[1] V. in questa rivista, nel volume Emergenza Covid-19. Speciale. Uniti per l'Italia, Milano, 2020: F. MACARIO, Per un diritto dei contratti più solidale in epoca di ‘coronavirus', p. 207 ss.; S. VERZONI, Gli effetti sui contratti in corso dell'emergenza sanitaria legata al Covid-19, p. 213 ss.; A. DE MAURO, Pandemia e contratto: spunti di riflessione in tema di impossibilità sopravvenuta della prestazione, p. 227 ss.; V. CUFFARO, Le locazioni commerciali e gli effetti giuridici dell'epidemia, p. 233 ss.; F. GIGLIOTTI, Considerazioni in tema di impossibilità sopravvenuta, per emergenza epidemiologica, di prestazioni dello spettacolo e assimilate, p. 237 ss.; P. Chiarella, Solidarietà necessaria: erogazioni liberali nell'emergenza epidemiologica da Covid-19, p. 253 ss.; M. RUBINO DE RITIS, Gli effetti della pandemia sull'economia digitale, p. 259 ss.

V. poi sempre in questa rivista: R. SANTAGATA, Gli effetti del Coronavirus sui contratti turistici. Primi appunti, (17/04/2020); C. SCOGNAMIGLIO, L'emergenza Covid 19: quale ruolo per il civilista?, (15/04/2020); L. SALVATO, Strumenti di allerta e di composizione assistita della crisi di impresa (anche al tempo del Covid-19),(16/04/2020); D. MAFFEIS, Problemi dei contratti nell'emergenza epidemiologica da Covid-19, (10/04/2020); A.M. BENEDETTI, Il «rapporto» obbligatorio al tempo dell'isolamento: una causa (transitoria) di giustificazione?, (03/04/2020); M. MAGGIOLO, Una autentica solidarietà sociale come eredità del coronavirus: per una diversa destinazione dei risarcimenti del danno alla salute, in Giustiziacivile.com (02/04/2020); F. FIMMANÒ, Crisi di Impresa e resilienza nell'era del Coronavirus: il tempo dei concordati fallimentari del giorno dopo a garanzia pubblica, (26/03/2020); A. PANZAROLA-M. FARINA, L'emergenza coronavirus ed il processo civile. Osservazioni a prima lettura, (18/03/2020) R. DI RAIMO, Le discontinuità che seguono i grandi traumi: pensando al credito (e al debito), mentre la notte è ancora fonda, (09/04/2020); Dipartimento Diritto privato e Giudiziale. Studio Bonelli Erede, Incidenza del coronavirus su alcune tipologie contrattuali.

V. inoltre G. VETTORI, Persona e mercato al tempo della pandemia, in Persona e mercato, 2020.p. 3 ss.; A.M. BENEDETTI-R. NATOLI, Coronavirus, emergenza sanitaria e diritto dei contratti: spunti per un dibattito, in Dirittobancario.com, 2020.

[2] Che la rinegoziazione sia il modo migliore di fronteggiare le sopravvenienze impreviste è opinione diffusa in dottrina: cfr. R. Sacco, in R. SACCO-G, De NOVA, Il contratto, Torino, 2016, p. 1708 ss.; F. GAMBINO, Problemi del rinegoziare, Milano, 2004; G. SICCHIERO, La rinegoziazione, in Contratto e impresa, 2002, p. 774 ss.; F. MACARIO, Rischio contrattuale e rapporti di durata nel nuovo diritto dei contratti: dalla presupposizione all'obbligo di rinegoziazione, in Riv. dir. civ., 2002, I, p. 63 ss; Id., Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli, 1996.

È però un fatto che la figura soffre del rischio di atteggiamenti opportunistici, e che il solo richiamo al canone di buona fede per reprimerli è un po' poco e molto vago (A. GENTILI, La replica della stipula: riproduzione, rinnovazione, rinegoziazione del contratto, in Contratto e impresa, 2003, p. 701 ss.).

[3] Ovviamente si segnala in particolare la disposizione dell'art. 91 del dl 17 marzo 2020, n. 18, con la quale si è statuito che il rispetto delle misure di contenimento rilevi ai fini dell'esclusione per gli effetti degli artt. 1218 e 1223 c.c. della responsabilità del debitore.

[4] Su ciò V. CUFFARO, Le locazioni commerciali e gli effetti giuridici dell'epidemia, cit., p. 233 ss.; Dipartimento Diritto privato e Giudiziale. Studio Bonelli Erede, Incidenza del coronavirus su alcune tipologie contrattuali, cit, nel § 3.

[5] Qui va ricordato il giustissimo blocco temporaneo dei licenziamenti che non siano per giusta causa ora disposto dal d.l. 17 marzo 2020, n. 18 (cd. Cura Italia), art. 46: (Sospensione delle procedure di impugnazione dei licenziamenti) «1. A decorrere dalla entrata in vigore del presente decreto, l'avvio delle procedure di cui agli articoli 4, 5 e 24 della legge n. 223/1991 è precluso per 60 giorni e nel medesimo periodo sono sospese le procedure pendenti successivamente alla data del 23 febbraio 2020. Sino alla scadenza del suddetto termine, il datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, non può recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell'art. 3 della legge n. 604/1966».

[6] Discorso a parte va fatto per i debiti verso i finanziatori: qui, come preciso oltre (nt. 19.) la sospensione è già operante grazie a disposizioni dell'emergenza.

[7] Contra, almeno per le locazioni, Dipartimento Diritto privato e Giudiziale. Studio Bonelli Erede, Incidenza del coronavirus su alcune tipologie contrattuali, cit, nel § 3, ove sono indicati tanti rimedi (impossibilità parziale, irrealizzabilità della causa, esecuzione non in buona fede nel caso di pretesa di adempimento, riduzione del corrispettivo in via di applicazione analogica dell'art. 1584, 1° comma, c.c.) che mi riesce difficile comprendere quale sia la costruzione della fattispecie effettivamente scelta. Non trovo poi nel saggio alcuna considerazione degli interessi della controparte, se non il richiamo alla solidarietà.

[8] Non è perciò a mio avviso rilevante ai fini del debito del corrispettivo per locazioni, forniture, servizi, il disposto dell'art. 91 del d.l. 17 marzo 2020, n. 18, laddove dispone che il rispetto delle misure di contenimento rileva ai fini dell'esclusione della responsabilità del debitore. Il rispetto delle misure di contenimento non impedisce affatto di pagare la locazione, le forniture, i servizi.

Né opera l'art. 3 della l. 9 ottobre 2002, n. 231, sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, perché esso giustifica il ritardo nel pagamento giustificato da impossibilità, e qui – lo ripeto – il rispetto delle misure di contenimento non impedisce affatto di pagare la locazione, le forniture, i servizi.

[9] Osservo incidentalmente che lo stesso legislatore dell'emergenza, concedendo crediti d'imposta per esborsi degli imprenditori la cui attività è stata inibita a tutela della salute pubblica, ha mostrato di dare per scontato che quegli esborsi non vengano giuridicamente meno in dipendenza dell'emergenza.

[10] Trovo del tutto incongruo richiamare, per estenderla alla sospensione o riduzione del canone, o al pagamento di forniture e servizi, quella giurisprudenza (Cass. 29 marzo 2019, n. 8766, in Corr. Giur., 2019, 5, p. 717 con nota di V. Carbone, a proposito della rappresentazione di un'opera lirica all'aperto che, pur dopo l'esecuzione del solo primo atto, era stata interrotta a causa di gravi avverse condizioni atmosferiche. Nella sentenza si afferma che «l'impossibilità sopravvenuta della prestazione si ha non solo nel caso in cui sia divenuta impossibile l'esecuzione della prestazione del debitore, ma anche nel caso in cui sia divenuta impossibile l'utilizzazione della prestazione della controparte, quando tale impossibilità sia comunque non imputabile al creditore e il suo interesse a riceverla sia venuto meno, verificandosi in tal caso la sopravvenuta inutilizzabilità della finalità essenziale in cui consiste la causa concreta del contratto e la conseguente estinzione dell'obbligazione». Negli stessi termini Cass. 10 luglio 2018, n. 18047 in Guida al diritto, 2018, 32, 35, e in Diritto & Giustizia, 2018, 11 luglio, nonché Cass., sez. III, 20 dicembre 2007, n. 26958, in Obbligazioni e contratti, 2009, 1, p. 29, con nota di F. PAROLA, e in Nuova giurisprudenza civile commentata, 2008, 5, I, p. 542, con nota di S. NARDI, e in Corr. giur., 2008, 7, p. 921, con nota di F. ROLFI, e in I Contratti, 2008, 5, p. 491, con nota di C. ROMEO, in tema di pacchetti turistici) che dalla sopravvenuta ed incolpevole impossibilità di piena utilizzazione della prestazione deriva la facoltà di risoluzione del contratto. Chi volesse derivarne un principio per il caso in esame non dovrebbe trascurare: a) che con la risoluzione la parte torna sul mercato e non soffre pregiudizio mentre con la sospensione o riduzione patisce danno; b) che in quei casi l'impossibilità colpisce bilateralmente (una parte non può eseguire e l'altra fruire appieno), mentre qui una parte può eseguire ma l'altra non può fruire appieno; c) che in quei casi non vi era alcuna fruizione mentre in quelli in esame l'imprenditore continua ad occupare i locali, ha ricevuto o riceve le forniture o i servizi; d) che assistere ad uno spettacolo o fare un viaggio non sono attività cui sia intrinseco un rischio economico, mentre esercitare l'impresa lo è.

L'avvertenza a non ricorrere alla causa in concreto per trasformare un elemento genetico dell'atto in un elemento funzionale, nel quadro della sopravvenuta impossibilità, è in E. FERRANTE, Causa concreta ed impossibilità della prestazione nei contratti di scambio, in Contratto e impresa, 2009, p. 151 ss., p. 167.

[11] Con riferimento al caso delle locazioni qualcuno ha sostenuto che l'utilità dell'immobile a fini produttivi sia una presupposizione della locazione e che se l'attività diviene impossibile l'immobile perda la qualità promessa, sicché la conseguenza ricada nella sfera di rischio del locatore. L'argomento non mi sembra corretto. In realtà per il factum principis che vieta le attività socialmente pericolose non è l'immobile che diventa inidoneo ma l'attività che vi si svolge, e questo ricade nella sfera di rischio dell'imprenditore-conduttore.

[12] L'art. 1575, n.2, c.c. obbliga il locatore a mantenere la cosa in stato di servire all'uso, ma non lo rende responsabile della impossibilità dell'uso per cause esterne incidenti sull'attività del conduttore. Altrimenti il conduttore che (per esempio) non potesse proseguire l'attività per provvedimento dell'autorità (si può fare il caso di uno stabilimento balneare su cui si abbatta un divieto di balneazione per ragioni igienico-sanitarie) potrebbe conservare l'immobile ma non pagare il canone.

[13] La giurisprudenza è costante nel ritenere non configurabile l'impossibilità sopravvenuta della prestazione che abbia ad oggetto una somma di danaro, in virtù del principio secondo cui genus nunquam perit: Cass., 30 aprile 2012, n. 6594, in Giust. civ., 2013, 9, I, p. 1873: «L'impossibilità sopravvenuta della prestazione produce gli effetti estintivi o dilatori anzi detti se deriva da una causa avente natura esterna e carattere imprevedibile e imprevenibile secondo la diligenza media, fermo restando che l'estinzione dell'obbligazione per impossibilità definitiva, alla stregua del principio secondo cui genus nunquam perit, può evidentemente verificarsi solo quando la prestazione abbia per oggetto un fatto o una cosa determinata o di genere limitato, e non già una somma di denaro»; Cass. 16 marzo 1987, n. 2691, in Foro it., 1989, I, c. 1209 ss., con nota di G. VALCAVI, e in Banca, borsa tit. cred., 1988, II, p. 583 ss., con nota di B. INZITARI;Cass. 17 giugno 1980, n. 3844, in Arch. civ., 1980, p. 905

Anche la dottrina, tradizionalmente, esclude che la regola dell'impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile possa trovare applicazione con riferimento al debitore pecuniario: cfr. G. Scaduto, I debiti pecuniari e il deprezzamento monetario, Milano, 1924, p. 24; M. Giorgianni, L'inadempimento. Corso di diritto civile3, Milano, 1975, p. 299 ss.; C.M. BIANCA, Dell'inadempimento delle obbligazioni, in Commentario del codice civile a cura di A. Scialoja e G. Branca, Bologna - Roma, 1979, p. 80 ss.; N. Distaso, voce Somma di denaro (Debito di), in Nov. dig. it, XVII, Torino, 1970, p. 869; B. Inzitari, Delle obbligazioni pecuniarie, in Commentario del codice civile A. Scialoja-G. Branca, a cura di F. Galgano, Bologna - Roma, 2011, p. 13.

Nella letteratura tedesca, in termini non dissimili K. LARENZ, Lehrbuch des Schuldrechts. I Band - Allgemeiner Teil14, I, München, 1987, p. 167.

In giurisprudenza cfr. Cass., 14 aprile 1975, n. 1409, in Giur. it., 1975, I, 1, p. 1820 ss.; in precedenza, Cass., 15 luglio 1968, n. 2555, in Mass. Giust. civ., 1968, p. 1318; Cass., 25 maggio 1965, n. 1020, in Giust. civ., 1965, I, p. 1070 ss., secondo la quale «l'impossibilità della prestazione di cui agli artt. 1218,1256,1307 c.c., derivante da causa giuridica o naturale, comprensiva anche del fatto del terzo, deve avere l'imprescindibile carattere della obiettività, ossia riguardare la prestazione e non essere determinata da cause inerenti alla persona del debitore, od alla sua economia (impotenza economica)».

[14] Sull'irrilevanza della condizione soggettiva di impotenza finanziaria del debitore e della causa, pur anche a questi non imputabile, che l'abbia determinata (su cui v. Relazione del Ministro Guardasigilli al codice civile, n. 571: «non può, agli effetti liberatorii, essere presa in considerazione l'impossibilità di adempiere l'obbligazione, originata da cause inerenti alla persona del debitore o alla sua economia, che non siano obiettivamente collegate alla prestazione dovuta») cfr. P. Rescigno, voce Obbligazioni (nozioni), in Enc. dir., XXIX, Milano, 1979, p. 175. La dottrina è concorde nel ritenere che l'eventuale crisi di liquidità del debitore sia un rischio posto a carico dello stesso, anche laddove derivi dall'altrui insolvenza o da una crisi di mercato, in quanto rientranti nella sua sfera organizzativa individuale che egli, in piena libertà e secondo diligenza, è tenuto a gestire al meglio al fine di onorare i debiti assunti (in arg. G. SMORTO, Dell'impossibilità sopravvenuta per causa non imputabile al debitore. Art. 1256, in Delle obbligazioni. Artt. 1218-1276, a cura di V. CUFFARO, in Commentario del codice civile, diretto da E. Gabrielli, Torino, 2013, p. 672 ss., spec. pp. 677-678; C.M. BIANCA, Dell'inadempimento delle obbligazioni, in Commentario Scialoja-Branca, Roma-Bologna, 1979, p. 103; P. TRIMARCHI, Incentivo e rischio nella responsabilità contrattuale, in Riv. dir. civ., 2008, I, p. 351-352; L. MOSCO, voce Impossibilità sopravvenuta, in Enc. dir., XX, Milano, 1970, pp. 426-427; F. GALGANO, Diritto civile e commerciale, II, Padova, 1999, p. 57). Per A. DI MAJO, voce Obbligazioni pecuniarie, in Enc. dir., XXIX, Milano, 1979, p. 222 ss. «il problema reale (posto dall'inadempimento di debito di danaro) non è quello della possibilità e/o impossibilità (imputabile e/o inimputabile, che sia, a sua volta, quest'ultima) della prestazione dovuta, secondo lo schema comune delle obbligazioni di cose, ma quello, semmai, della “insufficienza” del patrimonio del debitore e cioè dei mezzi di pagamento a sua disposizione per far fronte ai debiti assunti. Il problema dunque è più a monte e riguarda la fonte dei “mezzi di pagamento”. L'affermazione dunque della incondizionata responsabilità del debitore di danaro per il mancato (o ritardato) pagamento del debito si converte facilmente in quella della irrilevanza, dal punto di vista giuridico, della “impotenza finanziaria” del debitore. Un tale principio di «irrilevanza» è indirettamente presupposto (e non sancito) nella regola, pertinente alla normativa sulla responsabilità, alla stregua della quale la responsabilità patrimoniale del debitore è “illimitata”, sia dal punto di vista dell'oggetto come della sua “permanenza” nel tempo. Tanto val dire che la responsabilità del debitore acquista carattere di «permanenza» sino al momento in cui non saranno soddisfatte le ragioni creditorie». Sul tema, di recente, anche T. DALLA MASSARA, Obbligazioni pecuniarie. Struttura e disciplina dei debiti di valuta, Padova, 2011, p. 133 ss., secondo il quale «la non ammissibilità (o meglio, l'irrilevanza) della prova dell'impotenza finanziaria in funzione di liberazione del debito pecuniario trova corretta collocazione nella cornice delle regole che tengono in conto la peculiare natura del bene-denaro: e tra queste v'è senz'altro[…] in primis l'art. 2740 c.c.». L'Autore, inoltre, chiarisce che negli effetti di tale ultima norma «risultano “assorbiti” anche quelli derivanti della regola genus numquam perit, cui pure la giurisprudenza fa sovente ricorso».

In giurisprudenza Cass. 15 novembre 2013, n. 25777, in Diritto & Giustizia, 2014, 5 febbraio (o in De Jure): «Giova rammentare che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, l'impossibilità che, ai sensi dell'art. 1256 c.c., estingue l'obbligazione, è da intendere in senso assoluto ed obiettivo e non si identifica, pertanto, con una semplice difficoltà di adempiere (cfr. Cass. 7-2-1979 n. 845), e cioè con una qualsiasi causa che renda più oneroso l'adempimento (Cass. 14-4-1975 n. 1409), ma consiste nella sopravvenienza di una causa, non imputabile al debitore, che impedisce definitivamente l'adempimento; il che, alla stregua del principio secondo cui genus nunquam perit, può verificarsi solo quando la prestazione abbia per oggetto un fatto o una cosa determinata o di genere limitato, e non già una somma di denaro»; Cass., 11 giugno 2014, n. 13224, in De Jure: «[…] la giurisprudenza di questa Corte, che qui si condivide, è costante nel ritenere che l'impossibilità sopravvenuta che libera dall'obbligazione (se definitiva) o che esonera da responsabilità per il ritardo (se temporanea), deve essere obiettiva, assoluta e riferibile al contratto e alla prestazione ivi contemplata e deve consistere non in una mera difficoltà, ma in un impedimento, del pari obiettivo e assoluto, tale da non poter essere rimosso, (cfr. ex pluribus, Cass. nn. 15073/09, 9645/04, 8294/90, 5653/90 e 252/53); l'estinzione dell'obbligazione per impossibilità definitiva, alla stregua del principio secondo cui genus nunquam perit, può verificarsi solo quando la prestazione abbia per oggetto un fatto o una cosa determinata o di genere limitato e non già una somma di denaro».

 

[15] Cfr. C.M. BIANCA,Il contratto, Milano, 2019, p. 422, e Id., La responsabilità, Milano, 2012, p. 420, secondo cui la risoluzione per eccessiva onerosità è il rimedio previsto dalla legge nelle ipotesi di alterazione dei «presupposti oggettivi generali» del contratto, cioè delle «condizioni di mercato e della vita sociale che incidono sull'economia del contratto». Si veda inoltre P. TRIMARCHI, Il contratto: inadempimento e rimedi, Milano, 2010, p. 237, che osserva che la causa dell'eccessiva onerosità sopravvenuta deve rivestire il carattere della generalità, in base al quale non è sufficiente una mera difficoltà manifestatasi esclusivamente nella sfera del singolo debitore, ma una causa operante presso qualsiasi debitore che determini una modificazione del valore di mercato della prestazione (si pensi, ad esempio, ai fenomeni di inflazione, ai provvedimenti di svalutazione o rivalutazione della moneta, allo scoppio di una guerra). In giurisprudenza, si veda Cass., 25 maggio 2007, n. 12235, in Nuova giur. civ., 2007, I, p. 1177 ss., con nota di AZZARRI; in Rass. dir. civ., 2008, p. 1134 ss., con nota di PENNAZIO; e in Giur. it., 2008, p. 326 ss.

[16] Il quale, comunque, a fronte dell'eventuale inadempimento in serie dei conduttori (si pensi ad un centro commerciale che loca gli spazi a piccole imprese di rivendita al dettaglio finite tutte in difficoltà) finirebbe per cadere in una situazione finanziaria insostenibile.

[17] Si ricordi che se lo colleghiamo all'utile fruizione deve per coerenza operare nei confronti di tutti gli imprenditori, e non solo di quelli in difficoltà di cassa.

[18] Considerazioni simili in A.M. BENEDETTI, R. NATOLI, Coronavirus, emergenza sanitaria e diritto dei contratti: spunti per un dibattito, cit., § 2.

[19] La legislazione dell'emergenza ha già adottato numerose misure di accesso facilitato al credito, sia a sostegno della liquidità delle imprese, sia per incidere sui rapporti di finanziamento in essere, sia per agevolare nuovi finanziamenti. Cfr. il d.l. 2 marzo 2020, n. 9, art. 6 (Misure in favore dei beneficiari di mutui agevolati)che in sostanza dispone la sospensione del pagamento delle rate fino al 31 dicembre 2020; il d.l. 17 marzo 2020, n. 18 (cd. Cura Italia), art. 56(Misure di sostegno finanziario alle micro, piccole e medie imprese colpite dall'epidemia di COVID-19), che dispone per le PMI la moratoria dei prestiti e l'erogazione di garanzie, nonché l'art. 57 (Supporto alla liquidità delle imprese colpite dall'emergenza epidemiologica mediante meccanismi di garanzia); e poi il d.l. 8 aprile 2020, n. 23 (cd. DL Liquidità), art. 13 (Fondo centrale di garanzia PMI) altrui  chiedere solidarietà per il profitto a chi non ne partecipa?) tà va chiesta a chi può darla.ere il problema.  di cassa. recante garanzie per i prestiti, e art. 1 (Misure temporanee per il sostegno alla liquidità delle imprese), (cd. garanzie SACE, fino al 31 dic 2020). Infine è da aggiungere la sospensione dei termini di scadenza dei titoli di credito del d.l. 8 aprile 2020, n. 23 (cd. DL Liquidità), art. 11. (Sospensione dei termini di scadenza dei titoli di credito). Il problema qui è che le procedure standardizzate seguite dalle aziende di credito non sono predisposte ad affrontare le erogazioni di credito dell'emergenza.

[20] L'entrata in vigore del Codice è stata postergata al giugno[?] 2021 dall'art. 5 del d.l. 8 aprile 2020, n. 23. La Relazione Illustrativa motiva il rinvio richiamandosi ai riflessi economici dell'epidemia, all'opportunità di fronteggiarli con uno strumento già noto come la legislazione fallimentare, di evitare nel presente contesto l'applicazione del sistema dell'allerta, di rivedere il Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza nell'ottica del recepimento della direttiva UE n. 1023/2019, e infine alla preoccupazione che “in un ambito economico in cui potrebbe maturare una crisi degli investimenti e, in generale, delle risorse necessarie per procedere a ristrutturazioni delle imprese, il Codice finirebbe per mancare incolpevolmente il proprio traguardo”.

[21] D.l. 8 aprile 2020, n. 23 (cd. DL Liquidità), art. 5 – (Differimento dell'entrata in vigore del Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza di cui al decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14): «1. All'articolo 389 del decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14, il comma 1 è sostituito dal seguente: «1. Il presente decreto entra in vigore il 1 settembre 2021, salvo quanto previsto al comma 2.».

Favorevoli al rinvio, invece, F. SANTANGELI, A. FABBI, Il (giusto) differimento, in ragione dell'emergenza, dell'entrata in vigore del Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza; ma è indispensabile che alcune norme entrino in vigore immediatamente, in Il caso.it, 2020

[22] Che, come ora vedremo, sono qui quelle della Direttiva UE n. 1023/2019, quelle del Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, e quelle della legge sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali.

[23] Manca ancora un approfondimento della figura. Per una prima esegesi v. S. SANZO, I soggetti, in Il nuovo Codice della crisi di impresa e dell'insolvenza, a cura di Id. e D. BURRONI, Bologna, 2019, pp. 21 ss.; F. LAMANNA, Il nuovo codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, Milano, 2019, pp. 56 ss.; F. BONACCORSI, L.V. DE SANTIS, L'ambito soggettivo di applicazione delle “nuove” procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento, in La riforma del sovraindebitamento nel codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, a cura di E. PELLECCHIA e L. MODICA, Pisa, 2020, pp. 51 ss.

[24] Anche nel sistema del Codice della crisi d'impresa il lavoro dipendente è specificamente protetto dagli effetti delle tutele accordate all'imprenditore in crisi.

[25] Penso che la proposta graviterà per lo più su questa alternativa: una sospensione e postergazione delle obbligazioni in scadenza, con rientro in unica soluzione o rateale, con o senza interessi, oppure un pronto pagamento ma in misura ridotta. Ma ovviamente sarà l'inventiva delle parti a scegliere i contenuti, in rapporto al caso. Sotto questo aspetto quanto vado supponendo approda ad una rinegoziazione.

[26] Cfr. l'art. 5 della Direttiva UE n. 1023/2019.

Mi pare ovvio, poi, che il minimo che si possa esigere dal creditore è che si accosti in buona fede alla rinegoziazione ed alla proposta del debitore; e farlo contemporaneamente agendo per la repressione dell'inadempimento è sicuramente contrario alla buona fede.

[27] Banca d'Italia, Relazione annuale, 31 maggio 2019, disponibile in bancaditalia.it, p. 145: «I debiti commerciali delle Amministrazioni pubbliche – stimati dalla Banca d'Italia sulla base delle proprie indagini campionarie sulle imprese e delle segnalazioni di vigilanza – sarebbero diminuiti dal 3,2 per cento del PIL del 2017 al 3,0 nel 2018 (figura, pannello a), attestandosi a circa 53 miliardi. Secondo le regole statistiche europee, una parte (circa 10 miliardi alla fine del 2018, pari allo 0,6 per cento del prodotto) è già inclusa nel debito pubblico. Benché dimezzatasi rispetto al picco del 2012, l'incidenza delle passività commerciali rimane, secondo le stime dell'Eurostat, la più elevata in Europa». P. 146: «Si può valutare che anche nel 2018 circa la metà del totale delle passività commerciali sia connessa con il ritardo nei pagamenti delle Amministrazioni pubbliche rispetto alle scadenze contrattualmente previste. Lo scorso anno i tempi medi effettivi di pagamento avrebbero continuato a ridursi, attestandosi a circa 85 giorni. In base ai risultati dello European Payment Report 2019 di Intrum i tempi di pagamento in Italia sono superiori di quasi un mese rispetto alla media dei paesi considerati».

 

 

 

  

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