Sommario:
- 1. La procedura di negoziazione assistita da un avvocato: osservazioni preliminari.
- 2. La negoziazione assistita in materia di crisi coniugali.
- 3. La convenzione di negoziazione per la composizione delle crisi coniugali.
- 4. (Segue): effetti della separazione.
- 5. (Segue): revoca del consenso.
- 6. (Segue): patti accessori.
- 7. Accordi compositivi della crisi, conclusi dinanzi all’Ufficiale dello Stato Civile.
1. La procedura di negoziazione assistita da un avvocato: osservazioni preliminari.
La decretazione d’urgenza n. 132 del 12 settembre 2014 si propone di innovare efficacemente la Giustizia Civile per porre rimedio al problema dell’arretrato che, ad ottobre del 2013, costava allo Stato circa 387 milioni di euro [1]. Tra le misure di nuovo conio, spicca la «negoziazione assistita», un procedimento di risoluzione alternativa della lite, gestito da Avvocati e fisiologicamente deputato a confezionare un accordo amichevole compositivo della controversia, la cd. convenzione di negoziazione (acr. CdN). Il d.l. n. 132 del 2014 mette mano a disposizioni normative che riguardano sia la convenzione che la procedura di negoziazione (istituti da tenere distinti e da non confondere). L’art. 2 del Decreto esordisce con una norma descrittiva che riguarda l’esito della procedura di negoziazione (l’accordo): la convenzione di negoziazione assistita da un avvocato è un accordo mediante il quale le parti convengono di cooperare in buona fede e con lealtà per risolvere in via amichevole la controversia tramite l'assistenza di avvocati.
Due osservazioni preliminari sono imposte.
La prima riguarda la coerenza metodologica. Il Decreto si propone di realizzare un maggiore tasso di “degiurisdizionalizzazione”, affidando agli Avvocati il compito di perfezionare accordi di conciliazione. Il Legislatore, così facendo, introduce un nuovo istituto – la procedura di negoziazione – mentre l’omologo da poco introdotto è ancora in fase di “collaudo” e “sperimentazione”: la mediazione civile. È noto, infatti, come la mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili sia stata introdotta dal d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, con un testo normativo riproposto in riedizione, dopo la falcidia della Consulta [2], dal decreto legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito in l. 9 agosto 2013, n. 98. Un istituto, dunque, appena approdato nel sistema Giustizia Civile: con il decreto n. 132 del 2014, il Legislatore sembra quasi “disinvestire” sulla mediazione, dedicando la propria attenzione a un Alternative Dispute Resolution (ADR) del tutto diversa ma che va a sovrapporsi a quella già esistente (anche perché vengono introdotte nuove ipotesi di giurisdizione condizionata: v. art. 3 del decreto). Non può non sottolinearsi una certa mancanza di coerenza sistematica nell’azione legislativa che, in questo modo, inizia a erigere nuove costruzioni sul terreno del processo, mentre ancora altre non sono completate. Questo clima generale di “cedevolezza” delle novità normative certamente non è d’aiuto nell’opera di creazione di una Giustizia Civile più efficiente.
Un secondo rilievo è ancor più importante.
È noto che la maggior parte dei dubbi che aveva condotto il d.lgs. n. 28 del 2010 dinanzi alla Corte Costituzionale [3], riguardava i parametri di selezione degli organismi di mediazione, ritenuti scevri da idonei riferimenti a canoni tipologici tecnici o professionali di carattere qualificatorio ovvero strutturale; più in sintesi, si eccepiva che il Legislatore avesse consegnato l’attività di mediazione a soggetti per i quali non era sufficientemente garantita la professionalità e competenza per gestire il procedimento di mediazione [4]. In altri termini: i dubbi si appuntavano sul «mediatore» più che sulla «mediazione». Con il procedimento di negoziazione, il Legislatore ripropone esattamente quello stato dei fatti: ancora una volta, viene introdotta una procedura pre-trial affidata a soggetti non selezionati attraverso rigorosi criteri specifici, trascurando così l’opinione pressoché unanime degli studiosi della materia dei conflitti, i quali segnalano l’assoluta importanza della formazione professionale e della specializzazione dei mediatori [5]. I “negoziatori”, infatti, sono tout court gli avvocati iscritti all’albo [6]. La decretazione non mette mano a nessun’altra specifica competenza e nemmeno tipizza alcun ulteriore requisito (es. anzianità di iscrizione all’Albo; conseguimento di specifici titoli in materia di mediazione dei conflitti; etc.). Non si tratta, ovviamente, di manifestare sfiducia verso le capacità dei difensori legali ma di richiedere, sulla scorta dell’opinione degli esperti, che determinate attività vengano affidate a professionisti specializzati, in linea con il trend normativo che riguarda finanche la magistratura. Questa esigenza è ancor più avvertita nel settore del diritto di famiglia, dove l’operatore deve essere in grado di gestire l’autonomia privata dei coniugi, nel rispetto dei limiti posti dalle norme imperative vigenti.
2. La negoziazione assistita in materia di crisi coniugali.
Il procedimento di negoziazione assistita può essere collocato nell’ambito delle ADR [7]: si tratta, infatti, di una procedura alternativa alla ordinaria risoluzione delle controversie nel processo. La Relazione illustrativa precisa che con la negoziazione assistita «si vuole realizzare una procedura cogestita dagli avvocati delle parti e volta al raggiungimento di un accordo conciliativo che, da un lato, eviti il giudizio e che, dall’altro, consenta la rapida formazione di un titolo esecutivo stragiudiziale». Le norme introdotte dal decreto non offrono molti addentellati per la ricostruzione dei profili procedimentali prestando maggiore attenzione ai rilievi sostanziali. Connotazione procedimentale fondamentale è la presenza dei difensori. Ogni parte dovrà essere “assistita” da un Avvocato che, in linea con il nuovo statuto professionale ha «la funzione di garantire al contraente della CdN l'effettività della tutela dei diritti» [8]. Ogni litigante, dunque, dovrà essere assistito da un difensore e ciò si ricava dagli elementi formali previsti dalla normativa: ai sensi dell’art. 5, l’accordo deve essere sottoscritto dalle parti «e dagli avvocati che le assistono». Il concetto di “parte”, tuttavia, va inteso nel senso di “autonomo centro di interessi” e, pertanto, non è necessario un Avvocato per ogni persona fisica o giuridica ma basta un difensore per ogni posizione processuale. Ne consegue che, nel caso di comunanza di interessi o di procedimenti su domanda congiunta delle parti, sarà sufficiente anche un solo Avvocato: è il caso delle CdN in materia di divorzio cd. congiunto o in materia di separazione consensuale dove, peraltro, come noto, il procedimento non ha carattere contenzioso ma è collocato nell’ambito degli affari di volontaria giurisdizione. La procedura deve essere regolata da termini “certi”: la convenzione di negoziazione deve precisare, infatti, il termine concordato dalle parti per l'espletamento della procedura, in ogni caso non inferiore a un mese; per la relazione illustrativa, si tratta di un “contenuto essenziale” dell’accordo. È prevista la gratuità della prestazione dell’avvocato quando questi assista una parte che si trova nelle condizioni per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato (disposizione in linea con l’art. 17, comma 5-bis, del decreto legislativo n. 28 del 2010).
Gli avvocati hanno precipui compiti in seno al procedimento: 1) certificano l'autografia delle sottoscrizioni apposte alla convenzione sotto la propria responsabilità professionale; certificano la conformità dell'accordo alle norme imperative e all'ordine pubblico; trasmettono, entro il termine di dieci giorni, all'ufficiale dello stato civile del Comune in cui il matrimonio fu iscritto o trascritto, copia, autenticata dallo dell'accordo munito delle certificazioni richieste.
La procedura di negoziazione espone l’avvocato a nuovi possibili rilievi disciplinari: infatti, è dovere deontologico degli avvocati informare il cliente all’atto del conferimento dell'incarico della possibilità di ricorrere alla convenzione di negoziazione assistita; inoltre, costituisce illecito deontologico per l’avvocato impugnare un accordo alla cui redazione ha partecipato. Per “impugnazione” deve intendersi anche l’istanza di revoca della separazione consensuale ex art. 742 c.p.c. ed ogni azione che miri a vanificarne il contenuto (es. azione di simulazione [9]); rientra in questo ambito, ovviamente, anche l’appello avverso la sentenza di divorzio su ricorso congiunto.
La procedura di negoziazione elimina il tentativo di conciliazione. In materia di separazione consensuale, l’art. 711 c.p.c. espressamente prevede che il Presidente, prima di omologare le condizioni separative, deve sentire i coniugi e “deve curare di conciliari” (il tentativo di conciliazione non è previsto per il divorzio congiunto ma nelle prassi giudiziarie è comunque applicato dai giudici). Nel caso di CdN e di accordo dinanzi all’Ufficiale di Stato Civile, questo adempimento non è possibile. Si tratta di una questione senza risvolti applicativi rilevanti ma non può sottacersi come, così facendo, il Legislatore abbia differenziato l’importanza del vincolo matrimoniale, in ragione dell’adesione all’una o l’altra procedura separativa.
Un problema che presenta invece aspetti di rilevante impatto pratico è quello relativo alla partecipazione del Pubblico Ministero. L’innesto della nuova disciplina fa iato con le norme generali poiché, in difetto di una espressa disposizione al riguardo, deve ritenersi che, in caso di accordo a mezzo di negoziazione assistita, la partecipazione del Pubblico Ministero sia esclusa. Allo stato, tenuto conto del testo della disposizione, deve ritenersi che – sulla scorta di una rivalutazione del ruolo dell’interesse pubblico nella disgregazione della famiglia – il Legislatore abbia inteso rimuovere la partecipazione del PM da quelle procedure consensuali in cui non siano presenti figli minori o maggiorenni equiparati.
3. La convenzione di negoziazione per la composizione delle crisi coniugali.
La convenzione di negoziazione assistita da un avvocato è l’esito fisiologico del procedimento di negoziazione ed è espressamente definita dal saggio legislativo come: «un accordo mediante il quale le parti convengono di cooperare in buona fede e con lealtà per risolvere in via amichevole la controversia tramite l’assistenza dei propri avvocati». A livello qualificatorio, l’accordo può essere collocato nel genus dei negozi compositivi della lite e, in particolare, delle transazioni. Ne consegue che, da un punto di vista sistematico, la CdN può essere qualificata in termini di transazione speciale. Dove, però, la CdN abbia ad oggetto la composizione di crisi familiari, non si registrerà una transazione tout court ma un negozio di diritto familiare. Dal punto di vista della forma, la CdN deve essere redatta in forma scritta a pena di nullità (art. 2, comma IV). La convenzione deve precisare: a) il termine concordato dalle parti per l’espletamento della procedura, in ogni caso non inferiore a un mese; b) l’oggetto della controversia, che non deve riguardare diritti indisponibili. Se con l’accordo le parti concludono uno dei contratti o compiono uno degli atti previsti dall’articolo 2643 del codice civile, per procedere alla trascrizione dello stesso la sottoscrizione del processo verbale di accordo deve essere autenticata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato.
Oggetto dell’accordo possono essere: una soluzione consensuale di separazione personale, di divorzio o di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio. La soluzione negoziata non è, però, possibile in presenza di figli minori, di figli maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave ovvero economicamente non autosufficienti. Questi elementi dovranno essere seriamente verificati dai negoziatori, eventualmente con debita certificazione (es. certificato dello stato di famiglia). La CdN formata in assenza dei presupposti di Legge deve ritenersi improduttiva di effetti ed espone i negoziatori a responsabilità. La CdN tiene luogo dei provvedimenti giudiziali che avrebbe pronunciato il tribunale della famiglia: quindi, sostituisce il decreto di omologa nelle separazioni consensuali, la sentenza divorzile nel procedimento di divorzio e il decreto nei procedimenti di revisione (art. 710 c.p.c.; art. 9 l. n. 898 del 1970). Si pongono, però, diversi problemi.
4. (Segue): effetti della separazione.
Un primo nodo interpretativo concerne il dies a quo a partire dal quale i coniugi conseguono lo status di separati o divorziati. Deve ritenersi che nel caso di CdN gli effetti dell’omologa nella separazione e della sentenza nel divorzio, si producano dalla sottoscrizione dell’accordo. L’omologa e la sentenza rappresentano una condizione di efficacia dell’accordo: dove non siano previsti per Legge, deve ritenersi che il patto nasca già in sé produttivo di effetti. Gli effetti non possono farsi decorrere dall’annotazione. Questa seconda lettura garantirebbe una maggiore “certezza” giuridica in ordine alla data del conseguimento del nuovo status, anche a tutela dei terzi. Ma creerebbe uno “iato” nella disciplina di separazione e divorzio e snaturerebbe la funzione dell’annotazione. Deve, comunque, ritenersi che l’avvocato debba agire con estrema prudenza nella apposizione della data alla convenzione: ai sensi dell’art. 6 comma 3, d.l. n. 132 del 2014, l’avvocato della parte è obbligato a trasmettere, entro il termine di dieci giorni, all'ufficiale dello stato civile del Comune in cui il matrimonio fu iscritto o trascritto, copia, autenticata dallo stesso, dell'accordo munito delle certificazioni di cui all'articolo 5. Ai sensi dell’art. 6 comma 4, all'avvocato che viola l'obbligo sopra indicato applicata la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 5.000 ad euro 50.000. Questa sanzione dovrebbe tendenzialmente scoraggiare accordi “di favore”.
5. (Segue): revoca del consenso.
In linea di principio, nel processo separativo, il consenso alla separazione è revocabile sino alla udienza presidenziale. È con la sottoscrizione del verbale di udienza che si innesca irreversibilmente l’efficacia della separazione (salvo riconciliazione, successive modifiche, etc.). Per le CdN deve valere la medesima regola: pertanto, nonostante ampia procedura di negoziazione, il coniuge può revocare la propria volontà al patto sino alla sottoscrizione. Una volta che l’accordo sia stato sottoscritto da entrambi i coniugi, l’Avvocato deve necessariamente trasmettere l’atto per l’annotazione. Nel divorzio congiunto deve optarsi per una medesima soluzione.
6. (Segue): patti accessori.
Come noto, i coniugi possono integrare le clausole consuete di separazione e divorzio (figli, assegni, casa coniugale) con clausole che si prefiggono di trasferire tra i partners o in favore di figli diritti reali immobiliari o di costituire iura in re aliena su immobili: per una certa lettura interpretativa, ricorrendo alla tecnica reale [10]; per altra, ricorrendo a quella obbligatoria [11]. Anche la CdN può essere il terreno contrattuale per realizzare trasferimenti immobiliari. In virtù dell’art. 12 d.l. n. 132 del 2014, i coniugi possono concludere accordi compositivi della crisi coniugale anche dinanzi all’Ufficiale dello Stato Civile del Comune dove l’atto di matrimonio è stato iscritto o trascritto. Ai sensi dell’art. 12, comma 3 (terzo periodo), però, «l’accordo non può contenere patti di trasferimento patrimoniale». Si tratta di una limitazione espressamente prevista solo per gli accordi dinanzi all’Ufficiale dello Stato Civile ma non anche per quelli sottoscritti in regime di negoziazione assistita. Ne consegue che la CdN può anche contenere patti traslativi. Troverà allora applicazione l’art. 5, comma 3, c.c.
7. Accordi compositivi della crisi, conclusi dinanzi all’Ufficiale dello Stato Civile.
Gli accordi compositivi della crisi possono essere conclusi anche dinanzi all’Ufficiale dello Stato Civile del comune di residenza di uno dei coniugi o del comune presso cui è iscritto o trascritto l'atto di matrimonio L'accordo, in questo caso, però, non può contenere patti di trasferimento patrimoniale.
Riferimenti bibliografici:
[1] V. Ministero della Giustizia. Nota 17 settembre 2013 - Legge n. 89 del 2001. Pagamento da parte del Ministero della giustizia degli indennizzi (che supera la precedente nota dell’11 luglio 2013); per il saldo a ottobre del 2013, v. relazione Doc. CCXI, n. 1, Parlamento. Si tratta degli “indennizzi” che lo Stato è tenuto a liquidare all’utente del servizio pubblico di Giustizia coinvolto in un procedimento oltre il termine di ragionevole durata, così come fissato dall’art. 2, comma II-bis, legge 24 marzo 2001 n. 89, aggiunto dall'art. 55, comma 1, lett. a), n. 2), d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. con modif. in l. 7 agosto 2012, n. 134.
[2] Corte cost. 6 dicembre 2012 n. 272 (sent.).
[3] Corte cost. n. 272 del 2012, cit.
[4] Il nuovo “statuto professionale” dei mediatori è di recente introduzione: v. Decreto del Ministero della Giustizia, del 4 agosto 2014, n. 139.
[5] M. MARTELLO, La formazione del mediatore. Comprendere le ragioni dei conflitti per trovare le soluzioni, Milano, 2013; T. FRAGOMENI, Conflitti: istruzioni per l’uso, Milano, 2014.
[6] Anche ai sensi dell’articolo 6 del d.lgs. 2 febbraio 2001, n. 96 (cd. avvocati stabiliti).
[7] I sistemi di alternative dispute resolution (ADR) sono, essenzialmente, procedimenti di risoluzione delle controversie o, come si è autorevolmente scritto, «strumenti alternativi di giustizia» [v., sul punto, R. NANIA-A. MEZZOTERO, in L. VIOLA (a cura di), Trattato sul contratto, 2009]. Una definizione di ADR non è agevole poiché le voci di dottrina, sul punto, non sono univoche: con l’acronimo ADR, tuttavia, si indicano, in genere, solo le procedure di autocomposizione eterodiretta delle controversie, ove si registra l’intervento di un terzo chiamato a coadiuvare i litiganti. In questo caso, invece, di fatto, il “terzo” manca e tuttavia si deve propendere comunque per una ADR in ragione della funzione/scopo dell’istituto: offrire un “exit” alternativo alla decisione del giudice.
[8] Art. 2, comma II, legge 31 dicembre 2012, n. 247 (nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense).
[9] La separazione consensuale, una volta omologata, non è impugnabile per simulazione (Cass. civ., sez. I, 12 settembre 2014, n. 19319): l’approdo delle CdN potrebbe indurre ad una rimeditazione della questione.
[10] Sull’argomento, v. G. OBERTO, Prestazioni «una tantum» e trasferimenti tra coniugi in occasione di separazione e divorzio, Milano, 2000.
[11] Trib. Milano, sez. IX, 21 maggio 2013 (decr.).