CASS. CIV. – sez. III – 29 luglio 2016, n. 15761
L'ente proprietario di una strada aperta al pubblico transito si presume responsabile ex art. 2051 c.c. dei sinistri riconducibili alle situazioni di pericolo immanentemente connesse alla struttura ed alla conformazione stessa della strada (a prescindere dalla sua estensione) e delle sue pertinenze. La condotta del danneggiato elide il nesso eziologico tra cosa e danno soltanto ove possa qualificarsi come abnorme, ossia estranea al novero delle possibilità fattuali congruamente prevedibili in relazione al contesto; in caso contrario, essa rileva ai fini del concorso nella causazione dell'evento, a norma dell'art. 1227 c.c.
In senso conforme
Cass. civ., sez. III, 23 marzo 2016, n. 5695
Cass. civ., sez. III, 11 marzo 2016, n. 4768
Cass. civ., sez. III, 21 settembre 2015, n. 18464
In senso difforme
Cass. civ., sez. III, 20 gennaio 2014, n. 999
Cass. civ., sez. III, 22 ottobre 2013, n. 23919
IL CASO – Una donna, nell'attraversare una pubblica via, cadeva rovinosamente a terra a causa di una sconnessione del manto stradale riportando danni alla propria persona. Veniva convenuto in giudizio l'ente proprietario, un Comune, nei confronti del quale la danneggiata proponeva domanda di ristoro ai sensi degli artt. 2043 e 2051 c.c.
Tanto il Tribunale di Taranto quanto la Corte d'Appello di Lecce, sez. distaccata di Taranto, rigettavano la domanda formulata dall'attrice. Segnatamente, il giudice di secondo grado (preliminarmente constatata l'insussistenza dei requisiti dell'insidia o trabocchetto e, dunque, l'infondatezza dell'actio aquiliana ex art. 2043 c.c.) escludeva la responsabilità da cosa in custodia dell'ente pubblico, ritenendo che la disattenzione dell'appellante nell'incedere avesse avuto un'efficienza causale esclusiva nella produzione dell'evento lesivo. Essendo le sconnessioni presenti in quel definito tratto di strada (peraltro contraddistinta da buche e rappezzi, nonché da segnaletica verticale facente divieto di transito ai mezzi pesanti per “rischio di crollo”) evidenti e visibili al momento del sinistro (verificatosi alle h. 13 del mese di luglio), in quanto illuminate dalla luce del mattino, la vittima ben avrebbe potuto calpestarle senza cadere, semplicemente adottando la particolare attenzione dovuta per salvaguardare la propria incolumità nell'uso ordinario e diretto del bene demaniale.
Avverso la pronuncia della Corte territoriale proponeva ricorso per cassazione la signora, lamentando violazione o falsa applicazione dell'art. 2051 c.c. In sintesi, per la ricorrente l'accadimento dannoso era da ricondurre esclusivamente all'anomalia della strada; il Comune non aveva fornito la prova liberatoria del caso fortuito, non potendosi ravvisare nel comportamento tenuto dalla danneggiata nel caso di specie un evento eccezionale, imprevedibile ed inevitabile, dotato di autonomo impulso causale.
La Terza Sezione civile della Suprema Corte, ritendendolo fondato, ha accolto il ricorso, cassando la sentenza oggetto di gravame, con rinvio al giudice di merito.
LE QUESTIONI GIURIDICHE E LA SOLUZIONE – Quando può affermarsi la responsabilità risarcitoria dell'ente proprietario di una strada fruibile dalla collettività in ordine ad eventi di danno ascrivibili all'assetto dell'anzidetto bene demaniale e di cui siano vittima i suoi utenti? Quale fisionomia deve possedere il “caso fortuito”, la cui esistenza osta all'accoglimento della pretesa azionata dal privato danneggiato? Quale rilievo assume la condotta di quest'ultimo? Per l'ennesima volta il Supremo Collegio si trova a dover rispondere a questi interrogativi.
Prima di illustrare compiutamente il vizio di falsa applicazione della legge dal quale sarebbe affetta la sentenza della Corte distrettuale, i giudici di legittimità ritengono opportuno richiamare l'attenzione su alcuni principi ormai consolidatisi nell'elaborazione delle sezioni semplici, in primis a livello generale in tema di responsabilità ex art. 2051 c.c. Si rammenta che la fattispecie contemplata dalla summenzionata disposizione codicistica presuppone un rapporto di custodia con la res generativa dell'evento lesivo, una relazione di fatto tra soggetto e cosa tale da consentire al primo un effettivo controllo della seconda (si parla anche di efficace attività di vigilanza e gestione). Il custode (sia costui proprietario o financo detentore del bene) è titolare di un potere di intervento finalizzato alla rimozione delle situazioni di pericolo che siano insorte; egli può altresì impedire il contatto di terzi con la cosa. Sul piano probatorio, si ribadisce che incombe sul danneggiato l'onere di dimostrare la sussistenza di un valido legame eziologico tra cosa e danno (il nocumento deve essersi cioè prodotto – si legge – come normale effetto della condizione, potenzialmente lesiva, posseduta dalla res) e sul custode, il quale voglia vincere la presunzione iuris tantum di responsabilità stabilita a suo sfavore, la prova positiva del caso fortuito, inteso come fattore, estraneo alla sua sfera soggettiva, avente autonomo impulso causale e connotato da imprevedibilità ed assoluta eccezionalità.
Con precipuo riguardo ai pregiudizi arrecati ai cittadini da anormalità del demanio stradale (il quale include carreggiate, guardrails, marciapiedi, banchine ecc.), il Collegio, anzitutto, pone l'accento sul generale obbligo di adozione di misure atte a scongiurare situazioni di obiettivo pericolo che la P.A. è tenuta ad adempiere nonostante la discrezionalità che le è riconosciuta. D'altronde, la stessa Corte costituzionale già nella nota sentenza 10 maggio 1999, n. 156 individuava nell'opera di manutenzione delle strade un dovere istituzionale degli enti pubblici, aggiungendo che nell'assolvimento di tale compito essi debbono conformarsi alle specifiche norme e alle comuni regole di prudenza e diligenza poste e presidio dell'integrità sia personale che patrimoniale dei terzi.
I passaggi dell'annotata decisione che seguono sono quelli di maggiore interesse nell'ambito del tentativo, operato del Supremo Consesso, di ricostruire il quadro interpretativo cui riferirsi in subiecta materia. Si nota piuttosto agevolmente come il provvedimento de qua si riallacci a quei precedenti che attribuiscono un rilievo dirimente alla distinzione tra due diverse tipologie di situazioni di pericolo: da un lato, quelle estemporanee, vale a dire consistenti in fattori di rischio episodici, magari creati occasionalmente e colposamente da terzi (olio perso da un veicolo di passaggio con formazione di chiazza scivolosa sull'asfalto, abbandono di vetri rotti, di ferraglie ecc.) o legati ad una repentina ed impronosticabile alterazione dello stato della cosa, la cui potenzialità nociva abbia trovato esplicazione prima che fosse decorso quel lasso temporale ragionevolmente ed oggettivamente necessario affinché l'ente proprietario potesse acquisirne conoscenza e rimuoverli o adeguatamente segnalarli (prima, cioè, che fosse esigibile l'intervento riparatore); dall'altro, quelle intrinseche alla struttura o alle pertinenze della strada (dislivelli, spaccature, avvallamenti), come tali conosciute o conoscibili e dominabili, evidentemente prodotto di un precedente difetto di diligenza nella sorveglianza e manutenzione del bene (di cui dovrebbe assicurarsi, con continuità, uno stato di efficienza ottimale). La responsabilità delineata dall'art. 2051 c.c. sarebbe configurabile in capo alla P.A. unicamente in relazione a questa seconda categoria (o species).
Il Collegio si sofferma poi sul fatto del terzo e sul fatto dello stesso danneggiato, focalizzandosi sulla loro idoneità ad integrare il fortuito (il quale, sotto il profilo squisitamente processuale, rappresenterebbe non un'eccezione in senso proprio sollevata dal convenuto, bensì una mera difesa) avente un effetto esimente. Affinché possa interrompere il rapporto di causalità tra la cosa e l'evento (con esonero del custode da responsabilità), la condotta della vittima – asseriscono gli Ermellini – deve essere contrassegnata da una peculiare imprevedibilità; le sue caratteristiche devono apparire tali da poter essere giudicate eccezionali, per meglio dire manifestamente estranee ad una serie causale ordinaria o “normale”, ovviamente assumendo come parametro l'id quod plerumque accidit. Allorquando, invece, il contegno colposo del danneggiato non si sia posto come fattore causale da solo determinante il danno (in altre parole, laddove non abbia spezzato il nesso eziologico tra quest'ultimo e la cosa in custodia), sarà applicabile il precetto dell'art. 1227, comma 1, c.c., in forza del rinvio contenuto nell'art. 2056 c.c.
I magistrati di Piazza Cavour analizzano infine l'errore in cui il giudice di seconde cure sarebbe incorso nel suo iter logico-argomentativo; esso si sarebbe concretato in una non corretta applicazione alla vicenda concreta del principio, espresso, tra le altre, in Cass. civ., Sez. III, 7 maggio 2007, n. 10300, alla cui stregua quanto meno la cosa è pericolosa e quanto più la situazione di possibile pericolo è passibile di previsione, tanto più incidente (nel dinamismo causale del danno) deve considerarsi il comportamento della vittima. Ebbene, osserva il Collegio, dalla documentazione fotografica (solitamente prova precostituita “principe” in controversie come quella in discorso) prodotta in giudizio non emergeva affatto una scarsa pericolosità della res; la via teatro dell'infortunio occorso alla ricorrente, lungi dal versare in buone condizioni, si mostrava invero alquanto dissestata stante la presenza, come si è visto, di buche, rappezzi e sconnessioni, situazioni di chiaro pericolo per il pedone, oltretutto indubbiamente connesse in modo immanente alla struttura del bene.
Per quel che concerne l'agere della vittima, la Corte territoriale avrebbe omesso di accertare positivamente se lo stesso abbia avuto o meno una reale incidenza nella causazione del pregiudizio (aspetto di primaria importanza), limitandosi, in maniera superficiale, a porre in risalto una molteplicità di “ipotetici fattori causali” (spicca la “disattenzione”), ai quali sarebbe da imputare la caduta.
Quasi a chiusura della motivazione da egli sviluppata, il giudice di nomofilachia rimarca come il ragionamento svolto dalla sezione distaccata di Taranto della Corte d'Appello di Lecce, e le conclusioni cui la medesima è pervenuta, si prestino ad essere spinti fino al paradosso, finendo per condurre ad esiti difficilmente accettabili.
Precisamente, sembrerebbe che dall'esclusione della responsabilità ex art. 2051 c.c. dell'ente pubblico, poggiante essenzialmente sulla circostanza che lo stato dei luoghi si appalesava verificabile da parte dell'utente, essendo le sconnessioni del manto della strada (per giunta colma di buche e ripetutamente rappezzata) accentuate e visibili, si possa desumere l'assurdo per cui, quanto più la P.A. si rende inadempiente al dovere di manutenere il bene, tanto meno è suscettibile di andare incontro a conseguenze risarcitorie verso la cittadinanza. Ma lo stato di incuria della sede stradale non può risolversi in un elemento di favor per il Comune custode. Senza tralasciare, inoltre, che una semplice disattenzione dell'individuo a piedi o dell'automobilista può, in astratto, farsi rientrare nel “novero delle possibilità fattuali congruamente prevedibili”.
OSSERVAZIONI – Un punto nodale del dictum in esame, il quale si inserisce nella (assai) cospicua messe di pronunce vertenti in tema di responsabilità da custodia degli enti territoriali per i nocumenti patiti dagli utenti di strade pubbliche, deve senz'altro essere identificato nella valorizzazione della natura delle cause che abbiano provocato il danno.
Irregolarità quali buche, sprofondamenti, crepe, fessure attengono innegabilmente alla struttura del bene. Non solo: salvo rari casi (scosse sismiche, frana del terreno sottostante dovuta a precipitazione di fortissima intensità), la loro formazione non è improvvisa (tale da vanificare o abbassare drasticamente la possibilità di un intervento tempestivo), bensì risultato di un progressivo deterioramento (addebitabile alla pressione esercitata dalle vetture, all'alternanza di gelo invernale e alte temperature estive ecc.) del conglomerato bituminoso con cui viene realizzata la pavimentazione carrabile.
Trattasi, insomma, di pericoli, monitorabili mediante una prudente azione di controllo, che gli enti cui compete la gestione delle arterie stradali hanno il potere-dovere di eliminare.
È un dato purtroppo incontrovertibile che spesso i Comuni, particolarmente quelli ricomprendenti un vasto territorio, si trovano a dover fare i conti, da un lato, con un rete viaria che si snoda per chilometri e chilometri tanto all'interno di centri urbani quanto in aree scarsamente antropizzate e, dall'altro, con penuria di risorse economiche e vincoli di bilancio. Al contempo però non possono tollerarsi situazioni di diffuso e conclamato dissesto, protraentesi per anni (si pensi alle “celeberrime” buche che affliggono le vie di Roma, sovente salite agli onori della cronaca), dinanzi alle quali l'ente proprietario – chiamato a vigilare, in virtù della qualità di dominus rivestita, affinché i suoi beni non procurino danni a terzi – rimanga pressoché inerte, a maggior ragione qualora abbiano già avuto luogo sinistri.
Diversamente opinando si giungerebbe a svuotare di portata precettiva persino l'art. 14, d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo Codice della Strada), il quale affida testualmente ai soggetti pubblici (così come ai concessionari) il basilare compito di provvedere “alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi”, “al controllo tecnico dell'efficienza delle strade e relative pertinenze”, ed infine “alla apposizione e manutenzione della segnaletica prescritta”; ciò allo scopo di salvaguardare la sicurezza della circolazione.
In aggiunta, vale la pena ricordare quella che taluno, di primo acchito, potrebbe additare come una “banalità”: gli accadimenti dannosi di cui si discute rientrano inconfutabilmente nella categoria dei c.d. bilateral accidents (in una prospettiva economico-giuridica è stato puntualizzato che con riferimento agli stessi il diritto dovrebbe usare il criterio della colpa). Ne discende che a poter fare qualcosa – nel senso di garantire un certo livello di precauzione – per ridurre la loro gravità e frequenza sono sia i conducenti di mezzi e i pedoni, sia, ancor prima, la P.A.; il sostenimento di costi significativi per l'assunzione di cautele sarà tanto più giustificato, quanto maggiore è il numero di consociati che utilizzano il bene demaniale.
La giurisprudenza, perennemente preoccupata di evitare una incontenibile dilatazione della responsabilità della P.A., propende per un'interpretazione marcatamente estensiva del concetto di “caso fortuito”, facendovi rientrare un'ampia gamma di comportamenti colposi dei danneggiati.
Talora, nella prassi applicativa, si è affermato che la pericolosità della cosa, soprattutto se nota o comunque facilmente rilevabile dal soggetto che viene a contatto con la stessa, impone un obbligo massimo di cautela; se questo viene trasgredito, l'ente va esente da condanna. Altre volte il fortuito è stato ritenuto integrato in ipotesi di caduta attribuibile ad un fattore di rischio perfettamente visibile (attesa la piena luminosità) da parte di chi adoperasse anche una minima attenzione. In altre occasioni si è reputato di non poter muovere alcun rimprovero nei confronti della P.A. a fronte di un'anomalia che l'utente danneggiato aveva la concreta possibilità di percepire e prevedere con l'ordinaria diligenza.
Preso atto di ciò, ad opinione di chi scrive – pur essendo sicuramente da incentivare l'adozione di una condotta ordinariamente accorta da parte dei fruitori di strade pubbliche e delle loro pertinenze (non trascurando che tra di essi vi sono persone con minorate capacità sensoriali o motorie, come anziani e diversamente abili) – deve scongiurarsi un ritorno a quell'indirizzo ermeneutico che, nel prediligere il modello aquiliano ex art. 2043 c.c., pretendeva dal privato (con notevole aggravio probatorio per costui), ai fini dell'accoglimento della domanda, la dimostrazione della ricorrenza di una situazione di pericolo occulto, per l'appunto oggettivamente non visibile e soggettivamente non prevedibile: la figura, di creazione pretoria, dell'insidia o trabocchetto.
La pronuncia sotto la nostra lente, dal canto suo, ci dice a chiare lettere che la condotta della vittima, per interrompere il rapporto di causalità tra res e danno, deve avere i crismi dell'abnormità, dell'inopinabilità; volendo agganciarsi agli approdi della Cassazione in tema di infortuni sul lavoro e condotta abnorme del prestatore, essa dovrebbe in pratica consistere in un contegno del tutto al di fuori degli schemi, radicalmente e ontologicamente lontano, per la sua stranezza, dal novero dell'ipotizzabile. Ci si chiede allora: una mera distrazione nel camminare, eventualmente di breve o brevissima durata, può davvero dirsi esorbitante dal prevedibile, dalla comune esperienza, relativamente a quello che è l'uso di tutti i giorni dei beni del demanio stradale? Può davvero liberare l'ente proprietario da ogni responsabilità ex art. 2051 c.c., specialmente al cospetto di uno stato dei luoghi sine ullo dubio pericoloso?
RIFERIMENTI GIURISPRUDENZIALI E BIBLIOGRAFICI – Analogamente alla sentenza in commento (nel senso che si potrebbe ascrivere una responsabilità da cose in custodia in capo alla P.A. solamente in relazione a situazioni di pericolo immanentemente connaturate alla struttura della strada) si sono espresse, ex multis, Cass. civ., sez. III, 22 marzo 2016, n. 5622, in www.dirittoegiustizia.it, Cass. civ., sez. III, 27 marzo 2015, n. 6245, in Danno e resp., 2016, n. 2, 166, Cass. civ., sez. VI, ord. 17 settembre 2013, n. 21233, ivi, 2014, n. 1, 101, Cass., Sez. III, 24 febbraio 2011, n. 4495, in Resp. civ., 2011, n. 4, 309. Nel senso che la concreta percepibilità o prevedibilità dell'anomalia da parte dell'utente (tramite l'ordinaria diligenza) varrebbe ad escludere la responsabilità della P.A. per difetto di manutenzione della strada pubblica, cfr. Cass. civ., sez. VI-3, 14 giugno 2016, n. 12174, in www.dirittoegiustizia.it. Ci si riferisce ad un obbligo massimo di cautela imposto dalla pericolosità della res, ex alteris, in Cass. civ., sez. VI-3, 9 ottobre 2015, n. 20366, in www.ilcaso.it, e in Cass. civ., sez. VI-3, ord. 6 luglio 2015, n. 13930, in www.dirittoegiustizia.it. Sulla sussistenza del fortuito allorché si accerti che il pericolo era perfettamente visibile adoperando anche una minima attenzione, v. Cass. civ., sez. VI, ord. 12 novembre 2015, n. 23108, ivi. In dottrina, sulla distinzione tra cause intrinseche (vizi costruttivi o manutentivi) e cause estrinseche (estemporanee) nell'ambito della responsabilità per danni cagionati da cose in custodia, si segnalano M. SPROVIERI, Il danno derivante dalla omessa manutenzione della rete stradale pubblica da parte del custode, in Giur. it., 2012, n. 12, 2510, R. RICCÒ, Causalità e fortuito nella responsabilità civile (in particolare da custodia di strade), in Nuova giur. civ. comm., 2009, II, 590 e A. PALMIERI, Custodia di beni demaniali e responsabilità: dopo il tramonto dell'insidia, ancora molte incertezze sulla disciplina applicabile, in Foro it., 2008, I, 2826. Sulla idoneità del comportamento del danneggiato ad elidere il nesso causale tra cosa e danno, v. P. LAGHEZZA, Condotta abnorme del danneggiato e responsabilità da custodia, in Danno e resp., 2011, n. 12, 1188.