Approfondimenti

Danno e responsabilità 27.04.2020

Covid-19 e (alcune) risposte immunitarie del diritto privato

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1.   Il contributo del civilista.

Se indubbiamente lo studio della pandemia in corso e dei suoi effetti coinvolge tutte le discipline, nessuna esclusa, nell'ambito delle scienze giuridiche esso ha investito una complessa molteplicità di aspetti, ciascuno dei quali di ampiezza e profondità tale da ridisegnare a sua volta una molteplicità di macro-aree tematiche di riflessione: dalle fonti del diritto ai diritti fondamentali della persona; dai rapporti tra poteri dello Stato e tra Stato e regioni ai rapporti tra Stato e Unione europea; dal lavoro e dall'impresa alla (ri)organizzazione e gestione della giustizia.

I temi più «sensibili» balzati immediatamente all'attenzione del civilista sono soprattutto due: l'impatto della pandemia sulla responsabilità sanitaria; l'impatto della pandemia sui rapporti contrattuali [1]. Si tratta, evidentemente, di questioni rilevantissime e da affrontare con urgenza date le loro straordinarie e immediate ricadute sull'economia nazionale, anche al fine di prevenire il rischio di un collasso del sistema giudiziario, in ragione delle infinite controversie che potranno insorgere.

Le prime riflessioni sono pressoché concordi nell'esprimere preoccupazione sulla capacità delle regole attuali – specie in tema di obbligazioni e contratti – di reggere alla prova della pandemia, evidenziando l'insufficienza degli «anticorpi» [2] che l'ordinamento vigente è in grado di produrre e, quindi, rilevando l'esigenza di una legislazione dell'emergenza ad hoc [3], se non di una riforma del codice civile italiano, peraltro già da tempo sollecitata e diffusamente auspicata [4].

Nella consapevolezza che le clausole generali del nostro ordinamento, malgrado le loro intramontabili potenzialità, non sempre potrebbero bastare, da sole, a risolvere tutti i problemi da affrontare [5], occorre quindi continuare a ragionare sulle possibili strategie di risposta: cosa serve? Quali possono essere gli interventi normativi più opportuni ed efficaci, se non necessari, e quali invece tali non sono?

2.   Responsabilità sanitaria: ipotesi di “scudo giuridico” nella legislazione Covid-19.

In agguato è l'esplosione di richieste risarcitorie tanto relative a contagi (potenzialmente) contratti proprio all'interno del nosocomio, quanto in relazione ad eventi di danno riconducibili alle prestazioni sanitarie rese (o non rese) in occasione del diffondersi del Covid-19 [6].

Un rischio, questo, realmente non accettabile: né eticamente, in considerazione del ruolo essenziale (e del sacrificio) degli operatori sanitari, impegnati senza sosta e senza risorse adeguate (e purtroppo, spesso, senza neppure i necessari dispositivi di protezione individuale); né economicamente, essendo in gioco l'interesse della collettività alla tenuta di un sistema sanitario già allo stremo, oltre che del settore assicurativo ad esso connesso e altresì del sistema giudiziario.

Di qui alcuni immediati tentativi di inserire, in sede di conversione del d.l. n. 18 del 2020 (c.d. Cura Italia), norme in materia di responsabilità professionale dei sanitari dirette a prevedere uno «scudo giuridico» (civile, penale, erariale) in favore di tali soggetti [7].

Il successivo ritiro degli emendamenti proposti [8], accompagnato da un ordine del giorno che impegna il Governo a occuparsi della materia in futuri provvedimenti normativi, conferma la necessità di mantenere alta l'attenzione, tenendo in considerazione alcune prime importanti osservazioni.

In particolare, si è subito rilevato che nessun emendamento intercettava il suo bersaglio [9], specie laddove si ipotizzava una limitazione della responsabilità civile ai «casi in cui l'evento dannoso risulta riconducibile a condotte poste in essere con dolo o colpa grave».

Occorre infatti considerare che, nell'ambito della responsabilità professionale, il concetto civilistico di colpa grave – quale criterio di limitazione della responsabilità ex art. 2236 c.c. che opera solo quando la prestazione presuppone «la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà» – trova il suo terreno d'elezione nell'ambito della imperizia, e non si estende alla negligenza e all'imprudenza. Ma la pandemia, di regola, non implica problemi tecnici di speciale difficoltà [10], ergo non avrebbe inciso sulla imperizia; essa ha invece sicuramente inciso sulle comuni regole di diligenza e prudenza da seguire per la conservazione della possibilità di adempiere la prestazione sanitaria, che, a causa del “contesto” in cui era resa, ha assunto portata straordinaria ed eccezionale [11]. Detto altrimenti: ciò che il “contesto” è in grado di ridurre non è la diligenza professionale (di cui all'art. 1176, comma 2, c.c.), ma la (comune) diligenza conservativa (di cui agli artt. 1218 e 1176, comma 1, c.c.) della possibilità di osservare la diligenza professionale.

Dunque, percorrendo la strada della limitazione della colpa grave non solo «non si coglie la vera natura dell'inadempimento, il quale non riposa sull'imperizia», ma intervenendo su tale profilo «si indeboliscono le potenzialità di esimente da responsabilità risarcitoria che ha la norma di cui all'art. 1218» in tema di impossibilità della prestazione derivante causa non imputabile [12].

Peraltro, anche sotto altri profili si è ben messo in luce che l'esenzione da responsabilità, nelle varie espressioni in cui era proposta, non conseguiva affatto lo scopo prefissato.

Ciò in quanto la formulazione era talvolta «pericolosa e controproducente» – ad es.: «eventi avversi verificati o che abbiano trovato causa durante l'emergenza epidemiologica» – dovendosi fare riferimento come relevant time «non al momento di manifestazione del danno, ma al momento in cui è stata tenuta la condotta che si assume colposa» [13]. Talaltra – fatti commessi «durante l'emergenza» – era invece «di sconfinata latitudine», tanto da non poter «sfuggire ad un giudizio di illegittimità costituzionale» [14]. Talaltra ancora – colpa grave individuata nella «violazione dei protocolli o programmi emergenziali predisposti per fronteggiare la situazione in essere» – era poi del tutto «incoerente» in quanto, introducendo un «esonero dall'esonero», finiva paradossalmente per escluderlo (l'esonero) «proprio là dove ve ne sarebbe stato più bisogno» [15].

3.   (Segue): de iure condito et condendo.

Al di là dei puntuali rilievi critici su proposte emendative già ritirate, ciò che le prime riflessioni sul tema opportunamente evidenziano è che il sistema vigente contiene già potenti anticorpi, senza necessità di vaccini, per far fronte alla pandemia e sollevare medici e infermieri da responsabilità.

Questi anticorpi sono le clausole generali, storicamente definite – ironia della sorte – le “valvole”, gli “organi di respirazione” dell'ordinamento giuridico, e segnatamente gli artt. 1218 e 1176, comma 1, c.c., nonché l'art. 2236 c.c.

Rilevanza decisiva, come detto, assume il “contesto” eccezionale nel quale la prestazione sanitaria viene resa, e rispetto al quale valgono, come criterio di giudizio e ai fini dell'esenzione della responsabilità risarcitoria, le comuni regole di diligenza e prudenza in base al combinato disposto degli artt. 1218 e 1176, comma 1, c.c. [16]. Appare infatti evidente che quel contesto può costituire “causa non imputabile” da cui è derivata l'impossibilità di adempiere esattamente la prestazione sanitaria.

Vero è che l'art. 1218 c.c. riguarda l'azione contrattuale proposta nei confronti della struttura sanitaria, ma è altresì vero che nulla osta alla medesima interpretazione della (assenza di) colpa ove l'azione sia proposta in via extracontrattuale contro il sanitario dipendente, non potendosi in alcun modo dubitare che il “contesto” in questione sia «suscettibile di escludere tutti e tre i tradizionali archetipi della colpa» [17].

Peraltro, al medesimo risultato può altresì pervenirsi tramite l'art. 2236 c.c., essendo appena il caso di rilevare che fronteggiare un nuovo virus, del quale non si sa praticamente nulla, è ex se un problema di speciale difficoltà. Del resto, l'applicazione di tale norma trova sicura conferma in una lettura estensiva già adottata dal diritto vivente, facente anch'essa leva, ancora una volta, sul “contesto” in cui il medico si trova ad operare: «in emergenza e, quindi, in quella temperie intossicata dall'impellenza che rende quasi sempre difficili anche le cose facili» [18]. Il parametro di valutazione della colpa dell'operatore sanitario ai sensi dell'art. 2236 c.c. è perciò duplice: non solo la difficoltà tecnico-scientifica dell'intervento, ma anche il contesto in cui esso è stato svolto, che – giova ripetere – può rendere difficili anche le cose facili.

Pertanto, come subito evidenziato, anche l'art. 2236 c.c. può svolgere «il ruolo essenziale di barrage naturale ad una nuova deriva accusatoria che sembra iniziare ad affacciarsi e di cui, di questi tempi, proprio non si sente il bisogno» [19]. E la medesima norma può altresì entrare in gioco in relazione al «livello di esperienza e di specializzazione del singolo operatore» che alcuni emendamenti esplicitavano come parametro di valutazione, e che, invero, già costituisce «la vera ipotesi di problema tecnico di speciale difficoltà» [20].

In definitiva, gli emendamenti proposti nulla avrebbero aggiunto all'acquis del nostro ordinamento.

Ciò, tuttavia, non significa che qualsiasi intervento normativo sia inutile. Ma occorre forse correggere l'obiettivo: non già quello di sollevare gli operatori sanitari dall'esito sfavorevole di un giudizio (per questo, si ribadisce, nuove norme sono superflue), bensì quello di consentire loro di lavorare più serenamente, evitando in radice che possano essere esposti, per condotte relative all'emergenza Covid-19, a contenziosi infiniti e infondati. E scongiurando altresì gli ulteriori effetti distorsivi (come il ricorso a forme di medicina difensiva) ad essi connessi. In questa prospettiva, degna d'attenzione appare l'ipotesi [21] di introdurre una limitazione della possibilità di agire per i danni da emergenza Covid-19: ossia esclusivamente per via contrattuale nei confronti della struttura sanitaria, la quale, ai sensi dell'art. 9 legge n. 24/2017, potrà poi rivalersi sull'esercente la professione sanitaria solo in caso di dolo o colpa grave e nei limiti stabiliti dalla medesima norma.

4.   Rapporti contrattuali di durata: rimedi ablativi e manutentivi.

La pandemia «colpisce in egual misura (…) tutti i rapporti contrattuali (…) interessati, direttamente o indirettamente, dalle misure di contenimento ed ambo le parti contraenti dei medesimi». Anche qui, dunque, ai molti problemi si aggiunge quello – importantissimo nella ricerca di qualsiasi soluzione – della «funzionalità e (…) tenuta del sistema giudiziario» [22].

In questa macro-area di rapporti, l'emergenza Covid-19 pone prepotentemente al centro la sorte dei contratti commerciali di durata, che dell'attività d'impresa costituiscono strumento ed espressione.

Come noto, il nostro ordinamento conosce una pluralità di istituti che regolano il problema delle cc.dd. sopravvenienze, ossia la ripartizione del rischio contrattuale in relazione ad eventi che si verificano nella fase di esecuzione del rapporto, impendendone la naturale realizzazione.

Oltre agli istituti codicistici dell'impossibilità sopravvenuta – definitiva e temporanea (artt. 1256 c.c.), totale e parziale (artt. 1258, 1463 e 1464 c.c.) – e dell'eccessiva onerosità sopravvenuta (art. 1467 c.c.), l'elaborazione dottrinale e giurisprudenziale ha delineato e accolto le ulteriori categorie della sopravvenuta inutilizzabilità e inesigibilità (o, utilizzando un termine più moderno, insostenibilità) della prestazione.

Si tratta di categorie distinte sul piano concettuale, ma equiparate sul piano degli effetti, così da consentire – anche alla luce dei valori costituzionali – l'applicazione della medesima disciplina ad una più ampia gamma di ipotesi, ivi compresa l'obbligazione pecuniaria (rispetto alla quale la concezione tradizionale e rigidamente obiettiva dell'inadempimento nega la configurabilità stessa della “impossibilità” della prestazione) [23].

Una prima risposta è dunque offerta dalla disciplina dell'impossibilità temporanea: l'esecuzione del contratto è sospesa allorché una delle due prestazioni diventa temporaneamente impossibile, esonerando il debitore da responsabilità da ritardo nell'adempimento, che tuttavia resta dovuto (art. 1256, comma 2 c.c.). L'estinzione dell'obbligazione e la risoluzione del contratto sono previste solo in seconda battuta, se l'impossibilità perdura fino a quando il debitore non può più essere ritenuto obbligato a eseguire la prestazione ovvero il creditore non ha più interesse a conseguirla.

Una seconda soluzione si rinviene nella disciplina dell'impossibilità parziale (art. 1464 c.c.), che tende anch'essa alla conservazione del contratto, prevedendo il diritto della parte (che ha perso la prestazione) ad una «corrispondente riduzione della prestazione da essa dovuta» e le attribuisce il diritto di recesso dal contratto qualora non abbia un interesse apprezzabile all'adempimento parziale. Peraltro, nei contratti di durata, il diritto di riduzione della prestazione di cui all'art. 1464 c.c., letto in combinato disposto con l'art. 1258 c.c. (impossibilità parziale), può trovare applicazione analogica anche in caso di impossibilità temporanea della prestazione [24].

E ancora, viene in rilievo la disciplina dell'eccessiva onerosità (artt. 1467-1469 c.c.): la parte onerata può solo agire in giudizio per la risoluzione del contratto, ma non ha diritto di ottenere l'equa rettifica delle condizioni del negozio, che può essere invocata soltanto dalla parte convenuta in giudizio con l'azione di risoluzione. In altri termini, quindi, il contraente a carico del quale si verifica l'eccessiva onerosità della prestazione non può pretendere che l'altro accetti l'adempimento a condizioni diverse da quelle pattuite.

Calando in concreto queste regole in relazione ad una tipologia di contratto sul quale l'impatto della pandemia è immediato, ossia la locazione commerciale – si pensi ai casi, numerosissimi, di affitto di locali destinati a ristoranti, alberghi, palestre, parrucchieri, ecc. – le conseguenze potranno essere le seguenti.

In primo luogo, a causa del «rispetto delle misure di contenimento» (c.d. factum principis), il conduttore perde l'effettiva utilizzabilità dell'immobile per le finalità e per l'uso previsto nel contratto: dando il doveroso rilievo alla causa concreta, l'ipotesi ricade dunque nell'ambito dell'“impossibilità temporanea” dell'obbligazione di cui all'art. 1256 c.c., che giustifica e legittima la sospensione del pagamento dei canoni. Ma non solo: anche il diritto ad una corrispondente riduzione del canone ex art. 1464 c.c. può trovare applicazione, giacché, a ben vedere, l'impossibilità è definitiva (la non utilizzabilità dei locali durante il periodo di sospensione dell'attività per factum principis è una prestazione perduta per sempre) ma parziale (perché il contratto può proseguire una volta cessata la sospensione). Inoltre, l'impossibilità di fruire dell'immobile locato – e di svolgere la propria attività al suo interno – può compromettere gli equilibri sottesi al contratto di locazione, rendendo l'obbligazione relativa al pagamento del canone assai più gravosa rispetto a quanto previsto in sede di stipula: in tal caso, come detto, l'unica strada percorribile sarebbe la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta, risoluzione evitabile solo dal locatore tramite un'offerta di riconduzione ad equità delle condizioni contrattuali.

Dal canto suo, anche il locatore trova in queste regole una tutela ragionevole, soprattutto nella disciplina dell'impossibilità temporanea, la quale gli consente di liberarsi dal vincolo per il venir meno dell'interesse a conseguire una prestazione ritardata o ridotta. E si tratta senza dubbio di una soluzione equa, rispondente all'interesse di entrambi i contraenti, specie se si considera che il mancato/ritardato e/o ridotto adempimento da parte del conduttore potrebbe incidere sulle esigenze di vita del locatore (si pensi all'ipotesi in cui il canone percepito costituisca l'unica fonte di reddito). Ovviamente, se il rapporto è connotato da una fiducia reciproca e duratura, il locatore avrà tutto l'interesse alla sua conservazione e, quindi, ad andare incontro alle esigenze del conduttore, data anche l'oggettiva difficoltà – allo stato – di trovarne un altro alle medesime condizioni.

Questi rimedi – solo tendenzialmente ablativi – non esauriscono la gamma delle soluzioni possibili offerte dal nostro sistema.

In virtù del principio di conservazione del vincolo contrattuale, da tempo si evidenzia la diffusa propensione dell'ordinamento a favorire rimedi “manutentivi” per contratti altrimenti destinati alla risoluzione: in questa prospettiva, si individua l'esistenza di un obbligo di rinegoziare il contenuto di un contratto, pur in difetto di specifico patto, quando si sia in presenza della modifica della situazione di fatto esistente al momento della conclusione o ipotizzata (espressamente o implicitamente) come esistente al momento dell'esecuzione di una o di entrambe le prestazioni.

Il codice civile italiano, infatti, a differenza di quanto più di recente avvenuto in altri ordinamenti [25], non prevede la rinegoziazione come fattispecie, ma regola casi in cui essa può costituire il presupposto per il funzionamento di alcuni istituti, come l'offerta di riconduzione ad equità della prestazione, diretta a prevenire la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta (art. 1467, comma 3, c.c.).

Vero è che tale disciplina, innovativa e d'avanguardia quando fu introdotta [26], può oggi apparire obsoleta, in quanto relega l'adeguamento del contratto a soluzione residuale, privilegiando come soluzione primaria (da perseguire necessariamente, prima che possa aprirsi la strada dell'adeguamento) la risoluzione del contratto. Ma è altresì vero che nulla impedisce un ribaltamento delle due soluzioni, che risulta, anzi, imposto da reciproci doveri di correttezza, cooperazione e solidarietà, principio «che mai come oggi non è invocato invano» [27].

Del resto, come noto, l'esistenza di un obbligo legale di rinegoziazione – che la dottrina ha ricostruito anche in relazione alle sopravvenienze impreviste o atipiche, e non soltanto imprevedibili e straordinarie, e che ha altresì trovato ingresso nel diritto vivente [28] – risulta desumibile da una pluralità di fonti, e segnatamente:

- da numerose specifiche disposizioni codicistiche ed extracodicistiche [29], le quali confermerebbero «la tendenza dell'ordinamento nel senso dell'adeguamento del contratto» [30];

- dal dovere generale di buona fede, concordemente ritenuto la fonte integratrice principale dell'obbligo di rinegoziazione [31], imponendo lealtà e cooperazione fra le parti nell'esecuzione;

- dall'equità, specie nei contratti a durata particolarmente lunga, nei quali tale obbligo sarebbe sempre sotteso [31];

- dal dovere di solidarietà nei rapporti intersoggettivi (art. 2 Cost.), da cui può dedursi l'esistenza di un principio di inesigibilità come limite superiore alle pretese creditorie [33].

E ad avvalorare l'esistenza dell'obbligo di rinegoziare hanno altresì contribuito:

- considerazioni di analisi economica del diritto, essendo più efficiente un sistema che consente la traslazione del rischio in capo al beneficiario finale della prestazione, al quale rimarrebbe tuttavia riservata la scelta se mantenere in vita il contratto adeguato alle nuove circostanze o liberarsi dall'affare perché non più conveniente, salvo il risarcimento dei danni [34];

- le convergenti soluzioni – indicative di valori rilevanti, se pur prive di forza vincolante – elaborate dalla cultura giuridica europea: i Principi Unidroit dei contratti commerciali internazionali (art. 6.2.3 “Effetti dell'hardship”); i Principi di diritto europeo dei contratti (art. 6:111 “Mutamento delle circostanze”); il Common frame of reference (artt. 108, 109, 110); il Code europeen des contrats (art. 157).

 

5.   (Segue): de iure condito et condendo.

5. (Segue): de iure condito et condendo.

L'ordinamento giuridico italiano, quindi, grazie alle inesauribili risorse del codice civile del 1942 e ai frutti dell'incessante elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, è già attrezzato per far fronte alla pandemia attraverso il rimedio della rinegoziazione, legale o volontaria, del contenuto dei contratti di durata [35] e non pare perciò necessario un intervento legislativo apposito.

La questione cruciale, connessa alla rinegoziazione e sulla quale da tempo si dibatte, concerne invece l'intervento del giudice, e con quali poteri, nell'ipotesi in cui la rinegoziazione non sfoci in un accordo: se cioè tale intervento debba limitarsi ad accertare la violazione dell'obbligo di eseguire la rinegoziazione in buona fede e condannare al risarcimento del danno, o possa invece consistere, più incisivamente, in una rideterminazione eteronoma delle regole del rapporto.

Tuttavia quest'ultima soluzione – pur prospettata argomentando dall'esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c., che sostituisce il consenso non prestato alla conclusione del contratto definitivo – «sconta difficoltà insormontabili», sia per la scarsa propensione – oltre che, al momento, impossibilità – dei giudici a una tale forma di ingerenza, data anche l'indeterminatezza delle tecniche di adeguamento che dovrebbero seguire, sia perché il contenuto del contratto appartiene alla sfera decisionale riservata ai contraenti, e un intervento su di esso – attraverso il conferimento al giudice di un potere sostitutivo – non può che spettare solo al legislatore [36].

La questione, ovviamente, non trova soluzione nelle poche disposizioni del decreto Cura Italia che si occupano dei rapporti giuridici in corso, le quali si richiamano alla risoluzione per impossibilità sopravvenuta ex art. 1463 c.c. (art. 88 “Rimborso dei contratti di soggiorno e risoluzione dei contratti di acquisto”) e all'esclusione della responsabilità per inadempimento contrattuale ex artt. 1218 e 1223 c.c. (art. 91 “Disposizioni in materia di ritardi o inadempimenti contrattuali derivanti dall'attuazione delle misure di contenimento e di anticipazione del prezzo in materia di contratti pubblici” [37]).

Una soluzione netta al dilemma sul grado di incisività dell'intervento del giudice è invece contenuta nel recente disegno di legge – recante delega al Governo per la revisione del codice civile (DDL Senato 1151) –, ove è previsto il «diritto delle parti di contratti divenuti eccessivamente onerosi per cause eccezionali ed imprevedibili, di pretendere la loro rinegoziazione secondo buona fede ovvero, in caso di mancato accordo, di chiedere in giudizio l'adeguamento delle condizioni contrattuali in modo che venga ripristinata la proporzione tra le prestazioni originariamente convenuta dalle parti» (art. 1, comma 1, lett. i).

Tuttavia, allo scettiscismo sulla possibilità che la “revisione del codice civile” si compia in tempi brevi, si aggiunge il dubbio che siffatta regola possa rappresentare davvero la soluzione migliore, anche in relazione all'emergenza in corso, e altresì il timore che sia dettata da un eccesso: tanto di sfiducia nelle potenzialità di risposta immunitaria dell'ordinamento vigente, quanto di fiducia nella capacità del legislatore dell'emergenza di produrre anticorpi più efficaci di quelli già presenti.

In altri termini, ferma la necessità di «regole che inducano i contraenti a ricercare consensualmente il modo di superare la difficolta, lasciando al giudice la parola finale in caso di esito negativo della trattativa» [38], resta da chiedersi se sia davvero opportuno prevedere che la misura del suo intervento possa giungere fino alla sostituzione del contenuto contrattuale, senza possibilità di sciogliersi dal vincolo [39], e oltretutto rischiando «quel che è di fatto impossibile» [40], ossia che pressoché tutte le rinegoziazioni generate dalla pandemia finiscano per svolgersi davanti al giudice.

O se non sia piuttosto preferibile, anche al fine di evitare/alleggerire il contenzioso, privilegiare la strada del diritto premiale con l'introduzione di norme volte a incentivare il buon esito della rinegoziazione, se non lo stesso adempimento delle prestazioni originariamente pattuite, ad esempio attraverso la previsione benefici fiscali (detrazioni totali/sgravi/agevolazioni) tanto a favore della parte onerata dal mutamento delle circostanze esterne, quanto a favore dell'altra (comunque anch'essa indirettamente danneggiata dall'emergenza). Lasciando sempre salva la possibilità di liberarsi da un vincolo ormai alterato, ma non una etero-riallocazione del rischio contrattuale.

In questa apprezzabile prospettiva si colloca già l'art. 65 del decreto Cura Italia, prevedendo in favore dei conduttori di botteghe e negozi un credito d'imposta pari al 60% del canone del mese di marzo (che, dunque, resta per intero dovuto). Interventi di questo tipo andrebbero certamente potenziati: sia in relazione alla sfera applicativa – da estendere ad altri contratti di locazione [41] nonché ad altri rapporti contrattuali –– sia in relazione all'entità dei benefici fiscali.

Del pari da promuovere è il ricorso a procedure di (ri)negoziazione assistita, mediazione o anche a nuove forme alternative di risoluzione delle controversie, da affidare a categorie professionali e da incentivare con contribuzioni statali in caso di esito positivo, così da rendere necessario il ricorso al giudice solo in via residuale, ove l'unica soluzione resti la risoluzione del contratto e, se del caso, il risarcimento del danno per violazione della buona fede [42].

La logica di questi interventi è dunque quella – efficacemente invocata e quanto mai necessaria – di una «solidarietà (…) governata dal legislatore» [43] prima ancora che dal giudice, nell'attesa (e nella speranza) di altre nuove «regole puntuali, specifiche, di facile amministrazione ed in grado di garantire un elevatissimo tasso di prevedibilità del loro esito applicativo» [44], affinché – ricordando Montesquieu – nessuno per capirle abbia bisogno di nessuno.

In un momento in cui l'appello al senso di responsabilità è martellante, e in cui ciascuno è chiamato a fare la propria la parte per il bene della collettività, un «approccio socialmente orientato» [45] – attraverso un diritto che incentiva e promuove, ma non impone, una riallocazione del rischio tra i contraenti – sembra essere la risposta più adeguata per la costruzione di un “diritto contrattuale più solidale”: la cui effettività dipende tanto dalla posizione di regole quanto, e ancor più, dal modo in cui queste vengono spontaneamente applicate, con spirito di solidarietà e con l'ambizione di un'esistenza realmente libera e dignitosa per tutti.

Riferimenti bibliografici:

[1] Come evidenziato dal Presidente dell'Associazione Civilisti Italiani Aurelio Gentili, Lettera ai soci 6 aprile 2020, e dai già numerosi articoli pubblicati on line sin dall'inizio dell'emergenza, in particolare su: giustiziacivile.com; in www.questionegiustizia.it; www.comparativecovidlaw.com; Ridare.it; www.quotidianogiuridico.it.

[2] Termine efficacemente utilizzato da F. Macario, Per un diritto dei contratti più solidale in epoca di “coronavirus”, in giustiziacivile.com, in Emergenza Covid-19, Speciale, Uniti per l'Italia, 1, 2020, 208.

[3] La necessità di «un autentico diritto dei contratti dell'emergenza» è rilevata da C. Scognamiglio, L'emergenza Covid 19: quale ruolo per il civilista?, in Giustiziacivile.com, 15 aprile 2020, che auspica «una sorta di New Deal normativo che prevenga il contenzioso destinato a scatenarsi a seguito dell'incidenza della pandemia».

[4] Come noto, alle riflessioni dottrinali degli ultimi decenni sull'esigenza di un “ammodernamento” della disciplina codicistica ha di recente fatto seguito un disegno di legge recante delega al Governo per la revisione del codice civile (DDL S. 1151 presentato al Senato in data 19 marzo 2019). Si tratta senza dubbio di un'iniziativa ambiziosa, essendo il contenuto della delega particolarmente ampio e variegato, e mirando il progetto non solo a riformulare/aggiornare disposizioni già presenti, ma anche a introdurre regole nuove.

[5] Come realisticamente rilevato da C. Scognamiglio, L'emergenza Covid 19: quale ruolo per il civilista?, cit.

[6] Come riportato dai media, diverse procure hanno già avviato indagini al fine di accertare se taluni decessi, e la stessa propagazione di taluni focolai, possano essere ascritti a responsabilità omissive delle strutture. Né mancano iniziative di studi legali volte a incentivare azioni risarcitorie, anche di classe, nei confronti di strutture e sanitari per le condotte tenute durante l'emergenza.

[7] Numerosi gli emendamenti in tal senso proposti, con diverse sfumature, dalle varie forze politiche sia di maggioranza che di opposizione.

[8] Ritiro – giova ricordare – determinato dalle aspre polemiche scatenate dal fatto che l'esenzione di responsabilità proposta non riguardava soltanto gli esercenti la professione sanitaria, ma anche le strutture e, in alcuni emendamenti, era estesa a tutti i soggetti preposti alla gestione della crisi sanitaria derivante dal contagio.

[9] Così efficacemente E. SCODITTI-G. BATTARINO, Decreto-legge n. 18/2020: l'inserimento di norme sulla responsabilità sanitaria, in www.questionegiustizia.it, 3 aprile 2020, cui si rinvia per una lucida analisi, anche in relazione ai problemi di costituzionalità del diritto penale emergenziale di favore.

[10] «L'intervento sanitario imposto dalla pandemia segue procedure vincolate, le quali possono acquistare anche il carattere della routinarietà per il tipo di patologia da trattare», come rilevato da E. SCODITTI, Un'ipotesi di inserimento di norme sulla responsabilità civile sanitaria nella legislazione COVID-19, in www.questionegiustizia.it, 10 aprile 2020; ID., Decreto-legge n. 18/2020: l'inserimento di norme sulla responsabilità sanitaria, cit.

[11] E. SCODITTI, Un'ipotesi di inserimento di norme sulla responsabilità, cit.

[12] Come ancora osservato da E. SCODITTI, Decreto-legge n. 18/2020: l'inserimento di norme sulla responsabilità sanitaria, cit. «Se (…) all'emergenza epidemiologica COVID-19 si conferisce rilevanza in sede di criterio per determinare se vi sia stato adempimento della prestazione professionale (mediante il controllo sulla perizia), non può la medesima circostanza della pandemia tornare ad avere rilievo anche sotto il profilo della causa non imputabile di inadempimento, che costituirebbe peraltro (…) la sua sede propria. Quel presupposto di fatto o ha rilievo per la disciplina sull'adempimento o ha rilievo per quella sulla responsabilità del debitore, stabilendosi diversamente una contraddittorietà nell'ordinamento. I giudici quindi non potrebbero dare rilevanza al COVID-19 dal punto di vista dell'art. 1218. L'esito dell'emendamento è quello di un depotenziamento dell'esimente di cui all'art. 1218, cioè della sede nella quale la circostanza della pandemia dovrebbe essere correttamente collocata».

[13] M. ROSSETTI, Responsabilità civile del medico ed emergenza Covid-19, in corso di pubblicazione, consultato in dattiloscritto per la cortesia dell'A.

[14] Come osservato da M. ROSSETTI, Responsabilità civile del medico ed emergenza Covid-19, cit., una siffatta norma consentirebbe di «escludere la responsabilità civile, salvi i casi di dolo o colpa grave, anche del chirurgo estetico che avesse eseguito un intervento di rinoplastica in una clinica privata durante il periodo emergenziale».

[15] Cfr. ancora M. ROSSETTI, Responsabilità civile del medico ed emergenza Covid-19, cit., secondo cui «non può escludersi a priori che, in un contesto di generale insufficienza di mezzi; di indiscriminato afflusso di pazienti; di grave carenza di personale; il singolo medico o infermiere sia stato costretto di fatto a disattendere i suddetti protocolli o programmi emergenziali».

[16] E. SCODITTI, opp. citt.

[17] M. ROSSETTI, Responsabilità civile del medico ed emergenza Covid-19, cit.

[18] Cass. pen., 10 giugno 2014, n. 24528.

[19] Così M. HAZAN-D. ZORZIT, Corona Virus e Responsabilità, in Ridare.it, 10 marzo 2020, cui si rinvia anche per alcune prime riflessioni sulla complessa questione delle infezioni nosocomiali da Covid-19 e conseguente responsabilità della struttura sanitaria, che si intreccia inevitabilmente con la questione della rilevanza, ai fini dell'esimente di cui all'art. 6 l. n. 24 del 2017, di linee guida, protocolli e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica (ma quali in relazioni alla pandemia Covid-19?). Sul punto, va condiviso quanto osservato da M. ROSSETTI, Responsabilità civile del medico ed emergenza Covid-19, cit., e cioè che «sarebbe assai difficile ascrivere a titolo di colpa ad una struttura sanitaria il non aver saputo prevenire una infezione che il mondo intero non è stato in grado di controllare».

[20] E. SCODITTI-G. BATTARINO, Decreto-legge n. 18/2020: l'inserimento di norme sulla responsabilità sanitaria, cit.

[21] Proposta da E. SCODITTI, Un'ipotesi di inserimento di norme sulla responsabilità civile sanitaria nella legislazione COVID-19, cit. Sulla medesima linea è orientato il Gruppo di lavoro nella macro-area della responsabilità civile dell'Associazione Civilisti Italiani (composto da: Andrea Barenghi, Massimo Franzoni, Marcello Maggiolo, Gaetano Edoardo Napoli, Emanuela Navarretta, Giulio Ponzanelli e Claudio Scognamiglio), che già che aveva collaborato alla preparazione di una bozza di proposta per la riforma del codice civile.

Per ulteriori suggerimenti operativi, anche in relazione alla elaborazione di linee guida e buone pratiche assistenziali dell'emergenza, v. E. SCODITTI-G. BATTARINO, Decreto-legge n. 18/2020: l'inserimento di norme sulla responsabilità sanitaria, cit.

[22] Come opportunamente rimarcato da C. Scognamiglio, L'emergenza Covid 19: quale ruolo per il civilista?, cit.

[23] In particolare, l'inutilizzabilità – rectius: la sopravvenuta impossibilità di utilizzazione della prestazione – si configura quando la prestazione, se pur ancora possibile, è inidonea a realizzare l'interesse del creditore. Come l'impossibilità, l'inutilizzabilità può essere temporanea o definitiva, totale o parziale, conducendo, a seconda dei casi, alla riduzione della prestazione ex art. 1464 c.c. ovvero alla estinzione dell'obbligazione e risoluzione del contratto, che dell'obbligazione costituisce la fonte, per irrealizzabilità della sua causa concreta (Cass. civ., 24 luglio 2007, n. 16315, in Obbl. e contr., 2008, 13, in dottrina C.M. BIANCA, Diritto civile, 4, L'obbligazione, Milano, 1990, 544).

Prossimo all'abuso del diritto, il concetto di inesigibilità – su cui imprescindibile è il rinvio a L. MENGONI, Obbligazioni “di risultato” e obbligazioni “di mezzi”, in Riv. dir. comm., 1954, I, 280; cfr. altresì M. BESSONE, Adempimento e rischio contrattuale, Milano, 1975; più di recente, O. CLARIZIA, Sopravvenienze non patrimoniali e inesigibilità nelle obbligazioni, Napoli, 2012 – si configura quando non vi è una vera e propria impossibilità fisica o giuridica di adempiere: esso abbraccia casi in cui l'adempimento è possibile, ma «a costi economici, fisici o psichici eccessivi» (F. Gazzoni, Manuale del diritto privato, Napoli, 2013, 639). L'inesigibilità viene quindi utilizzata per escludere la pretesa all'adempimento quando lo stesso, se pur possibile, comporta un sacrificio sproporzionato rispetto allo sforzo diligente esigibile e, quindi, non rispondente al principio solidaristico di cui all'art. 2 Cost. e altresì contrario a buona fede, che funge da «criterio di determinazione del limite di esigibilità» (M. BESSONE, Adempimento e rischio contrattuale, cit., 395). Essa si caratterizza tanto come vicenda modificativa che determina l'incoercibilità dell'obbligazione, quanto come vicenda estintiva dell'obbligazione là dove il protrarsi delle circostanze impeditive determinino il venir meno dell'interesse del creditore, analogamente a quanto previsto dall'art. 1464 c.c. in tema di impossibilità temporanea della prestazione.

[24] Cfr. sul punto S. VERZONI, Gli effetti, sui contratti in corso, dell'emergenza sanitaria legata al COVID-19, in Giustiziacivile.com, in Emergenza Covid-19, Speciale, Uniti per l'Italia, 1, 2020, p. 221. In tal senso cfr. F. DELFINI, Autonomia privata e contratto, Milano, 2019, 11, secondo cui «una valutazione più approfondita dell'interesse del creditore al mantenimento del contratto (arg. ex art. 1256 c.c.) potrebbe poi portare anche in caso di impossibilità temporanea ad una riduzione della controprestazione dovuta, in ragione della minore utilità connessa ad una esecuzione differita nel tempo, al momento della cessazione della impossibilità e (talvolta) dell'eventuale minor onere sopportato dal debitore per adempiere più tardi (cioè quando cessa la impossibilità temporanea appunto), rispetto al termine pattuito».

[25] Si v. ad es., il nuovo art. 1195 del Code civil francese riformato nel 2016, che ha codificato la c.d. dottrina dell'“imprévision”. V. altresì l'art. 313 del BGB, introdotto nell'ordinamento tedesco dalla riforma del 2002, che è dedicato all'“adeguamento” del contratto, pur non prevedendo espressamente l'obbligo di rinegoziazione.

[26] Sulla storia di questa figura dogmaticamente «spuria», che costituisce una peculiarità e un'innovazione del codice civile del 1942 del tutto sconosciuta ad altri ordinamenti, quali quello francese e tedesco, tutti imperniati sul tradizionale modello dello scambio istantaneo, v. F. MACARIO, Regole e prassi della rinegoziazione al tempo della crisi, in Giust. civ., 2014, in part. 834 ss.

[27] A.M. BENEDETTI-R. NATOLI, Coronavirus, emergenza sanitaria e diritto dei contratti: spunti per un dibattito, in dirittobancario.it,25 marzo 2020.

[28] V. ancora F. MACARIO, Regole e prassi della rinegoziazione al tempo della crisi, cit.,

[29] Per una ricognizione, cfr. G. SICCHIERO, Rinegoziazione, in Dig. disc. priv., sez. civ., Aggiornamento, II, Torino, 2003.

[30] F. Macario, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli, 1996, p. 126-127.

[31] F. Macario, op. ult. cit., pp. 147 ss., 322 ss.; V. ROPPO, Il contratto, Milano, 2001, p. 496 e 1046.

[32] R. Sacco, Sacco-De Nova, Il contratto,Torino, 1993, II, p. 686.

[33] Cfr. Corte cost., 1° aprile 1992, n. 149 e Corte cost., 3 febbraio 1994, n. 19.

[34] P. Gallo, Sopravvenienza contrattuale e problemi di gestione del contratto,Milano, 1992, 385 ss.

[35] «L'esistenza di un obbligo legale di rinegoziare il contenuto dei contratti di durata in presenza del mutamento delle circostanze esterne è stato ricondotto, in estrema sintesi, da un lato al principio di buona fede contrattuale; dall'altro ad un'interpretazione evolutiva della regola contenuta nell'art. 1467 c.c., la quale consentirebbe di configurare il diritto della parte danneggiata dal mutamento delle circostanze esterne, di mantenere in vita il contratto adeguato alla nuova situazione». Così G. SICCHIERO, Rinegoziazione, cit.

[36] Per tali considerazioni G. SICCHIERO, Rinegoziazione, cit.

[37] Sulla sicura, se non ovvia, applicabilità dell'art. 91 – che la rubrica detta specificamente per la materia dei contratti pubblici – anche al settore dei contrati di diritto privato, indipendentemente dall'oggetto e dalla natura dei contraenti, v. S. VERZONI, Gli effetti, sui contratti in corso, dell'emergenza sanitaria legata al COVID-19, cit., 215, e altresì G. FEDERICO, Adeguamento del contratto e doveri di solidarietà: per un'ermeneutica della dignità, in questionegiustizia.it,9 aprile 2020. Come osservato da A.M. BENEDETTI, Il «rapporto» obbligatorio al tempo dell'isolamento: una causa (transitoria) di giustificazione? in Giustiziacivile.com, 3 aprile 2020, l'art. 91 ha introdotto una «causa straordinaria di giustificazione dell'inadempimento» e nel contempo una «una causa legale di sospensione dell'adempimento». Si tratta, comunque, di una norma che «vive nel solco delle previgenti», poiché «non crea nulla ma costituisce semplicemente un elemento rafforzativo di quanto già previsto dall'ordinamento» (così N. TILLI, Contratti e Covid19: ipotesi e soluzione nello scenario dei possibili inadempimenti futuri, Dirittoegiustizia.it, 30 marzo 2020).

[38] F. MACARIO, Regole e prassi della rinegoziazione al tempo della crisi, cit., p. 863-864.

[39] Sotto tale aspetto, assai più opportuno pare il punto 4 dell'art. 6.2.3 dei Principi Unidroit, ai sensi del quale «Il giudice, se accerta il ricorrere di una ipotesi di hardship, può, ove il caso, (a) risolvere il contratto, in tempi e modi di volta in volta da stabilire, oppure (b) modificare il contratto al fine di ripristinarne l'originario equilibrio». Analoga regola è dettata dall'art. 6:111 dei Principi di diritto europeo dei contratti, che altresì consente giudice di condannare al risarcimento dei danni cagionati dal rifiuto di una parte di avviare le trattative o dalla loro rottura in maniera contraria alla buona fede e alla correttezza.

[40] Così, pragmaticamente, D. MAFFEIS, Problemi dei contratti nell'emergenza epidemiologica da Covid-19, in Giustiziacivile.com, 10 aprile 2020.

[41] In effetti, come rilevato da V. CUFFARO, Il contratto di locazione nelle disposizioni emergenziali, in giustiziacivile.com, in Emergenza Covid-19, Speciale, Uniti per l'Italia, 1, 2020, 233, la disposizione lascia fuori altri rapporti di locazione, anch'essi ad uso diverso dall'abitazione, ma aventi ad oggetto immobili aventi una diversa classificazione catastale quali, ad esempio, i magazzini o i laboratori. In argomento v. anche le considerazioni di A. D'ONOFRIO, L'impatto del covid-19 sui contratti di locazione ad uso commerciale: l'eccezionalità dei fatti non impone un diritto eccezionale, in www.diritto.it, 3 aprile 2020.

[42] In questa concreta direzione, v. il Manifesto della Giustizia Complementare alla Giurisdizione, 28 marzo 2020, promosso dal Gruppo di esperti del Tavolo sulle procedure stragiudiziali in materia civile e commerciale istituito presso il Ministero della Giustizia.

[43] C. SCOGNAMIGLIO, L'emergenza Covid 19: quale ruolo per il civilista?, cit.

[44] Come auspicato ancora da C. SCOGNAMIGLIO, L'emergenza Covid 19: quale ruolo per il civilista?, cit.

[45] Così R. DI RAIMO, Le discontinuità che seguono i grandi traumi: pensando al credito (e al debito), mentre la notte è ancora fonda, in Giustiziacivile.com, 9 aprile 2020.

 

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