Viviamo nel tempo sfrenato del sentenziare, ed è in primo luogo l’ora del sospetto. Sopra tutti grava il tribunale, che ci giudica incessantemente e di cui spesso e volentieri facciamo parte. Moltissime persone sospettano di molti su molte cose; a volte sembra quasi che non ci sia nulla che riesca a sottrarsi alla diffidenza. Tutto ciò non si verifica soltanto nei discorsi casalinghi; purtroppo non è raro che le inchieste penali perlustrino anche le ipotesi più fantasiose (magari raccogliendo, nei processi intentati a politici, schiere di tifosi in conflitto). Nulla è sicuro; persino la scienza è messa in discussione: non tanto nelle tesi più avveniristiche ma già nei risultati consolidati. Vediamo quanta sfiducia si riversi sulla medicina e sulle vaccinazioni proprio mentre la pandemia assedia il mondo.
Dopo il pensar male, ecco l’accusa avventata e il giudizio istintivo. Sospetto e accusa quasi scompaiono nell’affermarsi del giudizio, che vi si sovrappone con netta evidenza. Addirittura il giudizio precede congettura e accusa: abbiamo la sgradevole impressione che con febbrile frettolosità tutti giudichino tutti su tutto; che non ci sia nulla che riesca a sottrarsi all’avventatissimo sentenziare. Quel giudizio ci fulmina con la condanna: un moto di rabbia non repressa, una pietra scagliata contro il nemico, un affollato esercizio di stupidità invidia e cattiveria: moto di pura volontà e privo di ragione. Masse solitarie e inquiete pretendono il diritto di urlare la parola conclusiva su qualsiasi questione, e qui eccellono i meno informati e quelli che non sanno niente di niente. Questo terribile giudice che cresce nell’animo manifesta una caratteristica non nuova ma particolare e composita: in una inaudita sommatoria di ruoli egli si crede padrone dell’accusa e al contempo si erge a signore della sentenza.
Il presupposto di una simile condizione generalizzata che vede proliferare i signori del giudizio è la falsa sicurezza nelle proprie risorse, rafforzata dal discredito in cui è caduta la conoscenza e dalla lotta alle tecnocrazie. Molti credono ciecamente nelle loro impressioni, quasi si elevano a maestri di verità benché si preoccupino soltanto della loro particolare versione della verità. Immancabilmente si dimostrano alquanto allergici a percorrere la via faticosa del dubbio, l’unica che potrebbe aumentare la possibilità di cogliere qualcosa di quella verità apparentemente posseduta da tutti ma diversa nelle mani di ognuno. Per conseguenza capita spesso di sputare sentenze senza avvertire il peso della decisione; questa cattiva abitudine fa progredire il deserto della riflessione. Come se la capacità di ricercare i fatti, affidarsi alle prove, conoscere le regole del giudizio, soppesare prudentemente le ragioni degli altri, giungere faticosamente e passo dopo passo alla decisione – come se queste non fossero pratiche che possano ancora appartenerci. Nel mondo avanza a grandi passi la sfiducia nell’uomo. Non a caso secondo alcuni moderni ammiratori della macchina (per usare le parole di Barrett, La morte dell’anima, Roma-Bari, 1987, pp. 173 s.), la soluzione dei processi giudiziari dovrebbe essere affidata a macchine giudicanti, che si suppongono meno inclini all’errore. Per questo esito si dovrebbe però «spegnere la fiammella della coscienza, considerandola non necessaria e paradossale». Ecco che la comunità stessa finisce per essere oppressa sotto un’accusa ricorsiva e uno scetticismo paralizzante.
Una notevole parte di responsabilità per questo stato di cose è nella crisi in cui da qualche decennio si sente precipitato in Occidente il pensiero filosofico, specie quando si trova declinato nelle varie correnti del postmodernismo e del decostruzionismo, che invitano a diffidare della possibilità di una conoscenza adeguata dei fatti (della possibilità di una verità oggettiva) e che tendono a degradare anche una seria argomentazione sul piano della semplice opinione (cosicché qualsiasi punto di vista varrebbe qualsiasi altro). Segue il tripudio del relativismo, che sbocca nel vicolo cieco dell’irrazionalismo. Questa posizione culturale, che vorrebbe fare a pezzi la ragione, è il presupposto ideale per la generazione incessante del giudizio senza scrupoli, pronunciato in innumerevoli verdetti che si equivalgono combattendosi a vicenda.
L’occasione pratica è invece nello sviluppo delle possibilità di comunicare quello che passa per la mente nei canali disponibili in rete. Questa possibilità è a portata di mano di chiunque e moltissimi ne approfittano. Accade così che internet favorisca l’esplosione di giudizi insensati, la diffusione della subcultura del complotto, l’accreditamento di leggende metropolitane. In breve, il trionfo del populismo e l’ostilità verso le competenze; in conclusione, la feroce diffidenza verso il ragionamento basato su fatti verificati e sopra argomenti fondati. Parte della stampa, incapace di meglio, preferisce partecipare a questo gioco sconclusionato piuttosto che impegnarsi in una seria informazione: così diversi giornali gareggiano a chi la spara più grossa rivaleggiando anche con noti siti scandalistici. Per conseguenza, poiché l’originale è sempre preferito all’imitazione, il favore degli impazienti lettori verso quei siti è crescente.
Giudicare a vanvera nella vita di tutti i giorni è un vizio di cui potremmo cercare di fare a meno (rinunciando alla maldicenza e al pettegolezzo). Invece a certi pensatori di professione non potremmo sottrarre il diritto di esporre tesi iper-nichiliste ostili alla nostra tradizione razionalistica, ma spetta a noi valutare quelle proposte accogliendole o tralasciandole. I giornali scandalistici possono essere tranquillamente ignorati senza temere perdite di informazione (e rendendo un servizio alla collettività). Eppure non c’è inversione di rotta. «La malattia del sentenziare è una delle più diffuse tra gli uomini», dice Canetti (Massa e potere, Milano, 2019, p. 359), «in pratica, tutti ne sono colpiti». La manifestazione della malattia è stigmatizzata da Kafka in un passo dove K. riflette: «Chi non si fosse eretto a giudice, condannando ciecamente e in anticipo, avrebbe almeno cercato di umiliarlo» (Kafka, Il processo, Milano, 2020, p. 148). Ecco la malattia: chiunque può erigersi all’altezza del giudice che ci guarda dall’alto, e lo fa immancabilmente per esprimere una condanna: ciecamente (senza aver valutato fatti e ragioni) e in anticipo (disinteressandosi dell’inutile processo e serbando in cuore un pregiudizio). In tutto ciò è umiliazione, un fatto che traspare nella sua nudità quando nemmeno si fa finta di giudicare, e gettando a terra la maschera del giudice si procede direttamente ad infliggere una mortificazione.
Il giudicare dei giudici di professione è un compito aspro ma ineludibile; senza quella funzione la società non potrebbe essere governata nei conflitti che vi si accendono senza sosta. Per di più quel compito resta invariabilmente fondato sulla fiducia nella ragione e sulla possibilità della verità dei fatti: su presupposti che spesso appaiono declinanti nel pubblico dibattito. Qualcuno deve pure sobbarcarsi questo mestiere; per chi decide di farlo è bene tuttavia sapere che è destinato ad imbattersi in una grave e costitutiva difficoltà, che ha poco a che vedere con la situazione presente. Se potremmo chiederci, evangelicamente, dove mai starebbe il diritto che ci arroghiamo continuamente di giudicare gli altri, divenendo consapevoli di una insopprimibile aporia (con tutti i vantaggi che questo comporta), peggio ancora potremmo domandarci dove mai starebbe il diritto di qualcuno di giudicare professionalmente gli altri solo per la vittoria in un concorso pubblico o per la vittoria in una competizione elettorale. Eppure il diritto, pietra angolare della comunità, reclama il giudizio.
Il giudice saggio conosce i suoi fallimenti perché sa di non essere infallibile. Come osservò Chillingworth, (The Works, 1838, Oxford at the University Press, II, pp. 321 s.) riesce a svolgere comunque il suo lavoro perché è certo di giudicare con giustizia: si affida infatti all’evidenza disponibile dei fatti (alle prove) e all’applicazione coscienziosa del diritto. Nondimeno egli non possiede una certezza teorica, e si appoggia a una certezza morale: sa di poter decidere sulla base di accertamenti ragionevoli, e sa di doverlo fare non appena tali accertamenti ragionevoli gli appaiano davanti. In tutto ciò conserva la consapevolezza che può sempre cadere in errore. La sentenza ben calibrata si lascia sempre dietro, piuttosto che una spavalda sicurezza, un senso di insoddisfazione.
Ma questa consapevolezza non emarginerebbe l’accusa. Essa dilaga, e travolge anche il giudice. Fatalmente quell’accusa non fa differenza tra chi esercita bene e chi disonora questo complicato mestiere; tra chi serve il tribunale e chi se ne serve per fare carriera in luoghi diversi. I pessimi giudici diffusi nel pubblico conoscono solo sentenze di condanna e raccolgono l’erba medicinale e la gramigna immancabilmente in un unico fascio.
L’antidoto a questa deriva verso il caos sarebbe di sforzarci di essere giudici, nelle nostre opinioni su questo o su quello, come dovrebbero esserlo le donne e gli uomini che celebrano processi e siedono in tribunale, sempre esposti al giudizio che pronunciano sui nostri interessi e a volte sulla nostra libertà. Dovremmo sforzarci, con loro, nel corretto pensare e nell’argomentazione saggia e prudente delle tesi che professiamo. Poiché siamo esseri forniti di ragione, con qualche allenamento questa abilità di solito trascurata potrebbe essere acquisita senza eccessiva fatica. Dunque la salvezza starebbe nell’accettare la pazienza di porsi domande su questo e su quello, e poi di domandare ancora scansando ogni certezza prematura per rinviare la sentenza all’esito di tutto questo affinché, forse, sia fatta giustizia. La via è nella coltivazione del giudizio sul campo del dubbio, sperando che venga il raccolto, ossia una giusta sentenza.
In questa speranza è implicato, prima della teologia, della morale o della filosofia, il diritto: la pratica che per forza di cose deve ancora affidarsi alle idee di ragione, prova dei fatti, verità oggettiva, criterio del giudizio. Anche in questo senso nel diritto possiamo scorgere la salvezza della comunità.