Il "Decreto trasparenza” - D.lgs. n. 104/2022 - sta suscitando ampio interesse. Pubblichiamo qui un primo contributo del Prof. Franco Scarpelli, condirettore dell’Area Lavoro, su alcuni aspetti sostanziali della nuova disciplina, finora poco trattati dai primi commenti.
La Rivista invita gli studiosi e i collaboratori a proporre contributi - strutturati in forma di saggio o anche di breve articolo - sia sugli interrogativi interpretativi sollevati nel contributo del Prof. Scarpelli sia, in generale, sugli obblighi informativi sulle condizioni del lavoro introdotti o incrementati dal predetto decreto.
I contributi vanno inviati alla Redazione (redazionegiustiziacivile@giuffrefl.it) e saranno assoggettati, secondo le regole della rivista, a referaggio anonimo.
La compatibilità (o non), fino ad oggi, di più impegni di lavoro
Il d.lgs. 27 giugno 2022, n. 104 ha subito attratto l'attenzione degli operatori (non di rado anche critica) per la parte che ha incrementato gli obblighi del datore di lavoro di informazione sulle condizioni contrattuali del dipendente.
Al suo interno tuttavia si colloca anche una norma su un rilevante aspetto sostanziale dei rapporti di lavoro, intervenendo per la prima volta su un tema che, nella pratica più che tra gli studiosi e in giurisprudenza, solleva non di rado interrogativi o dubbi, ovvero quello se chi ha un rapporto di lavoro dipendente possa assumere impegni per lo svolgimento di altra attività lavorativa: un altro rapporto di lavoro subordinato, un rapporto di lavoro autonomo, l'incarico di amministratore di una impresa, attività in ambiti associativi, del terzo settore, sportivi, ecc.
Sino ad oggi la questione mancava di una disciplina organica, almeno nell'ambito privato.
Nel lavoro pubblico esiste invece e da lungo tempo un principio di esclusività della prestazione (che ha la sua base nell'art. 98 della Costituzione), il quale ammette poi delle eccezioni (la più importante riguarda i lavoratori a tempo parziale) e trova la sua principale disciplina nell'articolo 53 del d.lgs. 165/2001 (integrato poi da discipline di settore o per specifiche figure professionali, come avviene ad esempio per i medici del servizio sanitario o per i professori e ricercatori universitari).
Per i rapporti di lavoro privato, il diritto del dipendente a svolgere un'altra attività lavorativa poteva dirsi certo per i lavoratori assunti a tempo parziale (cfr. Cass. 25 maggio 2017, n. 13196, la quale ha ritenuto invalida la previsione di un regolamento aziendale che disponeva della facoltà del dipendente di reperire altra occupazione in orario compatibile con la prestazione a tempo parziale). Anzi, proprio in vista dell'effettività di tale diritto (insieme a quello della conciliazione con esigenze della vita privata e familiare) si è posto il tema della certezza e programmazione degli orari del part-timer, che in linea generale non dovrebbero impedire l'assunzione di altri impegni lavorativi: come noto, la stessa Corte Costituzionale ha ritenuto che tale opportunità debba necessariamente essere salvaguardata “poiché soltanto essa rende legittimo che dal singolo rapporto il lavoratore possa ricevere una retribuzione inferiore a quella sufficiente ad assicurare a lui e alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa” (Corte Cost. 11 maggio 1992, n. 210; cfr. anche Cass. 22 marzo 1990, n. 2382). Il tema, come è noto, è stato poi oggetto di espressa disciplina parte del legislatore).
Per i lavoratori a tempo pieno, invece, la questione rimaneva affidata ai principi generali o alla regolazione negoziale, collettiva e individuale, con non pochi dubbi e interrogativi: se era abbastanza diffusa l'opinione per cui non vi fossero, dal punto di vista legale, un divieto di svolgere un'altra attività o un diritto di esclusiva a favore del datore di lavoro (per un riferimento in tal senso per i rapporti a tempo pieno, v. Cass. 21 maggio 2008, n. 12962), poteva accadere che tale esclusiva fosse imposta dai contratti collettivi, salvo autorizzazione concessa dallo stesso datore (v. ad es. l'art. 38, comma 7, CCNL del settore credito) o inserita in specifiche clausole del contratto individuale.
In ogni caso, si poneva il dubbio della compatibilità di più impegni lavorativi con la disciplina degli orari massimi di lavoro e dei riposi, mentre un diverso tema di compatibilità sorge con riguardo all'obbligo di fedeltà del lavoratore ex art. 2015 c.c. e, più in generale, al tema del conflitto di interessi: tema che soprattutto in tempi più recenti le imprese tendono a interpretare con particolare estensione, dando ovviamente prevalenza alla propria soggettiva valutazione di quali attività siano compatibili, o non, con la posizione di dipendente.
Così, non sono mancati i casi di lavoratrici e lavoratori ai quali sia stata contestata, arrivando talvolta anche al licenziamento per giusta causa, l'assunzione di altri impegni (raramente di lavoro dipendente, più spesso di carattere professionale o imprenditoriale) (es. Cass. 3 marzo 2003, n. 3070). Egualmente, poteva capitare che il lavoratore segnalasse per prudenza l'intenzione di assumere un impegno ritenuto del tutto neutro rispetto al proprio lavoro principale, vedendosi opporre una mancata autorizzazione e rimanendo così in una situazione di incertezza sulla tutela dei propri interessi.
La Direttiva 1152/2019 e l'art. 8 del decreto legislativo 104/2022: vietato vietare il cumulo di lavori (salva incompatibilità…)
In tale scenario interviene il d.lgs. n. 104/2022, il quale costituisce normativa di attuazione della direttiva UE n. 1152 del 20 giugno 2019. Se tale disciplina è intesa soprattutto a rafforzare gli obblighi di informazione del datore di lavoro verso il lavoratore, per la parte che ci interessa essa pone principi e regole di carattere sostanziale che, usando la terminologia della direttiva e della legge, costituiscono “prescrizioni minime relative alle condizioni di lavoro”.
Possiamo dunque affermare che, nei limiti che saranno illustrati, le regole qui esaminate costituiscono norme inderogabili ricollegabili a diritti essenziali del lavoratore: se non addirittura a diritti fondamentali riconducibili a valori di libertà personale e al diritto al lavoro ex art. 4 Cost. e 15 Carta di Nizza, che qui si pongono nella dimensione della libertà di assumere più impegni lavorativi o professionali tra di loro compatibili.
Si tratta di una prospettiva del diritto al lavoro sino ad oggi meno frequentata e sottolineata, ma la cui importanza va crescendo con la modifica dei modelli sociali ed organizzativi del lavoro, con le opportunità create dalle tecnologie telematiche, con le crescenti esigenze di integrazione dei redditi avvertite da tanti lavoratori di fascia media o più bassa.
Sotto quest'ultimo profilo, e rimanendo per un momento sul substrato sociale del tema, non può ignorarsi il recente proporsi del tema del c.d. “lavoro povero”, ovvero della significativa diffusione di casi in cui anche la titolarità di un rapporto di lavoro a tempo pieno non costituisce più garanzia dell'accesso a retribuzioni adeguate e sufficienti ex art. 36 Cost. (se non per l'impervia via della contestazione in sede giudiziale del contratto collettivo applicato: v., tra i primi e più significativi pronunciamenti sul tema, Trib. Torino 9 agosto 2019, n. 1128): un secondo lavoro costituisce dunque, per una parte di lavoratrici e lavoratori, una necessità per procurare a sé e alla propria famiglia livelli appena adeguati di reddito.
Anche per i lavoratori più professionalizzati, l'avvio o lo svolgimento di altre attività (in genere di lavoro autonomo o in forma imprenditoriale) costituiscono non solo fonte di miglior reddito, ma anche la premessa di una maggiore sicurezza su un mercato del lavoro nel quale, secondo un luogo comune sempre più vicino al vero, il “posto fisso” non è più caratteristica predominante delle carriere lavorative: nella prospettiva della “capability” lo sviluppo di impegni professionali paralleli costituisce dunque un'opportunità che fa da coerente contraltare alla diffusa istanza imprenditoriale di flessibilità.
Va osservato che qui si colloca un nervo scoperto dell'odierna (prevalente) cultura dell'impresa, che da un lato domanda flessibilità ma dall'altro, soprattutto per i lavoratori di professionalità più elevata, tende a istituire vincoli sempre più rigidi: c'è dunque da attendersi una difficoltà di molte imprese a digerire le novità normativa che andiamo ora a descrivere.
La derivazione europea della disciplina impone di tenere conto, anche a fini interpretativi, di quanto prevede la stessa direttiva, il cui 'considerando' 29 indica che il datore di lavoro “non dovrebbe vietare a un lavoratore di accettare impieghi presso altri datori di lavoro al di fuori del tempo di lavoro stabilito con lui” e che le eventuali restrizioni per motivi di incompatibilità “vanno intese come restrizioni al lavoro per altri datori di lavoro per motivi obiettivi” (il neretto è mio), tra le quali la protezione della salute e della sicurezza dei lavoratori, la protezione della riservatezza degli affari, l'integrità del servizio pubblico o la prevenzione dei conflitti di interessi.
L'art. 9 della direttiva prevede poi che gli Stati membri provvedano affinché il datore di lavoro non vieti la possibilità di accettare altri impieghi compatibili con la programmazione del lavoro, né riservi al lavoratore un trattamento sfavorevole per tale motivo, rinviando agli Stati il compito di disciplinare le restrizioni e i casi di incompatibilità per i motivi oggettivi sopra detti.
L'art. 8 del decreto 104, intitolato “Cumulo di impieghi” (la Direttiva parlava di impiego in parallelo), ai primi due commi così traspone l'obbligo derivante dalla normativa europea:
“1. Fatto salvo l'obbligo previsto dall'articolo 2105 del codice civile, il datore di lavoro non può vietare al lavoratore lo svolgimento di altra attività lavorativa in orario al di fuori della programmazione dell'attività lavorativa concordata, né per tale motivo riservargli un trattamento meno favorevole.
2. Il datore di lavoro può limitare o negare al lavoratore lo svolgimento di un altro e diverso rapporto di lavoro qualora sussista una delle seguenti condizioni: a) un pregiudizio per la salute e la sicurezza, ivi compreso il rispetto della normativa in materia di durata dei riposi; b) la necessità di garantire l'integrità del servizio pubblico; c) il caso in cui la diversa e ulteriore attività lavorativa sia in conflitto d'interessi con la principale, pur non violando il dovere di fedeltà di cui all'articolo 2105 del codice civile”.
I restanti commi si occupano del campo di applicazione della disciplina, stabilendo in particolare l'esclusione dei lavoratori marittimi e del settore della pesca e il rinvio all'articolo 53 del d.lgs. 165/2001, per i lavoratori pubblici.
Il comma 3 precisa che la disciplina del cumulo non riguarda solo i lavoratori subordinati ma anche i collaboratori autonomi continuativi e coordinati: sia quelli ex art. 409, n. 3 c.p.c., sia quelli rientranti nella definizione dei c.d. “etero-organizzati” di cui all'art. 2 del d.lgs. 81/2015 (anche nei casi in cui agli stessi, operando le eccezioni di cui al comma 2 della norma, non sia applicabile la disciplina generale del lavoro subordinato).
Anche per i collaboratori autonomi stabili varrà dunque la disciplina sul divieto di vietare il cumulo. Restano invece esclusi dal suo ambito di applicazione (come peraltro dispone anche in generale l'art. 1 del decreto 104) i rapporti autonomi puri, cioè le prestazioni d'opera professionali o occasionali ex art. 2222 c.c., così come anche i rapporti autonomi di agenzia e rappresentanza commerciale.
Tale esclusione va però intesa, ovviamente, non come concessione in questo caso della possibilità del divieto di cumulo, il quale può probabilmente considerarsi incompatibile con la configurazione stessa del lavoro autonomo: altra cosa è, come avviene spesso per gli agenti, che la specifica relazione negoziale stabilisca obblighi di esclusiva o limiti anticoncorrenziali, che riguardano appunto l'attività oggetto dell'incarico e non la libertà in generale del prestatore di svolgere anche altre e diverse attività lavorative.
Infine, il capo IV del decreto prevede alcune misure dirette a contrastare la violazione dei diritti disciplinati, ivi compreso quello al cumulo di attività: da segnalare in particolare l'art. 14 che prevede una specifica protezione contro il licenziamento o il recesso del committente, o comunque contro trattamenti pregiudizievoli conseguenti all'esercizio dei diritti, importando dalla normativa antidiscriminatoria – ma con tratti forse originali, che meriteranno approfondimento – la tecnica del ribaltamento sul datore di lavoro dell'onere di provare la mancanza del carattere ritorsivo del recesso o di altri provvedimenti equivalenti, se appunto contestati come conseguenti all'esercizio del diritto.
Lo svolgimento di un'altra attività come diritto
Il divieto di vietare al lavoratore lo svolgimento di altra attività lavorativa implica dunque, necessariamente, che l'ordinamento riconosce il diritto di ogni lavoratore subordinato o collaboratore a tale libero svolgimento, salvo che sussistano i presupposti impeditivi o limitativi previsti dal legislatore.
Tale affermazione è solo apparentemente tautologica, poiché essa comporta due corollari: il primo è che le restrizioni a tale diritto sono da intendersi come tassative e di stretta interpretazione; il secondo è che, come espressamente indica la direttiva europea (con valore vincolante per l'interpretazione del decreto di attuazione), i presupposti delle restrizioni devono essere oggettivi, quindi concretamente sussistenti e dimostrabili, attuali e non rimessi a mere valutazioni soggettive del datore di lavoro o committente (profilo che, ad esempio, può avere rilevanza sul terreno del conflitto di interessi).
In caso di controversie, pare evidente che l'onere di provare la sussistenza dei presupposti delle restrizioni incomba sul datore di lavoro e che, nel dubbio, dovrà darsi prevalenza al diritto allo svolgimento dell'attività controversa.
Ci si può interrogare se ed entro quali limiti il diritto allo svolgimento di altra attività possa essere oggetto di regolazione negoziale, in sede collettiva o individuale. Per quel che riguarda i contratti collettivi direi che non sono valide le clausole che, come per il settore credito, pongono un divieto generale di prestare a terzi la propria opera o attribuiscono al datore di lavoro un potere discrezionale di autorizzazione (e perdono di validità quelle esistenti, ammesso che non potessero già mettersi in discussione in passato).
Altra cosa è che la contrattazione collettiva possa disciplinare la materia esemplificando i casi tipici in cui si pongono profili di incompatibilità, regolando il tema della gestione degli orari e delle attività non programmabili (v. infra), le procedure di segnalazione e gestione dei casi incerti, le procedure e garanzie intese, anche ai sensi del capo IV del decreto 104, a tutelare il lavoratore che esercita il diritto allo svolgimento di altra attività, nel caso subisca per tale motivo trattamenti meno favorevoli. In ogni caso la disciplina contrattuale, pur potendo costituire un criterio orientativo per il giudice, dovrà sempre cedere nell'ipotesi in cui conduca a limitare il diritto del lavoratore oltre quanto consente la legge.
Più complesso mi pare il tema della disponibilità del diritto in sede di contratto individuale: la previsione del divieto (salve le restrizioni ammesse), come prescrizione minima relativa alle condizioni di lavoro potrebbe costituire argomento per l'indisponibilità del relativo diritto. Tuttavia, se mi pare certo che un accordo individuale non possa restituire al datore di lavoro un potere discrezionale di autorizzare o impedire lo svolgimento di altra attività (clausola che dovrebbe considerarsi nulla), ci si può interrogare sulla possibilità del lavoratore di concedere al datore di lavoro o committente l'esclusiva del proprio impegno (soprattutto per le prestazioni caratterizzate da maggiore professionalità e autonomia operativa), magari a fronte di uno specifico corrispettivo. Il tema è delicato (sussistendo ovviamente rischi di pratiche elusive della regola) e richiederà ulteriori riflessioni e approfondimenti.
Infine, ci si deve interrogare sulle modalità di esercizio del diritto, e in particolare se il lavoratore debba informare il datore di lavoro dell'avvio di una nuova attività (su questo aspetto torneremo in conclusione).
Organizzazione del lavoro e altra attività: il diritto alla “prevedibilità” degli impegni lavorativi
Il lavoratore che assuma impegni per lo svolgimento di un'altra attività lavorativa dovrà farvi fronte “in orario al di fuori della programmazione dell'attività lavorativa concordata”. Ovviamente, il dipendente che dovesse dedicarsi alla seconda attività in orario di lavoro, o comunque distogliere il proprio impegno per esigenze di quest'ultima, verrebbe meno ai propri obblighi contrattuali, con possibili conseguenze disciplinari graduabili a seconda della gravità dell'inadempimento.
Tale profilo di compatibilità, peraltro, può porsi in modo problematico per quelle attività (la principale o la secondaria) che non abbiano precisi confini di esecuzione oraria (si pensi ora al lavoro agile, ma anche forme più tradizionali di lavoro come quelli itineranti).
Su questo punto va istituita una connessione con alcune delle novità più significative del decreto 104/2022, dirette a garantire al lavoratore una adeguata informazione sui dati temporali del proprio impegno: la novità (rispetto alla vecchia disciplina del d.lgs. 152/1997, che prevedeva il semplice obbligo di comunicare al lavoratore l'orario di lavoro) non si colloca solo nell'ambito degli obblighi di informazione, che oggi devono coprire anche le attività non caratterizzate da orari fissi, ma introduce nell'ordinamento una nuova regola sostanziale (anch'essa compresa nelle prescrizioni minime relative alle condizioni di lavoro) riassumibile, secondo la rubrica dell'art. 9, in un diritto alla “prevedibilità minima”, anche temporale, del lavoro (diritto anch'esso sancito dalla direttiva 2019/1152) (proprio con richiamo alla novità della direttiva è stata di recente formulata la proposta di un “valore della programmabilità del tempo” anche per i rapporti a tempo pieno: G. Calvellini, La funzione del part-time: tempi della persona e vincoli di sistema, 2020, p. 136).
In sintesi (limitandoci qui a quanto rileva per il tema che stiamo trattando), gli obblighi di informazione sull'orario di lavoro sono ora distinti a seconda che il rapporto di lavoro sia caratterizzato da una organizzazione dell'orario di lavoro “in tutto o in gran parte prevedibile”, ovvero sia “caratterizzato da modalità organizzative in gran parte o interamente imprevedibili (e) non prevede un orario normale di lavoro programmato”.
Nel primo caso il datore di lavoro deve comunicare “la programmazione dell'orario normale di lavoro”, “le eventuali condizioni relative al lavoro straordinario”, “le eventuali condizioni per i cambiamenti di turno”. Nel secondo il datore di lavoro deve informare il lavoratore circa “la variabilità della programmazione del lavoro”, “le ore e i giorni di riferimento in cui il lavoratore è tenuto a svolgere le prestazioni” e “il periodo minimo di preavviso” per gli incarichi non programmabili.
Se questi sono gli obblighi di informazione (da adempiere all'avvio del rapporto di lavoro e, successivamente, in caso di modifiche delle condizioni) l'art. 9 dispone poi che, nei casi di organizzazione del lavoro interamente o in gran parte imprevedibile, “il datore di lavoro non può imporre al lavoratore di svolgere l'attività lavorativa”, salvo che ricorrano due condizioni: la stessa si svolga nell'ambito delle ore e dei giorni di riferimento che erano stati comunicati in adempimento dell'obbligo di informazione e sia rispettato il periodo di preavviso indicato nelle stesse informazioni.
Se anche una sola di tali condizioni non è rispettata, il lavoratore “ha il diritto di rifiutare di assumere un incarico di lavoro o di rendere la prestazione, senza subire alcun pregiudizio anche di natura disciplinare”.
Gli studiosi e gli operatori avranno modo di approfondire tali novità, il cui impatto teorico e pratico nelle relazioni di lavoro – soprattutto quelle sempre più caratterizzate da modelli immateriali, flessibili, poco gerarchizzati, ecc. – appare a prima vista rilevante. Egualmente, si aprirà una riflessione su quanto tali obblighi incidano sul potere direttivo del datore di lavoro sotto il profilo del potere di determinare, nei rapporti a tempo pieno, la collocazione oraria della prestazione di lavoro.
Ai nostri fini, pare evidente la connessione di tali regole col tema dell'assunzione di impegni per lo svolgimento di altra attività. Il lavoratore, nei termini detti, ha diritto a conoscere quali sono gli spazi temporali di adempimento dell'obbligazione lavorativa principale: se pure ciò non giunge a definire l'esatta collocazione temporale dell'orario di lavoro (come avviene nel part-time), e se pure sono ammessi modelli organizzativi che prevedono una variabilità degli orari di lavoro in relazione ad eventi ed esigenze non programmabili, il lavoratore dovrebbe poter disporre di informazioni adeguate per valutare la compatibilità oggettiva di altre attività lavorative.
Una volta che ciò sia avvenuto, l'eventuale incompatibilità di impegni, che nasca da una richiesta del datore di lavoro che si collochi al di fuori di quanto programmato e oggetto delle informazioni, legittima il lavoratore, se lo ritiene, a sottrarsi alla prestazione per mantenere l'impegno secondario, senza che ciò costituisca inadempimento sanzionabile.
Per fare un esempio, se in sede di informazioni il datore di lavoro abbia escluso la prestazione di lavoro domenicale, il dipendente che abbia assunto un impegno parallelo, ad es. come allenatore di una squadra sportiva, potrà legittimamente sottrarsi alla richiesta di partecipare a un evento fieristico imprevisto e collocato in un fine settimana.
La disciplina, qui descritta in sede di prima analisi, presenta certamente degli aspetti problematici: ad esempio dovrà valutarsi la correttezza della condotta di un datore di lavoro o committente che, per lasciarsi la maggiore flessibilità organizzativa possibile, fornisca indicazioni temporali talmente ampie da non consentire di fatto l'assunzione di impegni alternativi; ancora dovrà valutarsi come possa rilevare, a fronte di modifiche dei modelli organizzativi e produttivi che conducano a nuove e diverse informazioni, la sopraggiunta incompatibilità con un'altra attività nel frattempo assunta dal lavoratore tenendo conto delle precedenti informazioni ricevute. Ma, sul punto, saranno necessari interventi più meditati.
Le restrizioni allo svolgimento di altra attività lavorativa
Come si è anticipato, il diritto del lavoratore allo svolgimento di altra attività non è privo di limiti: oltre al tema della compatibilità oggettiva, appena esaminato, esso può essere soggetto a restrizioni, cioè casi nei quali il datore di lavoro “può limitare o negare al lavoratore” lo svolgimento di altra attività di lavoro (art. 8, secondo comma).
La prima ipotesi si verifica quando l'assunzione di un altro impegno lavorativo possa determinare “un pregiudizio per la salute e la sicurezza, ivi compreso il rispetto della normativa in materia di durata dei riposi”. Sino ad oggi era diffusa tra gli operatori l'opinione che in caso di doppio lavoro, se entrambi di lavoro subordinato, dovessero comunque rispettarsi i limiti disposti dal d.lgs. 66/2003 in materia di orari di lavoro, quantomeno quello della durata media settimanale non superiore a 48 ore (nonostante il fatto che tale disciplina riguardi chiaramente il singolo rapporto di lavoro, e nulla dica sull'ipotesi di più rapporti).
La disposizione sul cumulo di attività lavorative, tuttavia, si limita a citare la disciplina dei riposi, ovvero l'art. 7 d.lgs. 66/2003 sul riposo giornaliero (che deve garantire almeno undici ore di riposo consecutivo, ogni ventiquattro ore) e l'art. 9 sul riposo settimanale (almeno ventiquattro ore ogni sette giorni), cosa che in prima battuta farebbe pensare che di per sé la quantità oraria complessiva dell'impegno lavorativo non assuma diretta rilevanza (se non, appunto, in quanto impedisca il godimento dei riposi).
La disposizione pone tuttavia interrogativi che richiederanno analisi più approfondite: se altri limiti possano derivare dal più generale rinvio della norma ai pregiudizi per la salute e sicurezza; se tali limiti debbano essere osservati sempre, o solo quando le attività cumulate siano entrambe di lavoro dipendente; come si distribuisca la responsabilità del rispetto degli obblighi di sicurezza tra i diversi soggetti coinvolti (i più datori di lavoro o committenti e lo stesso lavoratore titolare di più rapporti), ecc. Tale tema, come diremo tra un attimo, ha peraltro ricadute anche sul profilo delle informazioni e comunicazioni tra lavoratore e datore di lavoro.
Il secondo terreno di possibile restrizione di altre attività è quello relativo alla “necessità di garantire l'integrità del servizio pubblico”: l'espressione, ripresa alla lettera dalla direttiva, non appare chiara. Tenendo conto che, come si è detto, per i lavoratori pubblici rimane applicabile la relativa disciplina speciale, il riferimento sembra essere a servizi pubblici gestiti da enti privati, con dipendenti perciò sottratti alla disciplina del d.lgs. 165/2001.
Ciò premesso, si tratterà di comprendere di volta in volta quali siano i motivi che rendono l'assunzione di un altro impegno di lavoro, fuori dalla programmazione del lavoro, incompatibile con la “integrità” del servizio pubblico: dovendosi escludere, per le ragioni sopra dette, che l'essere addetti a un servizio pubblico obblighi di per sé (per i dipendenti privati) al rapporto esclusivo, e dovendo l'eventuale limitazione trovare un fondamento oggettivo di parziale o totale incompatibilità, privo di alternative.
L'obbligo di fedeltà e il conflitto di interessi
Lo svolgimento di un'ulteriore attività lavorativa non deve avvenire in violazione del c.d. obbligo di fedeltà previsto dall'art. 2015 c.c., articolato nel doppio profilo del divieto di concorrenza e dell'obbligo di riservatezza sulle notizie attinenti all'organizzazione e ai metodi di produzione dell'impresa.
Il limite è enunciato nell'incipit della norma e siamo dunque di fronte non ad una restrizione del diritto ma ad un suo vero e proprio presupposto: per la sua concreta configurazione si può rinviare alla ricca elaborazione sviluppatasi soprattutto su casi di contestazione della violazione di tali obblighi, ricordando che l'attività in concorrenza non potrà essere avviata qualunque sia la sua forma, e non soltanto quando si tratti di altra attività di lavoro dipendente.
La concorrenzialità deve tuttavia essere specifica e concreta, e non soltanto astrattamente possibile. Per fare un esempio, il problema si pone talvolta nel caso di partecipazione del dipendente all'attività di una impresa il cui oggetto sociale sia formulato in maniera così ampia da comprendere anche, potenzialmente, attività produttive di beni o servizi che potrebbero intersecare le attività svolte dall'impresa principale: se però, in concreto, tale impresa non svolge tale attività concorrenziale, né ha promosso attività preparatorie a tal fine (cioè se, in sostanza, non aspira a porsi effettivamente sul segmento di mercato della datrice principale di lavoro), non si può parlare di violazione dell'obbligo di fedeltà.
Qualche considerazione in più merita il conflitto di interessi, quale situazione che può determinare una restrizione allo svolgimento di altre attività. Tale concetto non è però di facile precisazione.
In ambito pubblico, si ritiene che un conflitto di interessi si configuri quando decisioni che richiedono imparzialità di giudizio siano adottate da un pubblico funzionario che abbia, anche solo potenzialmente, interessi privati (propri o di persone vicine) che possono interagire o porsi in contrasto con l'interesse pubblico alla cui cura il funzionario è preposto. In tal caso, ai sensi dell'art. 6-bis legge n. 241/1990, il responsabile del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare atti e provvedimenti devono astenersi dal procedere e segnalare la situazione di conflitto.
Sono numerose le disposizioni che sono state via via emanate al fine di prevenire ogni conflitto di interessi in ambito pubblico (art. 51 c.p.c., art. 42 d.lgs. n. 50/2016, art. 53 commi 7 e 16-ter d.lgs. n.165/2001, d.lgs. n. 39/2013) e talvolta in ambito privato (art. 2391 c.c. per gli amministratori delle società), anche se tuttora manca una norma che preveda analiticamente gli elementi costitutivi e le diverse ipotesi della fattispecie.
Una sua parziale definizione potrebbe ricavarsi dall'art. 6 del d.P.R. n. 62/2013, ovvero il Regolamento recante il codice di comportamento dei dipendenti pubblici (a norma dell'art. 54 d.lgs. n. 165/2001, il quale prevede che “il dipendente si astiene dal prendere decisioni o svolgere attività inerenti alle sue mansioni in situazioni di conflitto, anche potenziale, di interessi con interessi personali, del coniuge, di conviventi, di parenti, di affini entro il secondo grado. Il conflitto può riguardare interessi di qualsiasi natura, anche non patrimoniali, come quelli derivanti dall'intento di voler assecondare pressioni politiche, sindacali o dei superiori gerarchici”. Egualmente, l'art. 42 del Codice dei contratti pubblici (d.lgs. 50/2016) indica il conflitto d'interesse con riguardo ad alcune figure che intervengono nello svolgimento della procedura di aggiudicazione degli appalti e delle concessioni, o che possono influenzarne il risultato, quando la persona “ha, direttamente o indirettamente, un interesse finanziario, economico o altro interesse personale che può essere percepito come una minaccia alla sua imparzialità e indipendenza nel contesto della procedura di appalto o di concessione”.
Si ritiene generalmente che il conflitto di interessi possa essere attuale o potenziale, configurandosi quest'ultimo in quelle situazioni che, pur non dando appunto luogo a un conflitto di interessi immediato, possano darvi luogo per via della prevedibile evoluzione del ruolo del lavoratore o dell'attività dei soggetti coinvolti.
Ai nostri fini, si tratta di comprendere quando un interesse collegato alla ulteriore attività svolta, o che si vuole svolgere, entri in conflitto con quello dell'attività principale, tanto da legittimare il datore di lavoro a limitare o negare l'ulteriore impegno: tenendo presente quanto già detto, ovvero che deve trattarsi di una situazione oggettivamente valutabile, e non mero frutto di un apprezzamento soggettivo del datore di lavoro, o di astratte ragioni di opportunità.
L'interesse collegato con l'ulteriore attività, per assumere rilievo, deve entrare in conflitto con le mansioni e le responsabilità specificamente attribuite al dipendente (e non, ad esempio, con attività che siano svolte da altri e sulle quali il dipendente non possa esercitare un'apprezzabile influenza): dunque, ad esempio, il fatto che il soggetto terzo nel quale si svolge l'attività abbia rapporti con l'istituto di credito del quale è dipendente il lavoratore, non basta a far sorgere un conflitto di interessi, se il suo ruolo non lo fa entrare in contatto con alcuna delle relative pratiche.
Potrà trattarsi di un conflitto di interessi anche potenziale, ma non meramente ipotetico e occasionale: ad esempio, il dipendente di un'impresa di pubblicità non entra in conflitto per il solo fatto che lavora per un soggetto che occasionalmente attivi una campagna pubblicitaria (essendo sufficiente che, in quella ipotesi, si astenga dall'occuparsi della relativa iniziativa ove questa si svolga verso la società di appartenenza, o comunque segnali la sua posizione se ritiene di favorire tale contatto anche nell'interesse della propria datrice di lavoro); né rileverà il fatto che quella società abbia poi scelto di rivolgersi sul mercato ad altra impresa, non sussistendo alcun obbligo del dipendente di attivarsi perché la scelta ricada sulla sua datrice di lavoro.
L'avvio della nuova attività va comunicato?
La disposizione in esame nulla dice riguardo ad eventuali obblighi del lavoratore di comunicare al datore di lavoro lo svolgimento di altra attività lavorativa. Il fatto che ciò avvenga nell'ambito di un provvedimento legislativo dedicato proprio ad obblighi di informazione e trasparenza nelle relazioni di lavoro potrebbe ritenersi significativo, nel senso di escludere tale obbligo come presupposto formale di esercizio del diritto.
Si potrebbe tuttavia ritenere che il fatto che il secondo comma dica che “Il datore di lavoro può limitare o negare al lavoratore lo svolgimento di un altro e diverso rapporto di lavoro”, al ricorrere di alcune situazioni, implichi che lo stesso datore debba essere messo in condizione di effettuare tale valutazione, dunque riceverne la comunicazione, persino preventiva. Un dovere di comunicazione potrebbe poi ricavarsi, con specifico riferimento alle restrizioni basate sui possibili pregiudizi per la salute e la sicurezza, dal dovere generale del lavoratore di tenere una condotta di cooperazione attiva alla salute propria (e dei colleghi), sancito dall'art. 20 del d.lgs. 81/2008.
D'altra parte, il lavoratore potrebbe desiderare di mantenere riservata la propria attività, magari per timore di subire pregiudizi (anche solo in termini di alterazione dei rapporti personali coi superiori) nonostante il fatto che il diritto allo svolgimento dell'ulteriore attività possa considerarsi pacifico.
Nel silenzio della legge, pare ragionevole ritenere che, in virtù di principi generali di correttezza nella gestione della relazione negoziale, il lavoratore debba informare il datore di lavoro quando ritenga che possa ricorrere taluna delle ipotesi impeditive o restrittive del diritto: al fine di ottenere un vera e propria autorizzazione (e quindi preventivamente), se il caso rientra francamente tra quelli per cui il datore può negare lo svolgimento, o al fine di offrire elementi di valutazione utili a tranquillizzare il datore sull'insussistenza dei limiti o (ad esempio per il tema degli orari e riposi) al fine di gestire la coesistenza tra le diverse attività.
Ritengo dunque che il lavoratore possa effettuare una prudente valutazione delle circostanze e assumersi la responsabilità e il rischio della mancata comunicazione: di conseguenza, la mancata comunicazione non può assumere di per sé rilevanza disciplinare, se non nel caso in cui in concreto abbia impedito al datore di lavoro l'esercizio del proprio diritto ad opporsi o limitare l'attività (quindi se e in quanto sussistano i presupposti della limitazione).
In sostanza, ove il datore di lavoro venga a conoscenza del fatto che il proprio dipendente svolge una ulteriore attività, non potrà a mio parere contestare la mancata comunicazione se, in concreto, tale attività costituisce esercizio del diritto oggi sancito dall'art. 8 del decreto 104 in assenza di alcuno dei limiti che, sia pure in sede di prima analisi, sono stati qui illustrati.