Editoriali

23.01.2025

La passione per il diritto e per il suo insegnamento. In ricordo di Nicolò Lipari

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Lo scritto che si pubblica è stato presentato oralmente dall'Autore, in forma sintetica, al 18° Convegno Nazionale SISDIC (16-18 gennaio 2025) sul tema “Il diritto civile italo-europeo tra regole e principi”, in ricordo di Franco Anelli e Nicola Lipari.

Ringraziando per l’invito, devo preliminarmente confessare la profonda emozione nel parlare del Professor Lipari in quest’aula, seduto a quella che per decenni è stata la cattedra, dalla quale le sue lezioni, sempre affollatissime, hanno trasmesso autentica cultura e sensibilità giuridica – ben al di là delle nozioni sui fondamenti istituzionali del diritto privato – a intere generazioni di studenti (molti saranno presenti anche oggi), i quali hanno senza dubbio conservato la memoria indelebile di quei momenti. 

E vorrei anche dire subito che mi sembra impossibile per chiunque esprimere in pochi minuti e con rapidi cenni un degno “ricordo” di Nicolò Lipari, rinunciando alla narrazione – in certo senso, inevitabilmente, anche autobiografica e perciò di scarso interesse per chi ascolta – di una straordinaria esperienza personale, vissuta nel rapporto allievo-maestro, per cercare di tracciare invece un ritratto, sul piano scientifico e umano, capace di evidenziare le sue molteplici qualità e le altrettanto numerose sfaccettature della sua personalità, così come del suo magistero sul piano giuridico, ma in termini più ampi del suo “vivere il diritto” (riprendendo l’efficace titolo dato dal Professore stesso all’intervista, Vivere il diritto. A colloquio con Gabriele Carapezza Figlia, Vincenzo Cuffaro e Francesco Macario, ESI, Napoli, 2023, cui farò in seguito riferimento). 

Ciò sarebbe, del resto, anche superfluo, in quanto chiunque tra i presenti abbia avuto l’occasione di incontrare il Professore – immagino tutti o quasi tra i presenti –, condividendo anche soltanto una rapida conversazione, conserva il vivido ricordo del giurista, del maestro, ma innanzitutto della persona davvero speciale, in primo luogo per il tratto umano. Già solo il suo sguardo intenso e sempre attento verso l’interlocutore, faceva sì che quest’ultimo, non soltanto si sentisse realmente considerato e valorizzato, ma rimanesse altresì avvinto dalla sua – direi, pacata e del tutto naturale, in qualche modo innata – autorevolezza, che si univa alla disponibilità ad ascoltare chiunque (dal collega di pari livello, sino all’ultimo studente) e a instaurare un dialogo, mai banale o scontato, ma al contrario ricco di dubbi, ipotesi e comunque spunti per ulteriori riflessioni, che finivano sempre per arricchire, culturalmente e umanamente, il fortunato interlocutore. Credo che sia grosso modo questo ciò che avveniva e di cui ciascuno conserverà sempre il ricordo. 

Poiché mi è stata offerta l’occasione di condividere con Voi un ricordo del Professore in qualità di suo allievo, non posso che muovere, innanzitutto, dal suo modo – del tutto inusuale, vorrei sottolineare, rispetto alla generazione cui apparteneva – di intendere il rapporto maestro-allievo, facendo ricorso, preferibilmente, alle sue parole e dunque al suo stesso pensiero, senza mediazioni o parafrasi. Farò poi riferimento, sempre brevemente, al suo modo appassionato di concepire e attuare l’insegnamento (come momento inscindibilmente connesso alla ricerca), ma anche di esplorare territori nuovi, con lo sguardo rivolto sempre in avanti, ossia al futuro, quale tempo da vivere attivamente e intensamente, concludendo con un riferimento proprio alla sua visione del tempo.   

 

Formatosi in un contesto accademico, nel quale il rapporto maestro-allievo era solitamente caratterizzato da una tendenziale freddezza e comunque da una sensibile distanza – imposta dal primo, s’intende: sarebbe sufficiente considerare la descrizione che il Professore faceva, nei racconti e, talvolta, anche negli scritti, del rapporto con il suo maestro Francesco Santoro Passarelli, verso il quale aveva conservato sempre sentimenti di profondo affetto e sincero rispetto, pur nella sempre evidenziata notevole distanza sul piano metodologico –, Nicolò Lipari aveva scelto di abbattere le barriere, psicologicamente inibitorie, derivanti dal rango accademico, convinto – come più volte mi è capitato di ascoltare o di leggere, nei suoi scritti: ad esempio, nel suo intervento al convegno tenutosi in questa Facoltà, su “Diritto civile del Novecento. Scuole, luoghi e giuristi” e dedicato alle “premesse dei maestri”, i cui atti sono raccolti nell’omonimo volume, a cura di G. Alpa e F. Macario, Milano, 2019 – che, nel rapporto maestro-allievo, non si può mai dire a priori chi dà e chi riceve, mentre sono proprio il dialogo e lo scambio di idee (tanto più, se ciò avviene fra studiosi appartenenti a generazioni diverse di giuristi), che costituiscono la linfa vitale del discorso, nella ricerca, così come nell’insegnamento: due momenti che il Professore considerava (e ci ha insegnato a considerare) inscindibili.

Sia pure in un contesto molto diverso e lontano dall’occasione del doloroso e commosso ricordo odierno, Nicolò Lipari aveva avuto modo di esprimere sul rapporto fra allievo a maestro parole che, si diceva, meritano di essere riportate in modo testuale: “la ricchezza di esperienza e di memoria del maestro diventa per l’allievo capacità di essere in ciò che è stato; non come ripetizione di dati specifici, ma semmai come vivificante intuizione di un senso, quale legame e insieme superamento di ogni possibile contenuto. Per converso nelle attitudini dell’allievo, nelle sue capacità di ripensare in termini nuovi le categorie del passato, di esplorare territori un tempo sconosciuti, il maestro ritrova un entusiasmo giovanile, riscopre sensazioni che parevano illanguidite”. 

Una bellissima esperienza di questo genere, chi Vi parla ha potuto viverla per oltre trent’anni – se non altro, è stata questa la sensazione, grazie soprattutto al modo di relazionarsi del Maestro, nel senso che questa singolare e biunivoca interattività fosse in realtà il dato caratterizzante di un rapporto, in cui s’incontrano la duplice curiosità, di apprendere e trasmettere qualcosa reciprocamente –, ammirando e cercando, per parte mia, di far proprio quell’entusiasmo giovanile: espressione, quest’ultima, adattissima a rappresentare uno degli aspetti più coinvolgenti e carismatici del suo carattere, così come del suo approccio diretto, immediato e generoso in tutti i rapporti, da quelli accademici e professionali, sino a quelli amicali e, ho ragione di credere, anche familiari. 

In un’altra occasione – a proposito dei molti dubbi e delle poche certezze in ordine all’impatto del “diritto privato europeo” sulla cultura e sul modo di pensare del civilista (su cui vorrei ritornare) –, il Professore aveva avvertito: “Una sola constatazione possiamo oggi fare di fronte agli stimolanti panorami del diritto privato europeo; che esso ci aiuterà a sentirci giovani, a non addormentarci nella ripetitività degli schemi consueti, a capire che con le vecchie scarpe ci si stanca di meno, ma certo non si arriva lontano”. 

Al di là della suggestiva e pregnante metafora del cammino – significativa per qualsiasi studioso, ma in primo luogo per il giurista – credo che sia proprio quella manifestazione continua del già ricordato e, in lui, davvero autentico “entusiasmo giovanile” il più significativo e incisivo messaggio che viene, senza ambiguità e senza riserve, dall’insegnamento del Maestro che oggi ricordiamo. Un entusiasmo che, sempre vivo nell’uomo di pensiero (indipendentemente dalla sua età anagrafica ed è veramente emblematico il discorso tenuto in occasione del convegno barese celebrativo del suo novantesimo compleanno, con il quale chiuderò l’intervento), consente il permanente dialogo fra generazioni diverse di giuristi, come valore aggiunto – per così dire –, rispetto al dibattito interno alla stessa generazione di studiosi: un dialogo, fatto di reciproco insegnamento e apprendimento (come diceva e scriveva il Professore) che personalmente ho sempre considerato quanto di più prezioso e gratificante, invero, nella nostra attività e, in generale, dell’esperienza universitaria. 

Tale atteggiamento, caratterizzato in primo luogo dalla disponibilità ad ascoltare, non poteva peraltro impedire la malinconica riflessione sul tema del rapporto maestro-allievo e sulla tendenza dello stesso a stemperarsi (se non a scomparire), nell’università del nostro tempo, ove per un verso era inevitabile constatare la recessività del principio di autorità, mentre per altro verso e costruttivamente si ribadiva il ruolo del vero maestro: “essere consapevole della solidità del proprio contributo, ma essere al contempo conscio della propria insufficienza, della necessità che l’edificio – con metafora particolarmente felice e assai appropriata all’evoluzione del pensiero giuridico – possa crescere in altezza, aggiungendo nuovi piani a quelle solide fondamenta” (citazione tratta ancora dagli atti del ricordato convegno su Diritto civile del Novecento. Scuole, luoghi e giuristi).

 

Ricordando alcuni momenti significativi della sua esperienza da allievo – in particolare, rispetto a Santoro Passarelli, a proposito di una ‘polemica’ sul senso e sullo stesso diritto di cittadinanza nell’ordinamento del c.d. “diritto vivente”, negato in radice dal maestro, così come da altri giuristi appartenenti a quella generazione, ma indagato e valorizzato da altri autorevolissimi punti di riferimento della civilistica, come ad esempio Luigi Mengoni –, il Professore rievocava la rassegnata conclusione, ascoltata direttamente dal suo maestro, con questi termini: “Nel momento in cui avverti che gli altri si muovono lungo sentieri per te sconosciuti, allora è giunto il momento di tacere, di lasciare a chi ti segue di continuare un tragitto, di cui pure sei consapevole di aver posto delle premesse essenziali”.

Tutti siamo testimoni diretti dell’atteggiamento molto diverso, direi quasi antitetico e come al solito veramente esemplare, da parte del Professore, il quale non si è mai tirato indietro, tacendo e ‘lasciando agli altri’ di percorrere le vie nuove, ossia la boscaglia fitta e intricata – un’altra metafora, spesso usata dal Professore, molto bella e adatta tanto alla ricerca, quanto all’insegnamento del diritto –, che soltanto con il passaggio di più persone può cominciare a delinearsi come sentiero, percorribile perciò con sicurezza da coloro che seguono. 

In quella boscaglia, invero connaturale alla stessa esperienza giuridica, Nicolò Lipari si è sempre lanciato, con il coraggio e la curiosità del pioniere, che lungi dal lasciare ad altri la ricerca del percorso ignoto, al contrario assumeva su di sé il compito di guida per quanti avessero voglia di condividere la scommessa, in quanto contagiati – per così dire – dalla sua naturale tendenza alla detta condivisione, ancorché la sua esperienza (del rapporto con i maestri) non si fosse svolta all’insegna della dimensione collettiva (al di là dei rapporti personali che, naturalmente, taluni allievi coltivavano tra loro, in ragione di affinità metodologiche e culturali in senso lato). Così avvenne nella vicenda barese, che diede vita, tra l’altro, a un’opera collettanea particolarmente originale all’epoca (si era agli inizi degli anni Settanta), nell’ambito della manualistica del diritto privato, ma questo è stato il caso anche dell’esperienza romana (di molti anni dopo, ma) che si svolse con l’identico spirito ed entusiasmo da parte sua e condusse all’elaborazione della prima opera strutturata, in un certo senso, sul nuovo “diritto privato europeo” (su cui occorre tornare), ispirata perciò dal medesimo messaggio metodologico (per lo studente, in primo luogo), ossia “la consapevolezza che il diritto va cercato, non è già consegnato ad una struttura di norme che si tratta semplicemente di conoscere nel loro dettato e nel loro rapporto”(così la risposta ad una domanda dell’intervista Vivere il diritto, cit., 27, sullo spirito e sul lascito dell’esperienza collettiva di ricerca confluita nel volume “Diritto privato. Una ricerca per l’insegnamento”). 

All’origine di questa tendenza, in qualche modo s’è detto antitetica al modo di intendere la ricerca e soprattutto l’insegnamento da parte dei suoi maestri – per il Professore, com’è noto, i punti di riferimento essenziali erano stati Francesco Santoro Passarelli e Rosario Nicolò –, vi era per un verso l’assenza di preconcetti o posizioni (anche ideologicamente) pregiudiziali, per altro verso una decisa e straordinaria curiosità, nell’analisi in primo luogo della realtà dei rapporti sociali, con la conseguente esigenza di comprendere il modo in cui la norma giuridica debba concretamente operare alla luce di tale realtà, fatta di persone e interessi specifici. Una realtà, quest’ultima, che per troppo tempo era rimasta emarginata dalla riflessione giuridica, incentrata quest’ultima sulle sole proposizioni normative e sulla logica formale, da porre a fondamento della loro interpretazione e applicazione. 

Nel suo magistero poteva realizzarsi così, in modo originalissimo (non soltanto rispetto ai maestri del passato), la combinazione di un solidissimo impianto metodologico, costruito negli anni della formazione, con il continuo interesse, unito a un’inesauribile curiosità per tutte le novità, quale che fosse la loro forma (legislativa, giurisprudenziale, dottrinale o anche soltanto sul piano sociale), da valutare – si diceva – senza preconcetti, ma al contrario con il desiderio di comprendere il rapporto tra l’ordinamento in evoluzione e le trasformazioni sociali e culturali, direttamente incidenti sulla società civile (quasi sempre, prima che il diritto formale se ne renda conto e assuma, se ritiene di assumerla, una posizione di tipo formale).

Non è possibile approfondire queste ultime considerazioni, neanche con le più significative citazioni testuali del pensiero del Professore – ve ne sarebbero tante, tutte molto incisive e pregnanti, che nel tempo mi è capitato spesso di riconsiderare, utilizzandole come spunti di riflessione e, in ogni caso, come autorevole supporto sul piano del metodo –, essendo ciò, peraltro, anche in questo caso, superfluo, perché tutti conoscono le idee e l’impostazione metodologica, che hanno caratterizzato i suoi scritti, soprattutto direi negli ultimi vent’anni, sino alla pubblicazione di un volumetto – di piccole dimensioni, ma di una straordinaria densità sul piano concettuale – dedicato e intitolato all’Elogio della Giustizia, non soltanto una summa del suo pensiero (come meglio si osserverà tra breve), ma una sorta di testamento spirituale, dal quale soprattutto gli studiosi più giovani potranno trarre un’enorme quantità di spunti di natura genuinamente metodologica. Non a caso, nella già citata intervista (Vivere il diritto, cit., 10), il Professore ricorda che “la domanda quid iuris finisce inevitabilmente per colorarsi dell’aspirazione al conseguimento di un risultato di giustizia che possa ritenersi condivisibile in chiave di ragionevolezza. Certamente è questo il profilo – afferma il Professore – che ha segnato l’evoluzione del diritto nell’arco della mia vita di studio”. 

Così come, del resto, è possibile fare scorrendo le preziose pagine della già ricordata intervista (riportata nel piccolo ma assai denso volumetto, che lui stesso ha voluto significativamente intitolare Vivere il diritto), cui ho avuto la fortuna di partecipare, insieme a Vincenzo Cuffaro (con il quale ho potuto condividere anche momenti felici, come la pubblicazione e presentazione, sempre in quest’aula, dei due volumi di Scritti in onore) e grazie all’iniziativa dell’amico Gabriele Carapezza Figlia, oltre che dell’Editore. 

            

Rispetto a una personalità così particolare, tanto complessa e ricca, quanto destinata a imporsi nei più diversi contesti – con estrema naturalezza, vorrei ribadire, quale effetto di una spiccata propensione a rivestire i panni del maestro nel senso più genino del termine –, se dovessi individuare una delle qualità, che meglio potrebbero rappresentare il Professore – come giurista e come uomo, allo stesso tempo – farei riferimento alla passione con cui affrontava ogni situazione: una passione, dunque, innata e riversata a piene mani in ogni contesto in cui si trovava a operare. 

Passione genuina e, s’è detto, connaturale alla sua personalità, che combinava in un’unità inscindibile le due dimensioni del discorso giuridico – in termini di studio e dunque ricerca, ma anche come insegnamento (la convinzione che “ricerca e insegnamento si intersecano e si confondono e così come non ha senso una ricerca che non sia capace di riflettersi in una dimensione didattica, analogamente non esiste insegnamento che non ponga interrogativi, prospetti dubbi, si risolva cioè in un’attività di ricerca” è espressa con chiarezza in un altro intervento convegnistico, riportato con il titolo Sull’insegnamento del diritto civile, in Foro it., 2012, V, 217), cui il Professore teneva in modo particolare, svolgendo le lezioni, in questa facoltà (e anzi in quest’aula, come ricordavo in apertura, alle otto del mattino, ma sempre molto seguite dagli studenti, affascinati dal suo modo di spiegare il diritto privato e al contempo, come già detto, infondere la passione e la cultura del diritto in termini più generali), sempre di persona – e lo spingeva ad affrontare sfide di ogni genere. È sufficiente ricordare la sua risposta a una domanda in tema (nell’intervista Vivere il diritto, cit., 11), ove, con la solita immediatezza, si diceva: “[i]o ho sempre avuto una grande passione per la lezione. Solo guardando negli occhi i tuoi ascoltatori puoi misurare in concreto l’incidenza, la persuasività di ciò che stai dicendo”.

Soprattutto una passione che, come si diceva, da autentico maestro riusciva a infondere con immediatezza in chi gli stava di fronte, ponendo così le basi più solide per la riuscita delle diverse iniziative di gruppo – se preferite, di “scuola” –, capaci di dare ai partecipanti il senso di operare all’interno appunto di una “scuola” a tutti gli effetti, con la guida sicura del maestro, che condivide (e vuole condividere con gli allievi) l’esperienza di ricerca, cercando di sperimentare percorsi nuovi, nella convinzione dell’utilità di una dialettica costruttiva, garantita dalla pluralità di studiosi accomunati dalla medesima passione, peraltro – va rimarcato, a mio avviso anche questo aspetto della sua personalità di studioso capo-scuola – con la più ampia apertura ad accogliere chiunque condividesse il piacere della ricerca svolta nella dimensione collettiva. 

 

Il suo era un approccio – anche in questo caso, tutt’altro che scontato, come sappiamo, nell’ambito accademico – connotato da un’esemplare e appunto insolita inclusività, che indirettamente finiva per favorire anche il formarsi e consolidarsi di rapporti di amicizia, spesso profondi e duraturi, tra gli studiosi che si ritrovavano in una sorta di idem sentire, come sanno gli amici (alcuni dei quali qui presenti), con i quali ho avuto la fortuna di condividere l’esperienza del concorso – ultimo nazionale, secondo le vecchie regole – per professore associato, la cui commissione era presieduta proprio dal Professore.  

In questo senso, ritengo – ma credo di poter esprimere un sentimento diffuso tra i tanti amici, con i quali ho avuto la fortuna di condividere l’esperienza del rapporto maestro-allievo – che la passione abbia rappresentato la cifra più autentica e dunque fondamentale del suo modo di essere, in primo luogo nell’insegnamento. Una passione che non si limitava affatto all’impegno nello studio del diritto e nell’insegnamento, ma in termini ben più ampi riguardava la conoscenza e la comprensione della vita delle persone e delle problematiche sociali: in ultima analisi, per cercare di valorizzare i rapporti tra le persone, da collocare sempre al centro dell’esperienza giuridica, con priorità rispetto al dato normativo formale, spesso risultante riduttivo, in quanto capace di cogliere soltanto una parte di tali rapporti.

Tutto ciò si riflette, in modo diretto, sulle sue ben note considerazioni relative al metodo: “dobbiamo renderci conto che nelle scienze sociali – riporto ancora le sue parole nella ricordata intervista - il metodo conta non già come astratta successione di operazioni logiche, bensì come concreta consapevolezza della funzione della propria ricerca in rapporto all’oggetto cui si rivolge l’attenzione critica dell’operatore”. E ancora: “Nella mia lontana prolusione del 1968 – continuava il pensiero – avevo usato una formula che non è stata ripresa e che, pur nella sua dichiarata ambiguità, può avere una sua suggestione metodologica per chi si avvia allo studio del diritto. Avevo detto che il giurista deve interpretare sociologicamente la norma o il sistema e dogmaticamente la realtà o il dato sociale. L’importante è essere costantemente consapevoli – così si conclude la riflessione – che i due processi non rappresentano omenti logicamente isolabili”. 

E sempre di fronte all’annoso problema metodologico, l’ipotesi – sempre nella forma del dubbio di chi cerca la risposta nel modo stesso in cui pone, in primo luogo a se stesso, l’interrogativo di senso – diventa quella di “abituarci – come giuristi, con una citazione ancora una volta testuale – a trasmigrare continuamente da un approccio metodologico ad un altro, convinti che l’ideale al quale dobbiamo ispirarci non è la città di Cartesio, costruita da un solo architetto con un solo metodo, ma semmai quella di Leibniz, che aveva chiaro il necessario pluralismo della scienza giuridica, in cui la logica del verosimile è costretta a misurarsi con la logiche tecnico-formali di controllo dei risultati”. 

La consonanza con gli studi metodologici di Mengoni è evidente, nella consapevolezza dell’inevitabilità (qualunque sforzo si faccia per affermare le concezioni formalistiche del diritto) del raccordo tra diritto e morale, del momento in cui si saldano il rigore della dogmatica civilistica con l’altrettanto irrinunciabile esigenza del giurista di cogliere ed esprimere, nelle valutazioni sempre storicamente condizionate, “quel tessuto complesso di valori umani e sociali – riporto sempre le Sue parole – che, in ogni momento storico, si pongono (ancorché in forme sempre mutevoli) quale stimolo dell’azione”.

 

È in questa prospettiva e per le ragioni appena enunciate, del tutto personali evidentemente, che le parole con cui cerco di ricordare con Voi il mio Maestro – un ricordo tanto sintetico, inevitabilmente, quanto pieno di commozione, anche perché era previsto come relatore introduttivo dell’odierno convegno e il suo contributo, che nondimeno abbiamo potuto ascoltare avendolo  preparato il Professore nei mesi del ricovero in ospedale, avrebbe ancora una volta rappresentato un momento decisivo della riflessione – possono limitarsi a questo risvolto della persona e anzi della personalità (tra i tanti aspetti della sua intensissima attività: scientifica, professionale, politica), ossia la sua davvero straordinaria capacità di insegnare – avvertita da chi Vi parla come motivo dominante del rapporto durato oltre un trentennio –, unita alla consapevolezza dell’esigenza di superare gli schemi del passato, cogliendo i segnali del cambiamento, sul piano tanto del metodo, quanto dei contenuti dell’insegnamento stesso. 

In tal senso, si comprende come le critiche verso una tralaticia modalità di insegnare, così come di proporre – rectius, riproporre – una manualistica a suo avviso non al passo con i tempi, fossero sempre, come era del resto nel suo modo di esprimersi, dirette e senza mezzi termini: “Noi continuiamo ad insegnare un diritto che non esiste più e continuiamo a farlo nella sottintesa convinzione che l’uso dei suoi strumenti tecnici non abbia nulla a che fare con il perseguimento di un risultato di giustizia”(riprendendo il pensiero dalle Conclusioni, in Accademia, 2023, 517, 518). L’accento, nell’insegnamento, deve cadere sulla “formazione” e non, come avviene per lo più, sulla informazione: “Formare e informare non sono la medesima cosa. Chi è formato è sempre in grado di informarsi perché ha gli strumenti per farlo; chi è informato spesso manca degli elementi di base per utilizzare ed applicare la congerie delle sue informazioni” (ivi). 

Fermamente convinto che l’insegnante è colui che deve formare (e non soltanto informare), il Professore riteneva che “il buon giurista è invece – la contrapposizione è con la convinzione predominante in passato, secondo la quale l’obiettivo di chi insegna e di chi studia si realizza con la conoscenza del sistema di norme dato: n.d.r. – colui che si sa orientare, che riesce a decifrare una molteplicità di indici spesso tra di loro contraddittori, che sa coniugare la statica degli enunciati con la dinamica degli eventi”, sicché – sempre considerando la funzione pedagogica del giurista insegnante – “il diritto non può mai essere studiato in vitro, in astratto. Esso è sempre – inevitabilmente – studio di un contesto sociale, di un’esperienza vissuta, fata di uomini, di istituzioni, di rapporti di vita, di tensioni sociali” (riportando da Vivere il diritto, cit.,16). E nell’identico spirito pedagogico, si aggiunge che “agli studenti bisogna dare il senso che lo studio del diritto non è semplicemente acquisizione di risultati già definiti da altri, ma continua ricerca, nella quale è inevitabilmente implicato anche lo studente. Si tratta di un atteggiamento didattico – prosegue con la consueta nitidezza e franchezza il pensiero del Professore – che è molto difficile da coltivare, ma che è ineliminabile da tutte le scienze pratiche e segnatamente dalle scienze sociali” (ivi, 12).

La pars construens del discorso è ugualmente espressa in modo chiaro e senza ambiguità: “A chi fa la formazione giuridica è offerta dunque una responsabilità supplementare che è nostro dovere non allontanare appagandoci della ripetitività di modelli che sono stati utili in passato, ma che oggi non lo sono più”. Alla nuova responsabilità dell’insegnante, si aggiunge il compito di creare, in concreto, le premesse per un dialogo proficuo tra generazioni di studiosi: “Ci attende una stagione nuova e molto difficile – per riportare sempre le sue parole –, per la quale è indispensabile forgiare strumenti nuovi (…), portando il peso delle nostre consolidate certezze, ma aprendoci ad una realtà del tutto diversa che le nuove generazioni ci chiedono di concorrere non a subire ma a costruire”. Cercherò di ritornare in chiusura su questo punto, relativo alla (non semplice) detta pars construens del suo messaggio.

L’idea del rinnovamento si salda con il fondamentale e a tutti ben noto messaggio di natura metodologica, ribadito sino agli scritti e ai discorsi più recenti, sulla relatività delle categorie: “oggi non è possibile intendere il sistema degli enunciati e tentarne una possibile applicazione prescindendo da una destrutturazione delle tradizionali categorie ordinanti e quindi impostando una nuova revisione critica dei concetti del diritto civile”. 

 

A queste ultime considerazioni, così come al senso generale della riflessione sin qui svolta, riguardo soprattutto all’esigenza di un sostanziale e profondo rinnovamento, che il giurista (in particolare, il civilista) deve comprendere e promuovere, può collegarsi il ricordo del Maestro, come studioso profondamente attento e sensibile agli scenari ordinamentali nuovi, rispetto ai quali il civilista – tanto più, aggiungerei, in quanto portatore di una tradizione di pensiero e metodo molto risalente e complessa –, non soltanto non può tirarsi indietro, ma al contrario è tenuto a offrire il suo contributo in termini di comprensione e (tentativo di) razionalizzazione del nuovo, rimettendo in discussione categorie e concetti tramandati (e, in qualche modo, rassicuranti), facendo tesoro peraltro di considerazioni già rinvenibili in alcuni meditati scritti dei suoi maestri, ancora oggi punti di riferimento degli studiosi del diritto civile: “già Nicolò – ricordando uno dei suoi maestri, nell’intervista Vivere il diritto, cit., 54 – con singolare preveggenza (visto che la sua voce “Diritto civile” risale alla prima metà degli anni Sessanta), avvertiva che le categorie giuridiche e i relativi concetti possono essere oggetto di storia, con la conseguenza che non si deve perdere di vista che essi non sono valori universali, ma strumento di conoscenza di una realtà alla quale si devono adeguare e intimamente aderire”.

Vorrei far riferimento all’esperienza, che per quanto mi riguarda ha consentito di porre le basi e far crescere il rapporto maestro-allievo (di cui riferivo nelle pagine precedenti), relativa allo studio del nuovo “diritto privato europeo”, consentendomi un rapidissimo cenno di carattere autobiografico, soltanto per ricordare la  singolare condizione dell’allievo, che aveva avuto il primo incontro con il Maestro – diversamente da quanto accade di solito – non già di persona, ma per il tramite dei suoi scritti. In particolare, grazie alla lettura del saggio sull’interpretazione giuridica, posto in esordio del già ricordato volume “Diritto privato. Una ricerca per l’insegnamento”. Un saggio che non soltanto apre l’opera, ma costituisce una sorta di guida alla lettura dell’intera “ricerca”. Pur estraneo al diritto, sino al giorno prima dell’inizio delle lezioni nella facoltà di giurisprudenza di Bari, ero rimasto non soltanto colpito, ma in un certo senso anche affascinato – come del resto la maggior parte dei colleghi e amici, con i quali mi confrontavo a lezione e nella preparazione degli esami – dal lavoro di questo gruppo di studiosi, originale e (direi) quasi antitetico rispetto al manuale istituzionale.

Non avrei mai potuto immaginare, all’epoca ossia quando studiavo il volume collettaneo, ai fini dell’esame di istituzioni di diritto privato, di ritrovarmi coinvolto, a distanza di oltre un decennio, in un’analoga iniziativa cui il Professore – conclusasi l’esperienza politica attiva, come senatore in due legislature – volle dar vita, ricostituendo una compagine di giovani e giovanissimi studiosi (suoi laureati), con l’obiettivo di concepire e poi realizzare una ricerca – anche in questo caso, in funzione dell’insegnamento del diritto privato in una nuova e attuale dimensione giuridica – indubbiamente originale, per il tema e l’impostazione metodologica, ma senza dubbio immaginata – in questo modo veniva percepita da chi Vi parla, se non altro – nel solco di quella “ricerca” barese di circa trent’anni prima, che aveva lasciato un segno profondo, dunque sempre nel segno della ricerca funzionale all’insegnamento.

L’occasione era data da quel profluvio di normativa proveniente dall’Unione europea – all’epoca ancora Comunità di tipo essenzialmente mercantile – che aveva iniziato a far emergere alcuni grandi temi, che avrebbero finito per rappresentare il filo conduttore dell’opera, pubblicata per la prima volta cinque anni dopo, ossia nel 1997 e poi, in una nuova edizione, nel 2003.

La stessa espressione destinata a fornire il titolo dell’opera, “Diritto privato europeo”, si connotava come neologismo, senza dubbio sofferto, e comunque discusso a lungo nel gruppo, non sfuggendo a nessuno (innanzitutto al Maestro, s’intende) l’ambiguità semantica di un’espressione a metà strada – per come l’avevamo intesa noi, almeno – fra il processo formativo di una dimensione giuridica del diritto privato davvero nuova, tanto nella struttura quanto nei contenuti, e l’aspirazione o il possibile traguardo verso un’unificazione legislativa, che costituisce tuttora – e continuerà verosimilmente a costituire nei tempi a venire – l’oggetto di un dibattito, talvolta anche vivace e stimolante, ormai recepito ai diversi livelli dell’esperienza giuridica. 

Pur nell’incertezza sugli esiti di questo sforzo scientifico autenticamente innovativo, i grandi temi erano stati messi ben a fuoco: il superamento della statualità del diritto e il problema del riordino delle fonti; i possibili conflitti tra diritto interno e comunitario, con un ruolo tutto da ridefinire della corte costituzionale nei confronti della fonte comunitaria (il tema della giurisprudenza costituzionale e delle fonti di produzione del diritto sarà al centro di una nuova, successiva, esperienza di lavoro di gruppo, conclusasi in coincidenza con la celebrazione del cinquantennio della Corte costituzionale).

 

Su tutti i temi, però, e in un certo senso quale collante tra loro, potevano individuarsi le nuove prospettive per la civilistica, chiamata a rimettere in discussione – ancora una volta nella storia del pensiero giuridico – i propri modelli culturali e, soprattutto, le categorie sedimentate (ed anzi radicate, se non altro nella cultura prevalente presso la generazione dei nostri maestri) anche in virtù dell’incisione profonda determinata, nel modo di pensare il diritto civile – in quella generazione cui abbiamo tutti riconosciuto, a ragione e con piena consapevolezza, il ruolo di guida nella formazione delle generazioni successive, come anche di quella cui appartengo – di quella sintesi del pensiero civilistico all’epoca rappresentata, e anzi direi simboleggiata, dalle “dottrine generali” del più volte evocato maestro Santoro Passarelli. 

Un distillato di sapienza giuridica mai archiviato – per fortuna nostra, direi di tutti, ma soprattutto dei più giovani studiosi – dai nostri maestri e in primo luogo dall’allievo Nicolò Lipari, che non di rado ha avvertito l’esigenza di richiamarvisi - in varie occasioni convegnistiche degli anni recenti, come molti ricorderanno –, soprattutto nel momento in cui, con lo spirito critico (e autocritico) che lo contraddistingueva, ha espresso il disagio – fisiologico, si potrebbe dire, di fronte al mondo che cambia, ma pur sempre disorientante per il giurista – di chi tenta di mettere ordine nell’assetto concettuale e categoriale del diritto civile del nostro tempo. 

La sensazione era che fossimo al cospetto di quello che il celebre filosofo e storico della scienza Tomas Kuhn definiva in termini di ‘slittamento’ (o anche mutamento) dei paradigmi epistemologici, i quali chiamano in causa direttamente i “tradizionali modelli culturali dei giuristi – riporto ancora il pensiero di Nicolò Lipari – incidendo dall’interno sulla struttura dei loro procedimenti ricostruttivi”. L’espressione, si diceva, è del Maestro, al quale va dato atto di avere intuito agli albori degli anni Novanta quel che oggi può apparire scontato, e in ogni caso comunemente accettato – come dimostra anche l’evoluzione dell’organizzazione dei corsi universitari e, correlativamente, dell’editoria in questo ambito, con insegnamenti e manuali anche di “diritto privato europeo” –, dovendo essergli grati di averci ricordato, a più riprese in questi ultimi anni, che “in una stagione in cui si va perdendo, specie nel mondo del diritto, la dimensione sistematica del sapere, la prospettiva europea ci deve aiutare a saldare le cose nuove con la memoria del passato – un monito per nulla superfluo e specificamente rivolto ai più giovani, in quell’intenso, fecondo, e sempre rispettoso, dialogo generazionale rimasto un punto di riferimento costante nelle considerazioni metodologiche svolte da Nicolò Lipari in occasione dei dibattiti a più voci, provenienti da giuristi formatisi in tempi diversi – perché è proprio nella consapevolezza di questo legame che si coglie lo spirito sistematico”. 

La sfida era complessa per i civilisti e grazie all’intuizione e alla guida del Professore riuscimmo a cogliere il senso del mutamento, che stava avvenendo e che avrebbe caratterizzato i successivi decenni: concetti e categorie del diritto civile venivano messi, i primi al pari delle seconde, a dura prova dalle novità provenienti da un diritto – fatto di regole formalizzate, ma anche e soprattutto di principi - sino a quel momento sconosciuto, di matrice europea ma destinato a esprimersi e realizzarsi in un (nuovo) ordinamento unitario, in tal senso fortemente e continuamente innovato. In un contesto del genere, “l’importante è capire – riprendo l’efficacissima conclusione della “prefazione” alla prima edizione dell’opera, nel 1996 – una volta per tutte (…) che le finestre dei nostri concetti non possono contenere il cielo dell’esperienza giuridica. Si tratta allora, volta a volta – questa la pars construens del messaggio sul piano metodologico, sempre affidato alla metafora – di scegliere se è sufficiente affacciarsi per guardare meglio al di là o se è necessario allargare le finestre”.

L’esperienza del diritto privato europeo non soltanto consentì a tutti noi di “aprire le finestre” (ossia i limiti degli schemi acquisiti, con tutte le inevitabili semplificazioni che gli stessi comportavano), ma dischiuse a lui le porte per gli studi – condensati in preziosi volumi, a tutti ben noti e ispiratori di innumerevoli dibattiti a più voci – sui grandi temi del diritto civile, a partire dalle fonti (in un volume che fu, ancora una volta, l’occasione per un dibattito e una ricerca di gruppo), per continuare con la riflessione (inevitabilmente individuale, in quanto era necessario ripensare i modelli della tradizione ossia alcune certezze dogmatiche sulle quali era stato edificato il sistema) sulle categorie del diritto civile, per poi fare il punto sul tema fondamentale del nostro tempo, ossia della "giurisdizionalizzazione" del diritto civile, oscillante “tra legge e giudizio”, ma sempre più proteso verso il secondo, ossia il momento giurisdizionale. 

 

La successiva evoluzione della riflessione metodologica sembra attingere a una dimensione ancora più generale, indagando il rapporto tra diritto civile e “ragione”, posto che “il principio di ragione diventa l’ottica fondamentale della giuridicità”, sicché la norma va ricostruita in modo diverso rispetto al passato: “[o]ggi non è più possibile – è uno degli insegnamenti ribaditi con maggiore costanza e convinzione – limitarsi a porre il fondamento della regola nella legittimità formale della sua posizione e nell’autorità di chi è autorizzato a dettarla. Oggi si ritiene che la regola non più assunta in astratto, ma riferita alla peculiarità del caso, debba essere supportata da motivazioni e argomentazioni tali da renderla accettabile alla comunità di riferimento, proprio a cagione della sua ragionevolezza” (così, testualmente, in Vivere il diritto, cit., 61, ma si veda anche la risposta precedente: p. 59). 

 

Il passaggio successivo conduce al “principio di ragionevolezza” (negli ambiti del diritto civile, a cominciare dal diritto dei contratti del nostro tempo) e, nel presupposto sempre ribadito che il diritto costituisce una scienza pratica (e non teoretica, come per troppo tempo si era ritenuto), si giunge a quella ho definito come una sorta di summa del pensiero del Professore, affidata al volumetto intitolato, in modo sufficientemente esplicito rispetto al messaggio ivi espresso, Elogio della giustizia, volutamente composto in forma discorsiva e – nella visione dell’Autore, se non altro – ‘semplificata’, sul piano tecnico e argomentativo, con l’obiettivo di rendere la riflessione fruibile, in primo luogo per lo studente matricola negli studi giuridici, ma anche per il lettore comune, colto e motivato, ma non giurista. 

 

Se non è possibile riprendere anche soltanto qualcuno tra i numerosi spunti che queste riflessioni hanno offerto a noi tutti, vorrei almeno ricordare che l’evoluzione del pensiero nella direzione indicata non ha impedito al Professore di conservare l’interesse e la curiosità per le nuove frontiere – si sarebbe tentati di evocare, ancora una volta, quell’entusiasmo giovanile, rispetto alle novità da studiare e cercare di razionalizzare nel sistema, con tutte le problematiche appena ricordate, relative alla riconsiderazione di concetti, categorie, principi –, come dimostra, in modo sempre magistrale, la relazione al convegno SISDIC dello scorso anno su “Cambiamento climatico, sostenibilità e rapporti civili”. Un tema, quest’ultimo, assai perspicuamente individuato dall’Associazione, che tuttavia sarebbe apparso, a un civilista della sua generazione, qualcosa di eterodosso, se non altro. La curiosità intellettuale del Professore, invece, ne è stimolata, al punto che, in una relazione divenuta un saggio veramente esemplare da molteplici punti di vista, si condensassero le “premesse per un diritto civile dell’ambiente” (questo il titolo della relazione).

Se la premessa fondamentale è sempre nel senso della valorizzazione della dimensione del diritto come scienza pratica, “l’attenzione all’‘esperienza’ – affermava il Professore – si carica di significati nuovi e arricchisce di nuove prospettive la sua valenza etimologica, che riconduce alla relazione tra la capacità riflessiva dell’individuo e la materialità oggettiva su cui riflettere”, considerando – sono sempre parole sue, dense di significato – che “l’esperienza giuridica è, per sua natura, esperienza ambientale”. In gioco è “la necessità di un ricambio radicale della riflessione giuridica, che non può più rifiutare di occuparsi delle prevaricazioni intergenerazionali di fronte a comportamenti delle generazioni presenti che si attuano al prezzo dell’infelicità, del malessere, dell’impotenza, persino dell’estinzione o dell’impossibilità di venire al modo di quelle future”. 

In tal senso, “per affrontare correttamente, in chiave giuridica, il tema dell’ambiente e dei mutamenti climatici, non solo è necessario liberarsi dai condizionamenti che discendono dagli schemi classificatori di nostri vecchi modelli culturali – uno dei motivi dominanti, com’è noto, della sua riflessione sulle categorie -, ma è necessario altresì muoversi con cautela nell’uso dei nuovi strumenti interpretativi perché l’esperienza contemporanea, il contesto culturale entro il quale ci muoviamo, tende ad assumere atteggiamenti non solo di disattenzione, ma anche di resistenza ad una genuina garanzia di quel bene comune che è l’ambiente”.

Un esempio significativo può essere colto nel rapporto tra contratto e ambiente, ove occorre “superare un altro dei tradizionali paradigmi sui quali si è fondata la nostra educazione al diritto: il principio secondo il quel il contratto produce effetti solo tra le parti”, sicché “nell’ottica dell’ambiente può essere ripensata non solo la tematica del contratto giusto ma anche quella dell’efficacia del contratto. La logica dei beni comuni – toccando un’altra tematica assai complessa e tipicamente dei nostri tempi – era estranea alla cultura dei nostri maestri. Oggi essa addirittura connota un’enciclica papale” (riferendosi all’enciclica Laudato si’, ove l’ambiente è definito in termini di bene comune).

Ma in gioco è anche il tema ossia la teoria della soggettività, così come della negozialità, senza dire dell’esigenza, indubbiamente nuova e, ancora una volta, sfidante, di “una lettura del nostro impianto costituzionale nella chiave di un interesse generale alla tutela dell’ambiente delineato in senso intergenerazionale”.

 

Pensieri questi ultimi che valgono a confermare – ad avviso di Vi parla, se non altro – la straordinaria capacità del Professore di saldare temi, concetti e categorie di nuovo conio con le grandi problematiche del diritto civile odierno, come nel caso della sostenibilità, dalla natura prima facie intrinsecamente extragiuridica, declinata nel suo legame con la ragionevolezza, potendosi in tal modo ricomporre e riordinare il sistema: “così come la ragionevolezza, quale collante necessario fra il caso concreto e il sistema giuridico di riferimento, finisce per rendere immanente un principio di giustizia nella stessa positività della norma, analogamente la sostenibilità finisce per divenire parametro valutativo necessario dell’azione sia delle autorità pubbliche che dei privati, pur non essendo riconducibile a nessuna delle nostre tradizionali categorie ordinanti. Ragionevolezza e sostenibilità inevitabilmente dialogano e si integrano, talvolta adeguando talvolta interrompendo la continuità del sistema giuridico. Ancora una volta si dimostra che un principio di giustizia entra necessariamente nel processo applicativo del diritto”, rilevando prioritariamente (non tanto la conformità alla lettera della legge, quanto) la logica complessiva del sistema, fondato su valori irrinunciabili quali la solidarietà e la dignità umana.

Nel momento in cui si afferma che “il rapporto soggetto-ambiente (…) può diventare addirittura paradigmatico del corretto modo di intendere oggi la giuridicità”, l’invito per il civilista che guardi alla grande tematica ambientale è “a non chiudersi in una visione autoriflessiva, ma aprirsi ad altre prospettive, coniugare un metabolismo culturale più vasto, mettersi in relazione, nella condivisione e nella responsabilità, con apporti derivati da mondi disciplinari diversi. Ne consegue una relazione col luogo che investe la sfera esistenziale”.

 

E in un altro recente intervento, scelto tra i tanti in occasione di convegni e seminari di studio dello scorso anno, nell’ambito di un ciclo di incontri – si tratta del contributo Il diritto del nuovo millennio tra giurisdizionalizzazione ed algoritmo, pubblicato in Accademia, 2024, 9 ss. e relativo all’intervento svolto a Firenze il 1° marzo 2024, nell’ambito di un ciclo di incontri sul tema ‘La giurisdizione del futuro’ –, ragionando sull’ulteriore frontiera del diritto civile (e del diritto in genere), ossia su capacità e limiti della funzione giurisdizionale rispetto alla “giustizia predittiva”, come si usa dire, affidata a calcoli e dunque all’idea di algoritmo, dopo aver ribadito la rilevanza decisiva del momento attuativo dell’esperienza giuridica (rispetto all’astrattezza e fissità dell’enunciato), il Professore ribadiva l’invito (al civilista sicuro e pago delle sue certezze, acquisite nel passato e illusoriamente considerate utili anche nell’analisi dell’attualità) a rendersi conto che “Noi, professori della vecchia guardia – è necessario riportare testualmente anche in questo caso –, dobbiamo renderci conto che i nostri interlocutori appartengono a una generazione che non si misura più, rispetto alla precedente, con un semplice metro culturale, ma che utilizza paradigmi radicalmente diversi dai nostri: una generazione che tende a sostituire i legami virtuali ai legami sociali, il web allo Stato, il “chattare” al parlare. Per essere compresi dobbiamo innanzitutto capire che è necessario adattare il nostro linguaggio a chi ci ascolta”. 

Nel merito della nuova, anzi nuovissima riflessione, un’altra delle grandi sfide dei nostri giorni, la conclusione è non soltanto molto chiara, ma perfettamente coerente con l’impianto metodologico e la sensibilità giuridica che caratterizzano gli studi degli ultimi decenni: “Si tratta dunque di educare il giurista ad un serio rapporto con le macchine che non lo espropri dei suoi poteri di decisione e di scelta”, mentre il diritto, per parte sua, “deve rivendicare i grandi principi e i valori non negoziabili”. La convinzione, assai difficilmente controvertibile, è che “per conseguire un risultato di questo tipo, sia decisivo il riferimento al principio di ragionevolezza, che salda le ragioni della scelta ad un criterio di condivisione socialmente rilevante e quindi non meccanico né arbitrario”, confermandosi per un verso la stretta relazione tra il principio di ragionevolezza e le esigenze di giustizia sostanziale, per altro verso la centralità del momento giurisdizionale, dal quale il risultato di giustizia dipende. 

Conviene ricordare i passaggi del discorso, di particolare incisività: “[n]el richiamo al principio di ragionevolezza, pur non facilmente definibile nei suoi connotati individuanti, ma certamente riconducibile ad una convinzione diffusa, a un consenso sociale, si saldano le attese di giustizia con le capacità di comprensione e gli indici di valore dei consociati”. E ancora: “Con il richiamo alla ragionevolezza, quale indice giustificativo di una soluzione di rilevanza giuridica, si individua un criterio di raccordo tra il sistema istituzionale e la società civile che, senza bisogno di particolari motivazioni, rende la decisione accettabile dai più, sul presupposto che qualsiasi diversa soluzione risulterebbe palesemente inadeguata” (ivi, 17). E sull’attività giurisdizionale necessariamente orientata al perseguimento di un risultato di giustizia: “[l]’esercizio della giurisdizione si trova oggi, per così dire, al centro del crogiolo. Nella stagione in cui viviamola stessa parola giustizia, proprio perché rievoca un pensiero trascendente, metafisico, assolutista, è divenuta parola scandalosa, impronunciabile. Nell’epoca del pensiero debole ogni concetto che sembri tendere all’assoluto, diviene foriero di ideologia, di esclusione.  Non va tuttavia mai dimenticato che per intendere il significato di giustizia è indispensabile muovere dalla storicità della vita sociale e dagli ordini normativi che essa esprime. Ed è proprio questo il compito che oggi è rimesso in modo peculiare all’attività giurisdizionale” (ivi, 18).

 

Possono essere sufficienti i due esempi appena fatti, per comprendere come l’interesse del Professore a spingersi verso le più sfidanti frontiere del diritto civile e quel più volte ricordato entusiasmo nell’affrontare le nuove sfide non siano mai venuti meno, contribuendo in modo decisivo a preziose ricostruzioni sistematiche. Mi sembra molto appropriato, in questo senso, il pensiero conclusivo della prefazione a un bel volume pubblicato da Paolo Grossi – un altro grande maestro, che ci ha lasciati avendoci insegnato tanto, ma soprattutto avendo anch’egli fornito a tutti noi l’esempio dello studioso e del giurista allo stesso tempo tanto appassionato, quanto carismatico –, dal titolo peraltro perfettamente aderente alla figura del Giurista che ricordiamo, ossia “Nobilità del diritto” (una galleria di efficacissimi ritratti di giuristi, anche viventi, che hanno segnato la storia recente del pensiero giuridico). Ivi l’Autore si augura di avere offerto, anche al comune lettore, la possibilità di “rendersi conto di essere di fronte a dei costruttori di pensiero – sono queste le parole di Paolo Grossi – e, in quanto tali, a degli autentici costruttori di storia; di essere di fronte a dei personaggi che hanno conquistato e meritato il titolo di nobilità segnato con persuasione sul frontespizio del volume”. 

È innegabile che il pensiero del Maestro oggi ricordato abbia segnato in modo significativo la storia del diritto civile del nostro tempo, nel momento in cui vi si ritrovano, trattati in modo esemplare, gli snodi concettuali del passaggio culturale odierno, che può definirsi in qualche modo epocale: da un mondo affidato alla tradizione, ideale custode e garante della stabilità, a scenari del tutto nuovi, ricchi di incertezze ed estremamente mobili, ma proprio per questo da indagare con curiosità, quali che siano le opzioni metodologiche di ciascuno e le conclusioni che si ritenga di trarre, in coerenza con tali opzioni. Con estrema chiarezza (nella già ricordata intervista Vivere il diritto, cit., 88) si afferma: “[n]oi ci troviamo oggi nel pieno di una profonda transizione tra diversi paradigmi giuridici, di cui restano ancora da precisare meglio le cornici concettuali, le singole articolazioni teoriche, i giudizi di valori sottostanti. L’importante è averne consapevolezza e non spaventarsi del nuovo, pur senza negare i riflessi positivi di una tradizione, della quale va conservato il patrimonio essenziale, anche se nella ricerca di nuovi fondamenti teorici”. 

 

Poche battute conclusive, soltanto per realizzare un desiderio del Professore, esplicitato nella relazione finale del già ricordato convegno tenutosi nell’Università di Bari nello scorso aprile, in cui il dibattito sul volume “Diritto e ragione” si coniugava con il gioioso festeggiamento del novantesimo compleanno (di qualche giorno prima), in modo ritengo coerente a quanto sin qui ho esposto, cercando di ricordare la figura esemplare e irripetibile di studioso, docente e maestro, sempre proteso in avanti (come si diceva in esordio), al fine di indicare a chi segue un percorso, sfidante, se non impervio, ma che comunque vale la pena intraprendere.

Intitolando l’intervento, in modo inatteso e singolare, ossia “A proposito del tempo” – già menzionato in apertura del convegno da Mirzia Bianca – il Professore chiariva subito, in un’ideale premessa del discorso, che la sua sensazione era – anche dopo il novantesimo compleanno – quella di vivere il tempo “non come attesa, ma come speranza”, evidenziando la fondamentale distinzione che corre tra l’attesa, connotata da una sostanziale passività e la speranza, che al contrario è attiva e al tempo stesso ottimista. Nel toccante discorso svolto in quell’occasione, nel luogo che lui sentiva sinceramente “suo”, avendo avuto inizio ed essendosi svolta per anni la sua attività di docente e soprattutto di Maestro – di un gruppo di giovani studiosi, particolarmente folto ma anche eterogeneo, che soltanto una forte e carismatica personalità avrebbe potuto tenere insieme, in vista di un lavoro autenticamente collettaneo e, in un certo senso, corale –, volle esplicitare il senso che aveva voluto dare all’incontro, lungi dal cadere nella tentazione della rievocazione dei tempi trascorsi, ossia “un significato del tutto opposto al modello corrente: valorizzare la ricchezza del passato quale spinta per proiettarsi nel futuro”. 

Di qui l’espressione, molto bella e soltanto apparentemente paradossale – già ricordata da Mirzia Bianca all’inizio del convegno e utilizzata dal Professore molti anni prima, ossia in occasione della presentazione degli “Studi in suo onore”, e anche quest’ultimo è un ricordo al tempo stesso molto vivo e, inevitabilmente, assai malinconico, anche perché eravamo proprio in quest’aula, piena come sempre è avvenuto in sua presenza – di una “memoria del futuro”, con un monito, straordinariamente efficace, sul modo in cui ogni studioso e insegnante – in ogni ambito del sapere, invero – dovrebbe operare, per dare un senso, se non altro, alla sua stessa esperienza. 

Vorrei riportare ancora le sue parole, perché qualsiasi parafrasi svilirebbe il messaggio, che in fondo ci riguarda tutti: “io non mi pongo dunque qui – diceva il Professore, con l’usuale franchezza, unita all’altrettanto ben nota energia intellettuale – nell’atteggiamento di quei vecchi che pensano che tutto debba essere come loro o come loro pensano di essere. Accetto la sfida del futuro, fermo restando che a nessuno è dato sapere quanto questo futuro possa durare”. 

Quel futuro è durato purtroppo pochissimo e dunque, a maggior ragione, sento di dover realizzare il desiderio, da lui espresso in chiusura, di essere ricordato nel segno di quei versi del XXII canto del Purgatorio dantesco, in cui rivolgendosi con riconoscenza a Virgilio, il poeta latino Stazio esprime, attraverso una metafora molto bella – risalente, se non ricordo male, a Sant’Agostino, ma particolarmente appropriata al ricordo odierno –, la sua gratitudine, per quanto aveva potuto apprendere dalla lettura dell’opera virgiliana: “Facesti come quel che va di notte, che porta il lume dietro e sé non giova, ma dopo sé fa le persone dotte”. Mi piace ricordarlo proprio così, come lui aveva chiesto, soltanto qualche mese fa. 

Mosso sempre da quella straordinaria curiosità intellettuale, che ho cercato brevemente di rievocare, così come dalla fiducia coniugata all’appena ricordata idea della speranza, il Professore è riuscito a mettere a frutto nel modo migliore le qualità, le capacità e le inclinazioni che la vita gli aveva donato, facendo sì che la lanterna del suo pensiero, potesse illuminare il percorso di quanti l’hanno seguito: gli allievi che hanno potuto condividere con lui un rapporto diretto, ma anche i tanti allievi indiretti, per così dire, che nel dialogo (anche in termini critici e dunque autenticamente dialettici) si sono comunque giovati di quel lume prezioso, che certamente li ha aiutati a crescere. 

Fiducia e speranza, entrambe derivanti non soltanto dalla sua profonda fede, ma dall’altrettanto radicata convinzione che, in ogni ambito del pensiero e delle azioni degli uomini, la fede non deve e non può essere disgiunta, ancor meno contrastata, dalla ragione (come dimostra, nel modo più alto e autorevole, la celebre enciclica, firmata il 14 settembre 1998 da Giovanni Paolo II, intitolata Fides et Ratio e dedicata al compito della filosofia e ai suoi rapporti con la ricerca della verità). È infatti la ragione che, nel discorso giuridico, può dare linfa vitale tanto alla razionalità delle costruzioni argomentative, quanto alla ragionevolezza dei risultati applicativi.

 

Ritenendomi e definendomi allievo fortunato, vorrei concludere aggiungendo soltanto che, invero, l’intera generazione di studiosi cui appartengo può dirsi molto fortunata, per aver avuto la possibilità di interloquire con maestri di questa levatura e, al contempo, dalla straordinaria capacità di coltivare anche il rapporto umano e dunque personale, con chiunque volesse apprendere e dialogare, anche di fuori della cerchia, più o meno ristretta, astrattamente riconducibile alla scuola di riferimento. A noi, individualmente ma anche collettivamente, rimane un lascito, per chi voglia raccoglierlo e valorizzarlo, relativo a un compito tutt’altro che semplice nel contesto attuale dell’insegnamento universitario, ma proprio l’esempio dei nostri maestri dovrebbe infonderci il coraggio e la convinzione per procedere nella direzione da loro indicata.

Alle diverse sensazioni, che oggi non possiamo non vivere con nostalgica mestizia, si aggiunge così un impegno – vorrei dire, di carattere innanzitutto morale, ma per sottolinearne l’ancora più stringente obbligatorietà –, che tocca da vicino non soltanto la generazione cui appartengo, ma anche, e direi soprattutto, i più giovani studiosi (senza mezzi termini e con la consueta franchezza, nella più volte ricordata intervista Vivere il diritto, cit., 54, si afferma: “[u]na difficile stagione attende dunque i giovani civilisti perché dovranno mediare tra le novità dell’esperienza e le sedimentazioni di una cultura giuridica molto restia a liberarsi dei suoi vecchi modelli classificatori”). 

Un compito da realizzare – sarei tentato di dire una missione, se il termine non sembrasse troppo enfatico, ma di questo si tratta, a ben vedere –, tanto nella ricerca, quanto nell’insegnamento, in quella simbiosi e unitarietà sostanziale tra i due momenti sempre sottolineata dal Professore – condivisa fortunatamente da altri, tra i nostri maestri, non con le parole, ma in concreto, ossia con il loro esempio e la dedizione, di cui siamo stati i primi beneficiari –, in modo da avere un giorno la soddisfazione di poter dire che cultura, sensibilità e tecnica, come qualità di chi studia e insegna diritto, sono state in qualche modo preservate e proseguite, nel solco ben tracciato da chi ci ha preceduto e ha portato dietro di sé il lume della similitudine dantesca.

 

In questo senso, la gratitudine che, da parte mia, ho cercato di esprimere con questo breve ricordo, seppure nel modo visibilmente sintetico che mi era stato chiesto e in cui sono stato capace di farlo, credo che rappresenti, in un momento come questo, in cui non possiamo che sentirci tristemente orfani, il sentimento di tutti noi.

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