Sommario:
1. Premessa.
Il concetto di insolvenza presuppone quello di obbligazione [1]. Può cadere nell'insolvenza soltanto chi è debitore in un rapporto obbligatorio. La condizione di insolvenza in cui verso il debitore determina conseguenze disciplinari sul rapporto obbligatorio [2]. Nel codice civile questo ordine di conseguenze si raccoglie nelle regole sui poteri di autotutela del creditore, minacciato dalla condizione di insolvenza in cui si trova il debitore, e perciò autorizzato a porre in essere contromisure a salvaguardia del credito [3].
La legislazione sull'insolvenza costituisce invece un ordine di conseguenze ben più ampio, fondato non più sulla considerazione del singolo rapporto obbligatorio, ma sulla condizione di insolvenza del debitore in connessione, su un primo piano, con le pretese di adempimento sollevate da tutti i creditori di quel medesimo debitore, e su un secondo piano, con l'attività economica eventualmente svolta dal debitore e messa in difficoltà da quella condizione.
Mentre la considerazione dell'insolvenza rispetto alla massa dei crediti amplia la prospettiva del trattamento di questa condizione nell'ambito dell'obbligazione, invece la considerazione dell'insolvenza rispetto all'attività economica sposta il punto di osservazione, ponendo in risalto i problemi connessi alla prosecuzione dell'attività e alla salvaguardia di tutti gli interessi, oltre a quello dei creditori, che vi sono implicati (interessi dei lavoratori, dei fornitori, degli utenti dei beni e servizi).
Nella evoluzione storica del concetto di insolvenza questi piani di rilevanza sono costantemente presenti, seppure con diverso peso [4]. L'emersione alla consapevolezza giuridica del fenomeno economico dell'impresa, maturata negli ultimi due secoli, ha infatti arricchito una elaborazione in precedenza sviluppatasi esclusivamente con attenzione al rapporto tra debitore e creditori, e dunque sotto il paradigma concettuale dell'obbligazione.
2. Insolvenza e obbligazione.
Nelle legislazioni storiche il fallito è chiamato anche ‘cessante': per dire di colui che smette di fare qualcosa, nel nostro caso di pagare i propri debiti. Poiché la figura storica del mercante, e poi del commerciante, si caratterizza essenzialmente per l'attività di intermediazione sul mercato (come testimonia la figura della compravendita, ossia la cristallizzazione dell'attività di acquista per rivendere), smettere di pagare i propri fornitori equivale a cessare anche la propria attività di mercato, in quanto i creditori inadempiuti non forniranno più merce da compravendere. Pertanto, chi cessa di pagare cessa pure di fare impresa [5].
In talune legislazioni contemporanee (e così nell'esperienza francese e tedesca) persiste l'uso terminologico e si discorre di ‘cessazione dei pagamenti' per dire dello stato di fatto dell'operatore economico che non si trova più in condizione di resistere sul mercato. Nell'uso invalso nel nostro ordinamento, il riferimento alla cessazione dei pagamenti è definitivamente tramontato; il termine adoperato in sostituzione è ‘insolvenza'. Tanto nel codice civile quanto nella coeva legge fallimentare, il termine è usato in esclusiva, senza che compaiano riferimenti alla cessazione dei pagamenti. L'utilizzo legislativo si è consolidato nella legislazione successiva, ed oggi nel codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza.
Benché vi siano cospicui riferimenti all'insolvenza nel codice civile, la definizione era contenuta nell'art. 5 della legge fallimentare: la qual cosa non deve comunque destare stupore. Il nostro codice civile è il risultato della unificazione dei precedenti codici civile e di commercio; la disciplina del fallimento era contenuta nel codice di commercio, e fu infine affidata ad una apposita legge dedicata all'insolvenza dell'imprenditore, ossia del soggetto su cui si addensarono le legislazioni medievali nel disciplinare il fenomeno: in quanto all'epoca l'insolvenza era ritenuta condizione del mercante e non anche del debitore civile. Si può pertanto comprendere come proprio nella legge fallimentare, piuttosto che nel codice civile, fosse stabilita la definizione di insolvenza.
L'origine storica di questa figura giuridica non può essere minimamente trascurata da chi voglia coglierne il senso. L'insolvenza si manifestò come problema accusato dal commerciante nell'esercizio dell'attività. Ma poiché quest'ultima sfuggiva ampiamente alla concettualizzazione giuridica, nello spettro del diritto non si coglieva la caratteristica di un soggetto che svolge un'attività (del commerciante che, acquistando e rivendendo, soccombe all'incapacità di pagare i propri creditori) bensì una moltitudine di condotte deludenti poste in essere dal debitore: che non pagava un creditore, chiedeva dilazioni ad un altro, sconti ad un terzo, oppure offriva ad un quarto di saldare il debito con oggetto o modalità diverse da quelli inizialmente pattuiti. In poche parole, si coglieva una serie di ritardi e di inadempimenti nell'esecuzione delle prestazioni dovute. Ecco perché l'attenzione si appuntò sulla cessazione nei pagamenti (ossia negli adempimenti).
Per l'art. 5 l.fall. era insolvente l'imprenditore che non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni. Si aggiungeva che l'insolvenza costituisce uno ‘stato' del soggetto (stato di insolvenza): una condizione che lo caratterizza e che è determinativa delle sue condotte nell'ambito dei rapporti obbligatori. Lo stato di insolvenza, quale condizione interna al soggetto, “si manifesta” (così proseguiva il nostro articolo) con inadempimenti o altri fatti esteriori. La definizione è stata ripresa alla lettera nell'art. 2, lett. b), c.c.i. [6]
Come nella cessazione dei pagamenti così nello stato di insolvenza la definizione giuridica si sforza di eccedere la dimensione dell'atto per raggiungere la diversa dimensione dell'attività. Non ci riesce, e il nesso tra insolvenza e impresa rimane sospeso a mezz'aria. La definizione non supera, infatti, la dimensione soggettiva dell'imprenditore. Ad essere insolvente è pur sempre l'imprenditore: di cui, però, non si considera la posizione di debitore nel singolo rapporto obbligatorio, ma un carattere generalizzato che lo condiziona in tutti i rapporti obbligatori in cui è coinvolto: l'impotenza di adempiere (regolarmente) le proprie obbligazioni. In tal modo, mentre la concettualizzazione supera la dimensione dell'atto, non travalica la dimensione del soggetto. In breve, l'impresa fa capolino nella dimensione concettuale dell'insolvenza nella soggettivizzazione data dalla figura dell'imprenditore.
Tanto nella idea della ‘cessazione dei pagamenti' quanto in quella ‘dell'insolvenza' è coinvolta la dimensione temporale nella sua interezza: passato, presente e futuro. Lo stato del soggetto si registra sulla scorta di un'analisi che interroga il passato per comprendere il presente e prevedere il futuro. Dall'emersione di determinati fatti storici, quali soprattutto ripetuti inadempimenti, può evincersi la condizione di incapacità di pagare allo stato attuale ed inferirsi il permanere della stessa condizione in futuro.
Il riferimento alla cessazione dei pagamenti può essere da questo punto di vista un poco ingannevole, perché induce a concentrare l'attenzione su fatti già accaduti e magari a trascurare di riflettere sulle conseguenze attuali e future dello stato soggettivo che determinò quei fatti passati che, per essere accaduti, lo rivelano all'esterno. Invece, è essenziale tenere bene a mente che il nucleo concettuale dello stato di insolvenza è proiettivo: vale soprattutto per raggiungere una prognosi sui comportamenti futuri del debitore. Poiché l'imprenditore è caduto nell'insolvenza e permane in quella condizione disastrosa senza ragionevoli prospettive di superarla, è espulso dal mercato per mezzo della dichiarazione di liquidazione giudiziale: affinché non assuma ulteriori obbligazioni destinate a rimanere deluse.
L'insolvenza si risolve, dunque, in una condizione di impotenza che pregiudica il debitore. In quanto condizione intrinseca e di contenuto negativo, non è disponibile all'osservazione diretta. L'insolvenza non si mostra nella sua realtà ma si manifesta indirettamente attraverso una serie di fatti esteriori che ne costituiscono tracce, tradendone la presenza. Veri e propri sintomi (come pure dicono di solito i giuristi) di una condizione soggettiva interna in tutto simile ad una malattia psichica.
Il fatto sintomatico di maggiore evidenza è dato dall'inadempimento dell'obbligazione. Nell'inadempimento si rivela l'effetto più drastico dell'insolvenza: l'incapacità di pagare per come dovuto determina il mancato pagamento. Ma nei dintorni di questo fatto radicale l'esperienza ne annovera molti altri, tutti connessi al tema dell'inadempimento. Anche l'adempimento inesatto è significativo per diagnosticare l'insolvenza. Adempiere senza rispettare le condizioni di tempo e di luogo originariamente pattuite o senza prestare l'oggetto dedotto in obbligazione, ma una cosa diversa al posto di quello, fa trasparire lo stato di insolvenza del debitore. Così che anche una semplice prestazione in luogo dell'adempimento può servire a scoprire uno stato di insolvenza.
Prima ancora dell'atto mancato (inadempimento) o dell'atto non conforme alla fonte di obbligazione (adempimento inesatto o irregolare) possono accadere determinate condotte sempre nel contesto dell'esecuzione dell'obbligazione comunque significative per l'accertamento dell'insolvenza. La richiesta di una dilazione del termine finale dell'obbligazione (o la richiesta di un termine nuovo a termine scaduto) la proposta di un pactum de non petendo o interlocuzioni similari con il creditore, finalizzate alla rinegoziazione del debito, possono agevolmente spiegarsi con la condizione di difficoltà adempitiva in cui versa il debitore [7].
Fin qui la generale condizione di un soggetto è scrutata attraverso il buco della serratura costituito dall'esame della sua condotta nell'ambito di un rapporto obbligatorio. Se l'accertamento si ripete su altri rapporti obbligatori, la persuasività delle conclusioni a cui può giungersi sull'esistenza dell'insolvenza si accresce proporzionalmente. Tuttavia, espandere la considerazione da un singolo rapporto obbligatorio a più rapporti obbligatori si giustifica proprio per la natura del fenomeno indagato: che pur manifestandosi nell'ambito di ogni singolo rapporto obbligatorio, trascende quell'ambito per definizione.
L'esperienza giuridica ha progressivamente annoverato altri indizi di insolvenza cogliendoli al di fuori della dimensione dell'obbligazione. Il mercante che fugge dalla città per scampare dalla caccia che gli danno i creditori; o che si rintana da qualche parte sottraendosi al loro sguardo e lasciando chiusa la porta della bottega è una icona nella vicenda medievale del fallimento. La forza rivelatrice di quegli antichi sintomi (ritenuti talmente importanti che il fallito oltre che con il termine “cessans” fu individuato con il termine “fugitivus”) è testimoniata dalla loro attualità: giacché l'irreperibilità dell'imprenditore e la chiusura dei locali dell'impresa sono ancora oggi considerati importanti sintomi dello stato di insolvenza. Né altri sintomi valorizzati nel passato, ma trascurati negli ultimi decenni, sono poi effettivamente tramontati. E qui la forza della tradizione è dimostrata dall'eloquenza del gesto del suicida per debiti. Questo antico rimedio al fallimento economico vissuto anche come insuccesso esistenziale è tornato tristemente alla ribalta negli anni difficili della crisi economica che ha visto moltiplicarsi i suicidi degli imprenditori insolventi.
L'importanza di questa ulteriore sintomatologia è nella dimostrazione, che può desumersene, sulla non contenibilità del fenomeno dell'insolvenza nello schema semplificato del rapporto obbligatorio.
3. Insolvenza imprenditoriale.
Nell'orbita dell'attività di impresa l'insolvenza significa l'incapacità dell'imprenditore di assicurare il regolare svolgersi di quell'attività; l'inadeguatezza del soggetto rispetto all'attività.
Se poniamo mente all'essenza dell'attività commerciale quale funzione di intermediazione tra venditori originari e acquirenti finali e consideriamo, piuttosto che la figura emblematica della compravendita, l'attività di comprare per rivendere, possiamo collocare il problema dell'insolvenza nella dimensione propria dell'attività. Nella schematizzazione esemplificativa dell'attività commerciale, il commerciante acquista le merci dai venditori originari assumendo debiti nei loro confronti; dopo di che vende quelle merci agli acquirenti finali acquisendo crediti nei confronti di questi ultimi.
L'attività del commerciante si regge non solo se il guadagno conseguito nella rivendita è sufficiente al pagamento dei debiti acquisiti per l'acquisto; ma prima ancora se sono rispettati i tempi di pagamento: così che ricevendo quanto gli spetta alla scadenza, egli potrà onorare sempre alla scadenza i propri debiti. Per adempiere regolarmente i propri debiti alla scadenza è necessario ricevere puntualmente i pagamenti a cui si ha diritto. Il disallineamento dei tempi determina l'incapacità finanziaria del debitore, sfornito del denaro necessario per pagare i propri debiti man mano che scadono. In questo semplice meccanismo riposa la dimensione finanziaria dell'insolvenza commerciale.
Se il discorso si generalizza fino ad abbracciare qualsiasi attività di impresa mantiene intatta la sua validità: è solvente l'imprenditore che conserva nel tempo la capacità di adempiere le proprie obbligazioni alla scadenza. La dimensione finanziaria dell'insolvenza si comprende solo in ragione di questa dinamica: specificamente commerciale ma più in generale imprenditoriale. Nel suo progredire l'attività di impresa determina la costante assunzione di obbligazioni verso lavoratori e fornitori da un lato e il soddisfacimento dei crediti verso i clienti dall'altro. Più della dimensione patrimoniale e più della dimensione economica, proprio la dimensione finanziaria restituisce all'osservatore giuridico una fotografia fedele dell'attività economica di impresa.
L'imprenditore che ha sufficiente disponibilità di denaro per adempiere le proprie obbligazioni alla scadenza non può essere classificato come insolvente. L'attività economica potrà registrare anche perdite progressive e costanti, ma ciò, se può fare preconizzare un futuro stato di insolvenza, non servirebbe egualmente ad argomentare l'attualità di quella condizione.
Questo fatto determina l'importanza di una qualità dell'imprenditore determinante per il successo: la fiducia che è capace di riscuotere sul mercato. Nei rapporti economici la fiducia di cui un imprenditore gode è corrispondente al credito che riesce ad ottenere. Godere della fiducia altrui equivale a godere dell'altrui credito. Fino a quando i vecchi creditori sono disposti a non ricevere l'adempimento di quanto loro dovuto avendo fiducia nell'attività dell'imprenditore e concedendo dilazioni; fino a quando nuovi finanziatori saranno disposti a condividere il rischio di impresa concedendo credito, l'imprenditore non potrà dirsi insolvente.
La distanza che viene a porsi tra patrimonio e adempimento è, dunque, molto ampia. La possibilità dell'adempimento non dipende dall'entità del patrimonio ma dal corretto funzionamento della dinamica finanziaria: dalla virtuosità del giro di affari messo in piedi dall'imprenditore. Ovviamente la correttezza premia: maggiore è la puntualità nell'assolvimento dei propri impegni più elevato diviene il credito di cui si gode. E tutto ciò a prescindere dal proprio patrimonio e dal capitale investito nell'impresa. Gustavo Bonelli con una memorabile metafora parlò della ‘fiaccola del credito' che illumina la capacità adempitiva dell'imprenditore, a prescindere da difficili indagini sulla consistenza e sulla composizione del patrimonio destinato all'impresa [8].
Per questa ragione le concezioni cosiddette patrimonialistiche dell'insolvenza non hanno avuto successo nella pratica giudiziaria, dove la solvenza dell'imprenditore è stata saggiata sempre sulla base di concezioni personalistiche. È sempre stata privilegiata l'indagine non di ciò che l'imprenditore possiede (e nemmeno della realtà economica e della capacità finanziaria per come emergono dalla documentazione contabile e dall'esame del dato aziendale) bensì della condotta che l'imprenditore tiene nella sua qualità di debitore (come testimoniano gli indici rivelatori dell'insolvenza valorizzati dalla tradizione, tutti di natura personalistica).
Se si è raggiunti da ingiunzioni di pagamento e da ricorsi per la dichiarazione di fallimento, se si trova il proprio nome scritto nel libro dei protesti vuol dire che la fiaccola del credito si è oramai spenta, e l'insolvenza è conclamata. Queste evidenze fattuali vincono qualsiasi resistenza fondata sull'esame di documenti contabili: pur essendo indubitabile che l'inadempimento può essere dovuto a volontà piuttosto che a incapacità, una massa critica di inadempimenti e di fatti rivelatori della sfiducia dei creditori integrano per definizione una condizione di insolvenza.
In definitiva, l'insolvenza commerciale si misura su di un piano relazionale. Cade in questione il rapporto tra debitore e creditori; e tuttavia l'esame deve essere condotto a volo d'uccello, prescindendo dal singolo rapporto e abbracciando tutti i rapporti in cui è coinvolto il singolo debitore. La solvenza è data non dalla fiducia di un singolo creditore, o dal regolare adempimento di una singola obbligazione, ma dalla fiducia della generalità dei creditori e dal regolare adempimento delle obbligazioni assunte.
La relazione non inerisce alla logica dell'obbligazione, ma alla logica del mercato, quale contesto in cui avvengono i rapporti economici.
4. Insolvenza civile.
La definizione dell'insolvenza accolta dalla legge fallimentare soffriva il condizionamento della realtà dell'impresa.
Se escludiamo mentalmente l'impresa la questione dell'insolvenza muta radicalmente. Sparita l'attività riemerge fortemente il condizionamento della mentalità attizia, su cui è stato edificato il diritto civile. Se, in altri termini, assumiamo il problema dell'insolvenza con riguardo a un soggetto debitore non ulteriormente qualificato se non dalla sua posizione passiva in una serie di rapporti obbligatori, l'insolvenza perde ogni profilo dinamico divenendo una condizione del soggetto rispetto ai debiti già assunti e alle concrete possibilità di soddisfacimento degli stessi considerate le risorse a disposizione del soggetto. Poiché non cade in questione nessuna attività economica, nemmeno si pone il problema degli effetti dell'insolvenza sulla prosecuzione dell'attività. Ciò che conta è la capacità del debitore di soddisfare i propri creditori. Questa capacità si misura all'attualità, non potendosi fare affidamento sul futuro svolgimento di un'impresa. La capacità del soggetto di soddisfare le obbligazioni assunte dipende dalla sufficienza del suo patrimonio rispetto all'ammontare dei debiti. Se il patrimonio è superiore o eguale all'entità degli impegni assunti, i debiti non sovrastano le risorse disponibili per soddisfarli; nel caso contrario si realizza una situazione sovraindebitamento, ossia di eccedenza dei debiti rispetto al patrimonio disponibile per soddisfarli.
Vedremo che questa dimensione, che potremmo definire ‘patrimoniale', dell'insolvenza è accolta nel diritto delle obbligazioni e dei contratti. I poteri di autotutela del credito riconosciuti in diverse disposizioni del codice civile possono essere attivati sul presupposto del mancato rilascio o della diminuzione delle garanzie promesse, o sul peggioramento delle condizioni patrimoniali del debitore (cfr., per es., artt. 1186 e 1461 c.c.). Dunque, sul rischio di inadempimento connesso a una insufficienza patrimoniale, piuttosto che a una incapacità finanziaria.
L'art. 6 l. n. 3 del 2012 definiva “sovraindebitamento” la situazione di perdurante squilibrio tra le obbligazioni assunte e il patrimonio prontamente liquidabile per farvi fronte. La definizione – che trova riscontro in esperienze straniere come la tedesca, la francese e la statunitense – si fondava sull'elemento di natura patrimoniale. Il rapporto era stabilito tra passivo patrimoniale (somma dei debiti contratti) e attivo patrimoniale. Vi era poi un elemento qualitativo di matrice finanziaria. Non conta semplicemente l'entità del patrimonio ma anche la sua natura e composizione. Conta il ‘patrimonio prontamente liquidabile' ossia facilmente convertibile in denaro.
Nei sistemi storicamente sviluppatisi in discipline sulla insolvenza non solo civile ma anche commerciale, il concetto di sovraindebitamento ha una portata generale, estesa anche al patrimonio d'impresa. Nel diritto tedesco, oltre al comportamento individuabile nella nozione di insolvenza, (Zahlungsunfähigkeit), svelato dallo stato di «cessazione dei pagamenti», si privilegia lo stato oggettivo dello «sbilancio patrimoniale» o «sovraindebitamento» (Überschuldung), ossia l'insufficienza dell'attivo patrimoniale a coprire le obbligazioni esistenti [9]. Nel Bankruptcy Code l'insolvenza è descritta proprio in termini patrimoniali. Secondo la definizione contenuta nel Chapter 1, §101, è insolvente chi ha debiti eccedenti il proprio patrimonio.
A ben riflettere, la definizione, nonostante la sua diffusione planetaria, è vistosamente difettosa. Posto che le obbligazioni vanno adempiute secondo quanto previsto dalla fonte costitutiva e che è solvente chi adempie regolarmente le proprie obbligazioni, la solvenza dovrebbe consistere nella composizione patrimoniale idonea al soddisfacimento delle obbligazioni assunte secondo la fonte. Chi assume l'obbligo di consegnare lingotti d'oro, cannoni o cammelli, sarebbe solvente non in quanto titolare di un patrimonio prontamente liquidabile, bensì in quanto proprietario di un numero sufficiente di lingotti, cannoni o cammelli (o proprietario di un patrimonio prontamente convertibile nell'oggetto della prestazione dovuta). L'approssimazione è largamente accettabile dato che il denaro è il mezzo normale di adempimento delle obbligazioni, e poiché l'incapacità di adempiere regolarmente obbligazioni non pecuniarie dipende molto spesso da una insufficienza di denaro (il commerciante di cannoni in crisi di liquidità non può acquistare il prodotto dal fornitore per consegnarlo al proprio cliente).
Tuttavia, il riferimento al patrimonio prontamente liquidabile se da un lato riduceva la distanza tra l'insolvenza civile e l'insolvenza imprenditoriale, dall'altro manteneva fermo l'aspetto patrimoniale dell'insolvenza civile. Il che poteva essere di una certa importanza poiché – a differenza di quanto capita per le imprese sottoponibili a liquidazione giudiziale – l'insolvenza come sofferenza finanziaria, ossia come crisi di liquidità, è data non da un deficit finanziario (secondo quanto prevede l'art. 2, lett. b) c.c.i.) ma dalla inidoneità del patrimonio ad una pronta conversione in denaro. In altri termini l'opinione dei creditori e la fiducia riscossa dal debitore sul mercato non hanno nessun rilievo; il debitore non è collocato nel mercato ma nel vuoto pneumatico del rapporto obbligatorio: dove contano soltanto le risorse a disposizione per soddisfare i propri debiti. Questa concezione dell'insolvenza, applicabile anche a taluni imprenditori (quelli sottratti alla liquidazione giudiziale, e che possono giovarsi dei rimedi al sovraindebitamento) prescinde dalla considerazione dell'impresa ed in questi limiti si presta ad essere classificata come “insolvenza civile”.
Oggi, l'art. 2, lett. c) c.c.i. assimila i concetti di sovraindebitamento e di insolvenza disponendo che per sovraindebitamento debba intendersi lo stato di insolvenza del consumatore e degli altri debitori non sottoponibili alle procedure concorsuali maggiori. Dunque, anche nell'ambito civile l'insolvenza si esaurisce in una impotenza di natura finanziaria; l'eventuale capienza patrimoniale non è sufficiente ad escludere la ricorrenza di questo stato [10]. Ma c'è da chiedersi cosa accada se il patrimonio sia prontamente liquidabile. In tal caso, potrebbe supporsi che il debitore non sottoponibile a liquidazione giudiziale non possa essere considerato insolvente; tanto più che la procedura concorsuale intentata nei suoi confronti non potrebbe raggiungere altro risultato che la liquidazione di tale patrimonio, già facilmente conseguibile anche in assenza di essa. Ma si trascurerebbe l'esigenza di garantire la parità di trattamento dei creditori coinvolti nella liquidazione, obiettivo assicurabile in maniera soddisfacente solo nel contesto della procedura concorsuale.
5. Insolvenza prospettica.
Lo stato di insolvenza designa, in maniera ampia e comprensiva, l'incapacità del debitore di soddisfare regolarmente le obbligazioni assunte man mano che quelle giungono a scadenza. Questa condizione del debitore, come dimostra l'esperienza pratica, si concretizza per gradi successivi. Pur essendo, infatti, certamente possibile che la condizione di insolvenza sia determinata da eventi che, verificandosi, determinano d'un colpo il precipitare del debitore in quella condizione, di solito accade una cosa molto diversa. Il debitore inizia progressivamente ad accusare al suo interno e a manifestare all'esterno progressive difficoltà di regolare adempimento le quali, se non rimediate per tempo con adeguati interventi volti a rimuovere le cause del fenomeno, diventano esse stesse costitutive delle ulteriori difficoltà di adempimento che, per sommatoria, giungono infine a determinare lo stato di insolvenza. È questa la ragione dell'utilizzo del termine ‘decozione' come sinonimo di ‘insolvenza'. Si dice “decotto” ciò che è ben cotto: cucinato a dovere, tenuto per lungo tempo sulla fiamma fino a mutare nella propria essenza.
Così, pur essendo possibile che un mutamento radicale e brutale delle condizioni contestuali di mercato (come lo scoppio di una guerra che altera tutte le pregresse condizioni di scambio) oppure delle condizioni interne dell'impresa (come la morte di un geniale imprenditore non adeguatamente sostituito) determinino lo stato di insolvenza, di norma quest'ultimo si genera progressivamente a partire da iniziali e superabili difficoltà adempitive di cui però non vengono comprese né vengono rimosse le cause: il che determina il progressivo aggravamento della condizione soggettiva. L'errata costruzione della realtà finanziaria dell'impresa; l'inefficienza della regola societaria adottata nello statuto; l'inattualità della formula imprenditoriale si annoverano come cause ricorrenti, singolarmente prese o anche cumulate, di una progressiva fragilità dell'organizzazione imprenditoriale. Una fragilità che produce immediate ripercussioni sulla capacità di solvenza del debitore fino ad annientarla del tutto se non rimediata per tempo.
Proprio il carattere progressivo del fenomeno dell'insolvenza ha indotto i giuristi a classificare condizioni relative a fasi precoci o a stadi iniziali dell'insolvenza con locuzioni che vorrebbero descrivere, con maggiore o minore approssimazione, una condizione di difficoltà finanziaria che si approssima a diventare insolvenza senza tuttavia esserlo già [11].
Ai concetti di “pericolo di insolvenza” e “pre-insolvenza”, stati di cui è pronosticabile l'evoluzione in insolvenza [12] si affianca la nozione di insolvencia inminente (perché non attuale e tuttavia prevedibile) [13]. Vanno aggiunte poi le nozioni di “temporanea difficoltà ad adempiere” ed “insolvenza reversibile”, alle quali figure va accostata quella della difficoltà economica estrinsecantesi nella cessazione dei pagamenti, purché intervenuta da non più di quarantacinque giorni, prevista – in riforma della disciplina previgente sul règlement amiable – dall'art. l. 611-4 code comm. quale requisito oggettivo per l'accesso alla procédure de conciliation accanto alle situazioni di pre-insolvenza [14]. C'è da dire che queste discipline hanno spiegato effetto sul processo italiano di riforma. Il rischio di insolvenza fu considerato, inizialmente, nel progetto elaborato dalla Commissione Trevisanato: dove si legge di una “situazione patrimoniale, economica o finanziaria, tale da determinare il rischio di insolvenza” (art. 2, lett. h). [15]. Infine, l'ultima locuzione, riservata alla situazione non più modificabile (alla catastrofe) è quella di “insolvenza irreversibile”.
Negli ultimi anni a queste tradizionali locuzioni si è aggiunto il termine ‘crisi'. L'imprenditore in crisi è divenuto un protagonista del diritto positivo: così quando si prevede che lo stato di crisi, ancorché non ancora di insolvenza, costituisce sufficiente presupposto per l'ammissione alla procedura di concordato preventivo (art. 160 primo comma l.fall.) o per il ricorso per omologazione di un accordo di ristrutturazione di debiti (art. 182 bis primo comma l.fall.).
Caratteristica di questa condizione preliminare alla vera e propria insolvenza è la sua reversibilità. Come meglio di tutte illustra la locuzione ‘temporanea difficoltà ad adempiere' nella condizione di pre-insolvenza è implicato il concetto di reversibilità. Non essendosi ancora determinata l'incapacità di adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni è ancora possibile una azione di recupero della solvenza.
Ciò si indica, d'altro canto, con la locuzione di ‘insolvenza reversibile'. All'opposto, si discorre di insolvenza irreversibile per precisare un carattere essenziale dell'insolvenza vera e propria: ossia l'impossibilità di recuperare uno stato di solvenza.
In termini puramente teorici, nessuna insolvenza potrebbe dirsi in assoluto irreversibile. Fino a quando vi sono creditori disposti a concedere dilazione o, per il caso di società commerciali, soci disposti a ricostituire il capitale sociale, l'insolvenza non può dirsi irrimediabile. Nella realtà, tuttavia, non si incontrano creditori disposti per sempre a concedere dilazioni o soci eternamente pronti a ricapitalizzare la società. Possiamo allora concludere che l'irreversibilità dell'insolvenza coincide con la irragionevolezza dell'azione economica di recupero. Le condizioni che precedono l'insolvenza sono, invece, ampiamente reversibili nella realtà: giacché la decozione non è ancora completa e l'utilità economica di un intervento di recupero può essere ancora palpabile.
Ecco perché, sin dalle riforme avviate dal 2005, le procedure finalizzate prevalentemente al recupero dell'imprenditore sul mercato, come la procedura contrattuale descritta dall'art. 182-bis l.fall. o la procedura di concordato preventivo, sono fruibili dall'imprenditore che si trovi in un semplice stato di difficoltà finanziaria non ancora divenuta insolvenza. La ragionevole reversibilità dello stato di deficit costituisce presupposto per l'attivazione della procedura di recupero (la quale, se promossa da un soggetto in stato di insolvenza avrà, invece, un esito semplicemente liquidatorio del patrimonio debitore).
Il nuovo codice si intitola alla crisi (di impresa) e all'insolvenza. L'art. 2, lett. a), stabilisce che per crisi si debba intendere lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l'insolvenza del debitore; si precisa che, per le imprese, tale stato si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate. In tal modo il concetto di pericolo di insolvenza è positivizzato nelle forme dell'insolvenza prospettica, ossia dell'insolvenza prevedibile come di probabile verificazione nell'immediato futuro.
Si tratta di una concezione avanzata dell'insolvenza, finalizzata a rendere rilevanti condizioni del debitore immediatamente precedenti allo stato di decozione. Il debitore in insolvenza prospettica è capace di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni, ma è destinato a perdere questa capacità nell'immediato futuro.
Nel nuovo diritto la condizione di insolvenza prospettica legittima il debitore a ricorrere agli strumenti di regolazione di tale stato previsti nel codice. Per gli imprenditori assoggettabili alla liquidazione giudiziale: accordi attuativi di piani attestati, accordi di ristrutturazione e concordato preventivo. Per gli imprenditori che possono avvalersi delle procedure in rimedio del sovraindebitamento, oltre agli accordi attuativi di piani attestati e agli accordi di ristrutturazione, il concordato minore. Per i consumatori, il piano del consumatore. Infatti, precisa l'art. 2, lett. c), che per sovraindebitamento debba intendersi non soltanto lo stato di insolvenza (come abbiamo già anticipato) ma anche lo stato di crisi che colpisca soggetti non riconducibili alla liquidazione giudiziale.
L'insolvenza prospettica costituisce una condizione di legittimazione del debitore per avvalersi di uno strumento di regolazione dell'insolvenza, e costituisce il presupposto per l'avvio di una procedura di composizione assistita della crisi: su domanda del debitore, segnalazione degli organi di controllo societari o di creditori pubblici qualificati (artt. 14 s. c.c.i.).
L'insolvenza attuale costituisce il presupposto per l'apertura di una procedura di liquidazione giudiziale (art. 121 c.c.i.) e per l'apertura della procedura di liquidazione controllata su domanda dei creditori o su istanza del pubblico ministero (art. 268, comma 2, c.c.i.). L'antica matrice della dichiarazione di fallimento del debitore insolvente sopravvive in queste disposizioni in cui la procedura concorsuale si apre su iniziativa di soggetti diversi dal debitore. In seguito all'avvio di queste procedure il debitore subisce lo spossessamento del patrimonio, effetto che può essere giustificato solo dallo stato di insolvenza irreversibile in cui egli si trovi, e non semplicemente da una condizione indefinita e reversibile di difficoltà economico-finanziaria che non impedisce, al momento, il regolare adempimento delle obbligazioni.
Nel crinale in cui si compongono i contrapposti interessi del debitore ancora adempiente (a disporre del proprio patrimonio) e dei creditori e degli altri interessati (alla conservazione, rispettivamente, della garanzia patrimoniale del debitore e della continuità dell'impresa) si collocano gli strumenti di allerta, e le procedure di composizione confidenziale dell'insolvenza prospettica. La massima pressione esercitabile nei confronti di un soggetto in difficoltà ma ancora capace di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni è nel ricondurlo davanti ad un collegio non giurisdizionale di bonari compositori, che lo aiutino a prendere atto della situazione in cui si trova e ad assumere tempestivamente uno dei rimedi messi a disposizione dall'ordinamento.
6. Crisi d'impresa.
La introduzione del termine ‘crisi' per indicare lo stato di “pre-insolvenza”, non più soltanto negli studi dottrinali o nelle sentenze, ma anche nel diritto positivo recente fino al codice dedicato, ha determinato l'ampliamento del lessico giuridico per mezzo di un termine che, nell'ultimo secolo, è stato utilizzato in campi molto diversi del sapere [16].
Può essere interessante ricordare che in origine il termine “κρίσις” indicava il culmine di un processo, raggiunto il quale si determina un cambiamento repentino dello stato di fatto precedente. Nella medicina antica con il termine si diceva dello stadio della malattia giunti al quale sarebbe rapidamente succeduta o la morte o la guarigione. Nel diritto, il termine assumeva un significato prossimo a quello di ‘sentenza' recando il significato della decisione che, all'esito di un contraddittorio di ragioni, definisce una lite. Nella teoria economica il termine indica quel periodo di transizione che si insinua tra il compimento di un ciclo e l'avvio di un altro: di nuovo un punto cruciale di snodo decisivo tra passato e futuro, dove il presente non vale solo come successione cronologica bensì come radicale mutamento di un precedente stato di cose. Nella filosofia moderna e contemporanea con il termine si teorizza il passaggio tra diverse epoche culturali: che, riguardo alla modernità, ancora avviene in un presente (definito, in mancanza di meglio, post-moderno) verso un ignoto futuro [17].
Nella teoria dell'impresa il termine ‘crisi' è riferito non all'imprenditore ma all'azienda (peraltro intesa, in ambito economico, come impresa). Sta ad indicare il malfunzionamento del centro di produzione, e più in generale il difetto che accusa l'organizzazione produttiva: pertanto destinata ad una progressiva inefficienza secondo un percorso di declino produttivo che giungerà a compimento con la cessazione dell'attività di impresa, non più sostenibile sul mercato.
Dobbiamo, pertanto, registrare una divaricazione di significato del termine ‘crisi' a seconda se assorbito nel lessico giuridico oppure in quello economico. Nel primo, serve a denotare lo stato di pre-insolvenza del soggetto; nel secondo la carenza e l'inadeguatezza di organizzazione e di funzionamento dell'attività.
Sia nel lessico giuridico che in quello economico assistiamo poi un accrescersi della confusione determinato dagli abbinamenti terminologici. Certamente dovrebbe apparire curioso il riferire la crisi all'imprenditore. L'imprenditore in crisi, di cui pure discorre il diritto positivo, potrebbe apparire più un soggetto afflitto da una sofferenza psicologica che qualcuno in stato di pre-insolvenza. Ma non diversamente strana si mostra la locuzione, di origine aziendalistica, di “impresa insolvente” ampiamente recepita dalla legislazione sull'amministrazione straordinaria delle “grandi imprese in stato di insolvenza” (d. lgs. n. 270 del 1999 e d.l. n. 347 del 2003). Sappiamo che la solvenza è una caratteristica del soggetto (debitore); non può, dunque, connotare una attività (che piuttosto che essere incapace di adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni può al massimo accusare difetti di funzionamento).
Poiché nelle questioni terminologiche ciò che conta, alla fine, è di intendersi con chiarezza, potremmo benissimo adoperare l'espressione ‘imprenditore in crisi' per indicare l'imprenditore colpito da una temporanea difficoltà di adempiere; allo stesso modo potremmo usare la locuzione ‘impresa insolvente' per intendere l'imprenditore in stato di decozione.
Tutto questo, però, non sarebbe ancora sufficiente. Nel lessico giuridico mancherebbe una espressione per descrivere il mal funzionamento dell'attività: la crisi di impresa. Il che costituirebbe una perdita secca e grave sul piano concettuale giacché anche nel diritto attuale la realtà dell'impresa resterebbe ampiamente emarginata e mal compresa.
L'espressione “crisi di impresa” serve a descrivere, in forma sintetica, la difettosità dell'attività dovuta ai più diversi errori e inefficienze di organizzazione e funzionamento dell'impresa. Con estrema semplificazione, si potrebbe in questo senso individuare un primo ordine di fattori nella inadeguatezza della struttura soggettiva dell'attività (ossia nel deficit organizzativo della società o del gruppo a cui è riferibile l'attività economica). Un secondo ordine di fattori potrebbe essere dato dalla erronea costruzione della finanza di impresa nelle componenti debitorie che scadono a breve, medio e lungo termine. Un terzo significativo ordine di fattori è solitamente dato dall'errore insito nella formula imprenditoriale e nella strategia di impresa: che si trova sconfitta sul mercato come nell'esempio dell'imprenditore che pretende di vendere frigoriferi agli eschimesi.
Se non adoperassimo questi accorgimenti, e trascurassimo di riconoscere dignità giuridica all'espressione “crisi di impresa” intesa come malfunzionamento del processo produttivo nel senso ampio e generale appena accennato, rischieremmo di non avvederci dei rapporti concettuali che corrono tra insolvenza dell'imprenditore e crisi dell'impresa.
Quale condizione del soggetto, l'insolvenza non può connotare una attività. Non diversamente, quale condizione di un'attività economica la crisi non può connotare una condizione soggettiva. Questa distinzione consente una corretta ricostruzione dei fenomeni che si verificano nella realtà.
Di norma, la crisi dell'impresa funziona come causa dell'insolvenza dell'imprenditore che, non riuscendo a produrre valore, si trova privo di risorse per adempiere alle obbligazioni assunte. Ma potrebbe pure accadere il contrario, ossia l'insolvenza dell'imprenditore potrebbe privare l'attività delle risorse necessarie al suo svolgersi con ciò determinando lo stato di crisi. Un caso ricorrente è dato dall'impiego errato dei proventi di impresa sui mercati finanziari che determina perdite esiziali non riconducibili ai fattori della produzione. Nell'esempio classico, sottrarre la cassa all'impresa è sempre un ottimo modo per determinarne la crisi: dovuta sia alla sottrazione di utilità che al mancato reimpiego nell'attività di parte dei proventi della stessa.
Consideriamo poi che trascurare la distinzione tra insolvenza dell'imprenditore e crisi dell'impresa rende difficilmente spiegabili le soluzioni liquidatorie, di natura contrattuale, concordataria o fallimentare, nelle quali l'azienda è alienata in attività per essere immediatamente reimpiegata sul mercato.
In questi casi la convivenza tra liquidazione del patrimonio e recupero dell'impresa al mercato non determina una contraddizione giacché la ripresa dell'attività avviene nelle mani di un imprenditore diverso dall'originario debitore: ossia da parte di colui che ha acquistato l'impresa nell'ambito della procedura contrattuale o concorsuale di liquidazione. Non si è realizzato il recupero della solvenza; il patrimonio del debitore insolvente è stato liquidato sul mercato e questi ha cessato di svolgere l'attività di impresa. Perciò il meccanismo ha indubbiamente natura liquidatoria. Senonché oggetto della procedura di liquidazione è un patrimonio costituito da un'azienda in attività, attività che può proseguire sul mercato sotto la direzione di un nuovo imprenditore (l'acquirente degli asset).
Riferimenti bibliografici:
[1] Così G. RAGUSA MAGGIORE, Istituzioni di diritto fallimentare, Padova, 1994, 54.
[2] Rinvio, in generale, a quanto argomentato in F. DI MARZIO, Obbligazione, insolvenza, impresa, Milano, 2019.
[3] Sull'autotutela v. in generale, E. BETTI, Autotutela, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 529; L. BIGLIAZZI GERI, Profili sistematici dell'autotutela privata, Milano, I, 1971; II, 1974; ID., Autotutela, II), Dir. civ., in Enc. giur., IV, Roma, 1988; C.M. BIANCA, Autotutela, in Enc. dir., Aggiornamento, IV, Milano, 2000, 130. Per una articolata classificazione dei poteri di autotutela, cfr. A. LENER, Potere (dir. priv.), in Enc. dir., XXXIV, Milano, 1985, 624 ss. Per una diffusa opinione, i poteri in esame costituiscono espressione di diritti potestativi: per tutti, v. L. BIGLIAZZI GERI, Profili sistematici dell'autotutela privata, II, cit., 60; ID., Autotutela, cit., 2.
[4] Cfr., di recente, F. DI MARZIO, Fallimento. Storia di un'idea, Giuffrè, Milano, 2018.
[5] Cfr. ancora F. DI MARZIO, Fallimento. Storia di un'idea, cit., 33 ss.
[6] Si è affermato, pertanto, che la legge fallimentare (e oggi il codice), piuttosto che definire l'insolvenza, descrive le sue manifestazioni (A. BONSIGNORI, Fallimento, in Dig. disc. priv., sez. comm., V, Torino, 1990, 381): di modo che secondo alcuni la definisce in questo modo mediato (così Terranova, Lo stato di insolvenza, in Le procedure concorsuali. Il fallimento, trattato diretto da Ragusa Maggiore e Costa, I, Torino, 1997, p. 225); secondo altri fornisce “una nozione che non definisce” l'insolvenza (Bertacchini, Revocatoria fallimentare e stato di insolvenza, Padova, 2001, p. 52).
[7] Si considerano segni rivelatori tutti quei segnali che la comunità degli operatori economici, per stratificazione di convenzioni desunte dalla dinamica economica, enuclea e rende carichi di significato, condizionandone il recepimento e l'elaborazione dottrinale e giurisprudenziale: cfr. F. MELONCELLI, La conoscenza dello stato d'insolvenza nella revocatoria fallimentare, Milano, 2002, 119 ss. In prospettiva storica, v. l'elencazione di G. BONELLI, Del fallimento, I, Milano, 1923, che annovera: il discredito (4 s.); l'inadempimento (p. 65); la confessione del debitore; i bilanci; la fuga; la chiusura del negozio; il trafugamento delle merci; il suicidio (78 ss.); gli spedienti (ossia “stratagemmi”, “ripieghi” e “artifici” escogitati dall'insolvente per conservare il credito e suddivisi in tre categorie: spedienti “dilatori”; “rovinosi”; “fraudolenti”: 90 ss.). Grande importanza è data a un indicatore davvero singolare ed episodico: il suicidio. Una spiegazione può darsi considerando che l'insolvenza, nel pensiero bonelliano, è prodotta dal discredito e che il discredito travolge l'immagine intera della persona: «Il commerciante oberato che si toglie la vita esprime nel modo più solenne la più completa sfiducia nelle proprie risorse e nel proprio credito» (87).
[8] Come segnalò Bonelli, «Il credito consiste nell'apprezzamento generale (sociale) così delle attività occulte, come delle qualità, facoltà, attitudini personali [...]. Gran parte delle attività patrimoniali costituenti la ricchezza sfuggono all'osservatore individuale [...]. Or bene, tutti questi elementi incerti od oscuri sono rischiarati dalla fiaccola del credito. Il credito dispensa dal difficile apprezzamento obbiettivo della ricchezza volta per volta, dandoci l'opinione sociale della ricchezza [...]. Viceversa il discredito, non solo lascia il vuoto là dove le attività reali fanno difetto, ma paralizza l'efficacia e il valore della ricchezza esistente, ed è il principale fattore dello stato di insolvenza», G. BONELLI, Del fallimento, cit., 5.
[9] Precisamente, il termine “insolvenza” reca due significati: indicando l'incapacità di pagare (Zahlungsunfähigkeit) se riferito alla persona del debitore; e il sovraindebitamento (überschuldung) se riferito al patrimonio. Cfr. Häsemeyer, Insolvenzrecht, , Köln, München, 20074, 5. Cfr. anche De Luca, La nozione di sovraindebitamento: nuove parole per vecchi concetti, in F. FIMMANÒ-G. D'ATTORRE (a cura di), La composizione delle crisi da sovraindebitamento, Roma, 2017, 50 ss.
[10] Commenta Terranova, Le crisi d'impresa in un'economia finanziaria, Torino, 2018, 115, «tutt'e tre le definizioni fornite dal legislatore [crisi, insolvenza, sovraindebitamento] fanno riferimento ai profili finanziari della crisi, mentre quelli economici sono menzionati solo incidentalmente, e quelli patrimoniali sono addirittura ignorati». A ben guardare, infatti, il concetto di sovraindebitamento, che sembrerebbe alludere a uno sbilancio patrimoniale, viene ricondotto (cfr. il n. 3) allo “stato di crisi o di insolvenza del consumatore” e, quindi, pur sempre a difficoltà di carattere finanziario […]. La definizione di crisi, poi, fa sì riferimento a generiche difficoltà economiche (oltre che finanziarie) del debitore, ma subito precisa che tali difficoltà devono “rendere probabile l'insolvenza” e che si manifestano «come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate».
[11] Cfr. G. FERRI, Insolvenza e temporanea difficoltà, in Id., Scritti giuridici, Napoli, 1990, I, p. 603; e nella letteratura successiva, Terranova, Stato di crisi, stato di insolvenza, incapienza patrimoniale, in Dir. fall. 2006, I, p. 569 (che conclude per l'identità dei concetti di “crisi” e di “insolvenza”). In giurisprudenza si tende ad affermare la distinzione tra insolvenza reversibile e irreversibile (cfr. Cass., 27 febbraio 2008, n. 5215, in Fall., 2008, 715) e ad assimilare la temporanea difficoltà ad adempiere a uno stato di insolvenza reversibile (v. Cass., 9 settembre 2005, n. 18066, in Giust. civ., 2006, I, 546). Cfr. la sintesi di Capo, Lo stato di insolvenza, in V. BUONOCORE-A. BASSI (diretto da), Tratt. dir. fall, I, Padova, 2010 172.
[12] Cfr. Smid, Grundzuege des neuen Insolvenzordnung, München, 1999, 390; G. DE FERRA, Il rischio di insolvenza, in Giur. comm., 2001, I, 193.
[13] Cfr. M. BELTRÁN SÁNCHEZ, Insolvencia, inolvenzia inminente e insolvencia cualificada,in SARCINA-GARCΙA-CRUCES GONZALEZ (a cura di), Il trattamento giuridico della crisi d'impresa. Profili di diritto concorsuale italiano e spagnolo a confronto, Bari, 2008, 63 ss.
[14] Cfr. F.X. LUCAS-P.M. LÉCUYER, Entreprises en difficulté, in Petit Affiches, 2006, n. 28, che giudicano la norma come «la plus innovante de la réforme».
[15] Pubblicato in A. JORIO-S. FORTUNATO (a cura di), La riforma delle procedure concorsuali. I progetti, Milano, 2004.
[16] Cfr. A. AMATUCCI, Temporanea difficoltà e insolvenza, Napoli 1979; E. FRASCAROLI SANTI, Insolvenza e crisi di impresa, cit.; F. MACARIO, Insolvenza del debitore, crisi dell'impresa e autonomia negoziale nel sistema della tutela del credito, in AA.VV., Autonomia negoziale e crisi d'impresa, cit., 40 ss.; G. TERRANOVA, Insolvenza, stato di crisi, sovraindebitamento, Torino, 2013; F. DI MARZIO, Crisi d'impresa, in Enc. dir., Annali, V, Milano, 2012, 503.
[17] Cfr. R. KOSELLECK, Krise, in O. BRUNNER-W. CONZE-R. KOSELLECK-KLETT-KOTTA(a cura di), Geschichtliche Grundbegriffe. Historisches Lexicon zur politisch-sozialen Sprache in Deutschland, Stuttgard, 1972-1997, vol. III, 617 ss.