Apprendiamo dai manuali di diritto processuale che il pubblico ministero è parte del processo civile e penale. Ma, soprattutto in quest’ultimo si mostra senza residui di sorta nella sua controversa natura, destinata a sprigionare effetti anche nel processo civile. Per questo fatto, e in linea con miei ultimi interventi suscitati dal fermento politico in atto sulle riforme progettate in materia di giustizia, espongo qualche considerazione nella nostra Giustiziacivile.com.
Egli è parte, ma non come lo sono le altre parti di quel processo: la parte civile e l’imputato. Egli è una parte diversa da tutte le altre perché il processo penale, che si avvia su istanza del pubblico ministero, ossia di una parte, non è come il processo civile semplicemente determinato da una domanda di avvio. Prima del processo penale vi è il procedimento penale, in cui il pubblico ministero svolge la funzione di pubblica accusa: conduce indagini e seleziona i destinatari di queste indagini, che nel procedimento proprio in quanto sottoposti ad indagini si dicono indagati. L’indagine è prerogativa del pubblico ministero, che coordina le attività degli organi di polizia giudiziaria. Il carattere fondamentale delle indagini è il segreto. Possiamo rivestire il ruolo di indagati inconsapevolmente e, nel caso in cui le indagini si chiudano con un’archiviazione, senza nemmeno averlo mai saputo.
La presenza del giudice, in questa fase, è episodica ed eventuale; il giudice è richiesto quando si tratti di autorizzare provvedimenti che toccano i diritti fondamentali dell’indagato: come predisporre un mezzo di ricerca della prova particolarmente invasivo (pensiamo alle intercettazioni telefoniche) oppure assumere provvedimenti sulla persona (pensiamo al problematico istituto della custodia cautelare); ma fuori da questi casi eccezionali, la sua presenza di garanzia non è prevista dalla legge. L’indagato che riceve la notizia di esserlo può svolgere a sua volta indagini a discarico; ma le indagini difensive non sono ovviamente paragonabili per prerogative e possibilità alle indagini della pubblica accusa, incomparabilmente più penetranti ed incisive (basti pensare al segreto delle risultanze istruttorie e ai poteri coercitivi), espressione del potere di procedere all’accertamento dei fatti nell’interesse della collettività. Tra queste due parti non vi è, né potrebbe esservi, ‘parità di armi’.
Il pubblico ministero è dunque parte nel processo penale ma anche rappresentante della pubblica accusa nel procedimento penale. In quella fase preliminare il pubblico ministero è solo; ecco allora che nel rappresentare la pubblica accusa il ruolo di parte si scolora: il pubblico ministero è infatti tenuto a ricercare non soltanto elementi di prova a carico dell’indagato, ma anche elementi contrari che potrebbero far emergere l’infondatezza dell’accusa di cui egli stesso è autore (art. 358 c.p.p.). Questo fondamentale dovere ne vorrebbe caratterizzare la figura; esso (di recente introduzione nel nostro ordinamento), è peraltro reso necessario per la presenza di un altro tradizionale dovere, stabilito nella Costituzione: di avviare obbligatoriamente l’azione penale quando sopraggiunge, dalle vie più diverse, una c.d. notizia di reato. L’obbligo di indagare coniugato con il dovere di ricercare anche elementi di prova a favore dovrebbe evitare inutili perdite di tempo, e portare a scoprire subito l’infondatezza delle notizie di reato che devono esser comunque coltivate, ma che sono infondate.
Si dice che dopo la riforma del 1989 il nostro codice di procedura penale sia improntato al criterio accusatorio, sia cioè un processo di parti in cui quelle parti godono di uguali diritti e prerogative. Ciò non vuol dire, ovviamente, che si tratti di un processo condotto con ‘parità di armi’ (per tornare a un’espressione ricorrente); infatti il pubblico ministero ha potuto elaborare l’accusa sulla base di un’attività di ricerca dalla quale, come abbiamo accennato, restano in via di principio esclusi sia il giudice che l’indagato (che, peraltro, la vittima del reato che abbia presentato una denuncia).
Nella codificazione precedente, risalente al 1930, era ancora forte l’eco delle codificazioni napoleoniche ottocentesche, ispirate al principio dell’inquisizione, secondo cui spetta all’inquisitore (che riassume in sé la figura dell’accusatore e la figura del giudice) di avviare di propria iniziativa il processo, di introdurre le questioni di fatto, acquisire le prove, in modo del tutto indipendente dalle parti. In quella prospettiva non vi era possibilità di considerare il pubblico ministero una parte del processo penale, molto diversamente egli era concepito come un ‘organo di giustizia’ a cui era affidato il compito di perseguire i reati in affermazione del pubblico interesse, sottoponendo il risultato del suo lavoro alla valutazione del tribunale.
Tuttora l’attività del pubblico ministero può essere concepita e vissuta nella forbice che separa due obiettivi parimenti fondamentali: la lotta alla criminalità intesa al controllo sociale e l’accertamento delle responsabilità individuali sul piano penale. A seconda di dove si ponga l’accento, prevale la tutela dell’imputato o l’esigenza pubblica di repressione e controllo sociale (così possiamo pensare che le intercettazioni siano attività invasive per il primo ordine di obiettivi, e invece fondamentali per il secondo ordine di obiettivi). Il ruolo del pubblico ministero è sempre in bilico fra questi due ordini di fini, che resta problematico conciliare in modo ottimale.
La vecchia idea dell’organo di giustizia è tuttora viva nella legge sull’ordinamento giudiziario che stabilisce il posto spettante al pubblico ministero. Nel nostro ordinamento giuridico egli è un magistrato allo stesso modo di come lo è il giudice. L’accesso alla funzione di magistrato (sia ordinario, sia contabile) è unico, ed avviene per pubblico concorso. Solo all’esito della vittoria al candidato è chiesto di fare una scelta, sempre reversibile, sul ruolo da assumere: pubblico ministero o giudice. Nella magistratura ordinaria e contabile l’organo di autogoverno è unitario e abbraccia quelle magistrature nella loro interezza. Allo stesso modo, le associazioni di magistrati (la più importante delle quali è l’associazione nazionale dei magistrati ordinari) sono sindacati unitari e difendono le prerogative e le istanze sia dei pubblici ministeri sia dei giudici.
Nel nostro codice di procedura penale permane insuperata l’ambiguità che colpisce e condiziona il pubblico ministero. Ce ne accorgiamo massimamente quando consideriamo il dovere di ricercare elementi di prova non solo a carico ma anche a discarico dell’indagato. Resta il problema di come assicurare che questo dovere sia adempiuto fino in fondo. Egli, il pubblico ministero, quando si confronta con un simile dovere dovrebbe farsi, da quella parte che è chiamato ad essere, di colpo anche giudice. Dovrebbe distanziarsi dalla ipotesi accusatoria che sta coltivando ed essere continuamente mosso dal dubbio per verificare se effettivamente quell’ipotesi sia fondata. Solo adottando questo abito mentale potrebbe verosimilmente avviare indagini anche a discarico. Seguono forti controindicazioni. Soprattutto, assumendo questo modo di vedere, il pubblico accusatore rischia inevitabilmente di depotenziare la sua azione, che è soprattutto di accusare, e che resta affidata nelle sue mani.
Vediamo come l’idea dell’organo di giustizia, così distante ed effettivamente inconciliabile con l’idea di parte, quella vecchia idea ancora presente nel nostro ordinamento giudiziario, rispunti qua e là nel codice di procedura penale, laddove si vorrebbe imporre ad una parte di prendersi cura della controparte, di agire nell’interesse della parte contrapposta. Come se fosse possibile immaginare, persuasivamente, una parte, ma imparziale: ossia una parte che agisca al contempo sia come parte sia come giudice: sia come autore della pubblica accusa sia come primo verificatore di quell’accusa che egli stesso è chiamato a promuovere. Un accusatore chiamato ad essere giudice di sé stesso che formula quell’accusa.
Per di più, le indagini sono generalmente coperte dal segreto. Il segreto, dice Canetti, «sta al centro del potere. L’azione di spiare è segreta per natura». «È caratteristica del potere una ineguale ripartizione del vedere a fondo. Il detentore del potere conosce le intenzioni altrui, ma non lascia conoscere le proprie» (Massa e potere, Milano, 2020, 350 e 353). Se condividiamo queste sagge considerazioni, e soppesiamo adeguatamente l’importanza del segreto, come potremmo assicurarci per davvero che il pubblico ministero eserciti il suo potere adempiendo inverificabilmente al suo dovere?
L’intento perseguito nel codice è lodevole, ma nel dovere di imparzialità (poiché di questo si tratta) imposto alla pubblica accusa è connaturata una grave contraddizione, che fa emergere davanti ai nostri occhi l’ambigua figura della c.d. parte imparziale. In conseguenza di quella contraddizione tutti restiamo esposti ad un pericolo non emarginabile. Infatti l’idea tuttora insuperata del pubblico ministero come organo di giustizia fatalmente lo trasporta nella problematica dimensione del giudice, ma qui, piuttosto che emergere una garanzia per i destinatari dell’azione penale, si annida un grave pericolo.
Dobbiamo infatti considerare a fondo l’irragionevolezza di quell’avvicinamento. Il pubblico ministero agisce, il giudice è inerte e resta in attesa, perché si limita ricevere le istanze e a valutare le azioni altrui. Per essere anche giudice (di sé stesso) il pubblico ministero che agisce dovrebbe contemporaneamente fermarsi, e valutare il risultato della sua azione.
All’impossibilità del compito, comunque attribuito, si accompagna nondimeno una fortissima legittimazione del pubblico ministero presso la pubblica opinione: una legittimazione fino a ieri sostanzialmente intatta. Ecco il punto. L’organo di giustizia, l’accusatore-giudice diviene un maestro di verità: come un re, un poeta, un indovino. La sua parola sembra particolarmente affidante: se egli deve essere il primo severo valutatore delle proprie azioni, se egli è giudicato all’altezza di questo compito quasi sovrumano, se egli è, per ciò stesso, un magistrato al pari di un giudice, se assolve (come dovrebbe) con scrupolo e precisione il suo dovere a tutto tondo e quindi anche nella verifica della fondatezza o meno delle accuse che elabora nella ricerca non soltanto degli elementi di accusa ma anche degli elementi di discolpa, ebbene se tutto questo è vero quando infine il pubblico ministero formula l’accusa si pone come un autentico maestro di verità. Egli è a conoscenza di carte segrete, ha a disposizione strumenti molto penetranti di indagine, svolge queste indagini a tutto tondo; se formula l’accusa dovrebbe essere ben certo di ciò che dice, né dovrebbe aver trovato elementi a favore dell’imputato. Quando si rivolge al giudice per chiedere il giudizio e la condanna, la sua voce si fa autorevole e tutti siamo portati a pensare, avrà delle ben valide ragioni.
Soltanto che poi, avviato il processo, il pubblico ministero è ricondotto al ruolo di parte: gli atti contenuti nel fascicolo restano coperti da quell’iniziale segreto, né possono essere esposti al giudice (che ne risulterebbe inopportunamente condizionato). Le prove vanno richieste e formate davanti al tribunale. Chi ha effettuato deposizioni al pubblico ministero deve ripetere il racconto davanti al giudice, sottoponendosi al controllo e alle contestazioni della difesa. Eppure il pubblico ministero è un soggetto che sa molte cose, che ha potuto apprendere, potremmo sospettare, la verità: la quale non è detto che si ripresenti tutta intera davanti al giudice.
Potrebbe anche essere vero, ma come garantire che questo maestro di verità ci riservi nelle sue parole il racconto di fatti reali piuttosto che di menzogne verosimili; come essere certi che le sue convinzioni non prevalgano sulla ragionevolezza e che la voglia di aver ragione non prevalga sulla verità? Ecco perché anche il pubblico ministero deve confrontarsi con la difesa, e rendere conto delle sue istanze al tribunale.
Un miglioramento della situazione sarebbe tuttavia possibile. Occorrerebbe, come si dice, separare le carriere: stabilire una incolmabile distanza tra pubblico ministero e giudice. Per questa riforma dell’ordinamento giudiziario, si potrebbe ricondurre il pubblico ministero alla realtà del suo lavoro: una parte che organizza un’accusa contro qualcuno; e si potrebbe eliminare una impurità concettuale che inquina l’immagine del giudice, che per definizione deve essere ad apparire equidistante dalle parti su chi esprime il giudizio.
Questa riconduzione dei magistrati in ordini diversi e separati, con tutte le conseguenze in merito all’accesso alla funzione, alla carriera, alla rappresentanza nell’organo di autogoverno e nel sindacato, sottrarrebbe al pubblico ministero un improprio potere, direttamente connesso alla sua figura (oggi traballante) di maestro della verità. Sono persuaso che se ne gioverebbe, infine, lo stesso pubblico ministero. Privo di quella impropria legittimazione, sarebbe maggiormente ricondotto alla sua responsabilità: il che aiuta sempre nel condurre bene il proprio lavoro. Tentativi di riforma in questo senso sono da anni in atto. La novità è che oggi la pubblica opinione, esterrefatta dagli scandali, guarda con maggior favore a quei tentativi; né fra i giudici, che hanno ampiamente sperimentato il mortale abbraccio delle procure cadendo anch’essi vittime di un fortissimo sospetto sociale, sembra più prevalere l’opposto avviso.