Sommario:
- 1. Premesse.
- 2. Gli atti depositabili telematicamente: le interpretazioni ante riforma.
- 3. Il regime dei depositi telematici alla luce della l. n. 132 del 2015.
- 4. Le copie di cortesia: in attesa di chiarimenti.
- 5. Le notifiche telematiche e il sistema delle attestazioni di conformità: cenni al precedente regime.
- 6. La nuova disciplina delle attestazioni alla luce della novella legislativa. - 6.1. Il quadro normativo. - 6.2. La procura alle liti scansionata. - 6.3. I duplicati informatici.
- 7. Conclusioni.
1. Premesse.
Nel vorticoso ed incessante moto riformatore della giustizia civile, in cui il legislatore pare trovare palliativo a tutti i mali, gli operatori del settore sono ormai abituati (e rassegnati!) all’idea e al rischio di un’ultima ed ulteriore riforma, sempre “necessaria ed urgente” e quindi delegificata.
Questa volta, non ancora assestato il dibattito sul d.p.c.m. 13 novembre 2014 e a poco più di un anno dalla pubblicazione in GU del d.l. n. 90 del 2014, il governo è intervenuto nuovamente sui punti più controversi del PCT (e non solo), incidendo in modo particolare sul regime dei depositi telematici e delle notifiche a mezzo PEC.
Le conseguenze di una normativa spesso approssimativa nella formulazione e recidiva nei “passaggi a vuoto” [1] si erano in effetti già colte nelle forti oscillazioni giurisprudenziali e negli estenuanti esercizi ermeneutici di professionisti più o meno esperti della materia, accumunati però dalla necessità di provare a mettere ordine tra disposizioni e fonti stratificate nel tempo.
L’ultima fatica del legislatore, in questo senso, si prefigge obiettivi (in vero, non nuovi) ambiziosi ma irrinunciabili perché tendenti, sebbene attraverso un testo dall’elevato tecnicismo, alla velocizzazione e alla semplificazione delle dinamiche processuali digitali.
Il d.l. 27 giugno 2015, n. 83 (recante “Misure urgenti in materia fallimentare, civile e processuale civile e di organizzazione e funzionamento dell’amministrazione giudiziaria”), come convertito dalla l. 6 agosto 2015, n. 132, nel tentativo di offrire soluzione alle lacune della disciplina di settore, è quindi intervento, almeno in via di massima approssimazione, lungo tre direttrici principali.
Modificando le disposizioni contenute nella l. n. 221 del 2012 (di conversione del d.l. n. 179 del 2012), che si conferma in questo modo la normativa primaria di riferimento per il PCT, esso ha infatti introdotto la regola della facoltatività del deposito digitale degli atti introduttivi nei giudizi civili di ogni natura e grado, quella dell’estensione delle modalità telematiche ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni autorizzati a stare in giudizio, nonché il principio della sinteticità degli atti depositati in via informatica [2].
Il tutto, unitamente alla previsione di nuovi stanziamenti per gli interventi di completamento del processo civile telematico.
La bontà di tali modifiche esce però, probabilmente, ridimensionata da disposizioni che perseverano nel risultare anacronistiche (si pensi all’affidamento al Ministro della giustizia della regolamentazione delle modalità di acquisizione degli atti depositati telematicamente in forma cartacea) [3] e che si appalesano contraddittorie anche con le linee guida per la strategia di crescita digitale 2014-2020 che, nella programmazione governativa, continuano a centralizzare l’obiettivo della completa informatizzazione del giudizio in vista della attuazione del principio costituzionale della trasparenza dell’azione della organizzazione giudiziaria e, forse soprattutto, di considerevoli risparmi di spesa [4].
2. Gli atti depositabili telematicamente: le interpretazioni ante riforma.
Si è detto come il d.l. n. 83 del 2015 abbia innanzitutto innovato il regime del deposito telematico aprendo, secondo quanto da più fronti già osservato, alle forme digitali pure per gli atti introduttivi.
La tematica riveste un ruolo centrale nell’ambito della disciplina della giustizia digitale e merita pertanto di essere ricostruita nei suoi passaggi fondamentali.
Già nella vigenza della prima formulazione dell’art. 16-bis d.l. n. 179 del 2012, infatti, si era prospettata l’ipotesi del deposito “irrituale”, per tutti i casi in cui il difensore avesse provveduto al deposito telematico di un atto diverso da quelli per i quali tale obbligo trovasse preciso sostegno legale.
In effetti la disposizione imponeva formalmente la modalità telematica solo per gli atti endoprocedimentali (rectius, successivi alla costituzione) [5] senza prendere posizione sugli atti introduttivi delle parti [6], così contribuendo ad un vuoto normativo cui la giurisprudenza (di merito) aveva tentato di porre rimedio attraverso soluzioni interpretative non sempre stabili.
D’altronde, sancire l’obbligo dell’invio telematico per alcuni atti del giudizio non significava ex se escludere tale possibilità anche per gli altri.
E ciò tanto più in considerazione del principio della libertà delle forme, dalla cui operatività avrebbe potuto ricavarsi l’idea per cui l’individuazione delle modalità digitali del deposito come obbligatorie per alcuni atti si elevasse, anche in via generale, a garanzia dell’idoneità del nuovo strumento al raggiungimento dello scopo perseguito dalla norma, vale a dire la regolare instaurazione del contraddittorio.
Su tali premesse, l’accertamento del valore legale del deposito degli atti non espressamente indicati dall’art. 16-bis, comma 1, aveva trovato momento di snodo nell’esame dell’art. 35 d.m. n. 44 del 2011 (concernente, in effetti, le regole tecniche per l’adozione nel processo civile e nel processo penale delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione), che prescrive che l’attivazione della trasmissione dei documenti informatici sia preceduta da un decreto dirigenziale che accerti l’installazione e l’idoneità delle attrezzature informatiche, unitamente alla funzionalità dei servizi di comunicazione dei documenti informatici nel singolo ufficio [7].
Tale disposizione ha trovato attuazione attraverso l’adozione di decreti dirigenziali della DGSIA (id est, l’Ufficio del Responsabile per i Sistemi Informativi Automatizzati del Ministero della Giustizia, costituito – nel 1996 – allo scopo di coordinare tutte le attività riguardanti l’innovazione tecnologica nell’Amministrazione giudiziaria), che nella prassi hanno provveduto all’individuazione degli atti (attraverso specifica elencazione) e delle procedure compatibili con il deposito telematico.
Ciò chiamava però l’interprete, sul presupposto della validità legale dell’atto processuale informatico redatto in conformità delle regole e delle specifiche tecniche del PCT (in ultimo quelle del 16 aprile 2014) e fermo il principio generale di cui all’art. 156 c.p.c., a verificare il regime applicabile al deposito non autorizzato, così indugiando pure sulla natura e sulla valenza dei richiamati decreti. [8]
Rifiutata la tesi dell’inesistenza, trattandosi di atto formato validamente e in modo conforme alla normativa di settore vigente, e quella della mera irregolarità, che sarebbe rimasta priva di conseguenze sanzionatorie, la soluzione dell’inammissibilità era parsa comunque eccessivamente severa e non convincente per ragioni processuali e sistematiche, sebbene avesse trovato riconoscimento almeno nei primi pronunciamenti giurisprudenziali.
In particolare, i giudici che da subito avevano escluso la possibilità stessa di esaminare la domanda contenuta in un atto depositato in forma telematica nonostante la mancanza della relativa previsione nel decreto autorizzativo e a monte nella legge, avevano essenzialmente fatto propria la tesi dell’essenzialità delle elencazioni fornite ai sensi del citato art. 35 d.m. n. 44 del 2011.
In altri termini, la conservazione delle forme cartacee avrebbe dovuto escludersi, in forza del combinato tra i citati artt. 16-bis e 35, per tutti gli atti del giudizio che presupponessero la già avvenuta costituzione delle parti (e ferma la necessaria statuizione di conformità dei sistemi dell’ufficio al deposito informatico dei medesimi) ma non anche per quelli introduttivi, stante l’assenza di una norma che ne consentisse (con eccezione per quello del procedimento monitorio) il deposito in forma digitale.
Ciò aveva portato a negare la ritualità del deposito telematico dei ricorsi ex artt. 696c.p.c. [9], art. 702-bisc.p.c. [10]e art. 442-bis c.p.c. [11], ovvero anche della comparsa di costituzione in giudizio [12].
Nella specie, la giurisprudenza, sul presupposto della mancanza della autorizzazione ex art. 35 d.m. n. 44 del 2011, aveva considerato il deposito telematico della comparsa «alla stregua di un atto cartaceo di costituzione inviato a mezzo posta essendo la mail certificata, così come la raccomandata, due mezzi di comunicazione» e conseguentemente ne aveva valutato la legittimità ai sensi degli artt. 166 e 167 c.p.c. finendo per esigere, per tramite della valorizzazione dell’inciso che prescrive il deposito in cancelleria, la presenza fisica di qualcuno che curi la consegna dell’atto al cancelliere in vista dell’apposizione del timbro di attestazione del deposito [13].
Tale percorso argomentativo, però, appariva viziato nelle sue premesse.
L’equiparazione tra il deposito cartaceo attraverso posta e quello a mezzo PEC, infatti, risulta impedita dalla immediata considerazione del duplice controllo garantito da quest’ultimo sistema tecnico; ogni atto depositato in forma telematica, infatti, è “filtrato” dapprima in modo automatico dal software ministeriale e quindi dalla cancelleria, che in caso di esito positivo accetta definitivamente il medesimo trasmettendo al mittente ulteriore ricevuta di perfezionamento del deposito e rendendo disponibile l’atto alle parti costituite attraverso il sistema polisweb.
Inoltre, anche a volere condividere la suddetta equiparazione, la giurisprudenza di legittimità, pronunciando in tema di deposito in cancelleria e libertà delle forme, ha già avuto modo di chiarire che «Dal principio di libertà delle forme deriva che tutte le forme degli atti del processo sono previste non per la realizzazione di un fine proprio ed autonomo, ma allo scopo del raggiungimento di un certo risultato, con la conseguenza che l’eventuale inosservanza della prescrizione formale è irrilevante se l’atto viziato raggiunge ugualmente lo scopo cui era destinato»; in effetti, il corpo di norme dettate dal codice di rito in tema di deposito degli atti processuali in cancelleria «non ne specifica il quomodo. In particolare non è richiesto il contatto interpersonale tra depositante e cancelliere. D’altra parte il ricorso al mezzo postale non pregiudica le esigenze di controllo e semmai risponde ad esigenze di maggiore certezza, tanto da essere utilizzato per le notificazioni» [14].
Altrimenti detto, la mera difformità dallo schema legale non può ritenersi causa dell’inesistenza o della assoluta inefficacia dell’atto tutte le volte in cui, per essere comunque pervenuto alla cancelleria, sia stato possibile effettuare sul plico le necessarie verifiche sulla ritualità della documentazione [15].
L’inammissibilità [16], quale vizio ostativo all’esame della richiesta, è d’altronde prevista dal legislatore nazionale essenzialmente in materia di impugnazioni (ex multis, artt. 325, 327, 331, 334) ovvero, nei soli casi di cui agli artt. 408 e 398 c.p.c., per gli atti introduttivi del giudizio [17]; nessuna norma dettata in materia di PCT, invece, pare prevederla per il deposito non autorizzato. E lo stesso può dirsi con riferimento alle regole tecniche che, in ogni caso, in quanto fonte di rango regolamentare non potrebbero fondare alcuna deroga alle disposizioni della legge processuale [18].
Inoltre, risultava mancante ogni sostegno normativo alla tesi dell’investitura della DGSIA del potere di indicare gli atti depositabili telematicamente nonché alcun utile riferimento a fondare il valore legale dei medesimi.
Senza con ciò disconoscere il valore dei decreti dirigenziali. Sebbene la lettera del citato art. 35 d.m. n. 44 del 2011 affidi ai medesimi solo l’accertamento dell’installazione, dell’idoneità delle attrezzature informatiche e della funzionalità dei servizi, senza alcun riferimento alla specificazione del tipo di atti depositabili, concludere per l’assoluta irrilevanza del provvedimento a tali fini avrebbe significato dover consentire, sulla sola base del decreto, il deposito telematico di qualunque atto, anche non compreso nella previsione di cui all’art. 16-bis. D’altro canto, affermarne l’essenzialità avrebbe comportato l’esclusione, per la sola sua mancanza, della possibilità di procedere al deposito nelle forme digitali pure al sussistere delle condizioni di legge.
Più ragionevole, allora, la conclusione della mera irregolarità, in quanto tale sanabile – non potendosi, in senso contrario, opporre nemmeno il mancato raggiungimento dello scopo dell’atto – ovvero comunque idonea a consentire la rimessione in termini per il deposito.
Ai sensi dell’art. 73 disp. att. c.p.c., infatti, il cancelliere deve rifiutare il deposito del fascicolo di parte solo quando questo non contenga le copie degli atti per la controparte, casistica evidentemente non compatibile con il modello del deposito telematico in cui il file correttamente formato e oggetto di deposito rileva nella sua unitarietà e riproducibilità pure a vantaggio di questa.
Altrimenti detto, giunto alla cancelleria attraverso l’invio della “busta”, il deposito accettato dal sistema attraverso il rilascio delle prime tre ricevute (ricevuta di accettazione deposito, ricevuta di consegna deposito e ricevuta esito controlli automatici deposito) non può più essere rifiutato, spettando esclusivamente al giudice la valutazione, in quanto attinente a profili strettamente processuali, della legittimità dei depositi [19].
La descritta linea interpretativa aveva trovato espressione nelle più condivisibili pronunce di merito, che a tali fini avevano inteso fare richiamo a principi generali dell’ordinamento processuale [20].
Il codice di rito individua nelle regole della libertà delle forme (ex art. 121 c.p.c.) e in quella del raggiungimento dello scopo (ex art. 156 c.p.c.) presupposti irrinunciabili per la realizzazione del rapporto processuale e del diritto alla difesa delle parti. Dal loro combinato si ricava infatti la necessità di ammettere, in assenza di precisa e diversa previsione normativa, la forma più idonea allo scopo nonché l’impossibilità di pronunciare la nullità dell’atto che abbia raggiunto quello al quale era destinato [21].
In particolare, con riferimento al tema di interesse, si trattava quindi di valutare se la forma telematica del deposito, anche quando non espressamente consentita dal legislatore, fosse idonea al raggiungimento dello scopo [22].
E su tale aspetto, i pronunciamenti sembravano omogenei e rafforzati dalla considerazione della possibilità prospettatasi ai giudicanti di risolvere la questione processuale semplicemente facendo richiamo al “valore legale” acquisito ex art. 35 d.m. n. 44 del 2011 dagli atti oggetto di contestazione nei relativi uffici.
L’avere deciso di argomentare attraverso più ampie riflessioni processuali piuttosto che “assorbire” l’onere motivazionale nel rinvio ai decreti dirigenziali autorizzativi, infatti, era già valso ad evidenziare la volontà di accedere ad una nuova e rivisitata interpretazione del sistema del deposito, utile a implementarne le applicazioni e le potenzialità.
In effetti, ciò che è necessario, affinché il requisito indicato dall’art. 156, comma 3, c.p.c. possa dirsi integrato, è il pieno rispetto delle modalità del deposito telematico quali condizioni indispensabili per la corretta formazione del rapporto legale tra le parti e tra queste e l’ufficio.
Con maggiore impegno esplicativo, l’art. 16-bis, comma 1, d.l. n. 179 del 2012 prescrive il rispetto della normativa anche regolamentare concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici.
Le regole tecniche del 16 aprile 2014, invece, impongono all’atto informatico l’immediata leggibilità ed utilizzabilità, regolandone il formato, le modalità di sottoscrizione e le operazioni di trasformazione.
Ai sensi del cod. amm. dig., in ultimo, il documento informatico sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale, e che rispetti le regole tecniche, ha la stessa efficacia di cui all’art. 2702 c.c. (artt. 20 e 21) e, quando trasmesso ad una PA con qualsiasi mezzo telematico o informatico idoneo ad accertarne la fonte di provenienza, soddisfa il requisito della forma scritta (art. 45).
Quando tali condizioni risultino rispettate, non vi è alcuna ragione quindi per escludere l’ammissibilità del deposito telematico non espressamente tipizzato [23].
E tanto può dirsi anche in riferimento alla comparsa di costituzione [24], ovvero al reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. che, se firmati e depositati digitalmente in conformità delle specifiche tecniche, risultano idonei, superato il controllo della cancelleria, a garantire l’instaurazione del rapporto processuale nonché, per mezzo del sistema polisweb, l’accesso e la visione alle parti del giudizio [25].
In questo ricostruito quadro normativo, pertanto, nessuna osservazione tecnico-giuridica pareva potersi realisticamente opporre all’estensione della facoltà del deposito telematico a tutti gli atti dei procedimenti civili, contenziosi, di volontaria giurisdizione ed esecutivi [26], dovendosi verosimilmente superare pure la tesi della nullità, sebbene sanabile.
L’art. 156, comma 1, c.p.c., infatti, esclude che essa possa essere pronunciata in mancanza di una previsione di legge (come nel caso di specie) ovvero quando, pure a fronte dell’assenza di requisiti formali, l’atto sia idoneo al raggiungimento dello scopo, come pure già dimostrato [27].
Anche la diversa ed esaminata restrittiva soluzione, costruita sull’essenzialità delle indicazioni dei decreti DGSIA, infatti, per quanto espressiva della innegabile e condivisibile volontà legislativa di graduare il passaggio al processo telematico, non sembrava adeguatamente considerare la compatibilità del dettato dell’art. 16-bis con la configurabilità di un doppio regime di accesso (facoltativo/obbligatorio) «posto che ammettere la facoltatività di ciò che non è imposto equivale a consentire alle realtà più virtuose di raggiungere l’obiettivo dell’integrale informatizzazione del processo […], senza alcuna compromissione dei diritti di difesa e dei principi fondamentali del processo» [28].
Già non sorprendeva allora la richiesta avanzata dalla Fondazione Italiana per l’Innovazione Forense (FIIF) che, a chiusura del tavolo di lavoro sulle modifiche introdotte con il d.l. n. 90 del 2014, aveva proposto di estendere, e in maniera espressa, la facoltatività del deposito telematico a tutte le tipologie di atti processuali, anche al fine di perseguire la completa digitalizzazione del fascicolo [29].
In vero, una prima risposta a tali quesiti era stata offerta dalla circolare ministeriale del 28 ottobre 2014 (in materia di “Adempimenti di cancelleria conseguenti all’entrata in vigore degli obblighi di cui agli artt. 16-bis e sgg. del d.l. 179/2012 e del d.l. 90/2014”), che, in linea con quanto già precisato da quella del 27 giugno 2014, aveva chiarito come «l’entrata in vigore delle norme di cui all’art. 16-bis [d.l.n. 179 del 2012] non innovi in alcun modo la disciplina previgente in ordine alla necessità di un provvedimento ministeriale per l’abilitazione alla ricezione degli atti introduttivi e di costituzione in giudizio. Dunque, nei tribunali già abilitati a ricevere tali atti processuali ai sensi dell’art. 35 d.m. 44/11, continuerà a costituire facoltà (e non obbligo) delle parti, quella di inviare anche gli atti introduttivi o di costituzione in giudizio mediante deposito telematico. Laddove, invece, tale abilitazione non sussista, essa dovrà essere richiesta. Nelle ipotesi in cui le parti procedano al deposito telematico dell’atto introduttivo o di costituzione in giudizio in assenza della predetta abilitazione, la valutazione circa la legittimità di tali depositi, involgendo profili prettamente processuali, sarà di esclusiva competenza del giudice. Di conseguenza non spetta al cancelliere la possibilità di rifiutare il deposito degli atti introduttivi (e/o di costituzione in giudizio) inviati dalle parti, anche presso quelle sedi che non abbiano ottenuto l’abilitazione ex art. 35 d.m. n. 44/11» [30].
3. Il regime dei depositi telematici alla luce della l. n. 132 del 2015.
In linea di sostanziale continuità e per il definitivo superamento della tesi dell’inammissibilità ope legis, il legislatore si è collocato oggi con il citato d.l. n. 83 del 2015, con il quale ha stabilito infatti, attraverso l’introduzione di un nuovo comma 1-bis, che «Nell’ambito dei procedimenti civili, contenziosi e di volontaria giurisdizione innanzi ai Tribunali e, a decorrere dal 30 giugno 2015, innanzi alle Corti d’Appello è sempre ammesso il deposito telematico dell’atto introduttivo o del primo atto difensivo e dei documenti che si offrono in comunicazione, da parte del difensore o del dipendente di cui si avvale la pubblica amministrazione per stare in giudizio personalmente, nel rispetto della normativa anche regolamentare concernente la sottoscrizione la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici. In tal caso il deposito si perfeziona esclusivamente con tali modalità».
La norma, quindi, ammette il deposito telematico dell’atto introduttivo (citazione o ricorso) e del primo atto difensivo (comparsa di risposta o memoria di costituzione), disegnando per essi un regime facoltativo (a differenza di quanto possa continuare dirsi per gli atti endoprocessuali) e precisando la liberazione per il difensore dall’onere di integrare tali modalità di deposito con quello nelle forme cartacee.
L’esposto principio esce addirittura rafforzato dalla legge di conversione n. 132 del 2015 che in effetti ricorre ad una formula descrittiva più ampia facendo rinvio ad “ogni atto diverso” da quelli endoprocedimentali di cui al comma precedente della medesima disposizione.
Tale soluzione si appalesa certamente preferibile. Essa infatti consente di ritenere definitivamente estesa la facoltatività del deposito telematico pure a quegli atti, diversi da quelli introduttivi (e di costituzione in senso stretto), ma di non immediata classificazione. [31]
Si neutralizza pertanto l’originario limite al ricorso alle forme digitali per gli atti diversi da quelli successivi alla costituzione delle parti, in ciò colmando una lacuna normativa frutto essenzialmente di considerazioni tecniche-organizzative dipendenti dalla necessità di condizionare l’autorizzazione degli uffici giudiziari a ricevere tutti i tipi di atti in forma telematica alla effettiva disponibilità di mezzi, umani e logistici, per la gestione dell’intero flusso documentale.
Da questo punto di vista, allora, la novella è certamente apprezzabile.
Essa, infatti, segna un ulteriore e fondamentale passo verso la completa digitalizzazione del processo civile anche semplificando la normativa ed escludendo, per l’effetto, la necessità, avvertita nella vigenza del vecchio regime, di verificare costantemente l’esistenza e il contenuto dei decreti di autorizzazione DGSIA.
Con la nuova descritta facoltà si supera di fatto la necessità di soffermarsi sulla qualificazione dei singoli atti quali introduttivi o endoprocessuali, tornando a valorizzare il merito delle posizioni processuali e scongiurando il rischio di declaratorie di inammissibilità per deposito irregolare.
Si tratta tuttavia di un risultato non scontato che solo nei lavori di conversione ha trovato momento di effettiva realizzazione.
La prima formulazione dell’art. 1-bis introdotto dal d.l. n. 83 del 2015, infatti, condizionava la legittimità del deposito telematico degli atti di costituzione al «rispetto della normativa anche regolamentare concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici», così conservando il delicatissimo, e già affrontato, tema della rilevanza dei provvedimenti di autorizzazione DGSIA previsti dall’art. 35 d.m. n. 44 del 2011 (norma di settore certamente concernente«[…] la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici»).
In altri termini, la disposizione avrebbe previsto l’ammissibilità (facoltativa) delle forme digitali degli atti introduttivi solo sull’indispensabile presupposto dell’emanazione del relativo decreto dirigenziale in riferimento all’ufficio giudiziario destinatario del deposito.
Una tale soluzione normativa, evidentemente, avrebbe posto numerose problematiche interpretative e messo a rischio pure i convincimenti formatisi nella “prima” vigenza dell’art. 16-bis, comma 1, d.l. n. 179 del 2012.
Salvo voler concludere per l’assoluta inutilità della nuova disposizione (che nulla avrebbe aggiunto al quadro normativo previgente), infatti, la sua introduzione avrebbe potuto farsi argomento per sostenere la tesi della inammissibilità dei depositi degli atti introduttivi effettuati in assenza delle autorizzazioni DGSIA, con buona pace dei correttivi offerti a tale soluzione dalla valorizzazione dei principi processuali della libertà delle forme e del raggiungimento dello scopo.
Su tali premesse, non sfugga l’utilità delle modifiche apportate al testo dalla legge di conversione che, dimostrando di coglierne i possibili effetti distorsivi, ha eliminato il riferimento al “rispetto della normativa” e sostituito il medesimo con quello alle “modalità previste” dalla disciplina regolamentare, in tal modo sottraendo sostegno alla tesi della indispensabilità dei decreti dirigenziali.
Restano da verificare, almeno con riferimento alla formulazione di cui al d.l. n. 83 del 2015 e al netto degli esiti della conversione, eventuali incongruenze con riferimento al deposito effettuato dal «dipendente di cui si avvale la pubblica amministrazione per stare in giudizio personalmente».
Per l’art. 19, comma 1-bis, d.l. n. 83 del 2015, infatti, egli è soggetto legittimato al deposito facoltativo degli atti introduttivi nonostante nel 1° comma dell’art. 16-bis d.l. n. 179 del 2012, come modificato dal d.l. n. 90 del 2014, sia precisato che «per difensori non si intendono i dipendenti di cui si avvalgono le pubbliche amministrazioni per stare in giudizio personalmente».
L’accesso a un’interpretazione restrittiva e asincrona del dettato normativo, in effetti, avrebbe potuto suggerire di ritenere il dipendente della pubblica amministrazione sottratto alle modalità telematiche obbligatoriamente previste per i difensori per il deposito degli atti endoprocessuali (per i quali sarebbe stato quindi chiamato al solo uso della carta) e tuttavia facoltizzato al deposito digitale degli atti introduttivi.
Tale conclusione sarebbe stata evidentemente inaccettabile.
In primo luogo, infatti, il dipendente della pubblica amministrazione è, ai sensi dell’art. 2, lett. m), n. 4), d.m. n. 44 del 2011, soggetto abilitato esterno (pubblico), pertanto autorizzato al deposito telematico ex art. 13 d.m. n. 44 del 2011.
Inoltre, e in ottica sistematica, la tesi che lo vorrebbe ancora vincolato, per gli atti endoprocessuali, ai provvedimenti DGSIA ex art. 35 d.m. n. 44 del 2011, sconta il chiaro dato fattuale in considerazione dell’abrogazione tacita della suddetta norma regolamentare realizzata, come evidenziato, dalla descritte novità normative.
Anche in questo senso la legge di conversione sembra però avere offerto soluzione ai possibili dubbi scaturenti dalla prima formulazione del testo aggiungendo un ultimo inciso all’art. 16-bis, 1° comma, d.l. n. 179 del 2012 ai sensi del quale «In ogni caso, i medesimi dipendenti possono depositare, con le modalità previste dal presente comma, gli atti e i documenti di cui al medesimo comma».
Il deposito telematico dei dipendenti della P.A. è, quindi, sempre facoltativo.
Tale conclusione esce rafforzata anche dall’interpretazione fornita dal Ministero con la recente circolare del 23 ottobre 2015 che all’art. 9 precisa, dopo aver chiarito che «allo stato attuale della normativa, non sono tenute al deposito mediante invio telematico le parti non costituite a mezzo di difensore», che per i funzionari della P.A. «non sussiste, né attualmente, né, a normativa invariata, sussisterà in futuro, l’obbligo di invio telematico di atti e documenti processuali».
Alla luce delle modifiche descritte può quindi ora prospettarsi un sistema di deposito omogeneo, esteso ad ogni atto pur con le dovute precisazioni [32].
In particolare, se nessun problema sembra sussistere per le ipotesi di deposito della comparsa di costituzione e di risposta, ovvero per l’atto introduttivo avente la forma del ricorso (i), maggiori perplessità sorgono a fronte di un atto di citazione (ii).
Nei casi sub (i), il difensore potrà procedere al deposito facendo ricorso alle modalità già note, rispettivamente cioè trasmettendo digitalmente l’atto (unitamente alla procura e ad eventuali allegati) all’ufficio competente ai fini del suo inserimento nel fascicolo informatico, ovvero impiegando le forme già previste per l’instaurazione dei procedimenti monitori telematici.
Per le ipotesi sub (ii), invece, sarà necessario distinguere a seconda che la citazione sia stata notificata per tramite di posta elettronica certificata piuttosto che a mezzo UNEP o servizio postale.
L’atto nativo cartaceo, infatti, dovrà essere dapprima scansionato e attestato conforme ai sensi del nuovo art. 16-decies d.l. n. 179 del 2012, al cui esame si rinvia [33].
Alternativamente, dovrebbe ritenersi necessario che l’atto introduttivo da depositare sia un nativo digitale (convertito in formato pdf e sottoscritto), e che il formato analogico del medesimo sia inserito, unitamente alla relata di notifica e previa attestazione di conformità, quale “allegato generico” (e non quindi come “atto principale”).
Tale soluzione, in effetti, appare più coerente con il dato normativo e, in particolare, con l’art. 12 delle specifiche tecniche contenute nel provvedimento DGSIA del 16 aprile 2014, il quale prescrive, tra l’altro, che l’atto del processo da depositare telematicamente sia in formato pdf, privo di elementi attivi e «ottenuto da una trasformazione di un documento testuale, senza restrizioni per le operazioni di selezione e copia di parti», con conseguente esclusione della scansione di immagini [34].
4. Le copie di cortesia: in attesa di chiarimenti.
Quello delle copie di cortesia e dei protocolli degli uffici giudiziari ha costituito tema di centrale interesse fin dall’entrata in vigore del regime dell’obbligatorietà dei depositi telematici degli atti endoprocedimentali.
La novità del sistema digitale, evidentemente, impone cautela, prudenza e gradualità; tuttavia, esigenze di certezza del diritto e di omogeneità delle procedure non possono sfuggire né essere sacrificate all’altare della inopportuna facilitazione, con l’ulteriore rischio di paralizzare l’attuazione del progetto di riforma.
In questo senso, già la circolare ministeriale del 28 ottobre 2014 aveva chiarito che la messa a disposizione del giudice delle copie rappresenta soluzione di tipo solo locale e non oggetto di previsione imperativa. Essa non si sostituisce o aggiunge quindi al deposito telematico, dovendosi escludere pure l’inserimento delle copie nel fascicolo processuale [35]. Tuttavia è innegabile che la loro presenza finisca per depotenziare l’idea stessa del processo telematico, la cui realizzazione non può prescindere dalla collaborazione di tutti e anche dalla disponibilità dei magistrati ad abbandonare il supporto cartaceo per lo studio della fattispecie.
E ciò, a fortiori, quando la condotta “scortese” sia elevata a motivo di responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96 c.p.c. [36].
L’art. 16-bis d.l. n. 179 del 2012 prevede, in effetti, il deposito degli atti e dei documenti da parte dei difensori delle parti precedentemente costituite “esclusivamente” con modalità telematica.
Nessun sostegno normativo, quindi, può recuperarsi per la ricostruzione della necessità di un ulteriore deposito cartaceo.
Né diversamente potrebbe concludersi valorizzando il contenuto di eventuali protocolli d’intesa, da qualificare, infatti, quali semplici “usi” ai sensi dell’art. 1 delle Preleggi e, pertanto, cedevoli a fronte di disposizioni gerarchicamente sovraordinate [37].
In effetti, ai protocolli, predisposti dagli uffici giudiziari in collaborazione con i locali consigli dell’ordine degli avvocati, pur costituendo iniziativa certamente utile ed apprezzabile soprattutto nella prima fase di obbligatorietà del PCT [38], si affianca il rischio della moltiplicazione delle prassi e della conseguente frammentazione e “territorializzazione” del sistema digitale [39].
Le stesse preoccupazioni sembrano avere mosso la mano del legislatore della novella che, in effetti, ha espressamente chiarito, anche con riferimento al deposito degli atti introduttivi, l’esclusività delle forme telematiche quali uniche modalità di perfezionamento.
Maggiori perplessità, invece, ha suscitato il dettato dell’art. 16-bis, comma 9, d.l. n. 179 del 2012 che, arricchito dai nuovi interventi, prevede ora, unitamente alle ipotesi già note in cui al giudice è consentito – in forza del primo inciso della norma – di ordinare il deposito in forma cartacea di singoli atti e documenti [40], l’affidamento al Ministero della giustizia della previsione e della regolamentazione di «misure organizzative per l’acquisizione anche di copia cartacea degli atti depositati con modalità telematiche nonché per la riproduzione su supporto analogico degli atti depositati con le predette modalità, nonché per la gestione e la conservazione delle predette copie cartacee».
La novità ha in effetti riacceso le preoccupazioni legate al possibile “ritorno alla carta” che, ove confermato [41], finirebbe per intaccare profondamente l’intera disciplina dedicata al processo telematico oltre che per caricare gli avvocati di ulteriori e irragionevoli costi e attività.
5. Le notifiche telematiche e il sistema delle attestazioni di conformità: cenni al precedente regime.
L’informatizzazione del processo civile ha trovato momento di principale esaltazione anche nel regime delle notifiche telematiche, il cui impianto normativo è essenzialmente rintracciabile nelle disposizioni della l. 21 gennaio 1994, n. 53.
Non è questa la sede per provarsi in una completa ricostruzione della disciplina di settore [42]; tuttavia occorre fornire le coordinate essenziali ed indispensabili per comprendere l’incidenza delle novità introdotte dalla l. n. 132 del 2015 in materia di notificazioni a mezzo PEC.
Come noto, l’art. 3-bis, comma 1, l. n. 53 del 1994, consente «la notificazione con modalità telematica […] all’indirizzo risultante da pubblici elenchi, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici».
Il nucleo della problematica è di immediata comprensione. Se, infatti, nessun problema si pone quando il difensore si trova ad operare su documenti informatici nativi da egli stesso predisposti e non ancora inseriti nel fascicolo informatico (non potendosi nemmeno prospettare il profilo del “trattamento” dell’originale cartaceo), alle medesime rassicuranti conclusioni non può giungersi quando, invece, egli debba notificare in via informatica un atto nato analogico, per il quale dovrà spendere il potere di attestazione di conformità.
In questo senso, la prima formulazione dell’art. 3-bis, comma 2, l. n. 53 del 1994 (antecedente alla novella in esame) prevedeva che «quando l’atto da notificarsi non consiste in un documento informatico, l’avvocato provvede ad estrarre copia informatica dell’atto formato su supporto analogico, attestandone la conformità all’originale a norma dell’articolo 22, comma 2, del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82» ed inserendo la dichiarazione nella relata di notifica a norma del successivo comma 5.
Il richiamo all’art. 22 cod. amm. dig. sollevava il delicato tema dell’attestazione di conformità della copia atteso che ai sensi della citata norma è un pubblico ufficiale a dover provvedere all’attestazione co dichiarazione allegata al documento informatico e asseverata secondo le regole tecniche di cui all’art. 71 cod. amm. dig.
Su queste basi, l’avvocato – pubblico ufficiale per le notifiche telematiche ai sensi dell’art. 6 l. n. 53 del 1994 – finiva però per incontrare ostacolo nella mancata adozione di specifiche tecniche, tanto più che anche l’art. 18 del d.m. n. 44 del 2011, come modificato dal d.m. 3 aprile 2013, n. 48, prescrive all’avvocato che estrae copia informatica per immagine dell’atto formato su supporto analogico, l’asseverazione prevista dall’articolo 22, comma 2, cod. amm. dig., con ulteriore implicito rinvio, quindi, all’art. 71 cod. amm. dig.
A tale problematica si era cercato di offrire soluzione valorizzando il rinvio dell’art. 19-bis del provvedimento DGSIA del 16 aprile 2014 all’art. 12, comma 2, delle medesime specifiche, finendo così per sostenere che queste costituissero, per la materia delle notifiche effettuate dagli avvocati ai sensi della l. n. 53 del 1994, le regole tecniche previste dall’art. 71 cod. amm. dig. e richiamate anche dall’art. 22, comma 2, cod. amm. dig. [43].
Tale meccanismo appariva applicabile, nonostante l’esclusivo riferimento dell’art. 18 d.m. n. 44 del 2011 alla “copia informatica per immagine”, pure alle ipotesi di notifiche di copie informatiche di documenti informatici presenti nel fascicolo digitale, anche in ragione dell’art. 16-bis, comma 9-bis, d.l. n. 179 del 2012 che ha ammesso [44] (anche) i difensori ad estrarre con modalità telematiche duplicati, copie analogiche o informatiche degli atti e dei provvedimenti presenti nei fascicoli informatici [45] attestandone quindi la conformità. [46]
Alla tenuta delle descritte conclusioni aveva nel frattempo “attentato” il d.p.c.m. 13 novembre 2014 (in G.U. dal 12 gennaio 2015 ed in vigore dall’11 febbraio 2015) finalmente recante le “Regole tecniche in materia di formazione, trasmissione, copia, duplicazione, riproduzione, e validazione temporale dei documenti informatici, nonché di formazione e conservazione dei documenti informatici delle pubbliche amministrazioni ai sensi degli articoli 20, 22, 23-bis, 23-ter, 40, comma 1, 41 e 71, comma 1, del Codice dell’amministrazione digitale di cui al decreto legislativo n. 82 del 2005”.
Il decreto, esordisce prevedendo, a mezzo dell’art. 3, comma 1, le modalità di formazione del documento informatico. A tali fini, e con particolare riferimento a quelle in questa sede rilevanti, esse sono indicate nella redazione del testo tramite l’utilizzo di appositi strumenti software (lett. a), ovvero nell’acquisizione di un documento informatico per via telematica o su supporto informatico (ad es., le estrazioni on line dal fascicolo digitale), nell’assunzione della copia per immagine su supporto informatico di un documento analogico, nonché nell’acquisizione della copia informatica di un documento analogico (lett. b).
Il documento informatico così formato assume, ai sensi dei successivi commi 4 e 5, la caratteristica dell’immodificabilità quando sia stato sottoscritto con firma digitale o qualificata, trasferito a soggetti terzi con posta elettronica certificata con ricevuta completa, ovvero quando ad esso sia stata apposta una validazione temporale o si sia proceduto alla sua memorizzazione su sistemi di gestione documentale che adottino idonee politiche di sicurezza.
In ultimo, le nuove regole tecniche impongono l’impiego di un insieme minimo di metadati, costituito dall’identificativo univoco e persistente, dal riferimento temporale, dall’oggetto, dal soggetto che ha formato il documento, dall’eventuale destinatario e dall’impronta del documento informatico.
Ciò già impone una verifica di compatibilità con le modalità proprie del PCT come finora utilizzate per la formazione, la notifica e il deposito degli atti.
In tal senso, la conformità alle nuove specifiche pare invero garantita dal ricorso al sistema della PEC.
Il messaggio trasmesso e la ricevuta completa di avvenuta consegna, infatti, costituiscono documenti informatici autonomi, ai sensi dell’art. 1, lett. p), cod. amm. dig., integri ed immodificabili perché firmati digitalmente dal gestore PEC, nonché dotati dei metadati prescritti in quanto inseriti nel file daticert.xml contenuto nel messaggio unitamente agli allegati.
In altri termini, poiché il vero atto oggetto delle attività di notifica e di deposito telematico è il messaggio di posta elettronica certificata, ed esso rispetta, per le ragioni indicate, i parametri forniti dalle nuove regole tecniche, nessuna ulteriore incombenza pare doversi ritenere gravante sui difensori [47].
È però soprattutto la disciplina delle modalità di rilascio di copie e duplicati di documenti informatici a sollecitare l’interprete a verificarne le conseguenze applicative in sede processuale, in specie sotto i profili dei sistemi di attestazione di conformità finalizzata alla notifica.
Preliminarmente occorre chiarire che i temi della applicabilità del d.p.c.m. 13 novembre 2014 e della asseverazione non sembrano nemmeno porsi per i duplicati previsti dall’art. 23-bis, comma 1, cod. amm. dig.
Essi, infatti, come chiarito anche dall’art. 16-bis, comma 9-bis, d.l. 179 del 2012, sono prodotti «mediante processi e strumenti che assicurino che il documento informatico ottenuto sullo stesso sistema di memorizzazione, o su un sistema diverso, contenga la stessa sequenza di bit del documento informatico di origine».
I duplicati, in altri termini, per essere indistinguibili dall’originale e sostituirlo ad ogni effetto, non necessitano di alcuna attestazione di conformità.
D’altronde, l’art. 16-bis, comma 9-bis, d.l. n. 179 del 2012 la prescrive solo per la “copia”, né altro e diverso argomento può ricavarsi dall’art. 5 delle specifiche, che del duplicato si limita a riproporre la sola definizione.
Maggiori perplessità, invece, sollevano gli artt. 4 e 6, dedicati rispettivamente alle «copie per immagine su supporto informatico di documenti analogici» e alle «copie e estratti informatici di documenti informatici».
Con riferimento alle prime, le nuove regole tecniche stabiliscono che «[…] fermo restando quanto previsto dall’art. 22, comma 3, del Codice, la copia per immagine di uno o più documenti analogici può essere sottoscritta con firma digitale o firma elettronica qualificata da chi effettua la copia.
Laddove richiesta dalla natura dell’attività, l’attestazione di conformità delle copie per immagine su supporto informatico di un documento analogico di cui all’art. 22, comma 2, del Codice, può essere inserita nel documento informatico contenente la copia per immagine. Il documento informatico così formato è sottoscritto con firma digitale del notaio o con firma digitale o firma elettronica qualificata del pubblico ufficiale a ciò autorizzato. L’attestazione di conformità delle copie per immagine su supporto informatico di uno o più documenti analogici può essere altresì prodotta come documento informatico separato contenente un riferimento temporale e l’impronta di ogni copia per immagine. Il documento informatico così prodotto è sottoscritto con firma digitale del notaio o con firma digitale o firma elettronica qualificata del pubblico ufficiale a ciò autorizzato».
Stando al dettato dell’art. 4, quindi, per l’attestazione di conformità di scansioni di atti e documenti cartacei occorrerebbe aggiungere alla separata relata di notifica anche un riferimento temporale [48] e un’impronta [49], generata da una funzione hash, [50] di ogni copia per immagine.
In linea di continuità, l’art. 6, commi 2 e 3, del decreto dispone che la copia o l’estratto di uno o più documenti informatici di cui all’art. 23-bis, se sottoscritto con firma digitale o firma elettronica qualificata da chi effettua la copia, «ha la stessa efficacia probatoria dell’originale, salvo che la conformità allo stesso non sia espressamente disconosciuta.
Laddove richiesta dalla natura dell’attività, l’attestazione di conformità delle copie o dell’estratto informatico di un documento informatico di cui al comma 1, può essere inserita nel documento informatico contenente la copia o l’estratto. Il documento informatico così formato è sottoscritto con firma digitale del notaio o con firma digitale o firma elettronica qualificata del pubblico ufficiale a ciò autorizzato. L’attestazione di conformità delle copie o dell’estratto informatico di uno o più documenti informatici può essere altresì prodotta come documento informatico separato contenente un riferimento temporale e l’impronta di ogni copia o estratto informatico. Il documento informatico così prodotto è sottoscritto con firma digitale del notaio o con firma digitale o firma elettronica qualificata del pubblico ufficiale a ciò autorizzato».
Le disposizioni, quindi, individuano due forme tipiche di asseverazione, riconducibili all’inserimento dell’attestazione nel corpo del documento (poi firmato digitalmente) ovvero all’impiego, sull’asseverazione contenuta in file separato, di un riferimento temporale e dell’impronta di ogni copia.
Invero, la complessità tecnica della prima delle descritte operazioni, che finirebbe per gravare tutta sugli operatori (rectius, sui difensori) frustrando le finalità di semplificazione e di accelerazione sottese alla formulazione del d.l. n. 90 del 2014 e alla relativa disciplina in materia di estrazione di documenti dal fascicolo informatico e poteri di autentica dei medesimi, lascia ritenere più ragionevole, la previsione della regola dell’inserimento dell’attestazione di conformità nella copia estratta e della sottoscrizione del file così ottenuto, anche in considerazione della possibilità di curare il descritto “accorpamento” attraverso il ricorso a software specifici per l’edit del documento estratto in formato pdf.
In ogni caso, poi, i descritti dubbi interpretativi sulla procedura più corretta potrebbero essere fugati alla luce della considerazione, già spesa, dell’inutilità dell’impronta e del riferimento temporale, come ricavabile dalla natura del messaggio PEC.
Nel sistema della posta elettronica certificata, infatti, «documento e attestazione di conformità viaggeranno sempre insieme, racchiusi all’interno della PEC; si ritiene pertanto che quest’ultima crei quel legame inscindibile che diversamente è reso possibile dall’inserimento dell’impronta nel documento separato contenente l’attestazione di conformità» [51].
Resta da chiarire il significato dell’inciso contenuto in entrambe le esaminate norme e relativo alla “natura dell’attività” quale condizione per l’operatività del sistema di attestazione descritto.
La laconicità del testo pare poter essere superata solo ritenendo che attraverso tale rinvio il legislatore abbia inteso chiarire l’applicabilità delle nuove specifiche come limitata ai casi in cui sia la legge a prevedere un onere di asseverazione. Tanto potrebbe certamente sostenersi con riferimento alla attività di notificazione rimessa agli avvocati, per la quale tale incombenza è espressamente stabilita dalla l. n. 53 del 1994 [52].
A tali descritte conclusioni si giunge, ovviamente, solo sulla presupposta e assorbita questione della applicabilità delle nuove specifiche anche al processo civile telematico, invero non del tutto estranea a riflessioni di senso contrario.
In effetti, sebbene le regole tecniche di cui al d.p.c.m. 13 novembre 2014 siano rivolte «ai soggetti di cui all’art. 2, commi 2 e 3» (e, quindi, anche ai «privati ai sensi dell’articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445», tra i quali gli avvocati), potrebbe innanzitutto ritenersi che «La norma definisce l’ambito soggettivo di applicazione delle regole tecniche sui documenti, laddove il rapporto tra queste ultime e le regole tecniche sul processo telematico attiene ad una delimitazione oggettiva» [53].
Inoltre, e soprattutto, il richiamo speso dall’art. 3-bis l. n. 53 del 1994 all’art. 22, comma 3, cod. amm. dig. (al quale il decreto trova applicazione) «non è significativo di alcunché, perché la medesima norma ridonda anche nella regola tecnica propria del processo telematico di cui all’art. 18, comma 4, del DM 44/2011, secondo la quale “L’avvocato che estrae copia informatica per immagine dell’atto formato su supporto analogico, compie l’asseverazione prevista dall’articolo 22, comma 2, del codice dell’amministrazione digitale, inserendo la dichiarazione di conformità all’originale nella relazione di notificazione, a norma dell’articolo 3-bis, comma 5, della legge 21 gennaio 1994, n. 53”: due regole tecniche, quindi, per due diverse applicazioni della stessa norma» [54].
In altri termini, la disciplina dell’attività certificativa di cui all’art. 3-bis l. n. 53 del 1994 nonché della normativa tecnica dettata dall’art. 18 d.m. n. 44 del 2011 sembrerebbe presentare carattere di specialità e dunque di prevalenza rispetto a quella contenuta nel d.p.c.m., di guisa che il difensore che apponga sulla scorta di tali norme la dichiarazione di conformità all’originale nella relazione di notifica già integrerebbe le condizioni richieste dall’art. 22 cod. amm. dig.
Quanto detto potrebbe sostanzialmente ripetersi pure per la copia informatica del documento informatico, per la quale in effetti l’art. 16-bis, comma 9-bis, d.l. n. 179 del 2012 non stabilisce modalità di asseverazione utili ad assolvere ai requisiti richiesti dall’art. 23-bis cod. amm. dig. attraverso il rinvio alle regole tecniche dell’art. 71 cod. amm. dig., che proprio nel citato d.p.c.m. ha trovato attuazione.
In questo contesto, anche il rinvio alla “natura dell’attività” assumerebbe nuovo significato, finendo per suggerire all’interprete la soluzione della mancanza di tale condizione proprio in ragione della descritta specialità delle norme già in vigore per il PCT.
A questi, potrebbero aggiungersi pure ulteriori e diversi argomenti a favore della non applicabilità del decreto contenente le nuove specifiche.
Innanzitutto, in una prospettiva sistematica, si consideri che nel processo telematico l’emanazione delle regole tecniche è rimessa, ai sensi dell’art. 4 l. 22 febbraio 2010, n. 24, alla competenza esclusiva del Ministro della Giustizia, mentre ai decreti della Presidenza del Consiglio dei Ministri, come quello in esame, il cod. amm. dig. affida le determinazione degli aspetti tecnici relativi alla dematerializzazione.
Da un punto di vista contenutistico, inoltre, le specifiche di cui al d.p.c.m., e in particolare quelle relative ai metadati, mirano a garantire la “gestione e conservazione” del documento informatico, finalità che la disciplina del PCT già persegue attraverso la previsione di regole proprie, come quelle di cui all’art. 9 d.m. n. 44 del 2011.
In ultimo, all’apertura alla tesi dell’applicabilità del decreto dovrebbe conseguire anche una modifica del software di gestione del fascicolo telematico.
L’esposizione degli avvocati ai nuovi oneri, in effetti, porterebbe con sé, ex art. 2, comma 4, d.p.c.m., l’operatività dei medesimi anche per il Ministero della Giustizia che, quale soggetto che gestisce il documento in originale “scaricato” dal fascicolo informatico, dovrebbe apporre al medesimo l’impronta, ovvero curarne l’attestazione di conformità e la sottoscrizione digitale, così liberando il difensore da ogni ulteriore attività certificatoria.
Fornite tali nuove coordinate, allora, la soluzione al problema delle attestazioni potrebbe essere ricavata dagli aggiornamenti effettuati il 27 marzo 2014 al portale dei servizi telematici ministeriale.
Le nuove funzionalità, infatti, permettono di scaricare dal fascicolo digitale la copia e il duplicato informatico del documento nonché di produrre un file di testo riportante l’impronta hash di quello presente nel fascicolo.
Ciò consente di ritenere superata la necessità dell’attestazione di conformità dei documenti acquisiti dal portale, in quanto la notifica avrà ad oggetto il duplicato informatico dell’originale che, ai sensi dell’art. 23-bis cod. amm. dig., ha il medesimo valore giuridico del documento da cui è tratto, naturalmente se formato in conformità alle regole tecniche.
Con buona pace degli infaticabili (sic!) avvocati che abbiano voluto e potuto affrontare la battaglia dell’aggiornamento giornaliero.
Per gli altri, basti la consapevolezza dell’inidoneità della violazione delle specifiche a determinare la nullità dell’atto, rectius della notifica.
Anche in mancanza del riferimento temporale e dell’impronta, infatti, non può negarsi che il file digitale non sostituisce l’originale analogico, sempre disponibile all’esibizione o al deposito ove sorgano contestazioni sulla regolarità della notifica, e che ogni ricostruzione in termini di invalidità sconterebbe (verosimilmente) il principio dell’art. 156 c.p.c., non potendosi sostenere la non perseguibilità dello scopo avuto riguardo anche alle già descritte garanzie di immodificabilità assicurate dalla PEC.
6. La nuova disciplina delle attestazioni alla luce della novella legislativa. - 6.1. Il quadro normativo. - 6.2. La procura alle liti scansionata. - 6.3. I duplicati informatici.
La densità della normativa prodotta in tema di attestazioni di conformità e, soprattutto, la sua nodosità, danno il senso della volontà legislativa di “girare ancora la ruota” in cerca di un quadro di riferimento più chiaro ed esaustivo.
La conservabilità del sistema descritto va infatti ora verificata alla luce delle novità introdotte dal d.l. n. 83 del 2015 è, ancor di più, dalla legge di conversione.
6.1. Il quadro normativo.
Occorre partire dalla portata letterale delle norme.
Con l’art. 19 la novella ha aggiunto infatti al d.l. n. 179 del 2012 gli artt. 16-decies e 16-undecies.
Nella formulazione elaborata in sede di decretazione, la prima delle segnalate disposizioni prevedeva che i professionisti indicati (difensori, consulenti tecnici, professionisti delegati, curatori e commissari giudiziali, dipendenti delle pubbliche amministrazioni) all’atto del deposito telematico della copia informatica, anche per immagine, di un atto formato su supporto analogico e notificato, con modalità non telematiche, dall’ufficiale giudiziario ovvero a norma della legge 21gennaio 1994, n. 53, potessero attestare la conformità al predetto atto della copia che, se munita dell’attestazione, sarebbe equivalsa all’originale dell’atto notificato.
Il peso della richiamata norma appariva già significativo, poiché essa permetteva l’iscrizione a ruolo anche di cause avviate nei confronti di persone fisiche non titolari di indirizzi PEC e in relazione alle quali non avrebbe potuto procedersi se non con la notifica con modalità non telematiche.
Il testo inoltre, per espressa indicazione del suo ultimo inciso, si applicava «anche all’atto consegnato all’ufficiale giudiziario o all’ufficio postale per la notificazione», così aprendo anche al convenuto o all’appellato la possibilità, ai fini della costituzione telematica in giudizio, di attestare la conformità dell’atto notificato e allegarlo quindi alla propria comparsa.
Questa in effetti appariva l’unica possibile interpretazione di un dettato che altrimenti sarebbe finito per risultare poco comprensibile e sostanzialmente già assorbito nella prima parte della norma.
Non sorprenda, allora, la sua rimozione in sede di conversione dal testo definitivo della disposizione che, nella formulazione oggi vigente, continua a prescrivere, all’atto del deposito in via telematica di una «copia informatica, anche per immagine, di un atto processuale di parte o di un provvedimento del giudice formato su supporto analogico (quindi originariamente cartaceo) e detenuto in originale o in copia conforme», la necessaria attestazione di conformità quale indispensabile condizione per il riconoscimento del medesimo valore dell’originale o della copia conforme da cui è tratta [55].
Con l’art. 16-undecies, invece, il legislatore prendeva chiara posizione sulle modalità di attestazione, distinguendo a seconda che la stessa attenesse ad una copia analogica ovvero informatica.
Nel primo caso, essa doveva apporsi in calce o a margine della copia o su foglio separato, che fosse però congiunto materialmente alla medesima.
Quella invece riferita ad una copia informatica era inserita nel medesimo documento informatico (comma 2), ovvero, alternativamente, su un documento informatico separato, contenente «l’indicazione dei dati essenziali per individuare univocamente la copia a cui si riferisce» (comma 3) e allegato al messaggio PEC mediante il quale la copia stessa è depositata telematicamente.
Se la copia informatica era destinata alla notifica, l’attestazione di conformità doveva invece essere inserita nella relazione di notificazione.
Già nella formulazione antecedente alla conversione, quindi, scompariva il richiamo alla “impronta” e al “riferimento temporale” del d.p.c.m. 13 novembre 2014, sulla cui applicabilità al PCT, come detto, non erano mancate osservazioni critiche [56], sebbene il testo continuasse a rimanere almeno in parte oscuro attesa la mancanza di ogni indicazione utile all’individuazione dei “dati essenziali”.
È però con le modifiche apportate in sede di conversione del d.l. n. 83 del 2015 che il legislatore più significativamente incide sul regime delle attestazioni di conformità e, per l’effetto, su quello delle notificazioni telematiche [57].
Nella sua attuale formulazione, infatti, l’art. 16-undecies prevede che «Quando l’attestazione di conformità prevista dalle disposizioni della presente sezione, dal codice di procedura civile e dalla legge 21 gennaio 1994, n. 53, si riferisce ad una copia analogica, l'attestazione stessa è apposta in calce o a margine della copia o su foglio separato, che sia però congiunto materialmente alla medesima.
Quando l'attestazione di conformità si riferisce ad una copia informatica, l’attestazione stessa è apposta nel medesimo documento informatico.
Nel caso previsto dal comma 2, l’attestazione di conformità può alternativamente essere apposta su un documento informatico separato e l’individuazione della copia cui si riferisce ha luogo esclusivamente secondo le modalità stabilite nelle specifiche tecniche stabilite dal responsabile per i sistemi informativi automatizzati del Ministero della giustizia. Se la copia informatica è destinata alla notifica, l’attestazione di conformità è inserita nella relazione di notificazione».
Si impone, da subito, all’attenzione dell’interprete il riferimento alle emanande specifiche tecniche.
Sé è certamente vero che con le modifiche apportate in sede di conversione il legislatore sembra aver eliminato ogni ragionevole dubbio sull’applicabilità del d.p.c.m. 13 novembre 2014 eleggendo quelle di prossima elaborazione a uniche modalità impiegabili («[…] esclusivamente […]») per le attestazioni, lo è anche la considerazione per cui il nuovo dettato genera non poche difficoltà interpretative (e soprattutto operative) se combinato con il vigente disposto dell’art. 3-bis l. n. 53 del 1994 (anch’esso modificato dalla novella in esame) ai sensi del quale «quando l’atto da notificarsi non consiste in un documento informatico, l’avvocato provvede ad estrarre copia informatica dell’atto formato su supporto analogico, attestandone la conformità con le modalità previste dall’articolo 16-undecies del decreto legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221».
In effetti, l’art. 3-bis l. n. 53 del 1994 prevede che l’attestazione sia inserita nella relata di notificazione, quale «documento informatico separato, sottoscritto con firma digitale ed allegato al messaggio di posta elettronica certificata».
Tale natura, evidentemente, dovrebbe giustificare l’applicabilità del 3° comma dell’art. 16-undecies d.l. n. 179 del 2012 e conseguentemente comportare, per lo meno in attesa delle specifiche della DGSIA (non rinvenendosi alcuna disposizione al riguardo nemmeno nel provvedimento del 16 aprile 2014), l’impossibilità di procedere per via digitale alla notifica di copie informatiche necessitanti di attestazione di conformità [58].
6.2. La procura alle liti scansionata.
Resterebbe invece sottratta ai corollari del descritto percorso interpretativo la procura rilasciata al difensore su supporto cartaceo ai sensi dell’art. 83 c.p.c.
Tale conclusione, che consente di conservare inalterata la possibilità di notificare atti nativi digitali (ad esempio, una citazione) a cui sia congiunta la procura scansionata, pare trovare logico fondamento nel quadro normativo.
L’art. 83 c.p.c. prevede infatti che «se la procura alle liti è conferita su supporto cartaceo, il difensore che si costituisce attraverso strumenti telematici ne trasmette la copia informatica autenticata con firma digitale».
Ai sensi dell’art. 18, 5° comma, d.m. n. 44 del 2011, inoltre, la procura si considera apposta in calce all’atto cui si riferisce non solo quando sia stata originata come documento informatico, ma pure quando sia stata rilasciata «su foglio separato del quale è estratta copia informatica, anche per immagine».
In altri termini, nessuna disposizione sembra fondare la necessità di apporre l’attestazione di conformità alla procura scansionata (e dunque copia informatica), essendo questa autenticata già con la sottoscrizione digitale del difensore.
Con riferimento ai poteri di autentica dell’avvocato, occorre inoltre evidenziare la differente formulazione degli artt. 83, comma 3, c.p.c. e art. 10 d.P.R. n. 123 del 2001, recante il Regolamento sul processo telematico.
Il codice di rito infatti non effettua alcun richiamo alla funzione di asseverazione di conformità all’originale mediante sottoscrizione con firma digitale, limitandosi alla previsione del potere di autentica.
Si tratta di attività differenti che, sebbene riconducibili ad un’unica finalità certificatrice, presentano presupposti, e soprattutto funzioni, non equivalenti.
Ai sensi dell’art. 2703 c.c. l’autenticazione consiste nell’attestazione da parte del pubblico ufficiale che la sottoscrizione è stata apposta in sua presenza, previo accertamento dell’identità della persona che sottoscrive.
Lo scopo sotteso a tale previsione, e riconducibile all’identificazione certa del soggetto agente di un determinato atto, esce confermata anche dal cod. amm. dig. che all’art. 1 sviluppa la procedura di validazione del documento informatico attraverso l’associazione di dati informatici relativi all’autore o alle circostanze, anche temporali, della redazione.
L’art. 10 d.P.R. n. 123 del 2001 invece affida al difensore un potere certificativo più ampio, esteso alla dichiarazione dell’esistenza dell’originale cartaceo e tale da renderne superflua la produzione processuale [59].
Tale antinomia potrebbe superarsi facendo applicazione della già evidenziata regola della “congiunzione telematica” che sembra aprire allo schema della procura digitale presunta [60].
L’apposizione della firma digitale del difensore sulla busta contenente l’atto e la procura, in effetti, potrebbe elevarsi ad atto certificativo dell’esistenza del mandato e del suo valido rilascio [61].
D’altronde le caratteristiche tecniche della firma digitale e la presenza del certificato qualificato rilasciato dal fornitore del dispositivo di sottoscrizione sembrano già sufficienti a garantire l’identificazione certa del soggetto firmatario, senza necessità di ulteriori autentiche.
Né potrebbe diversamente sostenersi che l’attestazione di autenticità del difensore non “copra” la sola autografia ma assolva piuttosto alla funzione della individuazione fisica del sottoscrivente.
Tale soluzione infatti, obbligando alla apposizione contestuale (o quasi) delle firme, finirebbe per paralizzare le principali potenzialità collegate all’uso dei dispositivi di sottoscrizione elettronica, esponendosi altresì a critiche giuridiche e tecniche.
Manca in effetti l’obbligo normativo dell’avvocato alla sottoscrizione per autentica contestuale ovvero resa solo a seguito di ricezione personale della procura sottoscritta dalla parte assistita [62].
Inoltre, nessuna rilevanza probatoria sarebbe comunque attribuibile a qualsiasi eventuale indicazione temporale fornita all’atto della firma digitale, potendosi garantire la contestualità delle sottoscrizioni solo con il ricorso al sistema della marcatura temporale.
La stessa giurisprudenza di legittimità pare offrire sostegno a tali considerazioni, precisando che l’art. 83, comma 3, c.p.c., nella parte in cui richiede la certificazione da parte del difensore della autografia della sottoscrizione del conferente, deve ritenersi osservato, senza possibilità di operare distinzioni in riferimento agli atti di impulso, ovvero di costituzione, concernenti il giudizio di primo grado ed il giudizio di impugnazione, «sia quando la firma del difensore si trovi subito dopo detta sottoscrizione, con o senza apposite diciture (come «per autentica», o «vera»), sia quando tale firma del difensore sia apposta in chiusura del testo del documento nel quale il mandato si inserisce».
Altrimenti detto, «la certificazione dell’autografia della sottoscrizione del conferente è assicurata, sia per la procura a margine che per la procura in calce, dall’unica firma con la quale il difensore, avvalendosi della procura, da paternità all’atto processuale», e tale attestazione può essere contestata soltanto mediante la proposizione di querela di falso, in quanto concernente una attestazione resa dal difensore nell’espletamento della funzione sostanzialmente pubblicistica demandatagli dalla norma processuale [63].
6.3. I duplicati informatici.
Quanto osservato in merito ai nuovi limiti alle notifiche telematiche resta, ad ogni modo, riferibile alle sole copie informatiche, e non interessa invece anche la categoria dei duplicati, atti cioè totalmente indistinguibili dall’originale in quanto formati, ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. i-quinquies, cod. amm. dig., dalla stessa sequenza di valori binari (e quindi essi stessi originali) e pertanto non necessitanti di alcuna forma di attestazione di conformità.
Per essi, quindi, il difensore potrà procedere all’estrazione dal fascicolo informatico senza dovere apporre alcuna dichiarazione né nella relata né in altra parte del documento informatico.
Resta piuttosto da verificare se sia possibile qualificare come duplicato informatico anche il documento non nativo digitale ma ottenuto dalla scansione di un originale cartaceo, come tipicamente accade per i provvedimenti giudiziari.
Si pensi quindi al caso della sentenza redatta e firmata in cartaceo e caricata nel fascicolo telematico previa scansione.
Ai sensi dell’art. 23-bis cod. amm. dig. «i duplicati informatici hanno il medesimo valore giuridico, ad ogni effetto di legge, del documento informatico da cui sono tratti».
Inoltre, l’art. 16-bis, comma 9-bis, d.l. n. 179 del 2012, riconosce alle «copie informatiche, anche per immagine, di atti processuali di parte e degli ausiliari del giudice nonché dei provvedimenti di quest’ultimo, presenti nei fascicoli informatici o trasmessi in allegato alle comunicazioni telematiche» il medesimo valore giuridico dell’originale di provenienza, «anche se prive della firma digitale del cancelliere […]», e attribuisce al difensore il potere di estrarne copia con modalità telematiche ai fini della relativa attestazione di conformità.
Se, quindi, le scansioni dei provvedimenti cartacei equivalgono all’originale anche in mancanza della firma del cancelliere e il difensore può estrarre loro duplicati, il sillogismo appare di rapida costruzione.
In altri termini, se il duplicato ha lo stesso valore del documento da cui è tratto ex art. 23-bis cod. amm. dig. e le stesso può dirsi pure per le copie per immagine presenti nel fascicolo informatico, [64] il duplicato di una copia per immagine (che, come detto, equivale all’originale cartaceo) ha, nel rispetto della proprietà transitiva di comune esperienza, lo stesso valore giuridico dell’originale, sicché nessuna distinzione tra i duplicati presenti nei fascioli dovrebbe risultare ragionevole [65].
La descritta interpretazione sembrerebbe prevalente anche sulle perplessità sollevate da chi ha ritenuto che la stessa potesse finire per forzare il dato normativo e la sua originaria finalità, atteso che la disposione, che si colloca temporalmente prima della introdotta possibilità di scaricare dal fascicolo digitale il duplicato informatico, così intesa finirebbe, nei fatti, per riconoscere il valore dell’originale al «duplicato tecnico di una copia cartacea, mischiando le definizioni tecniche e quelle giuridiche in modo confuso» [66].
7. Conclusioni.
Non c’è dubbio che le novità introdotte in materia di processo civile telematico dal d.l. n. 83 del 2015 e, in ultimo, dalla l. n. 132 del 2015 mirino ad offrire soluzione a problemi operativi già a gran voce denunciati. Resta da verificare fino a che punto l’obiettivo possa dirsi realizzato.
Le nuove disposizioni, infatti, anche a causa delle difficoltà interpretative ad esse sottese, finiscono per imporre soluzioni prudenziali di sostanziale arresto del percorso di informatizzazione del processo.
Si pensi al testo normativo prodotto in tema di attestazioni di conformità che continua a far rinvio a nuove ed emanande specifiche alimentando il tema della “riforma perenne” oltre che il dubbio dell’applicabilità, almeno temporanea, del d.p.c.m. 11 novembre 2014 [67], che a sua volta alimenta quello della nullità conseguente al mancato rispetto delle introdotte prescrizioni.
Il tutto, non senza forti perplessità.
La giurisprudenza di legittimità ha infatti da tempo chiarito che «l’invalidità di un atto processuale è costituita dalla maggiore o minore difformità dello stesso rispetto al modello che lo prevede e, in funzione del grado di difformità, si parla di irregolarità, nullità o inesistenza.
L’irregolarità è caratterizzata da una minima difformità rispetto al modello, che non pregiudica la validità dell’atto processuale (Cass.. 26 agosto 1997 n. 8000), nè incide sui requisiti indispensabili per il raggiungimento dello scopo dell’atto (Cass. 6 maggio 1996 n. 4191).
La nullità è costituita da una difformità dell’atto rispetto al modello tale da non impedire il passaggio in giudicato della sentenza che ne sia affetta ove non fatta valere con la impugnazione.
La inesistenza è ravvisata nelle ipotesi in cui l’atto processuale manca totalmente degli estremi e dei requisiti essenziali per la sua qualificazione come atto del tipo o della figura giuridica considerati, ovvero se sia inidoneo non solo a produrre gli effetti processuali propri degli atti riconducibili a detto tipo o figura, ma persino ad essere preso in considerazione sotto il profilo giuridico» [68].
Su queste premesse, sembra ragionevole ritenere, anche alla luce dei già richiamati principi di cui agli artt. 121 e 156 c.p.c., che la notifica di una copia informatica effettuata in difformità delle nuove disposizioni, ma conformemente alle regole tecniche di cui al citato d.p.c.m., dovrebbe, al più, ritenersi irregolare, ma non certamente invalida.
D’altronde, è lo stesso art. 23-bis cod. amm. dig. a riconoscere alle copie e agli estratti del documento informatico il medesimo valore giuridico dell’originale se attestati come conformi da un pubblico ufficiale ovvero anche quando, pur in assenza di attestazione formale, la conformità non sia disconosciuta.
In altri termini, la copia formata nel rispetto delle regole tecniche di cui all’art. 71 cod. amm. dig. equivale all’originale anche in mancanza di attestazione e ciò sembra argomento utile a concludere che la sua mancanza non possa costituire causa di invalidità dell’atto.
Sotto altra prospettiva, la novella lascia ancora insoddisfatte alcune istanze.
Senza indugiare sulla sindacabilità della scelta di introdurre solo adesso (e non già con la prima formulazione del d.l. n. 179 del 2012) la facoltatività del deposito telematico degli atti introduttivi, quale esempio lampante di una produzione spesso approssimativa e non lungimirante, resta infatti il tema, certamente delicato, dei rapporti tra la nuova disciplina e la normativa regolamentare.
Le fonti secondarie applicabili al PCT, sebbene non espressamente abrogate, risentono di un ridimensionamento sensibile.
Esse, in effetti, pur conservando la propria rilevanza quali fonti di definizione delle dorsali architettoniche sottese al progetto della giustizia digitale, sono sempre più spesso superate, anche tacitamente come nell’esaminato caso dell’art. 35 d.m. n. 44 del 2011.
In un quadro normativo complicato dal ricorso alla decretazione d’urgenza il passo necessario e non più procrastinabile sembra essere quindi quello della “risistemazione” delle fonti attraverso la predisposizione di un testo unico che metta ordine tra quelle introdotte e quelle abrogate e che faciliti l’approccio allo studio di un settore reso sempre più inesplorabile da interventi continui ma mai risolutivi per la loro chiarezza.
È il movimento di una giostra non più gradita e che a distanza di circa 15 anni dal primo decreto in materia di PCT (d.P.R. n. 123 del 2001) occorre arrestare!
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Il presente scritto è dedicato, con riconoscenza e infinita ammirazione, al Prof. Nicola Picardi e verrà inserito negli Studi in Suo onore.
Riferimenti bibliografici:
[1] Per un esame della recente produzione normativa in tema di PCT si rinvia, tra gli altri, a G.G. POLI, Profili teorico-pratici del deposito degli atti nel processo civile telematico, in Foro it., 2014, V, 137 ss.; A.D. DE SANTIS-G.G. POLI, Il processo civile telematico alla prova dell’obbligatorietà, in Foro it., 2013, V, 109 ss.; B. FABBRINI, Il processo civile telematico, tra interpretazione del vigente e future evoluzioni, in Giusto proc. civ., 2013, 271 ss.; F. DE VITA, Il processo esecutivo telematico, in Il processo esecutivo - Liber amicorum Romano Vaccarella, Torino, 2014, 65 ss.
[2] Il tema della velocizzazione delle dinamiche processuali, quale principio sotteso alla riforme per la giustizia digitale, pare essere colto anche da Trib. Milano 3 marzo 2015, in www.lanuovaproceduracivile.it, che ha chiarito, non senza però implicitamente dimostrare un “incoerente attaccamento” alle copie di cortesia, che «una estesa comparsa conclusionale […] poco si concilia coi principi di speditezza del giudizio e col processo civile telematico, nel quale, laddove non vengano depositate le copie cartacee, appaiono quanto mia graditi ed opportuni atti più concisi». Sul tema si legga anche R. GIORDANO, Processo esecutivo e PCT: tutte le novità (d.l. 83/2015, conv. con mod., in l. 132/2015), Milano, 2015, 98, che esclude il carattere precettivo della regola della sinteticità degli atti di parte e dei provvedimenti del giudice da depositare telematicamente, pur evidenziandone l’imprescindibilità ai fini di un «corretto funzionamento del sistema del processo civile telematico […] onde limitare la necessità di stampare gi stessi dal sistema informatico onde poterne leggere con maggiore attenzione il contenuto». La valorizzazione di tale preoccupazione sembra emergere anche dall’art. 4 della circolare ministeriale del 23 ottobre 2015 che, sulla stessa linea, precisa che «in considerazione dell’eccezionalità del momento […] dovrà essere sempre assicurata da parte della cancelleria, ove il giudice ne faccia richiesta, la stampa di atti e documenti depositati telematicamente, soprattutto laddove si tratti di ‘file’ di grandi dimensioni».
[3] V. infra, § 4.
[4] Sul tema, M. GORGA, La Giustizia Digitale nella previsione del governo, in www.dimt.it; F. CARPI, L'avvocato telematico ed i tentativi per eliminare l'arretrato giudiziale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2014, 1612, che indica nella diffusione del processo civile telematico un possibile volano per l’efficientamento del sistema. Positivo è anche il giudizio di R. CAPONI, Il processo civile telematico tra scrittura e oralità, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2015, 306 per cui «il processotelematico dischiude la prospettiva di procedimenti di risoluzione delle controversie non disciplinati da una legge statale e non legati ad un determinato territorio e quindi particolarmente adatti ad offrire un rimedio ai conflitti in un mondo caratterizzato dalla progressiva internazionalizzazione e globalizzazione dei rapporti sociali ed economici».
[5] Per P. DELLA VEDOVA, La deriva telematica nel processo civile, in www.judicium.it, la distinzione tra atti endoprocedimentali ed atti instaurativi del giudizio appare il “risultato di un fraintendimento”; essa, infatti, sarebbe la conseguenza di un’impostazione metodologica fondata sulla considerazioni dei soli procedimenti aperti con ricorso, nei quali può effettivamente cogliersi la differenza tra il momento della proposizione della domanda (per mezzo del deposito del ricorso) e quello di “interposizione” (attraverso la notifica dell’atto e del pedissequo provvedimento). Nei giudizi avviati con citazione, «quale atto che contiene in sé sia la proposizione della domanda, che l’instaurazione del contraddittorio e, dunque, l’interposizione del procedimento», invece, tale classificazione finirebbe per svuotarsi di significato giuridico.
[6] Per la giurisprudenza non sono atti introduttivi, con le ragionevoli conseguenze in termini di deposito digitale, l’istanza di correzione ex art. 187 c.p.c. (Cass. civ. 6 dicembre 2000, n. 15508 per cui «Il procedimento di correzione della sentenza […] non costituisce un nuovo giudizio o una nuova fase processuale rispetto a quella in cui la sentenza è stata emessa, ma è un mero incidente dello stesso giudizio, diretto ad identificare con la sua corretta espressione grafica l’effettiva volontà del giudice che già risulta espressa nella sentenza, mediante la eliminazione dei difetti di formulazione esteriore dell’atto scritto, la cui incongruenza, rispetto al concetto contenuto nella sentenza, appaia manifesta sulla base della sola lettura del testo del provvedimento giurisdizionale») e quella di riassunzione ex art. 307 c.p.c. (Cass. civ. 27 ottobre 2011, n. 22436 per cui «l’atto di riassunzione non introduce un nuovo procedimento ma esplica esclusivamente la funzione di consentire la prosecuzione di quello già pendente»). In linea anche Trib. Torino, 26 marzo 2015 (decr.) e 31 marzo 2015, in www.processociviletelematico.it.
[7] La norma deve leggersi in combinato con l’art. 51, comma2, d.l. 25 giugno 2008, n. 112 (convertito con modifiche dalla l. 6 agosto 2008, n. 133 ed inciso dal d.l. 29 dicembre 2009, n. 193, convertito dalla l. 22 febbraio 2010, n. 24) che affidava al Ministero della Giustizia, sentiti l’Avvocatura generale dello Stato, il Consiglio Nazionale Forense ed i Consigli dell’Ordine degli avvocati interessati, l’adozione di decreti di natura non regolamentare per l’accertamento della funzionalità dei servizi di comunicazione e l’individuazione degli uffici giudiziari pronti per l’applicazione della relativa normativa.
[8] Cfr. B. BRUNELLI, Le prime (superabili) difficoltà di funzionamento del processo civile telematico, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2015, 261 ss.; R. BELLÈ, Prime note su p.c.t. e processo di cognizione, in www.judicium.it.
[9] Trib. Foggia, 10 aprile 2014, in www.quotidianoguiridico.it.
[10] Trib. Torino, 15 luglio 2014, in www.ilcaso.it.
[11] Trib. Lodi, 5 novembre 2014, in www.jusdicere.it.
[12] Trib. Padova, 28 agosto 2014 (ord.), in www.quotidianogiuridico.it; Trib. Padova, 10 febbraio 2015, in www.lanuovaproceduracivile.it.
[13] A tali fini il Tribunale evidenzia pure l’assenza nella formulazione degli artt. 166 e 167 c.p.c. di qualsiasi riferimento al PCT e, soprattutto, la funzionalizzazione del deposito cartaceo, perché utile alla verifica della cancelleria dei documenti offerti in comunicazione, alla regolare instaurazione del contraddittorio; in questi termini, anche Cass. civ. 21 maggio 2013, n. 12391.
[14] Cass. civ. 4 marzo 2009, n. 5160.
[15] Cfr., tra gli altri, F. NOVARIO, Processo civile telematico: lineamenti pratici, Torino, 2014, 141.
[16] Sulla nozione di inammissibilità, A. CERINO CANOVA-C. CONSOLO, Inammissibilità ed improcedibilità, in Enc. giur., XVI, 1993, 1 ss.; M. FORNI, Orientamenti in tema di improponibilità, inammissibilità, improcedibilità, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1981, 1321 ss.
[17] A queste ipotesi si aggiunga, in vero, anche quella dell’azione di classe disciplinata dall’art. 140-bis del codice del consumo. In tema, L.P. COMOGLIO, L’azione di classe italiana: valutazioni di efficienza – [The Italian class action: efficiency’s evaluations], in Dir. pubbl. comp. eur., III, 2012, 1114 ss.; R. CAPONI, Azione di classe: il punto, la linea e la discontinuità, in Foro it., IV-V, 2012, 149 ss.; C. CONSOLO-G. COSTANTINO, Prime pronunce e qualche punto fermo sull’azione di risarcitoria di classe, in Corr. giur., VIII, 2010, 988 ss.; C. PUNZI, L’azione di classe a tutela dei consumatori e degli utenti, in Riv. dir. proc., 2010, 253 ss.; M. BOVE, Profili processuali dell’azione di classe, in Giusto proc. civ., IV, 2010, 1015 ss.
[18] Cfr. Trib. Milano, 5 marzo 2014, n. 3115, in www.altalex.com. Conforme, Trib. Genova, 1 dicembre 2014, in www.ilcaso.it.
[19] Tale soluzione pare essere accolta anche dal Trib. Perugia, 17 gennaio 2014 (ord.), in www.lanuovaproceduracivile.it, che per l’ipotesi del difensore che abbia provveduto al deposito telematico della comparsa conclusionale, sebbene non previsto dal decreto DGSIA, e ricevuto immediatamente le prime tre notifiche e solo dopo la chiusura del periodo di sospensione feriale la comunicazione (intempestiva) del rifiuto del deposito, ha ritenuto legittimo l’affidamento prestato dall’avvocato sull’apertura della procedura e per l’effetto disposto la rimessione in termini per il deposito cartaceo della comparsa.
[20] Trib. Bologna, 16 luglio 2014 (ord.); Trib. Udine, 28 luglio 2014; Trib. Vercelli, 4 agosto 2014 (ord.); Trib. Brescia, 7 ottobre 2014, n. 918 (ord.); Trib. Milano, 7 ottobre 2014 (ord.); Trib. Forlì 29 ottobre 2014, tutte in www.quotidianogiuridico.it.
[21] Amplius, N. PICARDI, Manuale del processo civile, Milano, 2013, 267 ss.
[22] In senso positivo, App. Bologna 24 dicembre 2014, in www.lanuovaproceduracivile.it, che sostiene che «l’atto telematico rispetta i requisiti di forma previsti dal codice di rito civile – sia perché l’art. 121 c.p.c. afferma il principio di libertà delle forme sia perché l’atto informatico è ora disciplinato espressamente da norme di legge – e che l’invio telematico, in sostituzione del dovuto deposito in cancelleria, costituisce un vizio di nullità che resta sanato, se ed in quanto l’atto abbia raggiunto il suo scopo ai sensi dell’art. 156, comma 3°, c.p.c.», ricostruito nel caso concreto nel far pervenire a conoscenza del giudice l’impugnazione entro il termine fissato ex lege. La Corte prosegue, quindi, evidenziando come «tale orientamento muove dal presupposto che anche il procedimento di deposito dell’atto si sia perfezionato nelle modalità previste dalla legge per l’invio telematico. L’art. 16 bis, al comma 7, stabilisce che il deposito con modalità telematiche si ha per avvenuto nel momento in cui viene garantita la ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di posta elettronica certificata del ministero della giustizia, giacché è tale ricevuta che, secondo la previsione dell’art. 13 del D.M. n. 44 del 2011, attesta la ricezione del documento da parte del dominio giustizia. In concreto, il meccanismo di invio e deposito in forma telematica contempla un primo passaggio che ha luogo tra il soggetto privato e il suo gestore di posta elettronica incaricato di trasmettere il documento al dominio giustizia, e, perciò, al gestore di p.e. certificata del ministero della giustizia, e un secondo passaggio, pure attestato mediante ricevuta trasmessa in formato elettronico, dal gestore di p.e. del soggetto depositante a quello del ministero; segue, poi, una ulteriore attestazione proveniente dalla cancelleria e rivolta al soggetto depositante per dare notizia dell’avvenuto deposito telematico. È, dunque, il perfezionamento del secondo passaggio che attesta il raggiungimento dello scopo dell'atto, avente l'effetto sanante della nullità derivante dal difetto di forma, giacché è in detto momento che l'atto si considera comunque depositato, con la conseguenza, riferita al deposito di un ricorso, che esso è posto a conoscenza del giudice».
[23] Contra, Trib. Bergamo, 25 marzo 2015 (ord.), in www.lanuovaproceduracivile.it.
[24] Cfr. Trib. Roma, 24 gennaio 2015, n. 80750, in www.ilcaso.it, che ha ritenuto la DGSIA priva, per legge e per regolamento, «del potere di individuare il novero degli atti depositabili telematicamente oppure la tipologia di procedimento rispetto alla quale esercitare la facoltà di deposito digitale», altresì evidenziando l’assenza di alcuna norma che preveda «la sanzione processuale di inammissibilità del deposito dell’atto introduttivo o di costituzione in via telematica», così concludendo con l’affidamento al giudice del potere di «verificare l’idoneità del suddetto deposito al raggiungimento dello scopo cui è deputato».
[25] In effetti, proprio l’individuazione delle modalità di deposito del reclamo cautelare ha costituito occasione di vivace dibattito nella giurisprudenza, sintomo chiaro di una ancora non sopita attività di interpretazione del dettato normativo.
Da un lato, [Trib. Asti, 23 marzo 2015 (ord.), in www.processociviletelematico.it], infatti, si è sostenuto che il reclamo introduce un procedimento nuovo e distinto, con la finalità di ottenere una nuova pronuncia sulla domanda originaria e con effetti sostitutivi del provvedimento impugnato. Esso, d’altronde, implica la costituzione del reclamante, la fissazione di una prima udienza, la notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza alla controparte, e, perciò, anche se proponibile da chi sia già costituito nel giudizio cautelare, comporta l’instaurazione di un processo diverso e autonomo. Da ciò deriverebbe la sottrazione delle parti all’obbligo del deposito telematico, ferma in ogni caso, e quindi pure a fronte della ricostruzione del reclamo quale atto endoprocedimentale, l’ammissibilità del suo deposito in forma cartacea, in ragione del principio della libertà delle forme e del raggiungimento dello scopo.
Dall’altro (Trib. Torino, 6 marzo 2015, in www.lanuovaprocediracivile.it e Trib. Foggia 15 maggio 2015, in www.avvocatotelematico.it), però, se ne è affermata la natura di atto endoprocessuale, ricavandone l’ammissibilità del solo deposito telematico. La costituzione nel giudizio cautelare, in questo senso, varrebbe anche per la fase di reclamo, essendo il medesimo rivolto proprio all’emanazione di un provvedimento con effetti sostitutivi. Si tratterebbe quindi di momenti connessi e funzionali all’eventuale giudizio di merito. Né diversamente dovrebbe concludersi in ragione della assegnazione di diversi numeri di ruolo e della previsione di un doppio obbligo di versamento del contributo unificato, trattandosi, infatti, di circostanze rilevanti ai soli fini organizzativi e tributari e non anche processuali. Dalla così ricostruita unitarietà del giudizio cautelare deriverebbe anche l’erroneità del rinvio agli artt. 121 e 156 c.p.c. Il “deposito”, infatti, è «un’attività materiale priva di requisito volitivo autonomo» (così, Cass. civ., sez. un., 4 marzo 2009, n. 5160) non qualificabile, quindi, come “atto del processo” ai sensi delle richiamate norme. Ciò ne impedirebbe l’applicabilità, anche analogica, aprendo conseguentemente, alla «inammissibilità dei depositi degli atti endoprocessuali effettuati con modalità diverse da quella telematica».
[26] Così, N. GARGANO, L’atto introduttivo e il deposito, in www.lanuovaproceduracivile.it. In giurisprudenza cfr. Trib. Torino, 18 febbraio 2014, inedita, che in materia di separazione e divorzio, dopo avere precisato che ai sensi dell’art. 708, comma 2, c.p.c., «la memoria integrativa deve avere il contenuto di cui all’art. 163 terzo comma numeri 2), 3), 4), 5) e 6)», ha concluso, valorizzando la c.d. concezione bifasica della procedura, per la natura di atto di citazione della suddetta memoria e conseguentemente escluso la stessa dagli atti di cui all’elenco di autorizzazione al deposito telematico ex art. 35, comma 1, d.m. n. 44 del 2011.
[27] Cfr. N. PICARDI, Manuale del processo civile, cit., 268, il quale chiarisce che il concetto di nullità per inosservanza di forme è un «retaggio della vecchia concezione che considerava la procedura un diritto formale. Oggi deve, piuttosto, ritenersi che ci troviamo in presenza di forma in senso lato, come complesso dei requisiti minimi dell’atto, comprendendovi anche il contenuto dello stesso, nell’accezione, quindi, di forma-contenuto».
[28] In questi termini, Trib. Brescia n. 918 del 2014, cit.
[29] La proposta FIIF è disponibile all’indirizzo www.fiif.it.
[30] La circolare ministeriale del 28 ottobre 2014 è disponibile su www.giustizia.it.
[31] Il riferimento è, ad esempio, alla c.d. comparsa di costituzione di nuovo difensore.
La formulazione dell’art. 16-bis d.l. n. 179 del 2012, nel far richiamo al deposito degli atti dei «difensori delle parti precedentemente costituite», potrebbe in effetti suggerire l’idea di escludere dal campo applicativo della norma, e quindi dell’operatività delle forme digitali, tutti i depositi che realizzino una “costituzione in giudizio”.
Tale soluzione, in vero, anche a prescindere dalle novità in commento, non sembra compatibile con l’effettiva natura dell’atto di costituzione di un nuovo difensore. L’art. 16-bis utilizza, infatti, il concetto di “costituzione in giudizio” come rivolto alle parti, sicché ove queste siano già costituite il loro nuovo difensore potrebbe di certo depositare in via telematica la comparsa di costituzione, che rileverebbe per il solo professionista e non anche per le parti dal medesimo assistite.
D’altronde la descritta interpretazione appare maggiormente in linea pure con il dettato dell’art. 83 c.p.c. che si limita a prevedere la “nomina del nuovo difensore” (senza nemmeno far ricorso al concetto di costituzione) e dell’art. 85 c.p.c. che stabilisce l’inefficacia nei confronti dell’altra parte della rinuncia e della revoca dell’incarico fino alla nuova nomina.
[32] Il regime del deposito telematico di cui al nuovo e citato art. 16-bis, in effetti, non libera allo stato le cancellerie dalla necessità di formare e custodire i fascicoli cartacei secondo le modalità previste dall’art. 9 d.m. n. 44 del 2011 che, pur precisando che «la tenuta e conservazione del fascicolo informatico equivale alla tenuta e conservazione del fascicolo d’ufficio su supporto cartaceo”, fa salvi “gli obblighi di conservazione dei documenti originali unici su supporto cartaceo previsti dal codice dell’amministrazione digitale e dalla disciplina processuale vigente».
Pure a tacere delle ipotesi di cui all’art. 16-bis, comma 9, d.l. n. 179 del 2012, ai sensi del quale il giudice può ordinare il deposito di copia cartacea di singoli atti e documenti per ragioni specifiche, in effetti, anche dopo l’entrata in vigore del nuovo esaminato regime, il deposito telematico degli atti di costituzione in giudizio e dei documenti ad essi allegati, costituisce per le parti una mera facoltà, al pari di quella riconosciuta al giudice di depositare in formato cartaceo i propri provvedimenti (con l’eccezione di quelli monitori), salvo l’onere della cancelleria di acquisizione di una copia informatica.
[33] Cfr. infra, § 6.
[34] Il tema del regime giuridico applicabile all’atto processuale telematico depositato in formato pdf-immagine non è estraneo alla giurisprudenza di merito che già ha avuto occasione di dichiarare lo stesso inammissibile perché mancante di «requisiti genetici indispensabili» (Trib. Roma, 13 luglio 2014 ord., in www.iusexplorer.it/Dejure) ovvero nullo, ai sensi dell’art. 156, comma 2, c.p.c., in quanto inidoneo al suo scopo principale, inteso quale quello di «rendere l’atto immediatamente intelligibile a tutti gli attori del processo e rendere l’atto navigabile ad ogni attore del processo con l’utilizzo degli elementi dell’atto, senza la necessità di ricorrere a programmi di riconoscimento ottico dei caratteri» (Cfr. Trib. Livorno, 25 luglio 2014 ord., in www.iusexplorer.it/Dejure). La corretta definizione della questione, evidentemente, impone un nuovo richiamo ai concetti di libertà delle forme e raggiungimento dello scopo previsti dagli artt. 121 e 156 c.p.c. (per i quali si rinvia al § 2) che una più attenta giurisprudenza sembra in vero aver già valorizzato finendo per “derubricare” la violazione delle specifiche a mera irregolarità, sanata automaticamente per raggiungimento dello scopo (Trib. Vercelli 4 agosto 2014, già cit.) ovvero tramite rinnovazione del deposito (così, Trib. Udine, 28 luglio 2014, cit.).
[35] La soluzione è oggi confermata anche dalla circolare del 23 ottobre 2015 che con l’art. 4 ha precisato anche che laddove tali copie e documenti vengano comunque «materialmente inseriti nel fascicolo cartaceo, il cancelliere non dovrà apporvi il timbro di deposito o altro equivalente, onde non ingenerare confusione».
[36] Cfr. Trib. Milano 15 gennaio 2015, n. 534, in www.iusexplorer.it/Dejure, che in materia di opposizione allo stato passivo ha affermato che «se la parte opponente ha depositato la memoria conclusiva autorizzata solo in forma telematica, senza la predisposizione delle copie cartacee di cortesia (di cui al Protocollo d’Intesa tra il Tribunale di Milano e l’Ordine degli avvocati di Milano), ciò rende più gravoso per il collegio esaminarne le difese e quindi tale circostanza comporta l’applicazione dell’aggravante di cui all’art. 96, comma 3, c.p.c.».
[37] Cfr. N. GARGANO, Processo civile telematico e copia di cortesia. Quali sono le conseguenze della scortesia?, in www.dirittoegiustizia.it.
[38] Sul tema, si legga L. BREGGIA, Giustizia bene comune: il ruolo degli osservatori sulla giustizia civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2015, 315 ss.
[39] Cfr. G. MARINAI, Dal 30 giugno il Processo civile diventa telematico, su www.questionegiustizia.it.
[40] Tra le altre, cfr. Trib. Milano 12 gennaio 2015, in www.dejure.it, che ha chiarito che il presidente del tribunale – dietro istanza di parte – può autorizzare il deposito degli atti con modalità non telematiche quando i sistemi informatici del dominio giustizia non sono funzionanti e sussiste una indifferibile urgenza.
[41] Sul punto, si rinvia al comunicato stampa del 4 agosto 2015 con il quale il ministero ha chiarito che le misure organizzative anticipate dal nuovo art. 16-bis, comma 9, d.l. n. 179 del 2012 tenderanno a «una più corretta gestione delle copie cartacee che negli uffici giudiziari ad oggi vengono prodotte» dettando alle cancellerie le «regole per le modalità di acquisizione e conservazione del materiale cartaceo», con la finalità ultima di escluderne l’accettazione a prescindere dall’esistenza di eventuali protocolli interni.
[42] C. PUNZI,Le notificazioni eseguibili dagli avvocati e dai procuratori legali, in Studi in onore di Mandrioli, I, Milano, 1995, 197 ss.; G. BALENA, Facoltà di notificazioni di atti civili, amministrativi, e stragiudiziali per gli avvocati e procuratori legali, in Nuove leggi civ. comm., 1994, 723 ss.;B. BRUNELLI, Prime riflessioni intorno alla nuova legge sulle notificazioni affidate agli avvocati, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1994, 645 ss.;L. DITTRICH, La notificazione di atti ad opera di avvocati e procuratori legali, in Riv. dir. proc., 1994, 425 ss.;F. CORSINI, Le notificazioni dirette tra avvocati a mezzo fax e posta elettronica nel processo societario: validità, nullità o inesistenza?, in Giur. it., 2005, 2336 ss.;E. M. FORNER, Le notificazioni dell’avvocato, Milano, 2013, passim;A. SORBELLO,La notificazione degli atti processuali civili, in Giust. civ., IV-V, 2006, 239 ss.
[43] V. DI GIACOMO, Il nuovo processo civile telematico, Milano, 2015, 277; A. CONTALDO-M. GORGA, Il processo telematico, Torino, 2012, 210.
[44] I profili temporali della portata applicativa della suddetta disposizione sono stati di recente chiariti dalla già ricordata circolare del 23 ottobre 2015 il cui art. 15, superando l’orientamento suggerito da alcuni uffici e tendente ad escludere la facoltà e il potere di autentica in relazione agli atti e ai provvedimenti contenuti in fascicoli relativi a procedimenti instaurati prima dell’entrata in vigore dell’art. 16-bis, comma 9-bis, d.l. n. 179 del 2012, o comunque depositati in epoca anteriore, ha affermato che «un’eventuale distinzione tra procedimenti instaurati prima del 30 giugno 2014 e procedimenti iniziati successivamente non sembra fondata su alcun dato testuale né sulla ratio dell’introduzione del potere di autenticazione, che è quella di sgravare gli uffici giudiziari da attività materiali a basso contenuto intellettuale e, nel contempo, di consentire alle parti di avvantaggiarsi delle possibilità offerte dall’utilizzo dello strumento informatico”, così concludendo che il potere di autenticazione si estende “a tutti gli atti e provvedimenti contenuti nel fascicolo informatico, indipendentemente dalla data di instaurazione del procedimento o di deposito del singolo atto o documento».
[45] G.G. POLI, Processo civile telematico: le novità del d.l. n. 90/2014, in www.treccani.it.
[46] V. DI GIACOMO, Il nuovo processo civile telematico, cit., 275. In giurisprudenza, cfr. TAR Lazio 13 gennaio 2015, n. 396, in www.iusexplorer.it/Dejure, che pur sostenendo l’impossibilità di procedere alla notifica in proprio e via PEC degli atti amministrativi, a causa della (allora ancora) mancante normativa tecnica di cui all’art. 71 cod. amm. dig., ne ha invece sostenuto la configurabilità in ambito civile in forza dell’art. 18 d.m. n. 44 del 2011. Si veda anche Trib. Napoli, 17 settembre 2014 ord., in www.avvocatotelematico.it, che con riferimento alle ipotesi di estrazione da Polisweb ha ritenuto che l’art. 3-bis l. n. 53 del 1994 non sia applicabile alla notifica di atti e provvedimenti ex art. 52 d.l. n. 90 del 2014 (che si riferisce a «documenti, copie analogiche o informatiche degli atti e dei provvedimenti») poiché la lettera g) dell’art. 3-bis va letta in combinato con il dettato del 2° comma della medesima norma che, invece, limita il proprio campo applicativo alla notifica di un documento che non sia informatico. La pronuncia, apre evidentemente il delicato tema della qualificabilità degli atti estratti dai registri informatici del tribunale come “duplicati informatici” nonostante questi siano privati in fase di download della sottoscrizione digitale originariamente apposta, per il quale si rinvia a V. DI GIACOMO, Il nuovo processo civile telematico, cit., 272 e che, in vero, deve ritenersi sostanzialmente esaurito dall’inserita funzionalità che permette ai difensori di scaricare duplicati informatici in senso stretto e non più mere copie. Vedi infra.
[47] Cfr. F. TESTA, Documento informatico e PCT: cosa cambia per l’avvocato con le nuove regole tecniche, in www.ilcaso.it, 6.
[48] Esso è definito dall’allegato n. 1 al d.p.c.m. come «l’informazione contenente la data e l’ora con riferimento al Tempo Universale Coordinato (UTC), della cui apposizione è responsabile il soggetto che forma il documento».
[49] L’impronta è «la sequenza di simboli binari (bit) di lunghezza predefinita generata mediante l’applicazione alla prima di una opportuna funzione di hash».
[50] Vale a dire, «una funzione matematica che genera, a partire da una evidenza informatica, una impronta in modo tale che risulti di fatto impossibile, a partire da questa, ricostruire l’evidenza informatica originaria e generare impronte uguali a partire da evidenze informatiche differenti».
[51] In questi termini, G. VITRANI-M.A. SENOR, La multiforme essenza del documento informatico. Breve analisi sul documento informatico in ambito di processo civile telematico e riflessi in ambito di responsabilità penale, in www.ilcaso.it, 7.
[52] F. TESTA, Documento informatico e PCT, cit., 9.
[53] R. ARCELLA, Le regole tecniche sui documenti informatici e l’impatto delle stesse sulle regole del processo civile telematico, in www.avvocatotelematico.it, § 2.
[54] R. ARCELLA, Le regole tecniche, cit., § 2.
[55] Sul tema, si legga Trib. Treviso 30 giugno 2015, in www.quotidianogiuridico.it, che ha rigettato la richiesta di esecutorietà ex art. 647 c.p.c. depositata telematicamente perché ritenuta mancante dell’attestazione di conformità della copia informatica del decreto ingiuntivo notificato in modalità analogica all’originale in possesso dell’istante, come prescritta dai nuovi artt. 16-decies e 16-undecies d.l. n. 179 del 2012.
[56] Cfr. supra, § 5.
[57] Cfr. R. GIORDANO, Processo esecutivo e PCT, cit., 102.
[58] M. REALE, I poteri di autentica dei Difensori, in www.ilprocessotelematico.it; N. GARGANO, Le novità del PCT contenute nella legge di conversione del d.l. n. 83/2015, in www.dirittoegiustizia.it; F. TESTA, Le attestazioni di conformità dopo la conversione in legge del dl 83/2015: profili giuridici ed indicazioni pratiche, in www.lanuovaproceduracivile.it.
[59] A. VILLECCO, Il processo civile telematico, Milano, 2011, 161.
[60] S. GATTAMELATA, Un nuovo tassello per un processo telematico (riflessioni sul decreto del Ministero della Giustizia 13 febbraio 2001, n. 123), in Nuove leggi civ. comm., III-IV, 2001, 548; A. VILLECCO, Il processo civile telematico, cit., 164.
[61] In linea, M. DURANTE-U. PAGALLO, Manuale di informatica e diritto delle nuove tecnologie, Milano, 2012, 323. Contra, E. ZUCCONI GALLI FONSECA, La procura alle liti su supporto informatico, in G. FINOCCHIARO-F. DELFINI(diretto da), Diritto dell’informatica, Milano, 2014, 331 che critica la tesi della sufficienza della firma digitale per entrambe le funzioni (di autentica e di attestazione di conformità), sul presupposto che dal quadro normativo complessivo debba ricavarsi piuttosto la regola per cui la procura cartacea debba essere redatta secondo le disposizioni “tradizionali” a prescindere dal fatto che sia trasformata o meno in supporto elettronico.
[62] Cfr., ex multis, Cass. civ. 4 luglio 2014, n. 15348 per la quale «ai fini della prova dell’autenticità della procura alle liti, è sufficiente che il difensore certifichi l’autografia della sottoscrizione della parte, non essendo necessaria l’attestazione che la sottoscrizione sia avvenuta in sua presenza, come è invece richiesto dall’art. 2703 c.c., per l’autentica della scrittura privata da parte del pubblico ufficiale».
[63] Cfr. Cass. civ.,sez. un., 28 novembre 2005, n. 25032; in dottrina, sul tema, si legga R. MURRA, Note minime sull’efficacia del potere del difensore di certificazione della firma apposta sulla procura ad litem, in Giust. civ., I, 1994, 1514.
[64] Cfr. M. MINARDI, La notifica del duplicato informatico originato dalla scansione dopo la legge 132/2015, in www.lexform.it, che in questo senso attribuisce all’inserimento nel fascicolo informatico di un atto nativo digitale ovvero costituente copia per immagine di uno formato su supporto cartaceo valore di «attestazione implicita di conformità all’originale informatico o analogico da cui la copia è stata estratta».
[65] In questi termini, F. MINAZZI, PCT: documento informatico, duplicati e copie dopo la Legge 132/2015, in www.quotidianogiuridico.it;M. MINARDI, La notifica del duplicato, cit.
[66] Cfr. E. FERRARO-G.V.L. BONANNO, Guida pratica al d.l. 83 del 2015 convertito con legge 132 del 2015, in www.movimentoforense.it.
[67] La tesi è sostenuta da R. ARCELLA, Le attestazioni di conformità delle notifiche via pec dopo la L. 132/2015: una lettura alternativa dell’art. 16 undecies D.L. 179/2012, in www.avvocatotelematico.wordpress.com, il quale, evidenziando come l’art. 16-undecies affidi alla DGSIA l’individuazione non delle modalità di attestazione di conformità ma di individuazione della copia cui l’attestazione si riferisce, conclude per l’applicabilità delle attese specifiche ai soli casi di allegazione al messaggio di notifica di copie multiple di diversi documenti.