1. La pandemia in atto ci costringe a ripensare alle nostre tradizionali categorie ordinanti, poiché il tempo in cui ci si illudeva di governare a priori l'imprevedibile sembra essere ormai tramontato. L'attuale emergenza sanitaria, del resto, è soltanto la punta di un iceberg, atteso che la crisi da Covid-19 si innesta in quella scoppiata nel 2008, i cui effetti non si erano ancora sopiti, e va ad impattare in maniera congiunta ed uniforme su domanda ed offerta, colpendo indistintamente imprese e consumatori.
Eventi straordinari come le pandemie appaiono refrattari all'omologazione in una determinata categoria, con la conseguenza di essere insofferenti alla logica della fattispecie e alla rigida gerarchia delle fonti: come gli uomini non possono più ritenersi completamente al riparo del loro ombrello tecnologico, allo stesso modo i codici, con le loro nozioni e le descrizioni generali ed astratte, vengono costantemente insidiati da vicende eccezionali.
Neppure l'istituto del caso fortuito e della forza maggiore (di cui nel codice civile si trova traccia sparsa a proposito di situazioni che interferiscono con l'attività umana) sembra adatto a fronteggiare flagelli di portata planetaria come quello che ci ha colpiti, tanto generalizzati e diffusi sono gli effetti prodotti sulla società.
Lo dimostra proprio l'esperienza di questi giorni che vede il moltiplicarsi di varie figure professionali, quali commissari straordinari ed esperti di vario genere, nonché il fiorire di appositi tavoli tecnici e cabine di regia per gestire l'emergenza e la famosa e fumosa fase 2. Lo dimostra altresì, com'è ovvio, l'emanazione di una normativa di urgenza caotica, che si caratterizza più per l'eterogenesi dei fini che non per fornire una stampella risolutiva a chi ne ha realmente bisogno per ripartire.
2. Il d.l. 8 aprile 2020, n. 23 (c.d. Decreto Liquidità), non brilla per chiarezza espositiva, né per la razionalità delle soluzioni che intende fornire e, se è lecito pretendere che le norme possono essere desunte dai principi, può osservarsi che esso appare privo di capacità esplicativa, prim'ancora che applicativa.
La scelta di fronteggiare la crisi di liquidità delle imprese attraverso la leva del debito non appare del tutto convincente almeno in assenza di opportuni correttivi, perché procrastina una condizione finanziaria già critica e rinvia nel tempo le perdite, creando innanzitutto un vulnus nel mercato. Le opzioni del legislatore non si connotano per un approccio realista ai fatti. Restano in effetti ancorate a vecchi e superati schemi che, in una grave situazione come l'attuale, possono rivelarsi inidonei a dare quella boccata di ossigeno che serve all'economia per superare uno shock esogeno che ha scosso il mercato fin nelle sue fondamenta, sul lato dell'offerta come della domanda.
Il lockdown decretato dal Governo centrale e dai Governi regionali ha per legge discriminato fra attività essenziali e non, consentendo alle prime profitti straordinari impossibili prima dell'emergenza epidemiologica. È un fatto che, a fronte delle circa 2,2 milioni di imprese inattive a causa della chiusura coatta, ve ne sono pressappoco 2,3 milioni attive (con all'incirca 16 milioni di occupati), che invece hanno continuato a fatturare e che, verosimilmente, continueranno a incrementare i ricavi (ad esempio, la grande distribuzione nel comparto alimentare ha registrato un + 9,6%; il settore di internet e delle telecomunicazioni un + 8%; il settore farmaceutico un + 4%).
In pratica il 50% del motore economico del nostro Paese è senza carburante o quasi: una situazione esplosiva, in cui, accanto alle limitazioni già imposte dal potere pubblico per ragioni sanitarie, non è inimmaginabile l'insorgere di poteri di fatto che, falsando la concorrenza, possano scoraggiare l'ingresso di nuovi operatori privi della necessaria forza economica o innovativa per competere con coloro che si sono coalizzati in intese, o che hanno assunto sul mercato posizioni oligopolistiche o addirittura monopolistiche. È evidente che in una situazione del genere richiamarsi all'astratto principio della libera concorrenza sarebbe fuorviante e invocare i poteri taumaturgici del libero mercato mistificatorio, anche perché trascurerebbe di considerare il punto di vista dei consumatori, fondamentale per legittimare il profitto dei produttori.
Il distanziamento sociale, insomma, ha acuito quel distanziamento economico già in atto ed è piuttosto aleatorio immaginare di ridurlo allungando la leva finanziaria, senza pensare minimamente anche ad investimenti nel capitale di funzionamento di quelle imprese che hanno subito un azzeramento dei ricavi e che hanno costi fissi elevati. Le capacità di recupero di queste ultime, infatti, saranno presumibilmente lente e contenute, sia in quanto l'attività di impresa (perlomeno nel breve termine) non genererà cassa libera [v., ad esempio, l'art. 1, comma 2, lett. i), d.l. n. 23/2020], sia perché il timore di nuovi contagi e la crisi di liquidità che ha colpito le famiglie frenerà ancora i consumi nel breve.
La distanza fra chi ha accumulato grandi guadagni e dispone perciò di una cospicua liquidità e chi al contrario, non avendo fondi propri, è costretto ad indebitarsi per proseguire il ciclo produttivo potrebbe allargarsi in misura esponenziale, con effetti potenzialmente distorsivi dell'efficienza dinamica del mercato e della libertà di scelta dei consumatori. La liquidità dei primi, inoltre, potrebbe essere impiegata per “acquistare” a prezzi superconcorrenziali i secondi e “catturare” i consumatori a scapito del loro benessere.
Nulla di nuovo sotto il sole si direbbe, essendo questo il succo dell'economia capitalistica in cui viviamo, che giunge fino all'estremo di giustificare la carica distruttiva della libera concorrenza e dove la massimizzazione del profitto e l'acquisizione di posizioni dominanti non sono di per sé vietate, se non fosse che tutto ciò è avvenuto per decisione politica dello Stato, che avrebbe il ruolo di tutore dell'efficienza dei mercati e non di garante della efficienza produttiva delle imprese.
Fare perno in via esclusiva sul capitale di credito (recte: sulle garanzie statali da rilasciare in favore dei potenziali finanziatori), anziché (o anche) sul capitale di rischio e sugli investimenti, e non preoccuparsi degli effetti concreti (per non dire delle esternalità negative) che determinati provvedimenti legislativi possono produrre, può rivelarsi scelta perdente nel medio-lungo periodo.
3. Quanto al merito, il Decreto sembra più orientato a farsi carico delle esigenze delle banche in vista dell'alleggerimento delle costrittive regole prudenziali che non delle reali necessità delle imprese colpite dall'emergenza Coronavirus: se l'intento più o meno dichiarato è quello di garantire l'afflusso di liquidità alle imprese, evitando restrizioni del credito, l'aspetto senza dubbio di maggiore rilevanza, anche se meno appariscente, attiene alla garanzia statale che - a seconda della tipologia e dimensione degli interventi - il Fondo centrale di garanzia per le PMI (art. 13) o la S.A.C.E. S.p.A. controgarantita dallo Stato (art. 1), o entrambi, rilasciano alle banche che erogano “nuovi finanziamenti”.
Sul concetto di “nuova finanza”, si apre un primo importante spunto di riflessione, visto che sono ammesse alla garanzia anche le rinegoziazioni del debito, purché al finanziamento in essere si aggiunga un incremento del 10% rispetto all'importo del credito vantato dal finanziatore [art. 13, comma 1, lett. e), d.l. n. 23/2020].
Il Decreto, in ogni caso, si cimenta in un'inedita e velleitaria definizione di “nuova finanza”, che vale anche per le “nuove” erogazioni garantite dalla S.A.C.E. [art. 1, comma 2, lett. m), d.l. n. 23/2020]: «si ha nuovo finanziamento quando, ad esito della concessione del finanziamento coperto da garanzia, l'ammontare complessivo delle esposizioni del finanziatore nei confronti del soggetto finanziato risulta superiore all'ammontare di esposizioni detenute alla data di entrata in vigore del... decreto, corretto per le riduzioni delle esposizioni intervenute tra le due date in conseguenza del regolamento contrattuale stabilito tra le parti prima dell'entrata in vigore del... decreto ovvero per decisione autonoma del soggetto finanziato» [art. 13, comma 1, lett. m), d.l. n. 23/2020].
Si tratta di un non lineare criterio di calcolo rimesso alle banche, tenute a dimostrare (al Mediocredito Centrale, alla S.A.C.E., all'impresa finanziata, all'Autorità giudiziaria in caso di controversia, non è chiaro), al fine di poter godere della garanzia statale per il rimborso del prestito, che l'ammontare complessivo dei finanziamenti erogati è maggiore dell'esposizione in essere al momento dell'entrata in vigore del Decreto, secondo un principio che riecheggia quello che, sia pure per diverse finalità, la legge fallimentare ha accolto a proposito della revocatoria delle rimesse in conto corrente (criterio del “massimo scoperto”: art. 70, comma 3, l. fall.).
Bisogna augurarsi che la legge di conversione apporti i necessari chiarimenti, mentre adesso ci si può limitare a segnalare alcune criticità, sul presupposto che un finanziamento aggiuntivo di appena il 10% rispetto all'importo del credito residuo permette alla banca di godere pressoché integralmente della garanzia statale (al 100% se intervengono i Confidi). Se allora la vera ratio delle disposizioni in materia sembra essere quella di garantire le banche dal rischio di inadempimento, piuttosto che contrastare il fenomeno del credit crunch,estendere la copertura statale anche alle preesistenti esposizioni della banca potrebbe indirettamente disattendere le dichiarate finalità del testo di legge: vale a dire mettere a disposizione dell'impresa, grazie alla concessione di un prestito (di scopo), ricchezza finanziaria per la realizzazione di investimenti in Italia, ovvero impiegata per sostenere il capitale circolante o coprire i costi del personale (in una parola, salvaguardare la continuità aziendale, conferendo in tal modo sostanza alla altrimenti vuota disposizione contabile contenuta nell'art. 7 d.l. n. 23/2020).
Stabilire però quando ci si trova di fronte ad un nuovo finanziamento (nel senso dell'assunzione di un reale nuovo rischio da parte della banca) e quando invece no può essere dubbio, soprattutto là dove l'impresa finanziata non dovesse superare la crisi, o addirittura cadere in stato di insolvenza, ed entrare in una procedura concorsuale.
L'ipotesi non è peregrina, posto che sono ammesse al finanziamento, rectius alla garanzia, anche quelle esposizioni classificate come “inadempienze probabili” o “scadute o sconfinanti deteriorabili”, sempreché non anteriori al 31 gennaio 2020 e non posizionate a “sofferenza” [art. 1, comma 1, lett. g), d.l. n. 23/2020], nonché, al ricorrere di date condizioni, imprese in concordato preventivo con continuità aziendale, o che abbiano proposto un accordo di ristrutturazione dei debiti o un piano attestato di risanamento [art. 1, comma 1, lett. g), d.l. n. 23/2020].
Potrebbero, di conseguenza, sorgere controversie intorno al rango o alla natura prededucibile del credito di rimborso, o alla revocabilità di quello rimborsato, nonché alla surroga del garante che sia stato escusso dal finanziatore, così in ultima analisi il peso economico del debito andando ad incidere sul bilancio dello Stato.
Ancora, a chi si sia stato danneggiato da un'operazione di nuova finanza – che semmai era tale solo sulla carta – potrebbe essere riconosciuta la legittimazione ad agire per abusiva concessione di credito, a dispetto dell'esenzione o della semplificazione delle istruttorie sul merito creditizio del debitore.
Le disposizioni recate dal d.l. n. 23/2020 possono, in definitiva, prestarsi a sottili abusi da parte di chi voglia consolidare precedenti esposizioni, perché la circolazione di nuove risorse monetarie potrebbe essere esigua se non addirittura fittizia. È una possibilità che non può escludersi aprioristicamente, considerata la tendenza invalsa nelle banche esposte verso propri clienti in crisi di erogare loro finanziamenti al solo scopo di coprire pregresse passività ed acquisire contestualmente garanzie reali costituite per “ipotecare” la vecchia esposizione chirografaria trasformatasi in “nuova finanza” (la tormentata esperienza giudiziaria formatasi intorno ai mutui fondiari, spesso concessi con finalità distorte, docet).
Sono tematiche che qui possono essere soltanto sfiorate, ma quel che è certo sul piano degli interessi generali e degli incentivi è che da un lato si finisce con il “drogare” per un certo periodo di tempo il mercato, iniettandovi liquidità e generando potenziali esternalità negative, dall'altro si corre il serio rischio di creare un possibile disallineamento fra l'iniziale opportunità di concedere un credito garantito a prima richiesta nella restituzione e la successiva convenienza a mantenerlo o a rinnovarlo alla scadenza, quando la garanzia statale non sarà più disponibile.
La banca in estrema sintesi, una volta scaduto il sestennio del finanziamento garantito, potrebbe legittimamente decidere di non rinnovare fiducia all'impresa per il venire meno di una garanzia che escludeva il rischio da inadempimento del debitore.
4. L'impressione che si ricava dalla complessiva lettura degli artt. 1 e 13 del d.l. n. 23/2020 è, in conclusione, che la stampella sia stata fornita, più che alle imprese, alle banche creditrici. Queste infatti, grazie alla garanzia concessa per i “nuovi” finanziamenti, saranno in grado di liberare significative porzioni del proprio patrimonio dai cospicui accantonamenti effettuati per fronteggiare le perdite sui crediti erogati prima dell'entrata in vigore del Decreto, malgrado le apparentemente limitate finestre temporali contenute nel testo di legge con l'obiettivo di contenere l'estensione dei benefici accordati.
Certo, alla neutralizzazione del rischio di credito, corrisponde per le banche un minor margine operativo sui finanziamenti, ma, a prescindere dal fatto che questo è tutto da vedere, ciò che viceversa appare sicuro è che per le imprese già stremate il costo della complessiva operazione (per il capitale preso a prestito e la garanzia ricevuta) può non essere indolore.
Non sappiamo se al riguardo è lecito parlare piuttosto di “Decreto salva banche”, ma l'impressione che le opzioni del Governo si caratterizzino per una eterogenesi dei fini è forte. Come si è osservato in apertura, se non proprio con risorse a fondo perduto, lo Stato avrebbe potuto orientare il suo intervento in una direzione differente, da un canto incoraggiando e defiscalizzando operazioni di conferimento da parte dei soci o di investitori terzi di nuovo capitale di rischio nelle imprese bisognose (sulla falsariga del modello degli aiuti alla crescita economica, introdotto dal d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, conv. in l. 22 dicembre 2011, n. 214, e dal d.m. attuativo 3 agosto 2017), dall'altro stimolando l'impresa debitrice ad adottare modelli efficienti ed efficaci di controllo e conformità per monitorare il raggiungimento degli obiettivi programmati, consistenti perlopiù nel riportare la misura dell'indebitamento complessivo ai livelli pre-Covid.
Le imprese tuttavia già oggi potrebbero utilmente provare a intercettare la liquidità esistente sul mercato, sfruttando strumenti alternativi al credito bancario, quali ad esempio i minibond introdotti nel 2012 con il Decreto Sviluppo o gli equity kicker o, ancora, ricorrere al crowdfunding: si tratta di tecniche giuridico-finanziarie già sperimentate con successo nella pratica degli affari, con lo scopo di accorciare la leva finanziaria e riequilibrare il trattamento tra imprese che si finanziano con fondi altrui e quelle che invece si finanziano con fondi propri.
In quest'ottica sistemi avanzati di Corporate Governance, ispirati ad un metodo problem solving,possono svolgere un ruolo di fondamentale importanza, pur senza arrendersi all'“algocrazia” partorita dalle intelligenze artificiali che, come anche quest'esperienza forse insegna, può talvolta essere il frutto avvelenato della conoscenza umana.