Editoriali

Società e concorrenza 23.01.2023

Alterazione del bilancio, vantaggi nelle competizioni sportive e violazione delle regole della concorrenza

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La  decisione della Corte d'appello della Federazione Italiana Gioco Calcio  sul caso Juventus del 20 gennaio 2023 apre le porte per una discussione che verte non solo sulla redazione dei bilanci di società di calcio ma soprattutto sulla relazione tra reiterata violazione di principi  contabili e alterazione delle performance sportive, con spunti sull’applicazione della  disciplina della concorrenza sleale.

 

1. In attesa di leggere fra qualche giorno le motivazioni che il 20 gennaio scorso hanno portato la Corte d'appello della Federazione Italiana Gioco Calcio (FIGC) a penalizzare di 15 punti la Juventus (dispositivo 65/CFA-2022-2023), con un provvedimento che, appena pubblicato per intero, meriterà uno specifico approfondimento, si possono porre le basi di una discussione, che deve essere improntata su aspetti giuridici più che sportivi. Tuttavia, le peculiarità del mercato in cui operano le società di calcio implicano considerazioni che hanno riflessi sull’itinerario argomentativo. Queste prime osservazioni sono, perciò, utili, anzitutto perché non influenzate dalle motivazioni del provvedimento che a giorni tutti leggeremo: uno dei punti di futura discussione riguarda i presupposti alla base della pronunzia, ossia quelli che possono portare alla revocazione della precedente pronunzia della stessa corte di segno esattamente opposto (Corte fed. app., S.U., 27 maggio 2022, n. 89, su cui v. F.R. Fimmanò, L’abuso di player trading: il caso delle “plusvalenze fittizie” nelle società di calcio professionistico, in Riv. corte conti, 2022, I, 83 ss.). Infatti, l’art. 63 del Codice di giustizia sportiva (CGS) della FIGC, relativamente alle decisioni dei propri organi, stabilisce casi di revocazione per pronunzie «inappellabili o divenute irrevocabili», e ipotesi di revisione «nei confronti di decisioni irrevocabili, dopo la decisione di condanna». In particolare, ogni pronunzia, inappellabile o divenuta irrevocabile, può essere impugnata «se è stato omesso l’esame di un fatto decisivo che non si è potuto conoscere nel precedente procedimento, oppure sono sopravvenuti, dopo che la decisione è divenuta inappellabile, fatti nuovi la cui conoscenza avrebbe comportato una diversa pronuncia»; ipotesi, questa, assai peculiare rispetto al sistema del codice di procedura civile (art. 395 c.p.c.).

Sulla sussistenza della revocazione la dirigenza della Juventus si era fermamente opposta ed ora annuncia di ricorrereal Collegio di Garanzia dello Sport ai sensi dell’art. 54 del CGS e dell’art. 12-bis dello Statuto del Comitato Olimpico Nazionale Italiano (CONI), che costituisce l’organo di giustizia sportiva di ultimo grado (art. 3, comma 2, CGS e art. 12-bis, comma 1, dello Statuto del CONI). Nel contempo, l’Union of European Football Associations (UEFA) potrebbe ulteriormente procedere con altre iniziative rispetto a quelle già attuate sino ad ora. Indipendentemente dai presupposti della revocazione, si delineano tre fondamentali linee direttrici delle riflessioni da svolgere, che si pongono però l’una dopo l’altra.

La prima di tipo contabile attiene ai trasferimenti di giocatori, le cui valutazioni hanno consentito di produrre plusvalenze, salvifiche per il bilancio. La seconda inerisce agli ulteriori effetti sulle acquisizioni dei migliori giocatori sul mercato e dunque ai vantaggi in termini di risultati nelle competizioni sportive. La terza, infine, riguarda i rapporti tra le imprese in concorrenza sia nel mercato italiano (campionato) sia in quello europeo (competizioni UEFA), in quanto chi si attiene alle regole finisce per essere condannato al fallimento (in termini economici e sportivi).

Il punto iniziale da cui partire sembra proprio quello di stabilire le regole, innanzitutto quelle sul trattamento delle plusvalenze di cui da anni si parla.

 

2. In generale, l’esecuzione di un’operazione a valori economicamente non congrui comporta la sovrastima del prezzo dello scambio, con effetti diversi sui due contraenti: il cedente ottiene una plusvalenza, che può essere in parte o totalmente fittizia, con miglioramento del patrimonio netto; il cessionario iscrive nell’attivo patrimoniale un valore sovrastimato, con maggiori costi e conseguente impatto negativo (minori utili o maggiori perdite).

In particolare, nel settore del calcio professionistico, le società possono acquisire il diritto alle prestazioni sportive direttamente dal calciatore c.d. svincolato, alla scadenza del precedente rapporto con altra società nazionale o straniera, oppure mediante la cessione di un contratto con il club (italiano o straniero) titolare del diritto alle prestazioni. In assenza di principi-guida nelle valutazioni dei diritti che possano permettere di verificare se le scelte concrete delle società da essi si discostino, ciascuna operazione di trasferimento avviene al prezzo liberamente concordato, con conseguenze notevoli nei bilanci delle società di calcio, le cui entrate appaiono in gran parte costituite da tali cessioni. Già alla fine degli anni ’90 le società ricorrevano alla prassi delle plusvalenze fittizie, tanto da rendere necessario l’intervento del legislatore, con il “Decreto Spalmadebiti” o “Salva Calcio”, che dispose aiuti contabili e fiscali nei confronti dei club (d.l. 24 dicembre 2002, n. 282, convertito dalla l. 21 febbraio 2003, n. 27).

Da più parti, invero, si ritiene necessario un intervento regolatore relativamente alla definizione del valore e del prezzo di scambio, al trattamento delle plusvalenze, alla valutazione del costo di acquisto del diritto negli anni successivi a quello di prima contabilizzazione. L’intervento normativo appare tanto più indispensabile, se si considera che le operazioni in oggetto influenzano in misura determinante la rappresentazione veritiera e corretta della situazione patrimoniale, finanziaria e reddituale di una società sportiva. L’esempio più citato, per restare nella storia juventina, è lo scambio Pjanic-Arthurfra Juventus e Barcellona. Nell’operazione il bosniaco fu valutato 60 milioni, il brasiliano 72. Tali valutazioni avevano consentito ai due club plusvalenze consistenti (quella della Juventus fu di 46,9 milioni), senza un trasferimento effettivo di denaro, a parte i 12 milioni di differenza. Ma anche Milan e Inter – due grandi rivali che, però, per anni intrecciavano affari – furono poste “sotto processo” nel 2006, senza però accertarsi alcun illecito. Già all’epoca si era soliti registrare nell’esercizio di un anno la plusvalenza incassata con la cessione di giocatori, più o meno noti, che “cambiavano casacca” (Coco e Pirlo ma nella cronaca del tempo si legge anche di Seedorf, Guglielminpietro, Helveg, Simic, Domoraud, Brocchi, Ümit Davala, Brncic), mentre si spalmava sui cinque anni successivi la somma spesa per l’acquisto. Un caso accertato e punito di plusvalenze fittizie ha riguardato il Chievo Verona e il Cesena, condannati sul piano disciplinare nel 2018. Si tratta di un precedente importante, perché i giudici sportivi affermarono che, alla luce degli atti, le “operazioni di scambio di calciatori” dimostravano in concreto che i vertici delle due società ponevano in essere una sistematica strategia di mercato, non già un’episodica negoziazione legata al valore attribuito intuitu personae al particolare ipotetico talento, diretta a sopravvalutare i dati di bilancio attraverso, appunto, il sistema delle c.d. plusvalenze.

Per la Juventus, il tema delle “plusvalenze” è stato oggetto di decisione appena a maggio dell’anno scorso (Corte fed. app., S.U., 27 maggio 2022, cit.), relativamente alle c.d. operazioni a specchio tra più società, che eseguono operazioni di segno opposto per ottenere ciascuna plusvalenza e che divengono ancora più opinabili nel caso delle pluriproprietà delle società interessate. La Corte ha, però, escluso un illecito, per l’attuale assenza di adeguate disposizioni sul tema della valutazione del valore del corrispettivo di cessione/acquisizione delle prestazioni sportive dei calciatori, essendo «indispensabile la definizione di principi-guida nelle valutazioni che possano permettere di verificare se le scelte concrete delle società da essi si discostino, individuando una serie di elementi di riferimento». La Corte, tuttavia, afferma che «dall’analisi della documentazione in atti vi è la diffusa percezione che alcuni valori si siano formati in modo totalmente slegato da una regolare transazione di mercato ma non è possibile verificare se le modalità della loro formazione rispettino delle regole codificate perché non esistenti».

 

3. Per quanto riguarda le regole, a parte quelle generali sul bilancio, occorre richiamare le Raccomandazioni contabili federali e le Norme organizzative interne della FIGC (NOIF), che stabiliscono controlli sulla gestione economico-finanziaria delle società. Le NOIF contengono regole sull’attività della Commissione di Vigilanza sulle Società di Calcio Professionistiche (CoViSoc), che impone la predisposizione di ulteriori documenti rispetto a quelli stabiliti dalla legge per tutte le altre società. Per quanto qui specificamente interessa, la raccomandazione contabile federale n. 1 prevede che il diritto alle prestazioni di un calciatore professionista «configura, per la società acquirente del diritto, una posta patrimoniale attiva a carattere pluriennale e di natura immateriale poiché il relativo valore corrisponde ad una situazione di vantaggio della società che detiene il diritto, rispetto alle altre società, destinata a durare nel tempo». Il costo de quo deve essere iscritto alla voce “B.I.8 Diritti pluriennali alle prestazioni sportive dei calciatori”e sistematicamente ammortizzato in ogni esercizio in relazione alla sua residua possibilità di utilizzazione (art. 2426, n. 2, c.c.). Il criterio di ammortamento raccomandato «è quello della ripartizione del costo del diritto […] in quote costanti per l’intera durata del contratto che vincola il calciatore alla società cessionaria e comunque per un tempo non superiore a cinque anni», che è la durata massima prevista dall’ordinamento. La voce non rientra fra quelle espressamente previste nello schema di stato patrimoniale contemplato dall’art. 2424 c.c., ma è stata aggiunta a norma dell’art. 2423-ter, comma 3, c.c. secondo cui, «se le informazioni richieste da specifiche disposizioni di legge non sono sufficienti a dare una rappresentazione veritiera e corretta, si devono fornire le informazioni complementari necessarie allo scopo».

Perciò, è corretto che, nel caso di cessione del rapporto contrattuale con un calciatore, la società di appartenenza di quest’ultimo realizzi una plusvalenza, là dove l’ammontare riconosciuto dall’acquirente sia maggiore del valore iscritto in bilancio. Il problema, però, nasce da operazioni incrociate (c.d. a specchio) tra club sulla base di accordi di scambio tra calciatori (spesso giovani del vivaio) sopravvalutandoli, così da realizzare per ciascuna società plusvalenze fittiziesenza (o con minimi) movimenti finanziari. Queste operazioni, al di là delle implicazioni fiscali, alterano il bilancio, che dovrebbe rappresentare in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale, finanziaria e reddituale, determinando apparenti miglioramenti – almeno nel breve periodo – della contabilità.

Vediamo nel dettaglio l’operazione come viene rappresentata nei documenti societari, distinguendo due momenti, dal lato del cedente e da quello del cessionario per ciascuna operazione.

La società cedente il diritto prima della scadenza del contratto rileva una plusvalenza se il valore di cessione è superiore a quello contabile, con impatto positivo sulla propria contabilità. A livello finanziario ogni singola operazione di compravendita genera un credito e una successiva entrata per il cedente e un debito con successiva uscita, per il cessionario. Di fatto, tali operazioni a valori economicamente non congrui o giustificati comporta la sovrastima del prezzo dello scambio, con effetti diversi sui due contraenti: a) il cedente ottiene una maggiore plusvalenza, in parte o totalmente fittizia, con miglioramento del patrimonio netto; b) il cessionario iscrive nell’attivo patrimoniale un valore sovrastimato con maggiori costi nel futuro, cioè un maggiore impatto negativo (minori utili o maggiori perdite) sul periodo di durata del contratto. Al di là di qualsiasi considerazione sulla congruità del prezzo, i sintomi che si manifestano nel futuro, ad esempio per un calciatore senza prospettiva o con impiego ben al di sotto delle attese, dovrebbero portare alla svalutazione, per evitare un “annacquamento” del capitale.

La società cessionaria registra, pertanto, un maggiore valore rispetto a quello economico con maggiori costi futuri. Vi è, però, un secondo momento dell’operazione ed è quello di segno opposto che genera di nuovo una plusvalenza, questa volta per l’originaria cessionaria, che diventa a sua volta cedente per un altro contratto di cessione inerente al diritto su un proprio giocatore. In tal modo, entrambe le società di fatto aumentano l’utile (o riducono la perdita).

 

4. Appare evidente che il riferimento al prezzo convenuto liberamente dalle parti ai fini della determinazione del valore dei diritti può non essere corretto e condurre a risultati fuorvianti. La differenza tra il prezzo convenuto e il valore che potenzialmente avrebbe quel calciatore (rectius, i relativi diritti inerenti alla sua prestazione) sono in teoria riconducibili all’appetibilità strategica dell’oggetto della trattativa, termine con il quale si fa riferimento a processi d’acquisto nei quali ciò che motiva l’acquirente non è la capacità di un calciatore in sé considerata, ma il suo collocamento in un modulo di gioco. Le ragioni per cui i risultati sono spesso fuorvianti dipendono dal mercato di tali diritti, che si presenta imperfetto per i seguenti caratteri che possiede: a) scarsa fungibilità, presentando ogni calciatore caratteristiche proprie tali da renderlo distinto e diverso da altri; b) occasionalità delle negoziazioni e limitata validità temporale dei prezzi; c) limitata trasparenza delle negoziazioni; d) forte dipendenza e influenza di fenomeni esterni nonché di fattori soggettivi direttamente connessi alle caratteristiche (interesse alla negoziazione e forza contrattuale) delle parti coinvolte nella transazione (cfr. Corte fed. app., S.U., 27 maggio 2022, cit.),

La questione, allora, si sposta sul perché particolarmente nel settore del calcio professionistico il fenomeno delle plusvalenze sia così diffuso.

La spiegazione è semplice e dipende dal c.d. fair play finanziario, voluto fortemente da Platini; forse fu la campagna acquisti del Real Madrid nel 2009 a smuovere definitivamente i dirigenti dell’UEFA a promuovere iniziative atte ad estinguere i debiti contratti dalle società calcistiche e ad indurle nel lungo periodo ad un auto-sostentamento finanziario. Durante gli anni 2000, infatti, molte squadre di calcio avevano sperperato ingenti somme di denaro, con un aumento esponenziale del loro debito. In tal modo, l’UEFA ha cercato di porre un freno, imponendo regole dirette a ridurre le passività delle società calcistiche, con la finalità di garantire una corretta competitività delle squadre nelle competizioni europee. Successivamente, l’UEFA, a seguito dell’emergenza per gli effetti del Covid-19, ha adeguato la disciplina per evitare di soffocare le società in sofferenza durante la pandemia, con nuove norme sul pareggio di bilancio (break-even rule) per le stagioni 2020/21 e 2021/22. Infine, nel 2022 sono state introdotte nuove regole atte a garantire una migliore tutela dei creditori, attraverso controlli più frequenti e minore tolleranza per le irregolarità, anche se i cambiamenti sono attuati in maniera graduale nell’arco di tre anni, così da permettere a tutti i club di potervisi adeguare.

Da più parti si è affermato che la pressione nel raggiungere target economico-finanziari avrebbe messo i club nelle condizioni di ricorrere a politiche di bilancio illecite, poiché alcuni di essi rischiavano di restare fuori dalle competizioni, con conseguente loro fine. La peculiarità del mercato del calcio è proprio costituita dalla necessaria partecipazione alle competizioni nazionali, ed eventualmente a quelle internazionali, onde ottenere i ricavi atti a proseguire l’attività, con particolari caratteristiche determinate dal regime di concorrenza funzionale allo spettacolo in modo da attrarre maggiori spettatori possibili [su questo tema rinvio al mio recente editoriale Globalizzazione e “soccerizzazione” dell’economia post mondiale (di calcio): il caso European Super League, in questa Rivista].

È stato così che la Consob (per le società sportive quotate in borsa) e la CoViSoc (sulla base di quanto disposto dalle NOIF) hanno iniziato a indagare su diverse operazioni di calciomercato ritenute anomale nei campionati italiani, con il sospetto che i trasferimenti dei giocatori non fossero legati alla necessità di migliorare le performance sportive, cui è seguita l’inchiesta denominata “Prisma” da parte della Procura di Torino. E attraverso un lungo iter di intrecci di controlli da parte di diverse autorità deputate, per ragioni diverse, a verificare la correttezza dei bilanci della Juventus, si è giunti alla decisione le cui motivazioni si attende di leggere.

 

5. Acquisita l’urgenza di una regolamentazione ad hoc, non può, però sfuggire che i principi cardine in tema di bilancio, cui anche le società di calcio sono sottoposte, implicano una rappresentazione veritiera e corretta nonché prudenza e continuità nei criteri di valutazione; nonché la deroga agli stessi criteri in base alla disciplina del codice e dei principi contabili, se la loro applicazione finisse per essere incompatibile con una rappresentazione veritiera e corretta (art. 2423, comma 5, c.c.). Va tenuto anche presente che per le società quotate è obbligatorio l’impiego dei principi contabili non solo nazionali, stabiliti dall’Organismo Italiano Contabilità (OIC), ma anche internazionali, emanati dall’International Accounting Standard Board (IASB). L’OIC n. 9, ad esempio, fornisce alcune definizioni per cui la società proprietaria del diritto deve valutare la sussistenza di indicatori che portino al minore valore del bene, assai peculiari nell’ambito calcistico o sportivo in generale. La mancata svalutazione al sussistere dei presupposti, porta a un’illecita sopravvalutazione dell’attivo e del patrimonio netto. Ed è il caso di ricordare che, «anche in assenza di specifiche disposizioni del Codice e di norme federali, gli organi di giustizia sportiva adottano le proprie decisioni in conformità ai principi generali di diritto applicabili nell’ordinamento sportivo nazionale e internazionale nonché a quelli di equità e correttezza sportiva» (art. 3, comma 4, CGS).

Non è, in sintesi, possibile camuffare le operazioni di permuta attraverso una serie di operazioni tra loro collegate. Troppo semplice sarebbe, ad esempio, vendere un cespite di nessun valore (poniamo a 1 euro) a un prezzo esagerato (poniamo 1 milione di euro) in favore di una società compiacente la quale, per adempiere e d’accordo con la cedente, poi eseguisse una datio in solutum di un proprio bene da disfare, ma che la prima società valutasse corrispondente al prezzo del primo trasferimento (un milione di euro). La disciplina in materia di bilancio privilegia il rilievo da dare alla sostanza dell’operazione rispetto alla forma (art. 2423-bis c.c.); inoltre le rivalutazioni di elementi dell’attivo patrimoniale sono possibili solo in determinate ipotesi. Naturalmente, leggeremo le motivazioni della recente pronunzia per comprendere le ragioni poste a fondamento della penalizzazione di punti così pesante a carico della Juventus e quindi comprenderemo il perché del mutamento di decisione a gennaio 2023 della medesima Corte rispetto alla sua decisione di maggio 2022.

Una volta accertata la violazione delle regole imposte ai bilanci delle società di calcio per poter esercitare le loro prerogative per la partecipazione alle competizioni e al mercato dei calciatori, si pone il problema di delineare precisamente gli effetti che le violazioni hanno sul bilancio una volta depurato da quei vizi. Quello che qui interessa, perciò, è stabilire i vantaggi in termini sportivi che conseguono dall’alterazione delle voci di bilancio (per operazioni sussistenti ma i cui valori sono gonfiati ovvero i prezzi simulati). Tali alterazioni implicano senza dubbio una maggiore forza contrattuale delle società, la loro partecipazione a competizioni dalle quali (altrimenti) sarebbero escluse e, quindi, una correlata alterazione anche dei risultati sportivi, che certo la penalizzazione non è sufficiente ad eliminare, soprattutto per competizioni per le quali il titolo è stato già assegnato. Ora, a parte la revoca del titolo conseguito (lo scudetto, ad esempio), ci si dovrebbe porre il problema della violazione della disciplina della concorrenza ai danni di chi quei principi in tema di formazione dei bilanci ha, invece, rispettato e che avrebbe, pertanto, legittimazione attiva per ottenere un risarcimento (ad esempio, per mancato incasso di diritti audiovisivi a fronte dell’esclusione da una determinata competizione, non avendo potuto completare – come altri club hanno fatto falsando le poste dei propri bilanci – la rosa della propria squadra, decimata da infortuni).

Qui giunge la nota dolente: fino a che punto la partecipazione ad un ordinamento sportivo esonera un partecipante dalla sottoposizione al regime della disciplina codicistica di cui all’art. 2598 c.c. per la violazione dei principi di correttezza professionale? Non è qui possibile sviluppare il tema dei rapporti tra l’autonomia degli ordinamenti settoriali e la supremazia dello Stato, ma sono necessarie alcune considerazioni conclusive sull’ultima linea inizialmente tracciata, quella del regime di concorrenza tra le società di calcio.

 

6. È indiscutibile che anche atti emanati all’interno dei singoli ordinamenti settoriali, con cui venga inibito o limitato lo svolgimento di una specifica attività, possano assumere rilevanza giuridica ed economica “esterna” (all’ordinamento settoriale nell’ambito del quale l’appartenente ad esso svolge la propria attività), in quanto lesivi della sfera giuridica del destinatario come cittadino dell’ordinamento dello Stato e dei propri diritti fondamentali nell’ambito di esso (diritto di espressione della propria personalità, diritto al lavoro e, nel caso di associazioni o società, diritto di svolgere iniziativa economica, garantiti dagli artt. 1, 4 e 41 della Costituzione). In secondo luogo, il rispetto o meno delle regole imposte dall’ordinamento settoriale determina una serie di conseguenze (partecipazione, per la stagione successiva, ad un campionato inferiore rispetto a quello che avrebbe effettivamente conquistato sui campi di calcio se si fossero applicate le regole), le quali incidono gravemente sulla capacità economica della società, con l’effetto che gli stessi comportamenti dei club potrebbero assumere un indiscutibile rilievo economico e quindi una rilevanza lesiva degli interessi giuridicamente rilevanti di molti operatori coinvolti (art. 41 Cost. sul diritto di iniziativa economica). In sintesi, non si può sottrarre al controllo giurisdizionale del giudice statale, in via generale, una sfera di questioni nell’ambito delle quali vi possono essere situazioni di notevole rilevanza giuridico-economica, soprattutto se riguardano gli interessi del mercato in cui operano le imprese coinvolte. Oltretutto, di base, lo Stato non è indifferente all’organizzazione dell’imprenditore anche relativamente all’adeguatezza dei mezzi atti a rilevare le perdite, tanto che impone per chi opera in forma societaria o collettiva il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell'impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale (art. 2086, comma 2, c.c., introdotto dal d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14).

È altresì indiscutibile che – diversamente da discipline sportive i cui risultati riguardano l’atleta individuale, che pure può essere danneggiato dai concorrenti (ad esempio per una gara podistica, dinanzi all’uso di doping farmacologico o anche tecnologico per uso di scarpe vietate dal regolamento tecnico) – il regime di concorrenza nel settore delle società di calcio professionistiche si svolga tra soggetti non solo imprenditori, ma soprattutto interessati a conseguire un utile e, quindi, detentori del diritto soggettivo a ricevere un risarcimento ricollegabile anche al lucro cessante.

Per le sue innegabili peculiarità, l’ordinamento sportivo ha da sempre evidenziato la propria specificità e, di conseguenza, rivendicato la propria autonomia dai vari ordinamenti giuridici statali, tanto che ha predisposto un sistema di giustizia interna al fine di garantire all’interno di sé stesso la soluzione rapida di tutte le controversie derivanti dall’attività sportiva. L’ordinamento sportivo, invero, attraverso gli organi di giustizia, pone sostanzialmente un’inibitoria alla società concorrente ma sleale, con provvedimenti reintegrativi del corretto svolgimento della competizione e con rimozione di alcuni effetti (anche la revoca della vittoria di una competizione). Tuttavia, non può essere escluso che la singola società, danneggiata dall’altrui concorrenza sleale, abbia diritto e anzi l’obbligo (a tutela dei propri creditori con precisi doveri a carico degli amministratori) di porre in essere tutte quelle azioni dirette all’accertamento di un danno subito per l’integrità del proprio patrimonio per vedersi liquidato il relativo risarcimento nei confronti del diretto concorrente (art. 2598 c.c.). L’art. 3, comma 1, d.l. 19 agosto 2003, n. 220 (convertito con modificazioni dalla l. 17 ottobre 2003, n. 280) riconosce specificamente «la giurisdizione del giudice ordinario sui rapporti patrimoniali tra società, associazioni e atleti», ossia su tutte le questioni economiche tra pari-ordinati, come quelle che intercorrano tra società o associazioni sportive in regime di concorrenza. Sotto altro profilo, non si può escludere a priori la legittimazione attiva anche di altri soggetti coinvolti nelle manifestazioni sportive, come gli sponsor, che subiscono dei danni sia dal comportamento scorretto dell’impresa sponsorizzata sia dalle minori performance del club sponsorizzato a causa della slealtà delle altre società di calcio che non rispettano le regole.

Alla risposta positiva sull’applicazione della disciplina in tema di concorrenza e in particolare dell’art. 2598 c.c. - quando una società di calcio, invece di ripianare le perdite, crei plusvalenze fittizie per acquisire giocatori sul mercato, che non si sarebbe potuta permettere e che poi ha schierato, falsando la competizione sportiva a danno di altre società, che invece hanno rispettato le regole - segue il dubbio sul perché nessun club eserciti azioni giudiziarie del genere. Ciò conferma il sospetto che, bene o male, tutti i club, in quanto cedenti o cessionari in operazioni bilaterali oppure trilaterali, ne siano coinvolti.

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