Sommario:
- 1. Premessa. Ambito di applicazione ed entrata in vigore dei nuovi istituti.
- 2. Ricorsi vichiani e spirali hegeliane.
- 3. Le azioni a voto plurimo: il nuovo art. 2351, comma 4, c.c.
- 4. Voto plurimo e atipicità delle categorie azionarie.
- 5. Voto plurimo, influenza dominante e controllo azionario.
- 6. Voto plurimo, nomina degli organi sociali e quozienti assembleari
- 7. Introduzione delle azioni a voto plurimo: quorum (pseudo) rafforzato e tutela delle minoranze.
- 8. La maggiorazione del voto nelle società quotate: prime considerazioni.
- 9. Maggiorazione del voto e ultrattività delle azioni a voto plurimo precedentemente emesse.
1. Premessa. Ambito di applicazione ed entrata in vigore dei nuovi istituti.
Tra le molte novità introdotte nel nostro ordinamento societario dal decreto legge 24 giugno 2014, n. 91 (c.d. “Decreto Competitività 2014”), così come convertito con modificazioni dalla legge 11 agosto 2014, n. 116, fanno indubbiamente spicco, per la loro rilevanza sistematica e le loro potenzialità applicative, i due istituti della maggiorazione del voto e delle azioni a voto plurimo.
Se il primo meccanismo era già contemplato, con riferimento alle società quotate in mercati regolamentati, dall’originaria formulazione del decreto legge [1], l’ulteriore apertura all’autonomia statutaria in ordine alla creazione di categorie di azioni a voto plurimo negli statuti di società non quotate – e segnatamente, come si vedrà, di s.p.a. non ancora quotate – è stata introdotta dal legislatore in sede di conversione [2].
Va immediatamente segnalato che, pur essendo arrivato ultimo quanto alla sua introduzione, l’istituto delle azioni a voto plurimo ha scavalcato il meccanismo della maggiorazione del voto non soltanto per la più ampia platea delle potenziali emittenti – riguardando oltre quarantamila s.p.a. non quotate, siano esse chiuse o aperte – ma anche per la più rapida entrata in vigore, che coincide con il giorno successivo alla pubblicazione della legge di conversione nella Gazzetta Ufficiale. Gli statuti delle società azionarie non quotate italiane possono dunque sin d’ora – per l’esattezza, dal 21 agosto del 2014 – creare legittimamente categorie di azioni a voto plurimo; e ciò anche nella prospettiva di una loro imminente quotazione, essendosi espressamente contemplata l’ultrattività delle categorie a voto plurimo anche in tale scenario evolutivo della società emittente [3].
Per contro, ai fini dell’introduzione del voto maggiorato negli statuti delle società quotate – alle quali è preclusa l’emissione ex novo di azioni a voto plurimo [4] – occorrerà attendere il regolamento che la Consob è chiamata ad emanare entro il 31 dicembre 2014 [5] ed al quale la norma primaria demanda le disposizioni di attuazione del nuovo istituto «al fine di assicurare la trasparenza degli assetti proprietari e l'osservanza delle disposizioni del titolo II, capo II, sezione II» del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (TUF) [6].
Seguendo dunque l’ordine cronologico di entrata in vigore dei due istituti, s’intende qui delineare, dapprima e sinteticamente, le caratteristiche delle azioni a voto plurimo ed i corollari che potranno discendere dalla loro introduzione, anche in relazione alla possibile convivenza con ulteriori categorie già consentite dal nostro ordinamento (azioni senza voto, a voto limitato o ancora a voto scaglionato o contingentato), per poi esaminare lo scenario che è destinato a schiudersi con il nuovo anno nelle società quotate, da un lato, e nelle società di nuova quotazione dall’altro, ove potranno campeggiare inediti meccanismi di maggiorazione del voto, ovvero, nella seconda subfattispecie ora richiamata, categorie di azioni a voto plurimo emesse nell’arco di tempo intercorrente dal 21 agosto del 2014 alla data dell’IPO.
2. Ricorsi vichiani e spirali hegeliane.
È peraltro ben noto che entrambi gli istituti introdotti dalla nuova disciplina sono tutt’altro che inediti ove si volga lo sguardo non soltanto al nostro fianco, ai principali ordinamenti (europei e non), ma anche all’indietro, verso la storia nel nostro stesso diritto societario.
In una prospettiva storica l’attuale assetto normativo sembra invero costituire l’approdo di un percorso di “ritorno alle origini”, ovvero all’ampia autonomia statutaria riconosciuta sul punto già dal Codice napoleonico. Le tappe di questa linea evolutiva sono rappresentate – attraverso il più classico dei procedimenti a spirale di hegeliana memoria – da:
a) un sistema, quale quello delineato dal Codice di commercio del 1882, che vietava ogni forma di esclusione o limitazione del diritto di voto [7], ammettendo per contro le azioni a voto plurimo tra le possibili deroghe statutarie ad un regime legale eminentemente suppletivo ed imperniato su un peculiare sistema di voto scalare, che connotava all’epoca anche il diritto inglese (Tesi) [8] ;
b) un sistema, quale quello introdotto dal Codice civile del 1942, che vietava all’opposto l’emissione di azioni a voto plurimo, consentendo, a certe condizioni ed entro il limite della metà del capitale sociale, la creazione di azioni a voto limitato, in uno scenario ove assurgeva a regola generale, secondo il modello di derivazione germanica, il principio di proporzionalità tra azioni e voti (Antitesi).
La rigidità dell’impianto quest’ultimo impianto normativo era già stata in larga misura scardinata dalla riforma del diritto societario del 2003, con la quale si era operato un significativo ampliamento dell’autonomia statutaria nella conformazione statutaria della struttura finanziaria dell’emittente, estrinsecantesi anche nell’introduzione degli strumenti finanziari partecipativi e nella riscrittura della disciplina delle obbligazioni, ma che risultava ancor più evidente con riferimento alleazioni, la cui disciplina era imperniata su due fondamentali nuclei normativi, rappresentati, da un lato, dalla «solenne» enunciazione del principio generale di atipicità delle categorie azionarie, dall’altro, dall’ampliamento delle categorie di azioni speciali tipiche e delle possibili articolazioni dei diritti in esse incorporati [9]. Con particolare riguardo al diritto di voto, venivano conservati soltanto due limiti alla libertà dei soci, costituiti: a) dalla regola per cui il valore delle azioni a voto limitato, a voto condizionato e prive del diritto di voto non può eccedere la metà del capitale sociale e b) dal divieto di voto plurimo; ad essi si affiancava, per le sole società «aperte», c) il divieto di introdurre clausole di voto massimo o scalare.
Il Decreto competitività – nella versione definitiva, quale emendata in sede di conversione – conduce alle sue estreme conseguenze l’impostazione sottesa alla riforma societaria entrata in vigore dieci anni prima, agevolando il conseguimento dell’obiettivo,additato già dalla Relazione al d.lgs. n. 6 del 2003,«di ampliare gli strumenti disponibili alle società per attingere a fonti di finanziamento”, concedendo “ampio spazio alla creatività degli operatori nell’elaborazione di forme adeguate alla situazione di mercato».
In tale logica, viene oggi conservato all’interno del codice civile, come unico vincolo superstite all’autonomia delle parti nelle società non quotate, il limite quantitativo della metà del capitale, sopra indicato sub a); che peraltro, giova sottolinearlo sin d’ora, si riferisce soltanto alle categorie ivi indicate e non è dunque riferibile né alle azioni a voto plurimo, né alle azioni ordinarie – o comunque (sebbene dotate di diritti speciali) “a voto unitario” – che pure son destinate a subire una sostanziale limitazione della loro “potenza di voto” dal riconoscimento di una pluralità di voti a favore della nuova categoria legittimata dalla novella.
Nelle società quotate, il perdurante divieto di emissione di azioni a voto plurimo viene, da un lato, circoscritto alla sola nuova emissione di tale categoria, conservandosi il privilegio in capo ai titoli emessi ante quotazione; dall’altro, e soprattutto, mitigato dalla possibile introduzione in via statutaria (e con quozienti, come si vedrà, agevolati) del meccanismo della maggiorazione del voto, la cui introduzione ha indotto, per coerenza, all’abrogazione del divieto delle speculari clausole di scaglionamento (e di tetto massimo) originariamente precluse dall’art. 2351 c.c. a tutte le società aperte.
In tal modo viene espunto dal nostro diritto azionario un elemento di asimmetria regolamentare che lo esponeva ad una “concorrenza ineguale” da parte dei principali ordinamenti societari [10]. Al contempo si pongono le premesse per una regolamentazione statutaria così duttile da trascendere in una variabilità pressoché assoluta del diritto di voto: diritto che, a seguito della novella, viene definitivamente a perdere l’alone di «sacralità» che tradizionalmente lo avvolgeva, per configurarsi come il più disponibile ed il più modulabile dei diritti endosocietari [11].
In questo decennio, del resto, molta acqua è passata sotto i ponti: non solo dell’Hudson e del Tamigi, ma anche della Senna e della Senne. Quest’ultimo riferimento è naturalmente a Bruxelles e alla più recente evoluzione della Commissione Europea, dal Piano d’Azione per la modernizzazione del diritto delle società e il rafforzamento del governo societario del 2012 al Libro Verde del 25 marzo 2013, ove si suggerisce un supplemento di riflessione sull’opportunità di incentivare gli azionisti a investimenti di lungo periodo, anche attraverso l’utilizzo di meccanismi di maggiorazione del voto o di categorie di azioni a voto multiplo, nella prospettiva di rafforzare la capacità di finanziamento a lungo termine delle imprese europee. Tali documenti si richiamano ad un precedente studio del 2007, promosso dalla stessa Commissione Europea, nel quale erano state prese in esame le diverse modalità con cui l’attribuzione del diritto di voto viene declinato nelle società quotate di sedici Stati membri dell’Unione Europea, oltre che negli Stati Uniti, in Australia e Giappone. Tale rapporto confermava in particolare l’ampia diffusione, in chiave comparatistica, di due modelli di deviazione alla regola un’azione-un voto, talora concorrenti e parzialmente convergenti nelle loro finalità, ma nettamente distinti dal punto di vista della rispettiva natura:
i) da un lato, il meccanismo, previsto tra le altre dalla legislazione francese, della maggiorazione del voto, che modifica la regola di attribuzione del diritto di voto, riconoscendo diritti di voto più che proporzionali alle azioni detenute per un certo periodo di tempo da uno stesso titolare (e per ciò dette loyalty shares o actions de loyauté) [12];
ii) dall’altro, la categoria delle azioni a voto plurimo (multi-voting shares), nota all’esperienza di molti paesi europei (dall’Olanda al Regno Unito agli ordinamenti scandinavi), ma particolarmente diffusa al di là dell’Atlantico, soprattutto tra le società operanti nei settori dei media (News Corporation, Washington Post, New York Times) e ancor più della new economy, ove proprio la presenza di una doppia struttura, articolata in azioni ordinarie collocate sul mercato e azioni a voto multiplo conservate in capo ai soci fondatori – ritenuti come i soggetti più qualificati in un’ottica di sviluppo e visione di lungo termine della società – ha consentito alcune delle più importanti IPO dell’ultimo decennio (prime tra tutte, quelle di Google e di Facebook, rispettivamente del 2004 e del 2012) [13].
3. Le azioni a voto plurimo: il nuovo art. 2351, comma 4, c.c.
Ai modelli stranieri sopra ricordati si è dunque ispirato il nostro legislatore, introducendo dapprima per le società quotate il meccanismo di maggiorazione del voto, sulla falsariga dell’ordinamento francese, e riconoscendo quindi per tutte le società non (ancora) quotate la possibile creazione delle azioni a voto plurimo. Ed è da quest’ultimo istituto che pare opportuno prendere le mosse, anche alla luce della constatazione che, a differenza della maggiorazione del voto, tale nuova categoria è d’immediata operatività e dunque già oggi utilizzabile dagli statuti di tutte le s.p.a. non quotate.
Come si è detto, il nuovo quarto comma dell’art. 2351 c.c. dispone che, «salvo quanto previsto dalle leggi speciali, lo statuto può prevedere la creazione di azioni con diritto di voto plurimo anche per particolari argomenti o subordinato al verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative. Ciascuna azione a voto plurimo può avere fino a un massimo di tre voti».
Viene in tal modo introdotta una nuova categoria di azioni, ai sensi dell’art. 2348 c.c. Si tratta di una categoria tipica, che si affianca a quelle già contemplate dal codice civile: alcune da tempo, come le azioni a voto limitato e di risparmio, altre dalla riforma del 2003, come le azioni senza voto, postergate, correlate, riscattabili.
L’unico limite esplicito è costituito dal numero massimo di voti attribuibili a ciascuna azione, fissato nella legge in tre. Lo statuto potrà dunque assegnare alle azioni un voto doppio o triplo. Tale assegnazione potrà riguardare indistintamente tutte le materie di competenza assembleare oppure, come chiarisce la norma, “particolari argomenti”: nozione, quest’ultima, che potrà essere declinata dagli statuti tanto selettivamente (ad es. riferendola alla sola nomina del collegio sindacale o alle deliberazioni di autorizzazione di operazioni gestorie ex art. 2364, n. 5, c.c.), quanto in termini più lati e finanche residuali (ad esempio, riferendo il privilegio a tutte le deliberazioni con la sola eccezione di quelle per le quali è riconosciuto il diritto di recesso ai soci non consenzienti). Parimenti legittima deve ritenersi la previsione di una variazione del moltiplicatore, riconoscendo, ad esempio, alle azioni in questione un diritto di voto doppio nelle deliberazioni di competenza dell’assemblea ordinaria e triplo in quelle da assumersi in sede straordinaria.
La disposizione consente inoltre di subordinare il voto plurimo «al verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative». Si tratta di previsione corrispondente a quella già dettata nel secondo comma dell’art. 2351 c.c. con riferimento all’ipotesi di azioni originariamente prive del diritto di voto, destinate ad acquisirlo al verificarsi di un determinato evento, predeterminato nello statuto. Come in quest’ultima fattispecie, anche nella nuova figura ora introdotta dal quarto comma la condizione presupposta dalla norma va qualificata come sospensiva, in quanto determina l’attribuzione di un diritto – in questo caso, il voto plurimo – sino a quel momento sospeso (c.d. sunrise clauses) [14].
Il ricorso a tale tecnica consentirà agli statuti di far scattare il voto multiplo, ad esempio, in caso di mancato soddisfacimento per un certo numero di esercizi del privilegio riconosciuto alla categoria di azioni sino a quando la società non riprenda a corrispondere i privilegi statutariamente previsti (con eventuale recupero degli «arretrati»). La clausola statutaria potrebbe inoltre ricollegare l’attribuzione del voto plurimo a un evento riconducibile a situazioni di mercato o alla riorganizzazione della società. L’accertamento della condizione può far scattare il diritto di voto plurimo in via definitiva, temporanea o finanche limitata a una sola assemblea (ad esempio, quella chiamata in base ad apposita clausola statutaria a deliberare l’autorizzazione alla cessione del principale asset della società).
Pur in assenza di un’espressa previsione normativa, non sembrano sussistere ostacoli all’introduzione di clausole statutarie che prevedano, specularmente, categorie di azioni a diritto di voto originariamente plurimo, ma risolutivamente condizionato al verificarsi di una condizione, il cui accertamento determinerà pertanto il venir meno del privilegio (c.d. sunset clauses). La legittimità di tali clausole trova fondamento nel principio di atipicità delle categorie speciali di azioni, enunciato dall’art. 2348c.c., comma 2, che induce a ritenere che la menzione da parte della legge di una determinata categoria o di un diritto modificabile non abbia valore d’indicazione tassativa delle azioni che possono essere create dall’autonomia statutaria. Anche in tali ipotesi la compressione del diritto di voto potrà prodursi soltanto transitoriamente – per alcune assemblee o per un certo arco di tempo – ovvero potrà operare in via definitiva, determinando una vera e propria conversione in azioni a diritto di voto ordinario (e di regola propriamente ordinarie, salvo che siano assistite da privilegi o da altri diritti speciali). La clausola statutaria potrebbe ricollegare il “ritorno alla ordinarietà” (almeno, quanto al voto) ad avvenimenti oggettivi, come ad esempio il trasferimento della partecipazione di controllo o altri eventi che incidano sull’assetto societario. Parrebbero tuttavia legittime anche condizioni riferite a profili soggettivi inerenti al titolare delle azioni: così, ad esempio, si potrà prevedere che le azioni a voto plurimo assegnate a dirigenti della società perdano il diritto di voto a seguito della cessazione del relativo apporto di lavoro [15].
La condizione, sia essa sospensiva o risolutiva, non dev’essere comunque meramente potestativa [16]. Gli eventi in essa dedotti devono sostanziarsi in avvenimenti futuri e incerti, interni o esterni alla stessa società, indicati con sufficiente precisione nello statuto, unitamente alle modalità del suo accertamento e del conseguente riconoscimento (o venir meno) del diritto di voto plurimo; in assenza di un’espressa previsione statutaria, a tale compito saranno chiamati in primo luogo i consiglieri di amministrazione (nel sistema dualistico, i consiglieri di gestione), nonché, sulla base delle informazioni da questo ricevute, il presidente dell’assemblea, in sede di accertamento della legittimazione dei presenti e dei risultati delle votazioni (art. 2371 c.c.).
Condizionamento e selezione del voto plurimo potrebbero essere utilizzati anche congiuntamente: è pertanto ipotizzabile la creazione di azioni originariamente ordinarie, destinate ad acquisire il voto plurimo su singoli argomenti in conseguenza dell’accertamento della condizione sospensiva e, all’opposto, di azioni con diritto di voto plurimo circoscritto a determinati argomenti, destinate a “degradare” ad ordinarie al verificarsi della condizione risolutiva.
Quanto alla portata del voto, la legge fissa in tre il numero massimo di voti che può essere riconosciuto alla nuova categoria. Se è prevedibile che la prassi si assesti – come insegna il dato comparatistico [17] – sulla creazione di azioni a voto doppio o (più frequentemente) triplo, non sembra tuttavia da escludersi la possibile previsione anche di decimali di voto, ad esempio 1,5 o 2,5 voti per azione. La compatibilità “ontologica” della frazionamento del voto al di sotto dell’unità è ormai attestata dall’istituto della maggiorazione (che, come si vedrà, è certamente attribuibile anche in percentuali intermedie tra 1 e 2 voti per azione), né si vedono ragioni ostative ad una configurazione del moltiplicatore del voto nei termini che risultino di volta in volta più adeguati ad individuare il punto di equilibrio in concreto preferibile per le diverse componenti della compagine sociale. Più in generale, sembra doversi ammettere la costituzione in società non quotate sia di clausole di maggiorazione, sia di categorie di azioni caratterizzate dal riconoscimento di una maggiorazione nel voto (che potrà qui consistere in qualunque numero superiore ad uno e inferiore o uguale a tre) condizionatamente ad una durata minima del possesso azionario (che potrà in tal caso anche essere inferiore al biennio).
4. Voto plurimo e atipicità delle categorie azionarie.
Come si è ricordato nel paragrafo precedente; le azioni a voto plurimo, nelle loro diverse variabili sin qui descritte, si iscrivono in un quadro normativo sul cui sfondo continua a stagliarsi il principio generale di atipicità dei titoli azionari (art. 2348 c.c.), che, con riferimento al diritto di voto, ha indotto a ritenere legittime, in tutte le s.p.a. (e dunque anche in quelle aperte), ulteriori categorie, quali in particolare le azioni a voto contingentato o scaglionato [18]; e che, per le medesime ragioni, consente la creazione anche di azioni a voto indistintamente depotenziato, in misura frazionaria e indipendente dalla percentuale di capitale detenuta dal loro titolare (azioni a voto frazionato).
Quest’ultima categoria è evidentemente speculare rispetto alle azioni a voto plurimo e può condurre, in concreto, ad effetti sostanzialmente identici. Non è infatti dato ravvisare alcuna differenza sostanziale nel rapporto esistente tra due categorie di azioni, pari entrambe alla metà del capitale, rappresentate, in un caso, da azioni a voto triplo e azioni ordinarie, e, nell’altro, da azioni ordinarie e da azioni a voto scaglionato che assegnano un voto ogni tre titoli; in entrambe le ipotesi la prima categoria gode di una “potenza di voto” tre volte superiore rispetto alla seconda.
Il confronto tra azioni a voto plurimo e azioni a voto frazionato induce a sottolineare come quest’ultima categoria: a) per un verso, possa determinare un rapporto molto più squilibrato rispetto al limite del triplo fissato dalla legge per le azioni a voto plurimo, ben potendosi attribuire, ad esempio, un voto ogni dieci azioni; b) per altro verso, incontri un limite quantitativo, trattandosi evidentemente di un sottoinsieme della più ampia categoria delle azioni a voto limitato e non potendo il valore di tali azioni, unitamente alle altre eventuali azioni senza voto o a voto limitato, superare la metà del capitale sociale (art. 2351, comma 2, c.c.).
Da quest’ultimo angolo prospettico si evince un ulteriore profilo, già anticipato e di notevole rilevanza applicativa. Le azioni a voto plurimo sono svincolate da limiti quantitativi e potrebbero rappresentare, da sole o unitamente ad altre categorie speciali di azioni, anche più della metà del capitale sociale. Quest’ultimo limite quantitativo – che, come si è ricordato, costituisce l’unico vincolo residuo alla libertà statutaria in materia (nelle s.p.a. non quotate) – è dettato dal codice per le “azioni senza diritto di voto, con diritto di voto limitato a particolari argomenti, con diritto di voto subordinato al verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative”. La previsione normativa per la quale è “il valore di tali azioni” a non poter “complessivamente superare la metà del capitale sociale” induce ad escludere la riconducibilità al limite in esame sia delle azioni ordinarie, nonostante la sensibile diluizione che subiscono nella loro Stimmkraft in presenza di azioni a voto plurimo, sia, a fortiori, delle stesse azioni a voto plurimo.
La legge non pone limiti a un utilizzo congiunto delle due tecniche, rispettivamente di moltiplicazione (voto plurimo) e compressione (voto frazionato) del diritto di voto; sicché il capitale ben potrebbe essere diviso tra azioni a voto plurimo e azioni a voto depotenziato, consentendo alle prime una potenza di voto (in ipotesi anche molto) superiore rispetto al triplo previsto dalla legge.
Nel nuovo scenario normativo risulta dunque confermato che lo statuto delle società azionarie potrà non contemplare alcuna azione ordinaria, essendo il capitale interamente rappresentato da azioni di categoria, dotate di diritti speciali, con il solo limite che la metà delle stesse sia a voto non limitato (unitario o plurimo): com’era stato felicemente osservato, “la presenza di una categoria di azioni ‘ordinarie’, qualora vi siano due o più categorie di azioni, rappresenta il frutto di una scelta rimessa – anch’essa – all’autonomia statutaria, e dipende dalla circostanza (non necessaria) che una delle categorie di azioni non abbia variante alcuna rispetto a quanto derivante dalla disciplina suppletiva e derogabile del tipo società per azioni” [19]. Né potrebbe escludersi che tutte le azioni siano a voto plurimo, ma differenziato in relazione alle materie all’ordine del giorno: così ad esempio, si potrebbe prevedere l’attribuzione a soci finanziatori della metà del capitale rappresentato da azioni a voto doppio unicamente sulla nomina e revoca del collegio sindacale e sull’approvazione di specifiche operazioni “di interesse primordiale” per cui sia richiesta l’autorizzazione preventiva dell’assemblea ordinaria ai sensi dell’art. 2364, n. 5, c.c., attribuendosi voto doppio su tutte le altre deliberazioni da assumersi in sede ordinaria alla restante metà delle azioni, di cui siano titolari i soci imprenditori, e ripristinandosi infine la regola legale suppletiva “un’azione/un voto” nelle deliberazioni dell’assemblea straordinaria.
5. Voto plurimo, influenza dominante e controllo azionario.
La moltiplicazione dell’effetto leva costituisce d’altro canto il dichiarato effetto e al contempo l’obiettivo principale del nuovo istituto, che potrà trovare la sua massima estrinsecazione nell’ipotesi in cui vengano emesse azioni a voto triplo da parte di società il cui capitale sia rappresentato per metà da azioni prive del diritto di voto: in tal caso, infatti, il possesso delle azioni a voto plurimo assicurerebbe al loro titolare il controllo di diritto, sebbene queste ultime rappresentino poco più di un ottavo del capitale sociale (12,5% + 1 azione), in tal modo dimezzando la percentuale sino a ieri necessaria a tal fine (25% + 1 azione) [20]. Così, ad esempio, in una prospettiva di successione generazionale, si potrà garantire la continuazione della gestione in capo all’erede individuato come il più dotato attribuendogli una quota del 14% del capitale, rappresentata da azioni a voto triplo, ripartendo tra agli altri due figli le azioni ordinarie in due quote paritarie, pari ciascuna al 18% del capitale, e lasciando al consorte superstite il restante 50% di azioni senza voto.
Un effetto moltiplicatore della leva si verifica, in misura più contenuta, anche nell’ipotesi in cui non siano contemplate limitazioni al diritto di voto, dividendosi il capitale solo tra azioni ordinarie e a voto plurimo: anche in tale fattispecie – destinata a verificarsi con maggior frequenza – la percentuale necessaria per assicurare il controllo di diritto potrà essere sensibilmente ridotta, sino ad essere dimezzata a favore degli azionisti titolari di azioni a voto triplo pari al 25% del capitale + 1 azione; ed analoga diluizione potrà verificarsi, in concreto, ai fini dell’attribuzione (o conservazione) del controllo di fatto.
Com’è reso evidente da questi esempi, le azioni a voto plurimo sono destinate ad incidere sulla nozione di controllo azionario di diritto e di fatto di cui all’art. 2359 c.c., con i corollari che ne discendono anche ai fini dei limiti all’acquisto di partecipazioni incrociate (artt. 2359 bis ss. c.c.) e della presunzione di soggezione all’attività di direzione e coordinamento (art. 2497 sexies c.c.) e della relativa disciplina, in punto di pubblicità, obblighi di motivazione, postergazione dei finanziamenti e responsabilità (artt. 2497 ss. c.c.).
Sotto tale profilo la formulazione dell’art. 2359 c.c. sembra agevolare l’interprete, facendo la norma riferimento alla «disponibilità», rispettivamente, della «maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria» (per il controllo di diritto: n. 1) e di «voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell'assemblea ordinaria» [21].
Meno immediato potrebbe invece rivelarsi l’accertamento della nozione di controllo in quelle società quotate che abbiano conservato azioni a voto plurimo precedentemente emesse e introdotto al loro fianco clausole di scaglionamento o contingentamento (v. infra). Più in generale, la questione viene a rivestire una maggior delicatezza ove il voto multiplo sia riferito a singole deliberazioni di competenza dell’assemblea ordinaria, dovendosi in tal caso presumibilmente far riferimento alla maggioranza dei voti esprimibili in tema di nomina e revoca degli amministratori e di approvazione del bilancio [22].
6. Voto plurimo, nomina degli organi sociali e quozienti assembleari
Il superamento del divieto di voto plurimo si riflette infine sulla questione, operativamente rilevante, relativa alla legittimità della istituzione di categorie di azioni dotate del potere di nomina di determinate percentuali dei componenti degli organi sociali. Nel nuovo quadro normativo sembra doversi superare il giudizio di inammissibilità – sino a ieri prevalente [23] – rispetto a previsioni statutarie che riservino la nomina della maggioranza degli amministratori a una categoria di azioni che non rappresenti almeno la metà del capitale sociale. Nel nuovo scenario si potrà infatti attribuire alle categorie di azioni a voto plurimo il diritto di nominare un numero predefinito e maggioritario degli organi sociali ogni qualvolta risultino titolari di almeno la metà dei voti esercitabili sulle deliberazioni in questione; e parimenti legittime potranno considerarsi le clausole che ripartiscano tra due distinte categorie di azioni il diritto di nomina, rispettivamente, della maggioranza dell’organo di amministrazione, da un lato, e dell’organo di controllo, dall’altro, sul presupposto che a ciascuna di esse sia assegnato un voto plurimo sulle rispettive deliberazioni, tale da riconoscere loro la maggioranza dei diritti di voto rispettivamente esercitabili [24]. Tale clausola può risultare particolarmente utile nelle società a partecipazione mista, soprattutto ove la componente pubblica risulti eterogenea, venendo il diritto di nomina di una parte degli organi sociali esercitato con una votazione separata dell’assemblea speciale (dei soci pubblici titolari) della categoria in questione [25].
Da ultimo va sottolineato che per le azioni a voto plurimo non è contemplata una disposizione corrispondente a quella dettata, con riferimento alla clausola di maggiorazione del voto, dall’ottavo comma dell’art. 127 quinquies TUF, per il quale la maggiorazione del diritto di voto va computata, salvo diversa disposizione statutaria, anche per la determinazione dei quorum costitutivi e deliberativi che fanno riferimento ad aliquote del capitale sociale. Si pensi alla deliberazione di aumento di capitale con esclusione o limitazione del diritto di opzione «quando l’interesse sociale lo esige», che, ai sensi del quinto comma dell’art. 2441 c.c., dev’essere «approvata da tanti soci che rappresentino oltre la metà del capitale sociale, anche se la deliberazione è presa in assemblea di convocazione successiva alla prima» [26]. In queste ipotesi deve pertanto ritenersi tuttora coessenziale, ai fini dell’accertamento del quoziente deliberativo, la duplice condizione del conseguimento sia dell’aliquota di capitale richiesta dalla legge, sia della maggioranza dei voti esercitabili in tale deliberazione (sulla quale soltanto è destinato ad incidere il voto plurimo).
7. Introduzione delle azioni a voto plurimo: quorum (pseudo) rafforzato e tutela delle minoranze.
La rilevanza sistematica e le ricadute applicative dell’istituto delle azioni a voto plurimo – le cui potenzialità vanno ben oltre le esemplificazioni sinora prefigurate e che la sensibilità dei professionisti (e in primo luogo dei notai) non mancherà di sperimentare in più direzioni – impone naturalmente un supplemento di riflessione e di cautela nell’introduzione della categoria. L’ulteriore accentuazione dell’effetto leva che il nuovo istituto potrà introdurre, sia pure in un quadro di totale trasparenza per i soci e i terzi, è inevitabilmente destinato ad accentuare i rischi di estrazione di benefici privati da parte degli azionisti di controllo e, più in generale, di abuso da parte di questi ultimi. E ciò non soltanto nella fase successiva all’introduzione della categoria, venendo a disporre di maggioranze tali da dominare l’assemblea nonostante l’esiguità della loro partecipazione, ma già in sede di creazione della nuova categoria.
Quest’ultimo profilo di rischio emerge in termini esemplari in ipotesi di aumento del capitale deliberato con finalità di riduzione della partecipazione dei soci minoritari privi della provvista a tal fine necessaria: operazione che, ove le azioni di nuova emissione siano a voto plurimo, determinerebbe corollari iperdiluitivi sul piano corporativo. Ed è appena il caso di osservare come tale rischio possa risultare ulteriormente accentuato sia dalla previsione di sovrapprezzi esuberanti, eventualmente (e paradossalmente) giustificati proprio dal voto plurimo incorporato nei titoli offerti [27].
È a tali considerazioni che sembrano potersi ricondurre le ragioni sottese al quoziente rafforzato previsto per l’introduzione delle azioni a voto plurimo nelle società già esistenti al momento dell’entrata in vigore della nuova disciplina, nelle quali la creazione della nuova categoria dev’essere approvata da almeno i due terzi del capitale rappresentato in assemblea [28]: con un innalzamento del quoziente di legge che, peraltro, da un lato, non coinvolge le società aperte non quotate (per le quali è già previsto dal codice per tutte le deliberazioni da assumersi in sede straordinaria) e, dall’altro, può rivelarsi impercettibile nelle s.p.a. chiuse: riguardando la sola prima convocazione, esso è infatti agevolmente sterilizzabile dai soci di maggioranza facendo andare deserta tale assise [29].
L’introduzione della nuova categoria dovrà comunque aver luogo nel rispetto del principio di parità di trattamento dei soci: tale regola – enunciata per tutte le società azionarie, a livello comunitario, dall’art. 42 della Direttiva 1977/91 (c.d. Seconda Direttiva) [30] – sembra escludere in radice la possibilità di operare conversioni in azioni a voto plurimo di alcune categorie preesistenti, selettivamente individuate, o, peggio ancora, a favore di alcuni azionisti soltanto; per le stesse ragioni, sembra doversi negare la possibilità di deliberare aumenti di capitale che destinino le azioni a voto plurimo di nuova emissione ad alcuni azionisti (o categorie di azioni), alterando le posizioni dei singoli soci all’interno della società.
Se queste deliberazioni sembrano dunque presupporre il consenso unanime dei soci, pare sufficiente la maggioranza – integrante il quoziente (pseudo) rafforzato sopra ricordato – ai fini dell’approvazione di aumenti di capitale con emissione di azioni a voto plurimo da offrirsi in sottoscrizione ai dipendenti (ovvero ad alcune specifiche risorse umane da fidelizzare) o a fronte di conferimenti in natura la cui acquisizione risulti oggettivamente utile alla società o ancora a terzi il cui ingresso in società risponda comunque all’interesse dell’emittente (art. 2441 c.c.); ciò, naturalmente, sempre che la correlata esclusione o limitazione del diritto di opzione riguardi proporzionalmente tutti gli azionisti. In tal caso deve peraltro riconoscersi ai soci che non abbiano concorso alla deliberazione il diritto di recedere dalla società, incidendo indubbiamente la modificazione statutaria sul diritto di voto degli azionisti [art. 2437, comma 1, lett. g), c.c.] Meno sicuro è se analogo diritto sorga anche in ipotesi di aumento di capitale in cui le azioni a voto plurimo siano offerte in opzione senza esclusione del diritto di opzione [31]; ed ancor più incerto è se la mera introduzione nello statuto della nuova categoria, senza però farvi ancora ricorso, integri il presupposto di cui all’art. 2437, comma 1, lett. g), c.c. trattandosi di deliberazione in astratto concernente i diritti di voto, ma di per sé inidonea ad incidere in concreto sugli stessi.
Tali dubbi potranno essere superati in radice da apposite clausole statutarie che riconoscano comunque il diritto di recesso nella prima o in entrambe le ipotesi da ultimo indicate: clausole sulla cui legittimità non sussistono dubbi, siano esse considerate alla stregua di cause statutarie di recesso o riproduttive di una regola legale imperativamente dettata dalla legge; così come fuori discussione è la legittimità della previsione di quozienti statutari rafforzati ai fini dell’emissione delle azioni a voto plurimo.
8. La maggiorazione del voto nelle società quotate: prime considerazioni.
Su un piano profondamente diverso rispetto alle azioni a voto plurimo si colloca il meccanismo della maggiorazione del voto, previsto per le società quotate, sin dall’originaria formulazione del decreto legge, dal nuovo art. 127-quinquies TUF. Nonostante si parli al riguardo di loyalty shares, la relativa clausola statutaria non determina la creazione di una nuova categoria di azioni, ma solo una modifica della regola di attribuzione del diritto di voto destinata a valere per tutti i soci che presentino il requisito (di fedeltà, appunto, nella partecipazione alla compagine sociale) contemplato dalla legge.
Ed è alla luce di tale premessa – espressamente enunciata dal quinto comma dell’art. 127-quinquiesTUF, ai sensi del quale «le azioni a voto maggiorato non costituiscono una categoria speciale di azioni» – che si giustifica il più spiccato favore del legislatore verso il meccanismo in esame, la cui introduzione è stata ulteriormente agevolata dalla duplice previsione che, da un lato, riduce il quorum deliberativo ai fini dell’approvazione della relativa deliberazione dai due terzi alla semplice maggioranza del capitale rappresentato in assemblea [32] e, dall’altro, esclude espressamente che tale deliberazione possa fondare il diritto di recesso dei soci non consenzienti [33].
Agli statuti la legge demanda il compito di istituire un apposito elenco, dall’iscrizione al quale è destinato a decorrere il periodo di possesso continuativo delle azioni cui si ricollega la maggiorazione del voto. Al riguardo la disposizione fissa a) una soglia massima alla maggiorazione, pari a due voti e b) un termine minimo di possesso azionario, quale presupposto della stessa, pari a ventiquattro mesi.
La legge precisa ancora che le azioni devono essere state detenute da uno stesso azionista ininterrottamente e che la maggiorazione si estingue in caso di successivo trasferimento, a titolo oneroso o gratuito, delle azioni ovvero di cessione diretta o indiretta di partecipazione di controllo in società o enti che detengano azioni a voto maggiorato in misura superiore al due per cento [34].
Entro questi limiti – e quelli ulteriori che saranno fissati nell’emanando Regolamento Consob di attuazione della disciplina in commento in punto di trasparenza delle partecipazioni rilevanti e di osservanza della disciplina in materia di OPA obbligatoria [35] – gli statuti delle società quotate o in via di quotazione potranno operare liberamente, sia introducendo presupposti ulteriori (ad es. semplicemente dilatando il termine di possesso richiesto), sia precisando la percentuale della maggiorazione (ad es. 1,25 o 1,5 o 2 voti per ogni azione “fedelmente” posseduta), eventualmente differenziandola in relazione a singole materie ovvero riferendola selettivamente ad alcune di esse (ad es. nomina e revoca dell’organo amministrativo).
Lo statuto potrà altresì:
i) prevedere l’estensione della maggiorazione del voto alle nuove azioni emesse in caso di aumento di capitale a pagamento (art. 127-quinquies, comma 4, TUF);
ii) stabilire se, in caso di fusione o scissione di società contenente la clausola di maggiorazione, gli originari titolari delle azioni conservino il voto maggiorato sulle azioni ricevute in concambio (art. 127-quinquies, comma 4, TUF);
iii) eventualmente derogare alle tre regole proposte, in via suppletiva, dalla legge laddove contempla l’automatica estensione della maggiorazione alle azioni assegnate in occasione di aumenti gratuiti di capitale, la sopravvivenza della stessa in caso di trasferimenti delle azioni per successione a causa di morte o in conseguenza di fusioni o scissioni del loro titolare (art. 127 quinquies, comma 3, TUF), nonché il computo della maggiorazione del diritto di voto anche per la determinazione dei quorum costitutivi e deliberativi che fanno riferimento ad aliquote del capitale sociale (art. 127 quinquies, comma 8, TUF) [36].
Lo stesso ottavo comma dell’art. 127-quinquies TUF sancisce per contro imperativamente l’irrilevanza della maggiorazione del voto ai fini della determinazione delle aliquote di capitale legittimanti l'esercizio di diritti e prerogative ulteriori: e ciò indipendentemente dalla circostanza che essi attengano al procedimento assembleare (come la convocazione dell'assemblea o l'integrazione dell'ordine del giorno dell'assemblea) o siano ad esso estranei (come la promozione dell’azione sociale di responsabilità, la denuncia di gravi irregolarità o ancora la denuncia al collegio sindacale).
9. Maggiorazione del voto e ultrattività delle azioni a voto plurimo precedentemente emesse.
L’obiettivo di politica legislativa volto all’incentivazione alla quotazione, dichiaratamente sotteso alle novità in esame, spiega due ulteriori previsioni normative di notevole rilievo.
In primo luogo si consente agli statuti delle società che introducano il meccanismo di voto maggiorato nel corso del procedimento di quotazione di estendere il computo del termine di possesso prolungato anche ad una data anteriore all’iscrizione nell'elenco, purché comunque non inferiore a ventiquattro mesi (art. 127-quinquies, comma 7, TUF).
In secondo luogo, pur conservandosi il divieto per le società quotate di creare ex novo azioni a voto plurimo post quotazione [37], si prevede l’ultrattività di quelle già emesse anteriormente alle quotazione: il secondo comma dell’art. 127-sexies TUF dispone infatti che «le azioni a voto plurimo emesse anteriormente all'inizio delle negoziazioni in un mercato regolamentato mantengono le loro caratteristiche e diritti».
La stessa norma soggiunge che «se lo statuto non dispone diversamente, al fine di mantenere inalterato il rapporto tra le varie categorie di azioni, le società che hanno emesso azioni a voto plurimo ovvero le società risultanti dalla fusione o dalla scissione di tali società possono procedere all'emissione di azioni a voto plurimo con le medesime caratteristiche e diritti di quelle già emesse limitatamente ai casi di:
a) aumento di capitale ai sensi dell'articolo 2442 del codice civile ovvero mediante nuovi conferimenti senza esclusione o limitazione del diritto d'opzione;
b) fusione o scissione» [38].
La sopravvivenza delle azioni a voto plurimo è peraltro configurata dalla legge come alternativa rispetto al meccanismo della maggiorazione, giacché in tal caso gli statuti delle società quotate «non possono prevedere ulteriori maggiorazioni del diritto di voto a favore di singole categorie di azioni né ai sensi dell'articolo 127-quinquies, TUF » [39].
Sempre con riferimento alle società quotate vanno ancora segnalati il superamento del divieto delle clausole di scaglionamento (e di tetto massimo), che la riforma del 2003 aveva introdotto per tutte le società aperte, e gli importanti – ed opportuni – interventi di raccordo con la disciplina delle offerte pubbliche di acquisto (artt. 104-bis, 105, 106 e 109 TUF) e delle partecipazioni rilevanti (art. 120 TUF). La portata di questi ultimi interventi, con i quali viene sostanzialmente disattivata la maggiorazione del voto in sede di assemblea chiamata a deliberare sulle opa e ridefinite le soglie rilevanti alla luce del numero complessivo (non delle azioni, ma) dei diritti di voto, potrà peraltro essere meglio apprezzata alla luce del Regolamento che la Consob è chiamata ad emanare entro la fine dell’anno.
Riferimenti bibliografici:
[1] Art. 35 del d.l. 24 giugno 2014, n. 91, pubblicato in G.U. del 24 giugno 2014.
[2] Così i nuovi commi terzo e quarto dell’art. 2351 c.c., introdotti dal comma 8-bis dell’art. 20 del d.l. n. 91 del 2014, a sua volta introdotto dalla legge di conversione 11 agosto 2014, n. 116, pubblicata in G.U. del 20 agosto 2014.
[3] E v. infatti l’art. 127-sexies, comma 2, TUF, anch’esso introdotto dalla legge di conversione 11 agosto 2014, n. 116.
[4] Art. 127-sexies, comma 1, TUF.
[5] Così l’art. 8-quater dell’art. 20 del d.l. n. 91 del 2014.
[6] Art. 127-quinquies, comma 2, TUF.
[7] L’art. 164, comma 1, del Codice di Commercio del 1882 riconosceva infatti imperativamente ad ogni azionista il diritto di esercitare il voto nelle assemblee generali, così precludendo la creazione di azioni senza voto, l’introduzione di tetti minimi statutari al possesso azionario ai fini dell’esercizio del diritto di voto o ancora di limitazioni ulteriori a quelle implicite nel meccanismo di scaglionamento previsto in via suppletiva dalla legge (e su cui infra).
[8] E v. l’art. 157 del Codice di Commercio, ai sensi del quale: «Ogni socio ha un voto ed ogni azionista ha un voto sino a cinque azioni da lui possedute. L'azionista che possiede più di cinque e sino a cento azioni ha un voto ogni cinque azioni, e per quelle che possiede oltre il numero di cento ha un voto ogni venticinque azioni. Le deliberazioni si prendono a maggioranza assoluta. Nell'atto costitutivo o nello statuto può essere derogato a queste disposizioni»: in argomento, per tutti, il classico studio di A. PADOA SCHIOPPA, Saggi di storia del diritto commerciale, Milano, 1992, 221 s., cui adde più di recente ID., La normativa sulle società per azioni: proposte e riforme. Un concerto di voci (1882-1942), in A. PADOA SCHIOPPA - P. MARCHETTI, La società per azioni, Tra imprese e istituzioni. 100 anni di Assonime, Roma, 2010, 4, 40 s. E v. ora la limpida ricostruzione del dibattito che avrebbe condotto all’introduzione del voto plurimo in M. LAMANDINI, Voto plurimo, tutela delle minoranze e offerte pubbliche di acquisto, Relazione al XXVIII Convegno di studio su “Unione europea: concorrenza tra imprese e concorrenza tra stati”, Courmayeur, 19-20 settembre 2014, che si è potuto leggere per cortesia dell’Autore.
[9] In tema, per tutti, M. LAMANDINI, Autonomia negoziale e vincoli di sistema nella emissione di strumenti finanziari da parte delle società per azioni e delle cooperative per azioni, in Banca, borsa, tit. cred., 2003, I, 519 ss.; M. NOTARI, Commento all’art. 2348c.c., in P. MARCHETTI-L.A. BIANCHI-F. GHEZZI-M. NOTARI (diretto da), Commentario alla riforma delle società,Milano, 2008, 150 ss.; A. ANGELILLIS-M. VITALI, Commento all’art. 2351c.c., in P. MARCHETTI-L.A. BIANCHI-F. GHEZZI-M. NOTARI (diretto da), Commentario alla riforma delle società, cit.; U. TOMBARI, Le categorie speciali di azioni nella società quotata, in Riv. soc., 2007, 965 ss.; N. ABRIANI, Le azioni e gli altri strumenti finanziari, in N. ABRIANI-S. AMBROSINI-O. CAGNASSO-P. MONTALENTI, Le società per azioni, in G. COTTINO (diretto da), Trattato di diritto commerciale, IV, 1, Padova, 2010, 231 ss.; per un approfondito esame dei nuovi istituti, anche in chiave comparatistica, v. S. ALVARO-A. CIAVARELLA-D. D’ERAMO-N. LINCIANO, La deviazione dal principio “un’azione-un voto” e le azioni a voto multiplo, Quaderno Giuridico Consob n. 5, gennaio 2014, in Riv. soc., 2014, 479 ss.; B. MASSELLA DUCCI TERI, Appunti in tema di azioni a voto plurimo: evoluzione storica e prospettive applicative, in RDS, 2013, 746 ss.; G.P. LA SALA, Principio capitalistico e voto non proporzionale nella società per azioni, Torino, 2011.
[10] I rischi di concorrenza ineguale insiti nell’istituto del voto plurimo erano già puntualmente sottolineati da P. MONTALENTI, La società per azioni a dieci anni dalla riforma: un primo bilancio, in Riv. soc., 2014, 416 s.; e v., più di recente, ID., Il diritto societario a dieci anni dalla riforma: proposte di restyling, in Nuovo dir. soc., n. 11/2014, 11, ove si proponeva appunto l’abrogazione del divieto dettato dall’art. 2351, comma 2, c.c. Sull’influenza di tale profilo sulla recente scelta del gruppo Fiat-Chrysler di collocare nei Paesi Bassi la sede sociale della società risultante dalla fusione, v. B. BERTOLDI, Come si può (e perché) pesare le azioni oltre a contarle, in Il Sole 24 Ore, 13 febbraio 2014, 16.
[11] In tal senso v. già i rilievi svolti, con riferimento alla riforma del 2003, da A. PISANI MASSAMORMILE, Azioni ed altri strumenti finanziari partecipativi, in Riv. soc., 2003, 1293.
[12] Con la recente Loy 2014-384 del 29 marzo 2014, il meccanismo del vote double è addirittura assurto a regola legale suppletiva delle società quotate francesi, destinata a trovare dunque applicazione di diritto, salva restando la possibilità di un opt out statutario volto a ripristinare la regola di proporzionalità tra azioni e voti.
[13] Sul funzionamento della dual class structure, tipica delle corporations statunitensi, v. ora M. VENTORUZZO, Un’azione, un voto: un principio da abbandonare?, Relazione al XXVIII Convegno di studio su “Unione europea: concorrenza tra imprese e concorrenza tra stati”, Courmayeur, 19-20 settembre 2014, di cui si è potuto consultare una prima versione provvisoria per cortesia dell’Autore.
[14] Per tutti, C.M. BIANCA, Diritto civile, III, Il contratto, Milano, 1987, 512 ss.
[15] In senso favorevole, con riguardo alle azioni a voto condizionato, v. già, anche se dubitativamente, A. PISANI MASSAMORMILE, Azioni ed altri strumenti finanziari partecipativi, cit., 1293.
[16] E v. ancora C.M. BIANCA, Diritto civile, III, Il contratto, 520 s.
[17] S. ALVARO-A. CIAVARELLA-D. D’ERAMO-N. LINCIANO, La deviazione dal principio “un’azione-un voto”, cit., 502 ss.
[18] E v. la Massiman. 136 del Consiglio Notarile di Milano:«La disciplina statutaria, consentita dall'art. 2351, comma 3, c.c., volta a prevedere che in relazione alla quantità di azioni possedute da uno stesso soggetto il diritto di voto sia limitato ad una misura massima o sia soggetto a scaglionamenti può riferirsi non solo alla generalità delle azioni che rappresentano il capitale sociale, ma anche a una o più categorie di azioni».
[19] Così M. NOTARI, Commento all’art. 2348c.c., cit., 163 s., ove il rilievo che, del resto, «non esiste nel diritto societario la nozione di azioni ordinarie, come tali mai qualificate dalla legge, né è dato rintracciare alcuna possibile conseguenza di una simile qualificazione sul piano della disciplina applicabile, che rimane la stessa a prescindere dal fatto che una “categoria” di azioni possa dirsi “ordinaria” o “speciale” in dipendenza della distanza rispetto al contenuto tipico e paradigmatico della partecipazione azionaria».
[20] Si pensi ad una società con un milione di azioni, cinquecentomila delle quali senza voto: in tal caso centoventicinquemila e una azione a voto plurimo esprimerebbero un numero maggior di voti (375.003) rispetto alle azioni ordinarie (complessivamente 375.000 voti).
[21] Ed analogo rilievo vale anche ai fini dell’individuazione del concetto di “influenza notevole” rilevante ai fini del rapporto di collegamento, che il terzo comma dell’art. 2359c.c. «presume quando nell'assemblea ordinaria può essere esercitato almeno un quinto dei voti ovvero un decimo se la società ha azioni quotate in mercati regolamentati».
[22] Si veda il già ricordato esempio nel quale alla metà del capitale rappresentato da azioni a voto doppio sulle delibere relative al collegio sindacale e sulle autorizzazioni ai sensi dell’art. 2364, n. 5, c.c., si contrapponga una metà di azioni con diritto di voto doppio su tutte le altre deliberazioni da assumere in sede ordinaria.
[23] In tal senso, rispetto all’originario art. 2351c.c., N. ABRIANI, Commento all’art. 2351c.c., cit., 324; U. TOMBARI, Le categorie speciali di azioni, cit., 975; A. ANGELILLIS-M. L. VITALI, Commento all’art. 2351c.c., cit., 436 s.
[24] Come nell’esempio già sopra ipotizzato.
[25] E v. già l’Orientamento 15/2010 dell’Osservatorio di diritto societario del Consiglio Notarile di Firenze consultabile sul sito www.consiglionotarilefirenze.ite in RDS, 2011, 270 ss. con presentazione di N. Abriani e U. Tombari.
[26] E v. anche l’art. 2393c.c., ultimo comma, che richiede, ai fini della rinuncia o transazione dell’azione sociale di responsabilità che la relativa deliberazione dell'assemblea sia assunta in assenza del «voto contrario di una minoranza di soci che rappresenti almeno il quinto del capitale sociale o, nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, almeno un ventesimo del capitale sociale».
[27] Il nuovo testo del comma in esame, come sostituito dal sesto comma dell’art. 20 del d.l. n. 91 del 2014 prevede, infatti, che per l'esercizio del diritto di opzione deve essere concesso un termine non inferiore a quindici (in luogo dei trenta originariamente previsti) giorni, decorrente dalla pubblicazione dell'offerta, che deve peraltro aver luogo anche sul sito internet della società.
[28] Così l’art. 20, comma 8-ter del d.l. n. 91 del 2014, che sostituisce il testo dell’art. 212c.c. delle disposizioni di attuazione del codice civile.
[29] Tale disciplina transitoria – che sembra comunque lasciare ferma le diverse e più rigorose previsioni statutarie (siano esse relative a tutte le modificazioni statutarie oppure alla sola delibera di creazione di nuove categorie azionarie) – trova applicazione alle società per azioni iscritte nel registro delle imprese al 31 agosto 2014, per quelle costituite successivamente a tale data spetterà ai soci valutare se elevare – se del caso, anche oltre le percentuali indicate dalla disposizione transitoria – i quozienti, ovvero introdurre ulteriori cautele, come ad esempio il riconoscimento generalizzato del diritto di recesso ai soci non consenzienti alla modifica statutaria in esame (e v. infra).
[30] E in quanto tale immanente all’ordinamento di tutte le società azionarie, e non soltanto di quelle quotate per le quali è espressamente ribadita dall’art. 92 TUF (il quale impone agli emittenti di assicurare «il medesimo trattamento a tutti i portatori degli strumenti finanziari quotati che si trovino in identiche condizioni»): in argomento v. G. D’ATTORRE, Il principio di uguaglianza nelle società per azioni, Milano, 2007. Sulla portata della norma comunitaria v. già G. OPPO, Uguaglianza e contratto nelle società per azioni, in Riv. dir. civ.,1974, I, 629 ss.; F. D’ALESSANDRO, La Seconda Direttiva e la parità di trattamento degli azionisti, in Riv. soc.,1987, 4 ss.; C. ANGELICI, Parità di trattamento degli azionisti, in Riv. dir. comm., 1987, I, 1 ss.
[31] Salva naturalmente la dimostrazione dell’eventuale intento meramente diluitivo dell’operazione e della conseguente invalidità della relativa deliberazione per violazione del principio di correttezza (artt. 1375 e 2377 c.c.).
[32] Tale deroga alle regole ordinarie, che lascia comunque fermo il rispetto dei quozienti costitutivi richiesti dagli artt. 2368 e 2369 c.c. è stata introdotta in sede di conversione del decreto legge n. 91 mediante l’inserimento dal comma 1-bis all’art. 20d.l. n. 91 del 2014.
[33] Così la contestatissima previsione di cui all’art. 127-quinquies,comma 6, TUF, conforme peraltro a quanto già previsto dall’art. 127-quater TUF ai fini dell’introduzione del meccanismo (parimenti fidelizzante) del dividendo maggiorato: sul punto v. l’intervista a L. Enriques in Il Sole 24 Ore, 26 agosto 2014.
[34] O al 5 % se si tratta di PMI: art. 127-quinquies,comma 3, TUF.
[35] Come si è ricordato, la legge di conversione ha precisato che tale regolamento dovrà essere adottato dalla Consob entro il 31 dicembre 2014 (art. 20, comma 8-quater del decreto d.l. n. 91 del 2014).
[36] Sull’assenza di una disposizione di analogo tenore per le azioni a voto plurimo, v. supra alla nota 22 e testo corrispondente.
[37] Il punto è chiarito dal primo comma dell’art. 127-sexies, TUF, ai sensi del quale: «In deroga all'articolo 2351, quarto comma, del codice civile, gli statuti non possono prevedere l'emissione di azioni a voto plurimo».
[38] Sono queste le uniche due ipotesi nelle quali società quotate potranno emettere nuove azioni a voto plurimo dopo l’ammissione alla negoziazione. Il quarto comma dello stesso art. 127-sexies TUF ha peraltro cura di precisare che«ove la società non si avvalga della facoltà di emettere nuove azioni a voto plurimo ai sensi del comma 2, secondo periodo, è esclusa in ogni caso la necessità di approvazione delle deliberazioni, ai sensi dell'articolo 2376 del codice civile, da parte dell'assemblea speciale degli appartenenti alla categoria delle azioni a voto plurimo».