Mio vecchio amico di giorni e pensieri da quanto tempo che ci conosciamo,
venticinque anni son tanti e diciamo un po' retorici che sembra ieri.
(F. Guccini, Canzone per Piero)
Un vecchio amico di giorni e pensieri
Può sembrare strano iniziare un ricordo di Riccardo Del Punta con i versi di una canzone di Francesco Guccini. Per chi non conosceva Riccardo da vicino, è difficile immaginare che il cantautore di Pavana fosse tra le sue passioni: lui (Riccardo) così intellettualmente raffinato, a fronte della poetica gucciniana fatta di rime baciate e giochi di assonanze, o delle ballate più politiche ed enfatiche, certamente lontane dalla sua idea dei conflitti sociali.
Ma chi lo conosceva, e magari condivideva con lui quella passione (cosa che vale almeno per uno di noi), ritrovava in lui i caratteri amari e nello stesso tempo ironici di tante canzoni più intime del poeta emiliano, una visione della vita disincantata, un po’ fatalista, ma che sulla vita e le sue occasioni di passione non può fare a mano di tornare ad insistere: le passioni intellettuali e le passioni dell’amore, da Riccardo rinnovate in tarda età con l’incontro con Angela e la nascita di Federico.
Passioni che Riccardo non ha mai cessato, nemmeno durante la difficile malattia, di investire e riversare nelle cose che faceva, senza esclusioni (nonostante uno sguardo sempre tendente alla disillusione sull’oggetto stesso della nostra materia – il lavoro e i suoi aspetti umani – che espresse in un bellissimo saggio del 2009 dedicato a un’altra sua passione artistica, Giorgio Gaber).
Per entrambi gli autori di questo ricordo la conoscenza con Riccardo risale a ben più di venticinque anni, essendoci conosciuti all’inizio di percorso accademico avviatosi per tutti noi, più o meno, nella prima metà degli anni ’80: e si può ben dire che sia stata una amicizia “di giorni e pensieri”, per le tante occasioni di condivisione di riflessioni scientifiche, iniziative accademiche e professionali, talvolta facezie e scambi di battute su questa e quella vicenda del nostro mondo.
Senza nulla concedere alla retorica e all’agiografia, cui naturalmente si sarebbe indotti di fronte alla scomparsa di un collega caro, vorremmo dire che Riccardo appariva a entrambi naturalmente superiore, pur in un rapporto di colleganza e poi amicale del tutto paritario.
Lo percepivi superiore, lo diciamo senza alcuna falsa modestia, sul piano culturale e teorico, grazie alla sua brillante intelligenza e alle tante letture da lui fatte negli anni, di cui percepivi lo spaziare ben oltre i territori del diritto: nella filosofia, la teoria politica, la psicanalisi ed altro, con capacità di assorbimento che immaginavamo non comuni. Ne percepivi l’effetto, tra l’altro, nella sua scrittura, sempre molto elegante ma anche controllata, mai ampollosa.
Queste sue caratteristiche, tuttavia, non pesavano né nella relazione personale né nei frequenti confronti su temi giuridici, dove si accostava ad argomenti e tesi altrui con interesse e apertura. Né pesava nel rapporto coi più giovani studiosi, molti dei quali da ormai molti anni vedevano e trovavano in lui un riferimento intellettuale, sentito vicino e facilmente accessibile, per chi voleva, anche nella relazione personale.
In questo, forse, gioca il fatto che Riccardo non si sentiva appartenente ad alcuna ‘scuola’ né gerarchia accademica. Al primo maestro Giuseppe Pera, col quale il rapporto era stato molto tormentato, riconosceva un debito scientifico e, forse soprattutto, l’essere stato modello di rigore, onestà intellettuale e allergia alle peggiori dinamiche accademiche: ma ancora molto giovane Riccardo se ne era affrancato (forse vi era stato persino costretto) e aveva avviato un percorso da outsider, costruendo per necessità e per scelta il ruolo di maestro di sé stesso e intessendo nel contempo relazioni orizzontali e vere nella comunità scientifica. I suoi passaggi di carriera, pur non sempre facili, sono stati in genere percepiti come naturali, quasi scontati.
Non solo studioso, ma partecipante alle dinamiche reali (accademiche e giuridiche)
Riccardo Del Punta, dunque, è stato un collega che sul piano scientifico ha volato alto, aprendosi anche (nella fase più matura della carriera) alla dimensione e alle relazioni internazionali. Ma non è mai stato astratto, misurandosi sempre anche con la realtà applicativa del diritto (sensibilità derivante anche dalla scelta, fatta da subito, di affiancare l’attività di avvocato alla dimensione accademica).
Non è un caso che l’unica monografia di Riccardo si collochi su questo terreno, costituendo – grazie anche alla forma del commentario – una riflessione a tutto campo sulle cause di sospensione del rapporto di lavoro e i correlati problemi interpretativi e applicativi, mentre i contributi su temi più squisitamente teorici si sono sempre collocati in saggi più brevi.
Il suo voler misurarsi con la realtà, inoltre, spiega la dimensione dell’impegno, nel senso che Riccardo – pur senza enfasi, ed anzi spesso accompagnato da istintivo scetticismo, o almeno pragmatismo – è stato un uomo che stava nelle cose e accettava di rischiare.
Lo ha fatto ad esempio nella vita associativa della comunità giuslavoristica: è stato più volte nel direttivo dell’Aidlass (la principale associazione scientifica del settore) del quale è stato, salvo errore, il primo componente eletto ancora da professore associato, nel 1997 (con Gino Giugni Presidente), il più giovane in mezzo a maestri ben più anziani di lui come lo stesso Giugni, Mengoni e Montuschi.
In tempi più recenti, il suo giudizio critico sulle scelte di gestione dell’Associazione da parte di maggioranze costruite prevalentemente su logiche di controllo dei processi di selezione e reclutamento, lo indusse a partecipare attivamente alla battaglia di una minoranza dissenziente.
È significativo ricordare la vicenda del congresso Aidlass di Pisa del 2015, dove tale minoranza esordì con una lista alternativa alle due liste ‘ufficiali’ (nate da un patto precostituito sulla formazione del direttivo e il governo dell’associazione). Tale lista, pur ottenendo un discreto consenso di voti riuscì, per effetto del meccanismo elettorale, a eleggere un solo componente: questi fu proprio Riccardo Del Punta, che grazie alla stima trasversale di cui godeva raccolse abbastanza voti da far saltare, pur su un solo seggio, l’accordo dei gruppi di maggioranza sui nomi da eleggere.
Nella stessa linea si colloca la convinta partecipazione di Riccardo alla fondazione, nel 2020, dell’associazione Labour Law Community – Comunità di giuslavoristi, convinto della necessità di offrire, soprattutto a studiosi e studiose di nuova generazione, nuovi spazi di partecipazione alla vita scientifica e accademica.
Molte altre iniziative negli anni hanno visto il suo convinto impegno (ad esempio quello nel Gruppo Frecciarossa: piccolo laboratorio costituito da colleghi di opinioni e collocazioni diverse, che dalla pratica dell’ascolto e del confronto prova a costruire soluzioni dei difficili equilibri tra gli interessi e i valori che caratterizzano la regolazione della materia del lavoro). Ancora, egli si è impegnato nella vita della comunità professionale, assumendo nel tempo incarichi direttivi e facendo parte del comitato scientifico dell’Agi (l’associazione degli avvocati giuslavoristi) e spendendosi nell’iniziativa della Alta Scuola di formazione specialistica.
Insomma, il Riccardo teorico e studioso del diritto rifluiva costantemente nel Riccardo che partecipava alle dinamiche concrete della materia, nella sua carne e nel suo sangue, fino ad accettare di partecipare, come consulente, ad alcuni delicatissimi processi di riforma delle leggi del lavoro. Su questo torneremo tra poco.
Tecniche e valori del diritto del lavoro
L’opera scientifica di Riccardo, quantitativamente imponente, si può suddividere in due filoni, che, in un certo senso, sono anche temporalmente distinti.
Il primo è quello della attenzione al diritto positivo, che connota in particolare i suoi primi anni di attività. I temi sono temi classici del diritto del lavoro e l’attenzione si concentra su due argomenti e cioè il licenziamento e le sospensioni del rapporto di lavoro. Sono temi su cui Riccardo interverrà a più riprese, che culmineranno nella monografia sulla sospensione del rapporto di lavoro nel 1992. Il taglio delle opere è quello della migliore dottrina lavoristica, attenta al dato positivo ed alla giustificazione dal punto di vista sistematico delle soluzioni interpretative via via accolte, senza indulgere nella retorica della tutela del lavoratore-contraente debole ad ogni costo. L’influenza del Maestro Pera è evidente, non solo per la messe, davvero notevole, di note e commenti a sentenza pubblicate sulle due riviste che Pera curava, e cioè quella che ospita questo breve scritto (allora solo cartacea) e la Rivista italiana di diritto del lavoro di cui Pera era direttore (e non è difficile immaginare che quello di Riccardo fosse un compito frutto di una decisione non sempre spontanea), ma anche nel taglio sempre concreto ed attento al rispetto del diritto positivo, oltre a che alla misura delle soluzioni interpretative.
Ma sono anche anni in cui gli interessi scientifici iniziano a diversificarsi, con un’attenzione anche ai temi della discriminazione ed alla struttura del divieto di interposizione.
Vanno qui segnalati due saggi in particolare, quello su “Appalto di manodopera e subordinazione” del 1995 e l’altro dal titolo significativo, “Mercato o gerarchia? Il disagio del diritto del lavoro nell’era delle esternalizzazioni” di cinque anni successivo. I temi, come si vede, sono gli stessi o quanto meno sono limitrofi, ma nel breve giro di anni che separa il primo saggio dal secondo molte cose cambiano nel diritto del lavoro ed esplode il tema della esternalizzazione, appunto, che viene trattato dall’angolo di visuale della difficoltà del diritto del lavoro – che è anche una difficoltà culturale – a confrontarsi con una realtà che prima ancora di essere interpretata, viene negata.
Questo secondo saggio idealmente rappresenta un po’ il turning point della produzione scientifica di Riccardo, dando inizio al secondo dei due filoni cui poco sopra si accennava.
È il filone in cui la riflessione si fa più alta, svolgendosi intorno a quelle che con Umberto Romagnoli si potrebbero dire le “componenti basiche” della materia.
La riflessione su cosa sia e soprattutto su cosa debba o possa essere il diritto del lavoro ha costituito un tema di interesse sempre più presente negli ultimi anni, in cui Riccardo ha dismesso i panni del giurista positivo - o per meglio dire, ne ha indossati anche di altri, dato che i primi non sono mai stati abbandonati del tutto – iniziando ad interrogarsi su un possibile “altro” diritto del lavoro.
Il filo conduttore, o meglio, i fili conduttori sono stati innanzitutto un atteggiamento aperto nei confronti dell’apporto che gli studi economici possono dare al diritto del lavoro, in chiara ed evidente controtendenza rispetto alla impostazione prevalente della cultura giuslavorista sia accademica che giudiziaria. Solo Pietro Ichino, con cui ebbe stretti rapporti, indotti anche, ma non solo, dalla vicinanza che entrambi avevano (sia pur per ragioni diverse) con Giuseppe Pera, ha avuto ed in maniera forse più pronunciata, identico atteggiamento di apertura nei confronti delle scienze economiche (pur se, in dialogo critico proprio con Ichino, Riccardo valorizzò maggiormente il pluralismo interno alle stesse dottrine economiche, con una chiara preferenza per le teorie istituzionaliste e soprattutto neo-istituzionaliste, ritenute più coerenti ed utili alla riflessione giuslavoristica).
Il secondo sentiero su cui si incamminò, che è anche quello degli anni più recenti, si muove lungo direttrici che lo condurranno ad aderire al capabilities approach, teorizzato da Amartya Sen e Martha Nussbaum, che condusse Riccardo a familiarizzarsi con studi di carattere filosofico e ad aprirsi ad una prospettiva internazionale, di collaborazione con colleghi stranieri, Guy Davidov e Brian Langille per tutti, che ospitò anche a Firenze in occasione di un convegno-presentazione del suo libro A purposive approach to labour law.
Quest’opera di ridefinizione della materia trovò anche un approdo concreto in un Manifesto che scrisse in collaborazione con Tiziano Treu e Bruno Caruso, dal titolo Per un diritto del lavoro sostenibile, in cui sono tradotte in pratica le suggestioni e le riflessioni degli anni precedenti, nel disegno di un diritto del lavoro dai tratti sensibilmente diversi dalla materia che si è sedimentata nel corso della seconda metà del secolo scorso, più attento ai profili di libertà sostanziale del lavoratore che a quelli di eguaglianza sostanziale e come si è detto attento agli apporti che potevano derivare dalla scienza economica.
È un approccio questo che era già presente in un saggio di ormai oltre 20 anni fa dal significativo titolo “L’economia e le ragioni del diritto del lavoro” in cui aveva manifestato chiaramente la necessità che la elaborazione lavoristica si aprisse interdisciplinarmente agli apporti della scienza economica, rimarcando la necessità di assicurare sì la protezione di determinati valori ma anche di prestare attenzione a quella che definì, con bella espressione, “il profilo dell’efficacia materiale delle norme”
Si è trattato di un percorso, ma forse più di un atteggiamento intellettuale, certamente inusuale nella nostra materia e senza dubbio eterodosso rispetto al mainstream, connotato da grande apertura mentale, o di laicità, si potrebbe dire, o più semplicemente, di grande libertà, che rappresenta forse il lascito più importante del suo Maestro.
Da ultimo, ma non per ultimo, va ricordato il suo Manuale di diritto del lavoro (il cui capitolo introduttivo rimane, nella manualistica di settore, tra i più originali e formativi): opera lunga e faticosa cui si dedicò con grande passione fino agli ultimi mesi (la sua ultima edizione è infatti di quest’anno). Ne diede notizia al gruppo di Freccia Rossa (di cui fanno parte i due autori di questo ricordo), e fu un’occasione per scherzare sul fatto che aveva mancato di dare notizia dell’ultimo (minimale) prodotto della ormai caotica ed ingovernabile legislazione lavoristica, nascendo per ciò già superato; Riccardo promise che ne avrebbe tenuto conto nella successiva edizione.
Il “tecnico” prestato ai processi politici
Come si anticipava, Riccardo ha avuto anche un’importante esperienza come ‘tecnico’ prestato alla dimensione istituzionale e politica, a partire dalla partecipazione ai lavori della Commissione Foglia sulla riforma del processo del lavoro (2001). Più di recente ebbe un’intensa esperienza come consulente del Ministero del Lavoro, a partire dal 2012, della quale qualcosa si deve dire.
A chiamarlo a tale ruolo fu inizialmente la prof.ssa Elsa Fornero, Ministro del lavoro nel Governo Monti a partire dal novembre 2011 (Governo notoriamente poggiato su una maggioranza politica trasversale).
Riccardo, in quella stagione, collaborò in particolare alla preparazione e poi alla gestione del disegno di legge che ha portato all’approvazione da parte del Parlamento della legge n. 92 del 2012. Se di quel testo è nota (e discussa) soprattutto la revisione dell’art. 18 Stat. Lav. (passata peraltro attraverso le numerose modifiche maturate nel confronto interno alle commissioni parlamentari), il suo contributo si spese anche su aspetti meno noti al grande pubblico, come le norme di rafforzamento delle tecniche anti-elusive nella disciplina delle collaborazioni a progetto, l’introduzione del rito processuale accelerato per le controversie sui licenziamenti (strettamente legato, nelle intenzioni, all’intervento sull’art. 18), le modifiche alla disciplina degli ammortizzatori sociali e l’introduzione di nuovi strumenti di gestione delle crisi occupazionali, il primo rafforzamento dell’indennità di disoccupazione (Aspi), il rafforzamento della condizionalità per il lavoratore nell’accesso alla prestazioni di integrazione salariale, mobilità e disoccupazione, ecc.
Superata l’esperienza del governo di larghe intese, Riccardo vide rinnovato più volte il ruolo di consulente del Ministero (questa volta con governi di centrosinistra), in particolare del suo Ufficio Legislativo, fino a partecipare all’intensa stagione regolativa di attuazione della legge delega n. 183 del 2014, cioè alla definizione dei decreti legislativi del c.d Jobs Act voluto dal Governo Renzi (Ministro Poletti).
In questa fase, nella quale in pochi mesi sono stati discussi, costruiti e poi approvati ben otto complessi decreti legislativi, il contributo di Riccardo si concentrò soprattutto su alcuni temi.
E’ noto a chi ha seguito la vicenda che l’impianto del c.d. “contratto a tutele crescenti” (decr. 23/2015) fu concepito soprattutto nelle stanze e dai tecnici della Presidenza del Consiglio; l’Ufficio legislativo del Ministero ne curò semmai la redazione tecnica. L’Ufficio, oltre a coordinare la complessiva redazione dei provvedimenti (alcuni dei quali videro l’impegno delle varie direzioni del Ministero o di altri tecnici) fu centrale nella redazione del c.d. Codice dei contratti (decreto 81/2015) con la risistemazione e razionalizzazione dei contratti di lavoro non standard (pur se alcune parti, tra cui il noto art. 2 sulle collaborazioni, furono l’effetto di proposte esterne al Ministero) e nella ridisciplina di alcuni altri istituti, tra cui l’art. 4 Stat. Lav. sui controlli a distanza.
Riccardo sentiva soprattutto queste parti come proprie (o meglio condivise col Capo dell’Ufficio, oltre ovviamente ai decisori più ‘politici’) e, consapevole dei tantissimi snodi politicamente e socialmente delicati dell’operazione regolativa, praticò intensamente il confronto informale con colleghe e colleghi portatori di diversi punti di vista (confronto che capitò anche con gli autori di questo ricordo). Si può dire che, praticando lui naturalmente il metodo del dubbio, cercasse soprattutto confronti critici e possibili dissensi, magari per temperare soluzioni eccessive o cercare assetti socialmente più equilibrati di alcuni passaggi (potremmo fare alcuni esempio dell’esito di tale metodo, ma non è la sede e non vi è spazio).
Riccardo accettò di agire in quel contesto (prima con Fornero-Monti, poi con Poletti-Renzi) in piena indipendenza da condizionamenti politici (mondo al quale era peraltro estraneo, non avendo praticato militanze di alcun genere né maturato vicinanze all’una o all’altra organizzazione sociale) e, almeno nella prima fase, per lo spirito di servizio e ‘repubblicano’ che rende difficile sottrarsi ad una chiamata delle istituzioni: spirito certamente acuito dal carattere trasversale e di emergenza del primo Governo col quale ha lavorato (poi, certo, la vicenda del Governo Renzi è stata molto più caratterizzata, e certamente anche su Riccardo la portata innovatrice del primo Renzi aveva suscitato qualche interesse).
Lo aveva fatto con piena consapevolezza del ruolo inevitabilmente politico del tecnico che si presta a contribuire a percorsi regolativi, così come era consapevole che almeno alcune parti di quelle complesse operazioni impattavano fortemente sugli assetti consolidati del diritto del lavoro e che, soprattutto per la parte sui licenziamenti, dal suo ambiente naturale (la dottrina e il milieu giuslavoristici) sarebbero venute reazioni molto critiche. Era altresì consapevole, ed anzi ironicamente metteva in conto, che i più radicali di tali critici lo avrebbero incluso nella categoria di coloro che sono da considerare “nel migliore dei casi, come portatori sani del virus della razionalità calcolante dell’economia, e, nel peggiore, come quinte colonne (o, più benevolmente, come inconsapevoli strumenti) del neoliberalismo”.
Delle intere operazioni di riforma cui ha partecipato, pur avvertendone limiti e contraddizioni, si è sempre caricato con onestà della responsabilità, difendendone non tanto le soluzioni ma, potremmo dire, quella che lui riteneva una necessità di metodo quasi ineluttabile: quella di confrontarsi pragmaticamente con le tensioni del diritto del lavoro nel rapporto con la dimensione economica.
Su questo tema Riccardo ha poi formulato con lucidità (e senza alcun timore di “épater les bourgeois”, anzi forse con qualche gusto nel farlo…) alcuni contributi scientifici, veri e propri manifesti di un approccio dichiaratamente dissenziente, pur se dialogante, rispetto a quello del giuslavorismo mainstream, che lui definiva “sinzheimariano” (o socialdemocratico).
“La prospettiva che reputo più feconda è quella di rinunciare, per la cultura giuslavoristica, a rappresentare una visione del mondo alternativa ed emancipatoria in senso forte, e di lavorare invece dentro il mercato per tentare di regolarlo alla ricerca del miglior compromesso possibile tra socialità ed efficienza”: compromesso nel quale includeva – quasi formulando una nuova dimensione utopica della materia, funzionale a orientarne gli sforzi intellettuali – una nuova dimensione di valorizzazione del lavoro, un “orizzonte valoriale progressivamente nuovo”, tale da auspicare che “la storica condizione di soggezione del lavoratore subordinato possa rovesciarsi in un lavoro riconciliato nella sua duplice dimensione di mezzo e di fine, e che questo giovi pure all’efficienza economica del sistema” (questo e tutti i passi ora citati sono da Valori del diritto del lavoro ed economia di mercato, 2019).
Poco importa, qui, se chi scrive questo ricordo (l’uno o l’altro, o entrambi) condivida o no quella impostazione e i singoli esiti e assetti delle riforme alla cui costruzione Riccardo ha partecipato: è invece sicura la condivisione del fatto che soprattutto in questi ultimi anni Riccardo si sia posto come un protagonista centrale della riflessione sul futuro della materia e della regolazione del lavoro.