Editoriali

Famiglia e successioni 29.08.2024

Il convivente more uxorio e l'impresa familiare: un lungo percorso, infine con un approdo definitivo

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Corte Cost.

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1. La questione di legittimità costituzionale

La recentissima sentenza della Corte costituzionale n. 148 sugella l'equiparazione del convivente more uxorio al coniuge con riguardo al trattamento contemplato nell'àmbito dell'impresa familiare. Viene così sconfessata la scelta legislativa operata con la l. n. 76/2016 di riservare al convivente – mediante l'introduzione dell'art. 230-ter c.c. – un trattamento differente e deteriore rispetto a quanto previsto a favore del coniuge e del componente l'unione civile (quest'ultimo inserito tra i soggetti tutelati dall'art. 230-bis c.c., per l'appunto, dalla novella legislativa). 

La questione di legittimità costituzionale è stata sollevata dalle Sezioni unite, a loro volta sollecitate dalla Sezione lavoro – competente per materia nelle controversie in tema di impresa familiare – chiamata a pronunciarsi su un ricorso concernente una fattispecie di collaborazione esauritasi nel 2014 in ragione del decesso del convivente imprenditore. Dunque, con riguardo a un caso a cui non poteva applicarsi l'art. 230-ter c.c. in ragione dell'irretroattività della norma. 

Rigettata la domanda in primo e secondo grado, giusta un approccio formalistico legato al tenore della disposizione di cui all'art. 230-bis, comma 3, c.c., la Cassazione, Sezione lavoro, con ordinanza interlocutoria ha rimesso la questione al Primo Presidente richiedendo l'intervento nomofilattico delle Sezioni unite. L'obietto era quello di accertare se potesse esservi lo spazio per un'interpretazione evolutiva, e ciò in virtù di una serie di norme all'uopo invocate (artt. 2, 3, 4, 35 Cost., e art. 8 CEDU). 

Le Sezioni unite, dal loro canto, hanno giudicato rilevante, in relazione al caso concreto da decidere, e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, alla luce di una ricostruzione dell'origine dell'istituto dell'impresa familiare, nonché della ratio sottostante. A venire in considerazione, infatti, è la tutela dell'attività di lavoro, in questo caso svolta nel contesto di una comunità fondata sugli affetti, in guisa che è apparso ai giudici di legittimità incongruo – anche alla luce di una serie di principi sanciti a livello costituzionale e sovranazionale – contemplarne la protezione solo allorquando il vincolo affettivo sia formalmente sancito.

Le Sezioni unite hanno nondimeno preliminarmente escluso la via di una lettura estensiva, costituzionalmente orientata, dell'art. 230-bis c.c. Ciò in quanto il riconoscimento in capo al convivente more uxorio della complessiva posizione partecipativa patrimoniale-gestoria di cui all'art. 230-bis c.c. avrebbe determinato una distonia dal punto di vista sistematico, poiché si sarebbe risolto nel riconoscimento di una tutela, non solo non prevista antecedentemente al 2016, nonché negata dalla giurisprudenza prevalente, ma addirittura a più ampio spettro rispetto a quella riconosciuta a partire dal 2016 dall'art. 230-ter c.c.

 

2. La ratio sottesa alla disciplina dell'impresa familiare

La Corte costituzionale, al pari delle Sezioni unite, ha ricostruito le ragioni storiche – vale a dire il superamento di una (incrostata) presunzione di gratuità delle prestazioni lavorativa rese nel contesto della comunità familiare (affectionis vel benevolentiae causa) – alla base dell'introduzione di una norma dall'alto sapore innovatore qual è l'art. 230-bis c.c. Il cui obiettivo è stato sin da subito chiaro: impedire che la famiglia, anziché luogo di valorizzazione degli affetti, possa divenire fonte di sfruttamento del lavoro. Di qui una disposizione che, nel cogliere appieno lo spirito innovatore di una riforma che s'incamminò senza ritorno sul sentiero dell'uguaglianza, concepì un'articolata disciplina di tutela del familiare collaboratore – fatta di prerogative (rectius: diritti) sul piano patrimoniale  e su quello gestorio – destinata ad entrare in gioco ogniqualvolta i protagonisti del rapporto non si siano essi stessi dati carico di regolamentare, attraverso l'esplicazione dell'autonomia contrattuale (anche in via tacita), il fenomeno che li vede compartecipi nell'esercizio dell'attività imprenditoriale. Una norma avente natura suppletiva – resa palese dall'inciso iniziale “salvo che sia configurabile un diverso rapporto” – destinata a etichettare come onerosa la collaborazione continuativa – ancorché non necessariamente svolta in via esclusiva – di un familiare (tra quelli identificati al comma 3: coniuge, parenti entro il terzo grado, affini entro il secondo) all'attività d'impresa svolta da un congiunto. In pari tempo, una norma imperativa – non sembri l'affermazione una distonia – nel senso che, una volta acclarato che i familiari non si siano dati carico di governare il rapporto mediante il ricorso all'autonomia contrattuale, la disciplina dell'impresa familiare trova necessariamente applicazione. 

Merita una segnalazione – poiché assume non poco significato con riguardo alla questione sottoposta all'esame del Giudice delle leggi – il novero dei soggetti che possono fregiarsi del titolo di partecipante all'impresa familiare, particolarmente esteso. La rilevanza della parentela fino al terzo grado e dell'affinità fino al secondo dà conto di un binomio – famiglia e impresa – in cui il primo termine è inteso in senso quanto mai allargato. Il che assume ancor più significato se si considera l'inesorabile processo che ha sugellato la progressiva e incontrastata emersione della famiglia c.d. nucleare a scapito di quella allargata. A riprova che l'impresa può costituire un collante straordinario al fine di radunare uno o più familiari i quali manifestino un'unità di intenti rispetto allo svolgimento di un'attività economica. Essa può così vantare, quale elemento corroborante aggiuntivo rispetto a quanto accade tra estranei, l'affetto e i sentimenti – i quali non devono essere necessariamente sanciti dalla coabitazione – di cui sono permeati i rapporti tra i partecipanti.      

 

3. L'iter argomentativo seguito dai giudici delle leggi

La Corte costituzionale, dopo aver preso posizione sui principali nodi della disciplina dell'impresa familiare (per l'appunto ratio, natura dell'impresa familiare), si è concentrata sulla normativa introdotta dalla l. n. 76/2016, all'esito di un percorso, accidentato ma costante, che ha condotto all'affermazione di una concezione pluralistica della famiglia. Di qui, l'equiparazione del componente l'unione civile al coniuge attraverso il suo inserimento nel comma 3 dell'art. 230-bis c.c.; nonché l'introduzione dell'art. 230-ter c.c., destinato a regolamentare, attraverso il riconoscimento di alcuni soltanto dei diritti previsti dalla norma che lo precede, il rapporto di impresa familiare nel contesto della convivenza more uxorio. Una disposizione, dunque, riservata a tutti quei soggetti che decidano di non procedere alla formalizzazione del vincolo, attraverso la celebrazione del matrimonio ovvero dell'unione civile. Una scelta di libertà che tuttavia, con riguardo all'impresa familiare, il convivente collaboratore “paga”, in quanto destinatario di un trattamento deteriore rispetto a quello riservato dall'art. 230-bis c.c. Un sistema, quello concepito dalla l. n. 76/2016, che, per quanto sin qui detto, destava non poche perplessità, in ragione di un ossequioso formalismo (l'ufficialità o meno della costituzione del vincolo) che, nei fatti, si risolveva in un trattamento dal sapore discriminante a fronte di una collaborazione all'attività d'impresa dagli identici contenuti e tra soggetti parimenti legati da un vincolo a forte connotazione affettiva. 

I Giudici delle leggi, in quello che ben può definirsi il terzo segmento dell'incedere argomentativo, hanno passato in rassegna le numerose norme le quali, non da oggi, hanno preso in considerazione la figura del convivente more uxorio, equiparandola a quella del coniuge. Norme vòlte a tutelare gli interessi più disparati, carenti di organica sistematicità, ma non per questo prive di efficacia impattante, anzi. Da esse traspare come un insieme di fondamentali interessi (bisogni) siano comuni, di modo che tassello dopo tassello le due figure si sono avvicinate, giusta una prospettiva di parziale sovrapposizione. 

In questo percorso, la dottrina ha giocato un ruolo fondamentale. Basti pensare all'illuminata discussione a cui diedero vita quasi cinquant'anni or sono autorevoli civilisti e costituzionalisti nel corso di Convegno tenutosi a Pontremoli, che dischiuse le porte d'accesso all'art. 2 Cost.: la famiglia di fatto come formazione sociale all'interno della quale i componenti soddisfano una pluralità di interessi legati allo sviluppo della personalità. Sulla scia si è posta la giurisprudenza, di cui la Corte costituzionale ha tracciato – al fine di accreditare la fondatezza della questione di legittimità costituzionale in relazione agli artt. 2, 3, 4, 3536 Cost. – un sintetico quadro delle posizioni maggiormente significative. 

Importante, per l'apertura all'art. 2 Cost. ivi contenuta, la sentenza della Corte costituzionale n. 237/1986 la quale, nel ribadire la posizione, per così dire di favore, riservata alla famiglia fondata sul matrimonio, affermò la rilevanza al cospetto della predetta disposizione di un rapporto (consolidato) di fatto. Un atteggiamento, quello inteso a far salvo un trattamento di maggior favore per il rapporto di coniugio, che si è perpetrato nel tempo e che si coglie anche nella sentenza in commento, oltre che nelle Sezioni unite remittenti. 

Frutto verosimilmente del timore di dare la stura, cosa che evidentemente non potrebbe che competere al legislatore, ad una piena equiparazione. Di modo che – questo il perno del ragionamento dei giudici delle leggi – se stabilità, certezza, reciprocità e corrispettività dei diritti, giustificano sulla base dell'art. 29 Cost. un differente trattamento, questo non esclude che specifici interessi possano essere comuni e postulare un'identità di disciplina. Quando ciò accada, in assenza di una presa di posizione del legislatore, la Corte costituzionale può farsene carico attraverso il controllo di ragionevolezza imposto dall'art. 3 Cost.

A proposito del ruolo della giurisprudenza mi piace ricordare, ancorché non menzionata, una decisione dei giudici di legittimità del 1994 (n. 2988) che, ancor prima dell'arcinota decisione n. 500/1999, superò il crinale costruito intorno all'equazione danno ingiusto = diritto soggettivo. In quel caso, l'interesse meritevole di protezione venne svincolato dall'“incapsulamento” nel diritto soggettivo (per utilizzare un'espressione cara al compianto Maestro Nicolò Lipari), riconoscendo uno spazio di protezione per gli interessi di fatto rilevanti. Si sancì così il diritto al risarcimento del danno patrimoniale subito dal convivente superstite – non in re ipsa ma da dimostrarsi in concreto – per effetto dell'uccisione da parte di un terzo del partner defunto. 

L'evoluzione normativa – conclude così la Corte costituzionale – nonché gli orientamenti della giurisprudenza (costituzionale, comune ed europea), conducono ad affermare la piena dignità della famiglia non fondata sul matrimonio. Ragion per cui, le differenze di disciplina, in linea di principio perfettamente lecite, non sono più ammissibili ogniqualvolta vengano in gioco diritti fondamentali. Nel caso di specie, il diritto al lavoro (artt. 435 Cost.), alla giusta retribuzione (art. 36 Cost.) ed evidentemente il principio di uguaglianza (art. 3 Cost.). Le conseguenze sono presto tratte: l'art. 230-bis, comma 3, c.c. è illegittimo nella parte in cui non contempla il convivente more uxorio – vale a dire, giusta la definizione che ne dà il comma 36 dell'art. 1 della l. n. 76/2016, quel soggetto unito stabilmente all'imprenditore da un legame affettivo di coppia e da reciproca assistenza morale e materiale – tra i soggetti partecipanti. Il corollario: la previsione di cui all'art. 230-ter c.c. assume, nella nuova prospettiva, una portata ingiustificatamente restrittiva della tutela riservata al convivente more uxorio. Va da sé la declaratoria di illegittimità costituzionale anche della norma in questione. 

 

4. Alcune osservazioni

La sentenza è nelle conclusioni assolutamente condivisibile. Chi scrive già da molti lustri, sulla scorta degli interessi sottostanti a una norma del calibro dell'art. 230-bis c.c., ne ha sostenuto l'applicabilità al convivente more uxorio. Assumeva del resto carattere fortemente discriminatorio il fatto che il convivente, una volta acclarata l'onerosità dell'attività lavorativa svolta in modo continuativo nel contesto dei rapporti a forte matrice affettiva (questo il senso e la portata dell'art. 230-bis c.c.), potesse fare affidamento sul solo rimedio dell'arricchimento senza causa, i cui presupposti, come ben noto, non ne rendevano agevole l'esperimento nei rapporti in questione. E, comunque, trattasi di rimedio che assicurava una tutela completamente diversa.

Alcune brevi notazioni finali. La prima: riesce difficile comprendere il ragionamento delle Sezioni unite – in ciò seguita dalla Corte costituzionale – laddove escludono la possibilità di procedere a un'interpretazione costituzionalmente orientata. E ciò in ragione del timore di dar aggio a una tutela, non solo non prevista in precedenza e negata dalla giurisprudenza maggioritaria, ma addirittura superiore a quella di cui all'art. 230-ter c.c. 

Fermo restando che l'interpretazione costituzionalmente orientata di una norma illegittima o reputata tale si risolve, in un certo qual senso, in uno svuotamento delle precipue funzioni riservate alla Corte costituzionale (sulla qual cosa varrebbe la pena avviare un dibattito), una volta comunque preso atto che il giudice è chiamato a darsene carico, non vi ravvisavo grossi ostacoli nel caso di specie. L'interpretazione costituzionalmente orientata non può di certo essere ostacolata dalla circostanza che in precedenza una tutela era negata, essendo proprio l'obiettivo di un'interpretazione di tale natura quello di far venire meno quella che, nel momento storico in cui occorre effettuare la valutazione di conformità alla Costituzione, si appalesa come una “ingiustizia”. Va da sé, poi, che l'inclusione del convivente more uxorio nel novero dei soggetti ex art. 230-bis c.c., per effetto appunto di un'interpretazione costituzionalmente orientata, avrebbe comportato uno svuotamento di significato dell'art. 230-ter c.c., per contrasto con l'art. 230-bis c.c. Ma in ciò a mio avviso nulla di male, posto che è all'intero sistema che, in un'ottica di conformità costituzionale, occorre guardare.

Seconda notazione: la giurisprudenza ha storicamente negato l'applicazione analogica della norma di cui all'art. 230-bis c.c. in ragione del carattere eccezionale attribuito alla medesima. Orbene, viene difficile corroborare di valido fondamento una siffatta qualificazione, tenuto conto delle finalità, sulle quali ci si è intrattenuti, che contraddistinguono la disciplina, nonché della ratio ad essa sottostante. Del resto, la stessa Corte costituzionale, tra le ragioni addotte per sancire l'illegittimità del trattamento deteriore riservato al convivente, ha evocato il diritto fondamentale al lavoro e alla giusta retribuzione. Affermarne la natura eccezionale postulerebbe, d'altra parte, il collocamento della norma tra le deviazioni da regole cardine (principi) del sistema, il che evidentemente non è. Vien da dire – e anche questo mi è capitato in passato di sostenere – che se vi poteva essere un caso in cui i presupposti per procedere all'applicazione analogica sono ravvisabili, ebbene sarebbe stato proprio questo. 

Occorre comunque prendere atto, con una buona dose di pragmatismo, che giustizia infine è fatta. Il che assume ancor più significato se si considera che l'impresa familiare riflette un fenomeno empiricamente rilevante, essendo un dato di comune esperienza la collaborazione di uno o più familiari nel contesto delle imprese piccole e medie. Un rapporto che sovente sorge in modo del tutto spontaneo, in virtù dell'affectio, e che diventa un tassello fondamentale nell'ottica del buon andamento dell'attività d'impresa.

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