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Danno e responsabilità 02.07.2021

Responsabilità per danni nell'esercizio delle funzioni giudiziarie

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1.   Premessa.

Il principio secondo cui l'esercizio del potere non è nuda sovranità ma azione valutabile secondo il criterio della responsabilità rappresenta per noi un'acquisizione; essa è dovuta al passaggio dallo Stato assoluto allo Stato moderno o di diritto [1].

Nell'ordinamento giuridico il principio di responsabilità si declina in molteplici statuti.

Qui interessa limitare il discorso alla responsabilità per la commissione di fatti illeciti, rientrando in questa categoria la responsabilità per i danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie. Non di meno è necessario ricordare che per la categoria dei pubblici dipendenti vi è una specifica disciplina legale a copertura costituzionale. Tutti i pubblici dipendenti sono responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici (art. 28 Cost.) [2].

La responsabilità civile della pubblica amministrazione verso i terzi ricomprende, pertanto, tutti i fatti lesivi di diritti commessi dai propri dipendenti, con la conseguenza che ogni fatto illecito è fonte di obbligazione risarcitoria ex art. 1173 c.c. sia dell'autore materiale della condotta sia dell'amministrazione a cui lo stesso appartiene.

La ragione di questo assetto normativo si comprende considerando che lo Stato si avvale delle prestazioni dei propri dipendenti ed è responsabile civile dei danni che gli stessi cagionano nell'esercizio della propria attività così come l'imprenditore che si avvale dell'attività dei propri dipendenti è responsabile per i danni commessi da questi ultimi nell'esercizio delle attività cui sono adibiti, secondo quanto dispone l'art. 2049 c.c. È importante ricordare che «Ai fini dell'operatività della norma è necessario: a) l'esistenza di un rapporto di lavoro; b) un collegamento tra il fatto dannoso commesso dal dipendente e le mansioni da questo espletate. Senza che, a tal fine, sia richiesta la prova di un vero e proprio nesso di causalità, risultando invece sufficiente un rapporto di occasionalità necessaria [3]». Proprio il concetto di occasionalità necessaria rende evidente, perché presuppone, l'idea che il fatto illecito deve essere perfezionato in tutti gli elementi costitutivi in capo all'autore materiale della condotta; una volta soddisfatta questa condizione parimenti logica e giuridica può porsi il problema della connessione di tale fatto illecito, in termini di responsabilità, ad una sfera giuridica terza, ossia a quella del datore di lavoro pubblico o privato. Il responsabile civile è, dunque, sempre responsabile per la commissione di un fatto che egli non ha commesso, purché sussista un criterio di riferibilità di quel fatto (altrui) al responsabile. Ciò è espresso, nel linguaggio dottrinale e giurisprudenziale, anche in formule d'uso come quella della “immedesimazione organica”: che non deve essere interpretata, evidentemente, in un'ottica antropomorfa, ossia come se il pubblico dipendente prestasse le sue braccia alla pubblica amministrazione intenta all'illecito.

Il valore tecnico di questa notazione è nel fatto che, avendo presente questa concettualità, al di là delle formule usate per definirla, il giudice dovrà porsi il preliminare problema dell'integrazione della fattispecie dell'illecito civile innanzitutto in capo all'autore materiale, per poi indagare, secondariamente, la sussistenza del criterio di collegamento dato dal rapporto tra la prestazione svolta e il danno realizzato.

Il responsabile civile ha di norma azione di rivalsa (o regresso) nei confronti del danneggiante giacché la solidarietà passiva che lega i due soggetti nei confronti del danneggiato non dipende dalla concausazione dell'evento di danno ma da una struttura normativa di responsabilità per fatto altrui.

Ne consegue che, qualora il danneggiato abbia agito nei confronti del responsabile civile (pubblica amministrazione) e il danno sia stato risarcito, lo Stato attraverso l'esercizio dell'azione di rivalsa nei confronti del dipendente potrà recuperare (in tutto o in parte) il costo del risarcimento.

Il meccanismo dell'estensione di responsabilità serve ad implementare la tutela del danneggiato già previamente affermata stabilendo la diretta responsabilità dell'autore dell'illecito, senza che l'esercizio della pubblica funzione possa determinarne la deresponsabilizzazione.

 

 

2.   I c.d. limiti esterni alla responsabilità.

Se quella appena sintetizzata è la struttura generale della responsabilità rinvenibile nella norma costituzionale e nel diritto delle obbligazioni e dei contratti, vi sono delle particolari ipotesi in cui il diritto del danneggiato ad essere risarcito incontra alcuni limiti, che ne conformano sia l'estensione sul piano sostanziale sia l'esplicazione sul piano processuale. Poiché tali limiti valgono nell'esercizio dell'azione diretta del danneggiato verso il danneggiante o verso il responsabile civile, e non coinvolgono pertanto il rapporto interno tra il danneggiante e il responsabile civile, potremmo definirli ‘esterni'.

Uno di questi limiti è costituito dall'art. 2236 c.c. che disciplina la struttura della fattispecie con riferimento alle prestazioni professionali di particolare difficoltà. La norma si applica alle prestazioni qualificabili come professionali, ovvero a tutte quelle attività che richiedono particolari titoli abilitativi e il superamento di concorsi selettivi per la spiccata natura tecnica e anche culturale di questi mestieri. Le prestazioni professionali si realizzano, pertanto, attraverso l'esecuzione di attività a prevalente carattere intellettuale e tecnico. Poiché si tratta di attività già di per sé stesse complesse, che per giunta suscitano un'elevata attesa sociale, l'esercizio di attività estremamente difficili pone il problema di una adeguata disciplina della responsabilità che tenga conto del particolare grado di difficoltà della prestazione e, dunque, di fallibilità del risultato. Infatti, tali attività, poiché espongono a rischi difficilmente arginabili coloro che le realizzano, potrebbero scontare una scarsa predisposizione dei professionisti a farsene carico. Al fine di incentivarne l'esercizio, l'art. 2236 c.c. prevede una limitazione di responsabilità del prestatore; quest'ultimo, infatti, in tali casi è chiamato a rispondere solo per dolo o colpa grave mentre uno stato soggettivo di colpa qualificabile come lieve non è reputato sufficiente per l'integrazione della responsabilità [4].

Questa regola tutela il professionista stabilendo un limite esterno all'azione diretta del danneggiato. Nel caso in cui sussista anche un responsabile civile, tale limite opererà anche a vantaggio di questi. Ciò ben si comprende ricordando quanto appena detto ossia che l'obbligazione a carico del responsabile civile presuppone il perfezionamento della fattispecie in capo all'autore della condotta (e, dunque, in questo caso l'integrazione dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa grave). Cosicché il danneggiato dovrà sopportare il costo sociale del danno dovuto a colpa lieve sia nei confronti del danneggiante che nei confronti del responsabile civile.

Va rimarcato che la ragione di questa disciplina deve essere rinvenuta nell'esigenza di non disincentivare l'impegno e la predisposizione a rendere la prestazione anche nei casi più complessi e difficili. Infatti, è questa la ragione per cui diviene socialmente accettabile una rilevante compressione della tutela risarcitoria del danneggiato.

 

 

3.   Il caso della responsabilità dell'esercente la professione sanitaria.

Vi sono poi ulteriori limiti esterni a carico del danneggiato stabiliti a favore di alcune categorie di professionisti che si sono trovate frequentemente esposte alle azioni risarcitorie. In particolare, negli ultimi anni sono stati adottati regimi limitativi della responsabilità a favore degli esercenti la professione sanitaria. La notevole esposizione all'azione risarcitoria ha, infatti, comportato un esercizio difensivo della professione divenuto particolarmente evidente negli ultimi anni. A questo fenomeno il legislatore ha reagito secondo una linea di politica del diritto intesa a intensificare la protezione del danneggiante. Si trattava, infatti, di contrastare l'esercizio oltremodo prudente e remissivo dell'attività svolto con la preoccupazione prevalente di salvaguardare il professionista dalle azioni di responsabilità anche a discapito dell'interesse e del diritto del paziente a ricevere cure adeguate al caso.

La risposta legislativa è rinvenibile nella legge n. 24 del 2017, in cui la limitazione di responsabilità è sviluppata su due piani: uno esterno, quello dell'azione diretta (art. 7, comma 3, l. cit.) e uno interno, quello dell'azione di rivalsa (art. 9, comma 1, l. cit.). Limitando per adesso il discorso all'azione diretta, va ricordato che l'operatore sanitario che realizza la prestazione alle dipendenze di una struttura (pubblica o privata), e, dunque, senza essere direttamente vincolato da un contratto di cura con il paziente, potrà essere chiamato a risarcire il danno ai sensi dell'art. 2043 c.c., fruendo quindi di un sistema di maggior favore rispetto a quello ritenuto applicabile dalla giurisprudenza della Suprema Corte (responsabilità da contatto sociale e quindi responsabilità di natura contrattuale). Ne consegue che, oltre alla tutela prevista dall'art. 2236 c.c. [5] per le attività di particolare difficoltà, gli esercenti la professione sanitaria godono di norme di vantaggio, come l'applicazione del regime di responsabilità conseguente alla fattispecie dell'art. 2043 c.c. in assenza di contrattualizzazione del rapporto con il paziente. Benché ciò non determini formalmente un regime limitativo della responsabilità, nei fatti si raggiunge il risultato di rendere più difficile l'esercizio dell'azione da parte del danneggiato (su cui grava l'onere della prova dell'illecito) e più agevole la difesa del danneggiante (che potrà limitarsi ad allegare e provare la diligenza professionale tenuta nell'adempimento della prestazione).

L'azione diretta così delineata funziona come primo presidio (limite esterno) posto a tutela del prestatore rispetto alle azioni risarcitorie. Vi è poi un ulteriore presidio che tutela il professionista in sede di azione di rivalsa da parte della struttura sanitaria (pubblica o privata). Il limite è costituito dalla colpa grave, che in tale ipotesi non è stabilito esclusivamente per i casi di particolare difficoltà (come prevede in generale l'art. 2236 c.c.) ma si estende a tutte le attività realizzate dal professionista. In conseguenza di tale regime, nel rapporto interno tra prestatore e struttura sanitaria, la colpa grave argina la responsabilità ben oltre i casi concreti sussumibili nell'art. 2236 c.c. Di modo che, ferma restando la tutela del danneggiato, il professionista è salvaguardato dalle conseguenze delle proprie condotte colpose sul piano del rapporto interno. Per tale ragione potremmo dire che accanto al regime protettivo esterno, che di fatto argina la responsabilità, opera anche un regime protettivo interno, ossia relativo al rapporto tra lavoratore e struttura di appartenenza, nel quale la responsabilità è limitata non soltanto sul piano sostanziale ma anche sul piano formale (ossia di struttura della fattispecie).

L'utilità di richiamare l'attenzione sulla responsabilità degli esercenti la professione sanitaria è nel rendere evidente l'attualità del più generale problema sollevato dall'esercizio delle attività professionali, che non deve essere pertanto concepito come limitato a casi specifici così da legittimare il sospetto di trattamenti di favore riservati a talune categorie: come quella dei magistrati.

E infatti questo modo di intendere la responsabilità in taluni delicati settori del vivere civile ripete una chiara matrice storica e culturale più ampia che rinveniamo nella struttura della responsabilità erariale. La fattispecie della responsabilità erariale prevede infatti la colpa grave (oltre che il dolo) quale criterio generale di imputazione soggettiva [6]. L'episodico limite previsto dall'art. 2236 c.c. è qui elevato a norma di sistema.

 

4.   La responsabilità dello Stato-Giudice.

A questo punto è possibile affrontare la questione del regime di responsabilità di un pubblico dipendente che esercita una funzione non solo delicata ma anche profondamente diversa da tutte le altre svolte nell'amplissimo mondo della pubblica amministrazione. La particolare e delicata funzione affidata al magistrato e la necessità di tutelare e garantire l'autonomia e l'indipendenza nell'esercizio della funzione, secondo quanto previsto dall'art. 101, secondo comma, Cost., hanno determinato la conformazione del sistema della responsabilità civile per i danni cagionati nello svolgimento delle funzioni giudiziarie attraverso la previsione di un regime speciale di responsabilità che determina l'effetto di contemperare l'esercizio del diritto al risarcimento dei danni subiti con l'efficiente svolgimento del lavoro giudiziario messo al riparo da azioni che potrebbero turbare la serenità del magistrato. È così possibile «permettere-autorizzare l'esercizio dell'attività, con il limite dell'accollo (del rischio) dei danni da essa provocati a carico del soggetto o dei soggetti che dall'attività traggono profitto» [7].

Tranne che nei sistemi in cui l'esercizio della giurisdizione è affidato a soggetti che ricoprono cariche elettive, in tutti i sistemi in cui la funzione giudiziaria è svolta da soggetti appartenenti alla burocrazia statale (ed essenzialmente selezionati per concorso) questa esigenza è tutelata in modo similare e secondo il criterio della preservazione, in variabile misura, del magistrato dalle conseguenze dannose connesse all'attività [8].

Chiamata a pronunciarsi sulla conformità a Costituzione di tale regime, la Corte Costituzionale ha affermato che la peculiarità della funzione svolta, la natura dei provvedimenti adottati, la stessa posizione del magistrato rendono perfettamente compatibile con la Costituzione la previsione di un regime speciale di responsabilità [9]. Tale regime è finalizzato da un lato ad assicurare un soddisfacente ristoro dei danni in favore del danneggiato e dall'altro a tutelare l'autonomia e l'indipendenza del giudice da attacchi strumentali e da vincoli all'attività interpretativa [10].

Si realizza in tal modo un bilanciamento tra interessi primari in potenziale conflitto: l'interesse fondamentale a che sia tutelato il diritto soggettivo al risarcimento del danno ingiusto subito dal danneggiato e l'interesse parimenti fondamentale al sereno svolgimento della funzione giudiziaria.

Conviene ricordare che la Corte Costituzionale ha ben chiarito come «il principio dell'indipendenza è volto a garantire l'imparzialità del giudice, assicurandogli una posizione super partes che escluda qualsiasi, anche indiretto, interesse alla causa da decidere. A tal fine la legge deve garantire l'assenza, in ugual modo, di aspettative di vantaggi e di situazioni di pregiudizio, preordinando gli strumenti atti a tutelare l'obiettività della decisione. La disciplina dell'attività del giudice deve perciò essere tale da rendere quest'ultima immune da vincoli che possano comportare la sua soggezione, formale o sostanziale, ad altri organi, mirando altresì, per quanto possibile, a renderla libera da prevenzioni, timori, influenze che possano indurre il giudice a decidere in modo diverso da quanto a lui dettano scienza e coscienza» [11].

La speciale disciplina contenuta nella legge n.117 del 1988 si caratterizza nel prevedere la responsabilità diretta esclusivamente a carico dello Stato (art. 2, comma 1, l. n. 117) e nel relegare la responsabilità civile del giudice su un piano secondario, potendo tale responsabilità essere attivata solo dallo Stato che sia stato condannato al risarcimento del danno (art. 7 l. cit.). L'effetto fondamentale di questo assetto normativo è di precludere al danneggiato l'azione diretta nei confronti del magistrato; tale azione è infatti riconosciuta solo nei confronti dello Stato.

Questa è una deroga fondamentale all'intero sistema della responsabilità civile. Essa non consiste semplicemente in un inasprimento degli elementi della fattispecie di responsabilità, come avviene in generale nell'art. 2236 c.c. o come avviene nel caso degli esercenti la professione sanitaria con la conformazione dell'azione diretta ai sensi dell'art. 2043 c.c.; il danneggiato, infatti, è radicalmente privato del diritto di chiedere il risarcimento del danno direttamente a colui che lo ha cagionato [12].

L'unica (e inevitabile) eccezione concerne l'ipotesi di danno derivante dalla commissione di un fatto costituente reato []. In tal caso il magistrato è direttamente responsabile nei confronti dei terzi e non solo dello Stato (art. 13, l. cit.). Sul punto si richiama quanto affermato dalla Suprema Corte: «Ne consegue che, al di fuori dell'ipotesi disciplinata dal citato art. 13, la proposizione, in sede civile, di azione diretta contro il magistrato configura una fattispecie di improponibilità assoluta e definitiva della domanda, in quanto concernente un diritto non configurato in astratto a livello normativo dall'ordinamento (Cass., 26 giugno 2012, n. 10596). Trattasi, dunque, di questione che, come tale, integra una deduzione di difetto assoluto di giurisdizione sindacabile in sede di regolamento preventivo di giurisdizione (o come motivo di ricorso ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 1, c.p.c.), perché attiene al perimetro, in astratto delimitato dall'ordinamento, della cognizione giurisdizionale, tale che nessun giudice può conoscere della domanda risarcitoria proposta in via diretta in sede civile per danni cagionati (con dolo o colpa grave) a seguito "di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato nell'esercizio delle sue funzioni"». [14]

Questo speciale regime di responsabilità pone un diaframma tra danneggiante e danneggiato così da salvaguardare il giudice da attacchi strumentali e pretestuosi, i quali molto spesso perdono ragion d'essere quando non possono essere portati direttamente contro l'avversario ma soltanto nei confronti dello Stato.

 

5.   Dolo, colpa grave e diniego di giustizia.

Il secondo cardine della disciplina è rinvenibile nella definizione dei casi in cui lo Stato può essere chiamato in giudizio. L'azione diretta nei confronti dello Stato è, infatti, ammissibile, esclusivamente in un triplice ordine di ipotesi: dolo, colpa grave e diniego di giustizia (art. 2, comma 1, l. cit.).

L'illecito civile subisce, pertanto, una rigorosa connotazione circa gli elementi di fattispecie inquadrabili nella categoria del c.d. “elemento psicologico”.

In primo luogo, integra tale elemento il dolo del giudice ossia la volontà di realizzare l'illecito. La rilevanza del dolo conferma anche in questo caso la severità con cui è trattato nel sistema giuridico questo movimento della volontà. In particolare, nell'ambito dell'illecito è utile ricordare che la controversa figura dell'abuso del diritto è prevalentemente ricostruita nel senso dell'abuso doloso mentre soltanto un'opinione minoritaria ritiene conciliabile la condotta abusiva con l'elemento psicologico della colpa [15]. Nell'ambito della responsabilità contrattuale la limitazione della risarcibilità ai danni prevedibili non opera a vantaggio degli illeciti dolosi (art. 1225 c.c.); le limitazioni di responsabilità ammesse dalla legge non possono concernere comportamenti dolosi (e come vedremo nemmeno comportamenti gravemente colposi): art. 1229 c.c.

In secondo luogo, la legge stabilisce il requisito della colpa grave. Il concetto di gravità connesso alla colpa si comprende ricorrendo alla idea di inescusabilità (di assoluta imperdonabilità): la colpa può definirsi grave quando rasenta la soglia dell'inescusabilità ossia della assoluta ingiustificabilità, senza potersi tuttavia definire addirittura insuscettibile di qualsiasi ipotetica e minimale giustificazione. Possono pertanto ritenersi gravi la negligenza, l'imprudenza o l'imperizia che si manifestino con un'evidenza tale ed un'intensità talmente marcata da sfuggire ad una ragionevole giustificazione, ossia ad una comprensione della possibilità dell'evento occorso in ragione di una condotta inadeguata tenuta dall'agente. Possiamo, pertanto, comprendere come mai nella giurisprudenza contabile il concetto di colpa grave sia fatto coincidere, senza riserve, con quello di negligenza inescusabile. Nel nostro caso, tuttavia, è importante tentare di stabilire una differenza nel senso ora esposto. Infatti, nella disciplina sulla responsabilità dei magistrati la negligenza inescusabile, come vedremo nelle prossime pagine, è considerata diversa dalla semplice colpa grave, e vale a selezionare, tra tutti i casi di colpa grave che determinano la condanna dello Stato al risarcimento del danno, i più limitati casi, di estrema gravità, in cui lo Stato può esperire l'azione di rivalsa nei confronti del magistrato [16].

In generale, è possibile affermare che il trattamento giuridico della colpa grave è a volte lo stesso di quello riservato al dolo: come, per esempio, emerge in tema di limitazioni convenzionali di responsabilità per l'inadempimento dell'obbligazione (cfr. ancora l'art. 1229 c.c.). Più spesso le conseguenze giuridiche della colpa grave si avvicinano a quelle del dolo pur rimanendone distinte in quanto sussiste la fondamentale e insopprimibile differenza della presenza del dolo e dell'assenza nella colpa grave di una positiva volontà di nuocere.

La funzione esplicata dalla colpa grave è anche di sciogliere possibili dubbi sulla sussistenza stessa di questo elemento soggettivo disancorato dallo stato intenzionale dell'agente. Il requisito qualificante della gravità implica una verifica dell'elemento della colpa che si sottragga ad ogni possibile dubbio: e, infatti, l'essenziale caratteristica della colpa grave è nell'evidenza della natura colposa dell'agire. Poiché non è riscontrabile nel diritto positivo (e nemmeno nel diritto teorico) il concetto di colpa che si ponga tra l'idea di colpa grave e quella di colpa lieve, e poiché, infatti, accanto al concetto di colpa grave è positivizzato esclusivamente il concetto di colpa lieve (è possibile richiamare ancora la disciplina delle limitazioni convenzionali di responsabilità) è facile comprendere che tutto ciò che non si presterebbe ad essere classificato nell'ambito delle condotte lievemente colpose cade di necessità nel diverso ambito delle condotte gravemente colpose.

Potremmo, perciò, concludere, sia pure con un certo grado di approssimazione, che e per come già accennato il requisito della gravità della colpa esplica la più importante funzione nel definitivo chiarimento sulla sussistenza nel caso di specie dell'elemento della colpa, acquisibile con un'evidenza tale da rimuovere qualsiasi dubbio sulla possibile scusabilità della condotta che quindi si staglia, agli occhi dell'osservatore, come comportamento sicuramente colposo, senza che possa sussistere alcun apprezzabile dubbio al riguardo. In tal modo il requisito della gravità rafforza il dovere di accertamento sulla sussistenza stessa dell'elemento psicologico, con l'effetto di ridurre i margini di opinabilità del giudizio. Ecco perché potremmo dire che la colpa grave è innanzitutto una colpa certa (esistente, senza che possano esservi dubbi nel caso in esame).

In terzo luogo, viene in questione il diniego di giustizia (art. 3, l. cit.) ossia il rifiuto, l'omissione o il ritardo del magistrato nel compimento degli atti di ufficio. Come è noto, l'obbligo della decisione di qualunque lite sottoposta a giudizio è elemento centrale della concezione del giudice invalsa negli ordinamenti moderni a partire dalla sua previsione, proprio nelle forme della responsabilità per denegata giustizia nell'art. 4 del Code Civil del 1804.

Viene, pertanto, in rilievo l'atteggiamento di noncuranza verso le esigenze tutelate da una risposta di giustizia effettuata in tempi ragionevoli.

Occorre distinguere le ipotesi elencate dalla legge.

Il rifiuto consiste in una condotta commissiva che ha per oggetto la dichiarazione di non voler provvedere sull'istanza presentata. L'omissione consiste, al contrario, nella semplice inerzia. Il ritardo si ha quando il provvedimento è reso ma oltre il tempo utile. Anche il ritardo si classifica pertanto tra le condotte commissive.

Qualora ci sia un rifiuto il decorso del tempo non dovrebbe essere considerato rilevante giacché il dubbio se il giudice provvederà nei termini previsti è superato dalla dichiarazione di non volervi provvedere. Al contrario, l'omissione e il ritardo si delucidano solo verificando la condotta del giudice nei termini stabiliti per il provvedimento. Superati detti limiti il provvedimento diviene inutile ed è, pertanto, irrilevante, sempre in via di principio, se il giudice permanga nell'inerzia o invece depositi il provvedimento.

Circa il termine la cui scadenza è stabilita ai fini della responsabilità, non è superfluo notare che lo stesso non è integrato esclusivamente dal termine eventualmente stabilito per l'esercizio fisiologico della funzione, ma, trascorso tale termine o decorso il tempo ragionevole per i casi in cui un termine non sia previsto, è necessario che sia superato anche un secondo termine stabilito ai fini della tolleranza del ritardo. Ne discende la netta differenza tra termine per il provvedimento e termine per la responsabilità. Molto spesso, infatti, è lo stesso diritto positivo a stabilire i termini entro i quali il giudice deve rendere il provvedimento; negli altri casi soccorre il criterio di ragionevolezza: giacché una risposta che intervenga decorso un periodo di tempo incompatibile con lo scopo oggettivo del provvedimento (e dunque con la tutela dei diritti soggettivi o l'affermazione del diritto oggettivo) sarebbe una risposta inutile. A tal riguardo, nella disciplina positiva della responsabilità del giudice, al fine di dirimere gli altrimenti ineliminabili dubbi, è stabilito che il ritardo rilevante matura quando sia trascorso il termine di legge per il compimento dell'atto, e, inoltre, trenta giorni dalla data di deposito in cancelleria dell'istanza di sollecito a provvedere. Invece, se non è previsto un termine, sarà sufficiente il decorso dei trenta giorni dal deposito dell'istanza di sollecito. In ogni caso, e prescindendo dagli ulteriori dettagli stabiliti dall'art. 3 della l. cit., occorre che non sia riscontrabile nel caso di specie un giustificato motivo che delucidi e renda, pertanto, comprensibili le ragioni del ritardo.

Nella denegata giustizia si apprezza in primo luogo una condotta (corrispondente all'omissione o al ritardo) piuttosto che la sussistenza di un determinato elemento soggettivo. Ma questa prima impressione deve essere subito corretta. Si tratta pur sempre dell'elemento psicologico della colpa grave, adesso presentato in uno dei possibili effetti negativi che quell'atteggiamento può produrre. È possibile cadere nel ritardo per come qualificato dalla disciplina in esame solo tenendo un atteggiamento gravemente negligente e dunque solo versando in colpa grave. Nel ritardo ingiustificabile (ossia nel ritardo nel quale non soccorra un giustificato motivo a sostegno della condotta tenuta dall'agente) traspare con particolare chiarezza la sussistenza di questo qualificato elemento soggettivo.

Tutto questo può essere ripetuto senza alcuna variazione con riferimento all'omissione del provvedimento.

Invece, il positivo rifiuto di emettere il provvedimento potrebbe rivelare addirittura la sussistenza non semplicemente di una colpa grave ma del dolo: dell'intenzione di arrecare, attraverso detto rifiuto, una violazione del diritto oggettivo a cui segue un danno. Non a caso la condotta potrebbe anche soddisfare le condizioni per argomentare la sussistenza di uno specifico reato (cfr. art. 328 c.p.).

Svolta questa premessa dovrebbe emergere che l'elemento effettivamente qualificante dell'intero regime di responsabilità è dato dalla colpa grave. Tutto ciò che rimane, infatti, ascrivibile alla specifica area del dolo, e, dunque, alla volontà di contrapporsi all'ordinamento, non suscita particolari problemi giacché non consente apprezzabili modulazioni alla risposta giuridica: sempre calibrata sul metro della netta riprovazione.

Diverso discorso deve farsi, invece, per la colpa grave nella quale il punto fondamentale è dato non dalla sussistenza di un atteggiamento volontario e consapevole ma dalla ricorrenza di una particolare inadeguatezza dell'agente all'esecuzione della prestazione. Su questo elemento è opportuno, pertanto, proseguire la riflessione.

 

6.   Sul concetto di colpa grave.

Sul piano della colpa la responsabilità è limitata non soltanto alla ricorrenza di una specifica condizione soggettiva (colpa grave non genericamente intesa ma specificamente riferita all'esercizio delle funzioni giudiziarie) ma per di più di una condizione di colpa rigorosamente delimitata dalla legge e definibile come di colpa grave tipizzata.

L'elemento soggettivo della colpa grave che rileva in via generale nell'art. 2236 c.c. e che rileva per l'azione di rivalsa nei confronti degli esercenti la professione sanitaria, e, più in generale, per l'azione erariale, in questo caso subisce ulteriori limitazioni e puntualizzazioni. Ai sensi dell'art. 2, comma 3, l. cit., costituisce colpa grave la violazione manifesta di legge, il travisamento del fatto o delle prove, ovvero l'affermazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento o la negazione di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento, ovvero l'emissione di un provvedimento cautelare personale o reale al di fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione [17].

La colpa grave così tipizzata limita la possibilità di agire per il risarcimento del danno derivante da tutte le attività e non solo da quelle di particolare difficoltà, costituendo un limite esterno per il danneggiato che in alcuni casi sopporterà il danno derivante dall'esercizio della funzione giudiziaria come costo sociale. In tal modo tale costo sociale è ripartito, secondo una scelta di politica del diritto preoccupata di salvaguardare l'effettività dell'esercizio della giurisdizione, tra il danneggiante e il danneggiato con la sopportazione in capo a quest'ultimo di taluni profili di danno che non saranno risarciti. Accanto alle ipotesi di condotte dolose e a quelle integranti il diniego di giustizia, gli unici casi in cui si può agire nei confronti dello Stato per responsabilità del magistrato sono quelli in cui le condotte dello stesso possono ritenersi gravemente colpose nel senso ristretto e tipizzato sopra accennato.

 

7.   Colpa grave e violazione manifesta di legge. Applicazione e interpretazione del diritto.

L'ipotesi più rilevante di colpa grave è data dalla violazione manifesta di legge.

In generale possiamo affermare che il giudice viola la legge quando non la applica per come dovrebbe al caso da decidere. La violazione di legge, in altri termini, si apprezza sul piano dell'applicazione della norma generale e astratta alla fattispecie concreta costituita dal caso sottoposto a giudizio. Non qualsiasi violazione di legge assume importanza, ma soltanto la violazione che possa dirsi manifesta, ossia evidente ed appariscente già ad uno sguardo sommario.

Tuttavia, l'applicazione della legge al caso concreto presuppone preliminarmente la comprensione del significato della formula legislativa, ossia del testo linguistico in cui essa consiste. Pertanto, l'evidenza della violazione è strettamente connessa al grado di chiarezza del testo. Una formulazione involuta, atecnica, approssimativa e contraddittoria (come purtroppo non di rado si verifica nella legislazione degli ultimi decenni) oppone un grande ostacolo alla comprensione stessa della legge e dunque porta ad escludere che la violazione del dettato normativo possa qualificarsi come “manifesta”. In questo senso l'art. 2, comma 3 bis, della l. cit. dispone che al fine di determinare i casi in cui sussiste la violazione manifesta di legge “si tiene conto, in particolare, del grado di chiarezza e precisione delle norme violate nonché dell'inescusabilità e della gravità dell'inosservanza”.

Si usa dire che mentre la manifesta violazione di legge incide l'area concettuale della disposizione di legge (ossia del significato del messaggio linguistico), invece non coinvolge la definizione della norma del caso concreto. Questa è una distinzione importante considerato che una volta colto l'esatto significato linguistico della disposizione occorre infatti trarre da essa la regola del caso concreto. Ciò presuppone di rapportare la norma generale e astratta al caso concreto considerando anche la più vasta area di diritto positivo in cui la norma è chiamata ad operare. Tutto ciò costituisce attività interpretativa del giudice.

Per quanto abbiamo, dunque, finora detto la violazione manifesta di legge si evidenzia nell'erronea applicazione della legge al caso dovuta ad un errore di comprensione del significato linguistico della disposizione legale.

Qui sorge un grave problema. Se, infatti, l'errore nella comprensione della legge si apprezza in considerazione della disposizione legale, tuttavia, per applicare quella disposizione al caso occorre preliminarmente interpretare. Ma proprio nell'interpretazione consiste il culmine dell'attività del giudice e più in generale del giurista.

Come dichiara l'art. 12 delle preleggi, il giudice è chiamato ad applicare la legge; come anticipato è tuttavia definitivamente assodato che l'attività di applicazione presuppone quella di interpretazione del testo legale [18]: ossia che, nell'acquisizione del significato della formula legale, sia considerato il senso letterale delle parole, sia valutato il contesto storico in cui avviene la lettura e il caso concreto in ragione del quale la disposizione è chiamata in gioco. Cosicché nessuna disposizione può essere applicata al caso concreto prescindendo da qualsiasi attività interpretativa: e ciò vale anche per casi così semplici da poter essere definiti “di scuola”.

Nell'esercitare l'attività interpretativa il giudice fa uso di una particolarissima discrezionalità: la discrezionalità nell'interpretare (ossia se, come, in che misura, sottoporre il testo ad interpretazione considerato il sistema in cui la disposizione si inserisce, l'evoluzione storica del diritto, le particolarità del caso concreto ecc.) [19].

L'attività interpretativa è insuscettibile di un giudizio di esattezza o di errore proprio in quanto è retta dal criterio della discrezionalità, perciò la legge stabilisce che “non può dar luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto” (art. 2, comma 2, l. cit.). Dunque, l'attività interpretativa si sottrae a responsabilità. In altri termini, resta fuori dall'area della responsabilità civile tutto ciò che rientra nell'ambito del giuridicamente discutibile [20].

La dizione della legge non risulta particolarmente felice. Balzerebbeagli occhi che l'attività interpretativa non può ontologicamente costituire né oggetto né occasione di responsabilità; si tratta infatti di un'attività legittima, oltre che doverosa, e come tale insuscettibile di integrare un danno ingiusto, ossia contrario al diritto, già ai sensi dell'art. 2043 c.c. Per citare un giurista illustre, «La responsabilità presuppone infatti un atto lesivo dell'altrui diritto: tale non può essere in alcun modo il giudizio, che è dichiarazione del diritto» [21].

Ecco perché, come insegna la Suprema Corte,attraverso l'azione di responsabilità del magistrato non è possibile rimettere in discussione interpretazioni accolte dal provvedimento posto a base della domanda respinta. In sede di responsabilità non rilevano le ragioni per cui la parte interessata non condivide le soluzioni fornite dal giudice e non è possibile riaprire il dibattito sulla correttezza o meno della decisione impugnata.

Per queste ragioni ed in conclusione «la responsabilità “ricorre solo allorché la violazione di legge sia ascrivibile a negligenza inescusabile (Cass. civ., sez. I, 26 luglio 1994 n. 6950; Cass. civ., sez. III, 14 febbraio 2012 n. 2107); cioè quando vengano disattese soluzioni normative chiare, certe e indiscutibili, o siano violati principi elementari di diritto, che il magistrato non può giustificatamente ignorare (casi di colpa grave); oppure quando ricorrano particolari circostanze - che debbono essere specificamente dedotte in giudizio e dimostrate - tali da evidenziare che, nel singolo caso controverso, l'adozione di una certa soluzione non possa che ascriversi al dolo del giudicante”». [22]

Nella giurisprudenza si è ravvisato un caso di violazione manifesta di legge (colpa grave) nella decisione del giudice di concedere la provvisoria esecuzione di una ingiunzione di pagamento pur avendo accertato l'insussistenza della probabile fondatezza dell'azione, motivando la sua decisione con la previsione del pagamento di una cauzione. Qui la violazione è manifesta in quanto, cadendo in una palese contraddizione ed ignorando un principio generale del processo cautelare, il giudice assicura gli effetti ad una domanda che egli stesso giudica priva di fondamento [23].

È stata, invece, esclusa la responsabilità del magistrato per grave violazione di legge a seguito di un provvedimento di sequestro fondato su una interpretazione estensiva del concetto di ‘cose pertinenti al reato' poiché l'interpretazione fornita, pur essendo opinabile e discutibile, si mostrava plausibile dal punto di vista logico e giuridico [24].

In conclusione, il giudice risponde solo quando cade in un errore ragionativo (fallacia del ragionamento) violando in modo manifesto la legge; invece, se si limita a scegliere una delle possibili interpretazioni non risponde neppure se segue interpretazioni minoritarie o se accoglie per la prima volta una interpretazione isolata.

Il discostarsi dal precedente, pur se autorevole (come nel caso delle decisioni della Corte di Cassazione a Sezioni Unite), non integra di per sé una grave violazione di legge da parte del giudice, che quindi non incorre in responsabilità [25]. In tali casi rileva la motivazione della sentenza, le ragioni che argomenta a sostegno della scelta interpretativa adottata.

È possibile, quindi, individuare il discrimine tra attività interpretativa e violazione manifesta di legge «ritenendo fonte di responsabilità quei comportamenti, atti e provvedimenti che non possono considerarsi manifestazioni di discrezionalità interpretativa esplicata all'interno della dialettica processuale, ma appaiono determinati da una inescusabile e macroscopica negligenza del magistrato nella lettura del complesso normativo» [26].

Nell'area di esenzione da responsabilità è compresa anche l'attività di valutazione del fatto e delle prove (art. 2, comma 2, l. cit.). Ciò in quanto il carattere fortemente valutativo dell'attività giudiziaria e l'esigenza di garantire l'indipendenza del giudice escludono che possa dar luogo a responsabilità l'attività di valutazione del fatto e delle prove. Non deve essere trascurato, infatti, che la funzione che il giudice svolge si realizza nella decisione sul caso concreto, astrattamente distinguibile nella pronuncia di due diversi giudizi: il giudizio sul fatto e quello sul diritto. Si realizza, pertanto, e in primo luogo attraverso un'attività di valutazione del fatto e delle prove e solo su questa base conoscitiva in un'attività di interpretazione ed applicazione delle disposizioni di legge [27].

Con riferimento ai magistrati che ricoprono l'ufficio di Procura, è stato precisato dalla Suprema Corte che la valutazione prognostica in merito agli elementi probatori idonei a sostenere l'accusa, anche se seguita da assoluzione, integra un'attività di valutazione del fatto e delle prove. Ne consegue che tale attività non può essere posta alla base di una richiesta risarcitoria di danni cagionati nell'esercizio di funzioni giudiziarie, salvo il caso in cui la richiesta del P.M. non sia basata su fatti pacificamente insussistenti oppure del tutto avulsi dal contesto probatorio acquisito [28].

 

8.   Significato giuridico ed errore interpretativo.

Ciò posto, è possibile insistere ancora sul ragionamento, ed interrogarsi se sia possibile o meno un vero e proprio errore nell'interpretazione.

Ricapitoliamo alcuni punti fermi. Nell'art.12 delle preleggi è detto che compito del giudice è di applicare la legge. Ciò vuol dire che il giudice deve prendere atto del testo linguistico, costituito da una proposizione generale e astratta (disposizione di legge) e applicarla al caso concreto (fattispecie concreta). L'applicazione consiste nella disciplina del caso concreto secondo il trattamento stabilito nella disposizione di legge generale e astratta.

Nello svolgere questa attività una operazione preliminare consiste nella lettura e nella acquisizione dell'esatto significato della disposizione di legge. Il che vuol dire che il giudice non deve fraintendere il senso delle parole e non deve commettere errori logici nell'attribuire significati appropriati ai termini generali e astratti adoperati nel testo legislativo (corpo contundente può essere un martello, difficilmente un libro, mai un panino). Oltre ad attribuire il giusto significato linguistico a termini e ad espressioni (come quella di corpo contundente) contenute nel testo legislativo, il giudice deve intendere correttamente il senso letterale di quel testo ossia il significato di espressioni e termini dovuto alla loro connessione nella frase. A questo punto il giudice ha appreso correttamente il significato della disposizione di legge e può apprestarsi all'attività di applicazione al caso concreto [29].

Soltanto che, in questo momento, può sorgere più di un dubbio sulla riferibilità della disposizione linguistica alla particolarità del caso concreto. Ciò in quanto dall'esame del caso della vita possono sorgere moltissimi dubbi sulla riferibilità ad esso della disposizione generale e astratta. In questi casi, infatti, cade in questione non il significato linguistico del testo (della parola o della frase) ma il significato giuridico, il quale è determinabile soltanto attraverso l'interpretazione [30].

Qualche anno fa, ad esempio, la giurisprudenza si è interrogata sulla questione se potesse essere inteso come strumento da scasso (ossia potesse rientrare nel concetto di strumento idoneo ad aprire o a forzare serrature, ai sensi dell'art. 707 c.p., che disciplina il reato di possesso ingiustificato di chiavo alterate o di grimaldelli) anche il martelletto frangivetro, utilizzato dai vetrai nel loro lavoro ma utilizzabile anche dai ladri, per esempio, nel furto di automobili. Evidentemente su un puro piano linguistico sarebbe difficile equiparare il martelletto a un tipico strumento da scasso (come chiavi alterate o contraffatte, o grimaldelli). Ma è altrettanto evidente la facilità con cui chiunque può funzionalizzare quell'utensile ai fini di un'operazione di scasso [31]. Ebbene in casi di questo tipo non viene in questione semplicemente la comprensione del messaggio linguistico ma per di più la definizione della norma giuridica; così che sia la scelta di includere l'utensile tra gli strumenti da scasso che l'opposta scelta di escluderlo è oggetto di discrezionalità interpretativa e come tale non può essere al contempo oggetto di un giudizio di responsabilità per violazione manifesta di legge. Sarebbe, invece, sicuramente un errore ritenere strumento da scasso una forchetta oppure una penna o semplice filo di ferro benché si tratti in ogni caso di oggetti astrattamente utilizzabili per lo scasso; infatti, ciò che conta non è l'episodica funzionalizzazione dell'oggetto ma il suo uso tipico al fine illecito (trattandosi infatti di un reato di sospetto).

Dobbiamo riconoscere che l'errore può essere non solo linguistico ma anche giuridico ossia può manifestarsi, in casi limite, anche nell'ambito dell'attività interpretativa. Infatti, se teniamo distinti, come deve essere, il significato del messaggio linguistico (l'esatta comprensione di ciascun termine e della loro connessione nella frase) dal significato del messaggio giuridico (ossia il significato del testo non in senso puramente linguistico ma per di più in senso giuridico) dobbiamo riconoscere che a volte l'errore cade non sul significato linguistico ma sul significato giuridico dell'espressione. Dobbiamo cioè riconoscere che è possibile cadere in errore anche nell'attività di interpretazione a prescindere da quanto sembra affermare l'art. 2, comma 2, l. cit.

Se, infatti, nonostante la corretta apprensione del significato linguistico di termini, espressioni e frasi della disposizione di legge, il giudice seleziona un significato giuridico palesemente irrazionale ecco che l'errore cade non sul significato linguistico bensì sul significato giuridico. In questi casi l'attività interpretativa può definirsi erronea. In questi casi, infatti, il giudice non rimane nell'ambito di una ragionevole discrezionalità interpretativa ossia non sceglie, fra le numerose opzioni possibili, quella pacificamente accolta da tutti; oppure quella preferita dalla maggioranza degli interpreti; oppure quella difesa dalla minoranza degli interpreti; oppure quella difesa da una sparuta minoranza di interpreti. Presceglie invece una interpretazione a cui non penserebbe nessuno; e che, quindi, opera oltre i confini, anche intesi in senso molto generoso, attribuibili al significato giuridico di una norma.

Questo fatto può comprendersi meglio richiamando il pensiero di Hart [32], il quale nel descrivere la struttura di ogni norma distingue tra un nucleo centrale di sostanziale certezza di interpretazione ed applicazione, sul quale non sorgono problemi interpretativi, e una zona di margine o di penombra in cui si trovano i casi che possiamo determinare solo attraverso una scelta interpretativa per sua natura opinabile.

Hart propone un esempio basato su una norma che vieta l'ingresso di veicoli nel parco. La questione relativa al concetto di ‘veicolo' deve essere analizzata per comprendere quali sono i mezzi che possono entrare nel parco e in quali casi si incorre invece nel divieto. Sarebbe molto difficile sostenere che un camion non debba intendersi come un veicolo ai sensi della norma in esame (ossia non debba intendersi un veicolo di cui è vietato l'ingresso). Il giudice che affermasse ciò incorrerebbe in una violazione manifesta di legge perché applicherebbe la norma in senso contrario al suo nucleo centrale e al suo significato manifesto. Ma va ben compreso che il giudice in questo caso non cade in errore sul piano linguistico poiché non dubita che su quel piano il camion sia un veicolo; non cade in errore nella comprensione della frase (poiché comprende che i veicoli non possono entrare) cade in errore invece sul significato giuridico, ritenendo che, pur essendo sul piano linguistico un camion un veicolo, tuttavia il significato della norma, che in generale vieta l'accesso ai veicoli nel parco, non determinerebbe il risultato, invece ovvio a tutti, di vietare l'accesso al camion. Infatti, se volessimo sviluppare brevemente il nostro ragionamento potremmo osservare quanto segue.

La disposizione “vietato introdurre veicoli nel parco” correttamente decodificata sul piano linguistico significa che nessun oggetto definibile come veicolo può essere introdotto nel parco: dallo skateboard del bambino al carro armato di ultima generazione. Questo è infatti il significato linguistico. Il significato giuridico non è necessariamente corrispondente perché si comprende solo ponendosi la seguente domanda: perché è vietato introdurre veicoli nel parco? La risposta deve tenere conto del concetto di veicolo insieme al concetto di parco. È allora immediato ipotizzare che il divieto voglia preservare il parco dagli effetti negativi che possono essere determinati dall'introduzione in esso di veicoli. Potrebbe essere disturbata la quiete del parco; potrebbe essere rovinata la vegetazione; potrebbero essere messi in pericolo i bambini che giocano liberamente. A questo punto è facile comprendere che il veicolo-carro armato non potrebbe mai essere esentato dal divieto perché il carro armato produrrà con certezza molti di questi effetti negativi transitando nel parco. Lo stesso, sia pure con minore evidenza ed intensità, si può dire per un camioncino, per una automobile e per una moto. Fin qui soccorre il significato certo della norma sul piano giuridico (il suo nucleo di significato). Se però iniziassimo a domandarci se è possibile entrare nel parco in bicicletta, oppure a piedi ma recando con noi la nostra bicicletta, ci troveremmo di fronte alla possibilità di ritenere che, pur trattandosi di veicoli, la loro natura (bicicletta, ossia veicolo non a motore) oppure la modalità di introduzione nel parco (bicicletta portata a mano) riducono sempre di più, fino ad azzerarla nell'ultima ipotesi, la possibilità di arrecare danni a persone, vegetazione o cose presenti nel parco. Se, infine, ci chiedessimo se un bambino può entrare nel parco portando sottobraccio il proprio skateboard tutti riterrebbero che ciò è assolutamente permesso non esistendo nemmeno una possibilità teorica di un danno da veicolo al parco. Come possiamo constatare, sul piano linguistico, tutte queste ipotesi sono perfettamente equivalenti giacché in tutti questi casi si introducono veicoli nel parco. Invece, il significato giuridico, determinato dallo scopo oggettivo del divieto, si espande in un'area che si avvia da un nucleo di soluzioni certe (il carro armato non può entrare; lo skateboard in mano al bambino si) per allargarsi verso significati sempre più discutibili ma possibili: posso entrare guidando un motorino (ipotesi difficilmente sostenibile); oppure posso entrare pedalando sulla bicicletta (ipotesi mediamente sostenibile); posso entrare a piedi ma portando con me la bicicletta (ipotesi molto sostenibile). Ebbene l'interpretazione può svolgersi solo all'interno della così detta zona grigia di significati opinabili. Se, invece, l'interpretazione contraddice il nucleo certo della norma (sostenendosi che il camion può entrare o che il bambino con lo skateboard non può entrare) oppure supera del tutto i confini più rarefatti della zona grigia (per esempio ritenendo che una signora con il carrello della spesa non possa entrare perché alla guida di un veicolo) pur rimanendo questa lettura linguisticamente sostenibile essa sarebbe giuridicamente erronea perché refrattaria a qualsiasi giustificazione che sia accettabile sul piano logico. In conclusione, l'interpretazione è tale ed è insindacabile in punto di responsabilità se condotta nell'area cosiddetta grigia di significato giuridico della norma, non anche se intacca il nucleo centrale contraddicendone il contenuto e nemmeno se oltrepassa la massima estensione dell'area grigia riferendo la norma a casi estranei (come nell'esempio della signora con il carrello della spesa a cui sarebbe vietato l'ingresso al parco).

In conclusione, i testi di legge possono essere valutati sia sul piano linguistico che sul piano giuridico sempre secondo il criterio del significato. Una qualsiasi disposizione di legge possiede un significato linguistico e un significato giuridico. L'errore che cada sull'uno o sull'altro può determinare responsabilità, ma così come l'area del significato linguistico anche l'area del significato giuridico ha una certa estensione. Tutto ciò che si ipotizza entro i confini ragionevoli del significato è oggetto di interpretazione ed è dunque sottratto alla sfera di responsabilità.

 

 

9.   Travisamenti: l'errore nella percezione.

Comunemente si dice che il giudice può cadere in errori di tipo percettivo (fallacia della percezione) che riguardano il fatto (decisivo e pacifico tra le parti) o le prove (art. 2, comma 3, l. cit.). In questi casi non è in questione l'opinabilità di un giudizio interpretativo ma un vero e proprio errore della percezione nella lettura di documenti e provvedimenti: ciò che nel linguaggio comune si è soliti indicare come ‘svista', o con l'espressione prendere ‘fischi per fiaschi'. In tal caso non si versa più nel campo della valutazione di un fatto o di una prova percepiti nella loro oggettività e come tali resi elementi di giudizio ma nell'errore circa la realtà stessa e la sussistenza del fatto o della prova.

Poiché il travisamento del fatto deve essere inteso come un vero e proprio abbaglio, ne segue che tale travisamento deve consistere in una falsa percezione di quanto emerge con particolare chiarezza dagli atti.

Il travisamento della prova ha per oggetto la mancata rilevazione di un'informazione probatoria contenuta negli atti di causa. In questo caso il travisamento non cade direttamente sul fatto ma si appunta sul mezzo attraverso il quale il fatto entra, come rappresentazione, nel processo.

Il travisamento del fatto o della prova non ha quindi punti di contatto con il cosiddetto giudizio sul fatto ossia con la valutazione del giudice sulla verità del fatto e sull'affidabilità della prova che lo rappresenta in giudizio, ma consiste esclusivamente in una erronea lettura degli atti di causa in cui il fatto o la prova risultano chiaramente delineati ed invece sono oggetto di un fraintendimento preliminare da parte del giudice che, vittima di un inescusabile equivoco, effettuerà il suo giudizio su fatti ritenuti esistenti ed invece chiaramente inesistenti dalla lettura degli atti (o viceversa) oppure su prove di contenuto palesemente diverso da quello percepito dal giudice che così si avventura nella valutazione di prove inesistenti oppure omette di valutare prove acquisite a sua disposizione giacché di esse non si accorge.

Come possiamo constatare la responsabilità si fonda sull'errore conoscitivo che cade sulla rappresentazione del fatto. Abbiamo ricordato che qualcuno può essere ritenuto in errore su qualcosa soltanto quando la sua affermazione è suscettibile di un giudizio di verità o di falsità; invece non è appropriato discorrere di errore per i giudizi valutativi, insuscettibili di essere qualificati veri o falsi e invece classificabili come condivisibili e non condivisibili, argomentati e non argomentati e così via. Per conseguenza l'errore presuppone una evidenza verificabile rispetto alla quale è possibile formulare un giudizio secondo l'alternativa vero/falso. L'errore deve cadere, dunque, sulla conoscenza di una realtà verificabile nella sua verità. Consiste sempre nella errata apprensione di un dato simbolico.

Si ha, pertanto, un errore conoscitivo quando non si comprende e si equivoca il significato linguistico di un documento oppure quando si fraintende l'informazione visiva veicolata da una fotografia o da un video; quando si fraintende un linguaggio settoriale, e, tra gli altri, il linguaggio giuridico. Tutto ciò è espresso in maniera chiara anche se molto approssimativa dal legislatore nelle nozioni di travisamento del fatto o delle prove sul fatto ovvero di affermazione, o negazione, del fatto contrastata dagli atti del procedimento.

In realtà nella stessa legge sulla responsabilità dei magistrati il legislatore dà una pessima prova di chiarezza nella formulazione. Indubbiamente, e al di là di quanto leggiamo nella nostra legge sulla responsabilità, il fatto esiste nel processo non in quanto tale ma attraverso un mezzo di rappresentazione che ne costituisce appunto la prova. L'errore non può mai cadere propriamente sul fatto ma esclusivamente sul documento rappresentativo del fatto medesimo. Ciò giova ripetere per l'ovvia ragione che al giudice è precluso un accesso diretto al fatto, che può essere fruito soltanto attraverso uno strumento rappresentativo dello stesso: la prova.

Per poco che si rifletta, l'errore percettivo sul fatto non è l'errore del giudice (che non vi assiste e quindi non può ingannarsi in alcun modo); è invece l'errore del testimone che vi assiste e può fraintendere ciò a cui ha accesso diretto attraverso i suoi sensi. Ecco allora che parlare di un errore diretto sul fatto ad opera del giudice implica di equivocare la chiara differenza tra giudice e testimone.

 

10.   Responsabilità verso lo Stato e azione di rivalsa. La negligenza inescusabile.

Per quanto concerne, invece, il rapporto tra lo Stato condannato al risarcimento e il magistrato, la legge prevede ulteriori restrizioni a tutela della serenità dell'esercizio dell'attività giudiziaria. L'area della responsabilità dello Stato è, infatti, più ampia di quella del magistrato giacché nei rapporti interni il magistrato risponde solo per diniego di giustizia, per violazione manifesta di legge e travisamento del fatto o delle prove, determinati da dolo o da negligenza inescusabile (art. 7 l. cit.) [33].

Esaminiamo per primo il concetto di negligenza inescusabile. La colpa grave tipizzata del magistrato (art. 2, comma 3, l. cit.) costituisce la base della più ristretta area della negligenza inescusabile.

Perché sia riscontrabile nel caso concreto questa ipotesi di negligenza particolarmente qualificata occorre, in primo luogo, riscontrare una ipotesi di colpa grave tipizzata e, in secondo luogo, verificare se quella particolare ipotesi possa sopportare l'ulteriore qualificazione di inescusabilità ossia assoluta impossibilità di accedere ad una qualsiasi forma, anche minima, di giustificazione considerata la fisionomia del caso concreto. In queste evenienze, in altri termini, la colpa grave tipizzata si manifesta in forme radicalmente inaccettabili, tali da porsi, per rimproverabilità accanto alle ipotesi dolose. Benché, infatti, manchi la positiva volontà di arrecare il danno, la funzione è esercitata con tale dispregio di ogni regola e prudenza da essere sostanzialmente equiparabile ad una azione animata da dolo.

Il concetto di negligenza inescusabile previsto dalla norma a fini delimitativi della responsabilità, come confermato più volte dalla giurisprudenza della Suprema Corte, è integrato da una negligenza non spiegabile, priva di agganci con le particolarità della vicenda, che avrebbe potuto rendere comprensibile, anche se non giustificato l'errore del magistrato [34]. Così, per fare un esempio, qualora il giudice travisi una prova, lo Stato sarà responsabile per colpa grave tipizzata del magistrato; qualora poi lo Stato agisca in rivalsa, occorrerà argomentare che quel travisamento della prova è stato, nel caso concreto, determinato da negligenza inescusabile. Perciò per il danneggiato che agisca nei confronti dello Stato è sufficiente fornire la prova del travisamento; per lo Stato che agisca nei confronti del magistrato occorrerà fornire l'ulteriore prova dell'inescusabilità assoluta di quel travisamento.

Mentre in generale, e come già anticipato l'idea della inescusabilità aiuta a comprendere il concetto di colpa grave, nell'espressione ‘negligenza inescusabile' l'inescusabilità non opera come semplice criterio di valutazione della negligenza ma come elemento qualificante della stessa. In altri termini, l'idea di ‘colpa grave' ha molto a che fare con l'idea di inescusabilità essendo grave la colpa che in via di principio non sopporta giustificazioni. Ma l'elevare l'inescusabilità ad elemento specifico da rintracciarsi nel caso concreto impone una doverosa argomentazione incentrata sulla inescusabilità in sé stessa considerata. Non qualsiasi colpa definibile come grave (ossia difficilmente conciliabile con il concetto di scusabilità) può ritenersi grave ed anche inescusabile; per questo ulteriore risultato interpretativo occorre sforzarsi di precisare perché mai ricorrerebbe lo specifico elemento della inescusabilità quale caratteristica che non si limita a delucidare la gravità della colpa ma si aggiunge alla gravità stessa assumendo una rilevanza addirittura autonoma così da escludere non solo in pratica ma anche in teoria (ossia sul piano del ragionamento astratto) qualsiasi possibilità di sostenere che il comportamento tenuto possa dimostrare anche una limitatissima area di giustificabilità. In altri termini, la colpa grave è tale poiché la condotta sarebbe difficilmente scusabile (cosicché l'idea della inescusabilità aiuta alla comprensione della gravità); invece, la negligenza può dirsi inescusabile quando non sussiste nessuna possibilità sul piano razionale di poter giustificare, nemmeno in minima parte, la condotta dell'agente.

Tirando le fila del discorso, non tutti i casi di colpa grave tipizzata, di per sé sufficienti per ottenere la condanna dello Stato, lo sono anche per la condanna del giudice in sede di rivalsa. Ciò in quanto non vi è una perfetta coincidenza tra l'elemento soggettivo rilevante quale presupposto della responsabilità dello Stato (colpa grave tipizzata) e l'elemento soggettivo richiesto per l'esercizio dell'azione di rivalsa nei confronti del magistrato (negligenza inescusabile).

 

 

11.   (Segue): il limite quantitativo al risarcimento.

Infine, la legge stabilisce un limite quantitativo alla misura della rivalsa rapportato, piuttosto che all'entità del risarcimento pagato dallo Stato, alla retribuzione annua del magistrato. In particolare, l'importo della condanna non può superare una somma pari alla metà di un'annualità dello stipendio (art. 8, comma 3, l. cit.). Tale limite si giustifica sia al fine di evitare una sovra esposizione patrimoniale in sede risarcitoria che al fine di garantire la serenità del decidere qualunque sia il valore del giudizio trattato nel singolo caso. Il che ben si comprende essendo il magistrato compensato per il proprio lavoro con una retribuzione legalmente stabilita a prescindere dalla gravità, dalla delicatezza e dalla difficoltà di ciascun incarico concretamente svolto, a cui è tenuto ad adempiere non essendo ammissibile rifiutare di dare risposta alla domanda di giustizia (integrando tale rifiuto un'autonoma fattispecie risarcitoria, peraltro anche penalmente rilevante, qualificata come diniego di giustizia, art. 3 l. cit.) [35]. Tale limite non si applica alle condotte realizzate con dolo (art. 8, comma 3, l. cit.).

In conclusione, attraverso la previsione di un regime speciale di responsabilità si contempera l'esigenza di un risarcimento adeguato in capo al danneggiato con un contenimento massimo del peso risarcitorio in capo al danneggiante. L'operazione è resa possibile dalla introiezione di una quota rilevante del risarcimento in capo allo Stato.

  

12.   Nota conclusiva.

Nel corso di questo contributo si è più volte richiamata la ragione che, per opinione pressoché pacifica, giustifica il regime di responsabilità dei magistrati: assicurare il sereno svolgimento delle funzioni al riparo da attacchi strumentali che potrebbero derivare da chi è coinvolto nel processo. Negli ultimi tempi cresce la critica sociale nei confronti dell'operato della magistratura e in particolare nei confronti degli uffici di procura ma anche nei confronti della magistratura giudicante sia per l'operatività nel settore civile (qui si denuncia l'eccessiva durata dei processi) sia nell'operatività nel settore penale (qui si denuncia soprattutto il ricorso eccessivo a misure cautelari a fronte di successivi esiti assolutori).

Sono in corso di elaborazione diverse proposte di riforma estese anche alla riorganizzazione del Consiglio Superiore della Magistratura. Sarebbe difficile negare che, perlomeno negli ambiti problematici ora evidenziati, il regime di responsabilità, pur sorretto da evidenti ragioni, possa determinare un esercizio negligente della funzione giudicante e disinvolto della funzione requirente. Ecco perché il dibattito investe anche l'assetto della responsabilità civile del magistrato esposta in queste pagine.

L'auspicio è che i correttivi che verranno apportati riescano a coniugare l'esercizio sereno della funzione con la domanda di responsabilità che si solleva verso i magistrati nel pubblico dibattito affinché scongiurato sia il pericolo di un esercizio disattento della funzione da parte di chi potrebbe confidare inappropriatamente sulle limitazioni di responsabilità oggi in vigore sia l'opposto e non meno grave pericolo di un grave condizionamento del magistrato invitato ad una eccessiva prudenza nel lavoro al fine di schivare la chiamata in responsabilità.

Riferimenti bibliografici:

[1] In questo senso L. FERRAJOLI, La sovranità nel mondo moderno. Nascita e crisi dello stato nazionale, Roma-Bari, 2004, 43 e ss., contrappone l'esercizio del potere sovrano, tendenzialmente illimitato, alla concezione stessa del diritto che noi abbiamo come insieme razionale di limiti all'azione. Cfr., inoltre, sul tema specifico oggetto di questo contributo, E. SCODITTI, Quale responsabilità civile del magistrato dopo la legge n. 18 del2015, in Giustiziacivile.com del 16 marzo 2015, secondo il quale la sottoposizione dell'esercizio del potere autoritativo alla regola della responsabilità costituisce un processo irreversibile di civilizzazione del potere pubblico.

[2] Il censimento della giurisprudenza formatasi sul punto è disponibile in B. MARZOCCHI BURATTI-V. TENORE-L. PALAMARA, Le cinque responsabilità del pubblico dipendente, Milano, 2013, ove si trova anche un'analisi dettagliata della legislazione in materia di responsabilità dei pubblici dipendenti.

[3] Cfr. Cass. civ., 15 giugno 2016, n. 12283. Con particolare riferimento al criterio dell'occasionalità necessaria e alla responsabilità civile dello Stato per i danni cagionati dal fatto penalmente illecito del dipendente si richiama il seguente principio di diritto affermato dalla Cass. Sez. Un., 16 maggio 2019, n. 13246: «Lo Stato o l'ente pubblico risponde civilmente del danno cagionato a terzi dal fatto penalmente illecito del dipendente anche quando questi abbia approfittato delle sue attribuzioni ed agito per finalità esclusivamente personali o egoistiche ed estranee a quelle dell'amministrazione di appartenenza, purché la sua condotta sia legata da un nesso di occasionalità necessaria con le funzioni o poteri che il dipendente esercita o di cui è titolare, nel senso che la condotta illecita dannosa – e, quale sua conseguenza, il danno ingiusto a terzi non sarebbe stata possibile, in applicazione del principio di causalità adeguata ed in base ad un giudizio controfattuale riferito al tempo della condotta, senza l'esercizio di quelle funzioni o poteri che, per quanto deviato o abusivo o illecito, non ne integri uno sviluppo oggettivamente anomalo». Per un commento critico cfr. V. TENORE, Occasionalità necessaria con i fini istituzionali e responsabilità solidale indiretta della p.a. per danni arrecati a terzi da propri dipendenti, in Giustiziacivile.com del 19 giugno 2019.

[4] Cfr., in generale, G. ALPA, La responsabilità medica, in Resp. civ. prev., 1999, 316; si v. anche R. DE MATTEIS, La responsabilità medica. Un sottosistema della responsabilità civile, Padova, 1995, ove si argomenta la specialità della responsabilità medica nel più generale contesto della responsabilità professionale.

[5] Con riferimento al tema della responsabilità professionale medica cfr. Cass. civ., sez. III, 12 marzo 2013, n. 6093; 1° marzo 2007, n. 4797; 14 aprile 2006, n. 9085, secondo le quali la limitazione della responsabilità di cui all'art. 2236 c.c. attiene esclusivamente alla imperizia, e non all'imprudenza e alla negligenza. Ne consegue che risponde anche per colpa lieve il professionista che, nell'esecuzione di un intervento o di una terapia medica, provochi un danno per omissione di diligenza o per comportamento imprudente.

[6] Cfr. V. TENORE, La nuova Corte dei conti, Milano, 2018, 365 e ss.

[7] A. DI MAIO, Problemi e metodo del diritto civile, vol. III, Milano, 1987, 185.

[8] Per una panoramica di diritto comparato cfr. A. DELL'ORFANO, La responsabilità civile del magistrato: profili di diritto comparato, in www.federalismi.it, 6 aprile 2016.

[9] Cfr. Corte cost., 14 marzo 1968, n. 2.

[10] Cfr. in generale N. PICARDI-R. VACCARELLA, La responsabilità civile dello Stato giudice, Padova 1990; e successivamente A. GIULIANI-N. PICARDI, La responsabilità del giudice, Milano,1995. Più recentemente, per una completa disamina, estesa anche ai profili di responsabilità disciplinare, penale e amministrativo contabile del magistrato, cfr. Tenore, Il magistrato e le sue quattro responsabilità, Milano, 2016.

[11] Corte cost., 18 gennaio 1989, n. 18; più recentemente cfr. Corte cost., 12 luglio 2017, n. 164.

[12] Cfr. Cass. civ., 12 settembre 2019, n. 22729, secondo la quale: «La l. n. 117 del 1988 è stata pensata in modo da garantire "continuità storica nella disciplina organica della responsabilità del magistrato": adottata, a seguito della consultazione referendaria dell'8 novembre 1987 che aveva travolto il sistema di filtri precedenti, è servita "ad evitare che la responsabilità civile del giudice fosse abbandonata alle previsioni generali dell'art. 2043 del c.c. (Risarcimento per fatto illecito) o dell'art. 2236 c.c. (Responsabilità del prestatore d'opera) o assimilata a quella dei funzionari e dipendenti dello Stato a norma del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, art. 23" (Cass. 04/05/2005, n. 9288). 12.2. Tenuto conto della particolare delicatezza degli interessi coinvolti, come già avvenuto per altri casi, e in considerazione del fatto che "le garanzie processuali non consacrano valori assoluti e immutabili, ma ammettono una regolamentazione concreta, e spesso restrittiva, dei mezzi di tutela giudiziaria, da parte del legislatore" si giustifica la costruzione di un sistema che contempera il diritto del cittadino asseritamente danneggiato da un atto commissivo o omissivo di un organo giurisdizionale di avanzare la propria pretesa risarcitoria con quella di garanzia della funzione giurisdizionale (Cass. 04/05/2005, n. 9288)».

[13] Cfr. ancora Cass. civ., 12 settembre 2019, n. 22729, laddove precisa che: «Va considerato che l'azione risarcitoria diretta contro il magistrato è possibile, ai sensi della L. n. 117 del 1988, art. 13 solo nell'ipotesi in cui sia intervenuta sentenza penale di condanna del magistrato passata in giudicato ovvero in quella in cui la domanda stessa, in quanto inserita nel processo penale mediante costituzione di parte civile, sia oggetto di decisione (del giudice penale) contestualmente all'accertamento del verificarsi del reato (Cass. 29/04/2003, n. 6697); perché, invece, la mera deduzione della configurabilità come reato del comportamento attribuito al magistrato vanificherebbe le finalità perseguite dal legislatore ed eluderebbe un istituto di garanzia approntato a difesa della funzione giurisdizionale e non già del singolo soggetto che la esercita».

[14] Cass. civ., sez. un., 9 marzo 2020, n. 6690.

[15] Cfr., per es., C.M. BIANCA, Diritto civile, V, La responsabilità, Milano, 1997, 606.

[16] Cfr. par. 10.

[17] Cfr. S. DI AMATO, Errore del giudice e responsabilità civile dopo la riforma della legge Vassalli, in Giustiziacivile.com del 3 giugno 2015, secondo il quale la colpa grave si colloca necessariamente al di fuori del recinto dell'interpretazione del diritto o della valutazione del fatto e della prova.

[18] Guastini, L'interpretazione dei documenti normativi, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da A. CICU-F. MESSINEO-L. MENGONI-P. SCHLESINGER, Milano, 2004, 13.

[19] Cfr. F. DI MARZIO, La ricerca del diritto, Roma-Bari, 2021, 39.

[20] Cfr. S. DI AMATO, Errore del giudice e responsabilità civile dopo la riforma della legge Vassalli cit.

[21] S. SATTA, Commentario al codice di procedura civile, vol. I, Milano, 1959, sub art. 55, 211.

[22] Cass. civ., 5 marzo 2015, n. 4446.

[23] Cfr. Cass. civ., 5 novembre 2013, n. 24798.

[24] Cfr. Cass. civ., 18 marzo 2008, n. 7272.

[25] Cfr. Cass. civ. Sez. Un., 3 maggio 2019, n. 11747 cit., laddove afferma che il precedente, pur se autorevole, non integra il precetto normativo e non comporta quindi responsabilità.

[26] Cass. civ., 20 settembre 2001, n. 11880.

[27] Cfr. Cass. civ., 19 gennaio 2018, n. 1266.

[28] Cfr. ancora Cass. civ., 19 gennaio 2018, n. 1266.

[29] Cfr. F. DI MARZIO, La ricerca del diritto, cit., 41.

[30] Cfr. T. Ascarelli, Prefazione a studi di diritto comparato e di teoria dell'interpretazione (1952), Milano, 2004, pp. ix ss.

[31] Cfr. Cass. pen., 27 aprile 2015, n. 17428 laddove precisa che: «Questa corte ha infatti più volte affermato che l'espressione "strumenti atti ad aprire o a sforzare serrature", deve intendersi non nella accezione strettamente letterale ed avulsa dal contesto prescrittivo in cui si trova ad essere, bensì come formula generica con cui la previsione incriminatrice completa l'elencazione esemplificativa integrata da chiavi alterate o contraffatte e chiavi genuine. Tale elencazione, infatti, se esprime casi di "apertura" di serrature, non espone ipotesi di "forzatura". In conformità con la giurisprudenza maturata sul punto, la vasta espressione "strumenti atti ad aprire o a sforzare serrature" deve essere intesa nella concezione per cui sono in essa compresi tutti gli strumenti che hanno un'attitudine non semplicemente, e genericamente, all'apertura di accessi in custodie o luoghi chiusi, bensì a quello specifico ordine di condotte di accesso che è denotato dal termine "effrazione". Il termine deriva dal latino medievale effractio -onis, derivato di effractus, part. pass. di effringere, ossia "rompere". Effrazione significa propriamente "rottura", e più propriamente, "scasso". Nei dizionari si ricorda che il termine è usato soprattutto nel linguaggio forense. In esso è contenuto il concetto di "forzatura"».

[32] Cfr. H.L. HART, Il concetto di diritto, 1965, 148 e ss.

[33] Cfr. in generale F. BIONDI, Sulla responsabilità civile dello Stato e dei magistrati. Considerazioni a margine della l. n. 18 del 2015, in Quest. giust., 3, 2015. In particolare, S. DI AMATO, Errore del giudice e responsabilità civile dopo la riforma della legge Vassalli, cit., afferma che la violazione di legge deve essere manifesta e cioè deve avere una evidenza tale da non richiedere una attività interpretativa. Cfr. E. SCODITTI, Quale responsabilità civile del magistrato dopo la legge n. 18 del 2015, cit., secondo il quale la violazione manifesta di legge concerne la disposizione e non la norma. La violazione che si realizza nel momento in cui l'errore del giudice cade sulla percezione del significato linguistico della disposizione è qualificata come un «travisamento linguistico». Cfr. Cass.,sez. un., 3 maggio 2019, n. 11747, laddove afferma che: «Conclusivamente, sono tre le categorie di ipotesi in cui l'errore del giudice può essere assoggettato a responsabilità civile perché sottratto alla clausola di salvaguardia:

– l'errore sulla individuazione della disposizione, ovvero sulla individuazione del significante;

– l'errore sulla applicazione della disposizione;

– l'errore sul significato della disposizione, ovvero l'attribuzione alla disposizione di un significante non compatibile con il significato, un non-significato. In tutti e tre i casi, non si tratta di scelte frutto di un consapevole processo interpretativo, ma di attività che non sono frutto del processo interpretativo stesso. Esse rilevano come fonte di responsabilità civile qualora integrino una grave violazione di legge che supera la soglia della negligenza inescusabile».

[34] Cfr. Cass., sez. un., 3 maggio 2019, n. 11747 laddove precisa che «Giova richiamare il principio di diritto affermato da Cass. n. 12537 del 1999, ripreso, condiviso e arricchito dalla successiva giurisprudenza di legittimità: “Il sistema normativo della responsabilità civile dei magistrati, quale risultante dalla coordinazione fra le ipotesi di colpa grave tipizzate dalla l. n. 117 del 1988, art. 2 comma 3 e la previsione del comma 2 della stessa norma, secondo la quale nell'esercizio di funzioni giudiziarie non può dare luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto e quella di valutazione del fatto e delle prove, non si sostanzia in un mero rinvio alla nozione generale della colpa grave, come dispone l'art. 2236 c.c. a proposito della prestazione del libero professionista intellettuale implicante la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, ma si caratterizza in modo peculiare, sia per la presenza della clausola limitativa di cui al suddetto comma 2 dell'art. 2, che si spiega col carattere fortemente valutativo dell'attività giudiziaria, connotata da scelte sovente basate su diversità di interpretazioni, sia per la previsione, con riferimento alle ipotesi di cui alle lettere a, b e c del suddetto comma 3, dell'esigenza che la colpa grave sia inescusabile. Con riferimento a tali ipotesi la qualificazione di inescusabilità della negligenza, in quanto aggiunta dalla norma a fini delimitativi della responsabilità, mediante un'esplicazione del concetto di gravità della colpa, integra un “quid pluris” rispetto alla negligenza, nel senso che essa si deve caratterizzare come “non spiegabile”, cioè senza agganci con la particolarità della vicenda, idonei a rendere comprensibile – anche se non giustificato – l'errore del giudice”».

[35] A dimostrazione della vicinanza dei problemi sollevati dall'esercizio di professioni assoggettate a consistenti azioni risarcitorie, va ricordato che la limitazione della responsabilità in misura pari ad una quota dello stipendio annuo è stata estesa anche agli esercenti la professione sanitaria con particolare riferimento all'azione di rivalsa e di responsabilità amministrativo contabile (art. 9, commi 5 e 6, l. n. 24 del 2017).

 

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