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Crisi d'impresa 24.03.2017

Insolvenza dell’imprenditore e conservazione dell’impresa

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1.   “Crisi” e “impresa”.

Vorrei affrontare il tema della conservazione dell’impresa nel diritto delle procedure concorsuali prescindendo da eccessivi tecnicismi e guardando il panorama disciplinare da una certa distanza: quella necessaria per coglierne le articolazioni di fondo e le connessioni che legano quel settore giuridico al mondo del tutto diverso delle discipline aziendalistiche. Vorrei, infatti, invitare alla riflessione su taluni concetti di fondo che vengono in gioco in discussioni di questo tipo: i concetti di crisi, di insolvenza, di continuità aziendale, di esercizio dell’impresa nel fallimento. Su ciascuno di tali concetti alquanto controversi vorrei, infatti, offrire una precisa concezione da sottoporre al dibattito. Nutro, infatti, la convinzione che qualsiasi proficuo discorso abbia nella giusta apposizione delle premesse la fondamentale possibilità di rivelarsi utile e produttivo anziché, confuso, fuorviante e, perciò, dannoso.

L’espressione “crisi d’impresa” possiede una forza descrittiva per un verso immediata e per l’altro indecisa. Pur mostrando eloquentemente il fenomeno economico e giuridico a cui si riferisce sconta l’indeterminatezza di quello, tradendo una approssimazione esplicativa. Segnati dall’ambiguità sono gli stessi ingredienti concettuali; ma l’equivocità di “crisi” e di “impresa” è esaltata dalla connessione nel composto di “crisi d’impresa’: che dalla prima evidenza intuitiva trapassa, sotto il filtro della riflessione, in una zona d’ombra.

Accennare agli essenziali profili dei due concetti e stabilire le concezioni assunte alla base del discorso risponde a un’avvertenza metodologica che in questo caso si raccomanda particolarmente. D’altro canto esporre le ragioni di ambiguità, per comprenderne anche l’insuperabilità, è un modo come un altro (e qui necessitato) di fare chiarezza.

Dei due concetti, il più difficoltoso è quello di “crisi”. La ricerca storica rimanda al termine “krisis”, di origine medica, che indica l’evento di cambiamento nella malattia: preludio a un esito fausto o infausto. Nell’evoluzione dei significati, il momento di trasformazione è stato progressivamente riferito anche a sistemi complessi, assumendo inoltre una connotazione negativa: giungendo a indicare un fenomeno di disfunzione che colpisce particolari apparati (della società, della politica, dell’economia, delle scienze, del diritto e così via).

Lo stato di crisi è caratterizzato dal progressivo cambiamento in peggio rispetto a una situazione data e dall’esigenza della decisione affinché la negatività sopravvenuta possa essere arginata e superata. La crisi descrive la premessa al momento di discontinuità che, effettivamente sopraggiungendo, la compie esaurendola in un fatto storico. Questo momento di superamento della crisi (in senso positivo o negativo) è chiamato “catastrofe”. «Laddove si dà catastrofe, la crisi è decisa». Il segno di discontinuità giova al nitore concettuale del termine “catastrofe”, e spiega per converso l’ineliminabile equivocità del termine “crisi”, denotativo di un divenire negativo in quanto tale (a prescindere, cioè, dal momento di decisione e risoluzione dello stesso, che è il momento della catastrofe). L’instabilità di questo divenire può cronicizzarsi nell’àmbito del sistema in cui si svolge, se quest’ultimo è a sua volta costitutivamente integrato dal mutamento (in tal senso, e sotto il profilo economico, si apprezza la teoria marxiana che vede la crisi come una funzione immanente nel sistema capitalistico) [1].

Ambiguo è anche il termine “impresa”. Limitando il discorso sul terreno del diritto privato, già nelle disposizioni del codice civile “impresa” significa a volte “imprenditore”, altre volte “attività economica professionalmente organizzata”, altre volte ancora “azienda” [2]. Si è così argomentata una concezione “globale” dell’impresa accolta nel codice civile. Secondo questa veduta, soggetto dell’attività d’impresa (imprenditore) attività d’impresa (impresa) e oggetto dell’attività d’impresa (azienda) costituiscono una realtà giuridica unitaria corrispondente a una organizzazione economica complessa considerata nell’insieme [3].

Una qualche commistione deve particolarmente registrarsi tra le nozioni di “imprenditore”, “impresa” e “società”, essendo quest’ultimo termine in sovrapposizione a volte del primo, altre volte del secondo: e ciò in ragione del fatto che «la società è nel sistema del codice una forma di esercizio collettivo dell’impresa» [4].

Con specifico riguardo al diritto della crisi d’impresa va poi segnalata la complicazione del diritto positivo che, nello stabilire il soggetto passivo del fallimento, pone accanto all’imprenditore anche l’impresa; e accanto all’imprenditore operativo l’imprenditore cessato o defunto e il socio illimitatamente responsabile di società personale (cfr. artt. 1, 10, 11 e 147 l. fall.): così sollevando una certa commistione tra le figure dell’imprenditore e dell’impresa; e facendo supporre la possibilità di riferire il fallimento direttamente all’impresa [5], imponendo di conseguenza la distinzione tra esdebitazione dell’imprenditore e risanamento dell’impresa [6].

E tuttavia, nonostante le segnalate opacità, per la tradizione della dottrina commercialistica con il termine “impresa” si significa l’attività economica professionalmente esercitata [7].

I nuclei di significato di “crisi” e “impresa” rilasciano una prima informazione sulle espressioni in cui i due termini sono usualmente coniugati: “impresa in crisi” e “crisi d’impresa”. Nella prima espressione l’accento cade sull’attività d’impresa; nella seconda sulla crisi in cui essa si trova ad essere. Ma in entrambe la crisi è presentata come uno stato in cui versa un’attività. Se infatti l’ordine di significati del termine “crisi” è selezionato in esclusivo riferimento alla scienza aziendale e al diritto d’impresa, nonostante irrisolti profili di indecisione (ingenerati, si vedrà, dalla relazione con il diverso concetto di “insolvenza”), esso indica una condizione propria dell’attività d’impresa [8].

È questa una acquisizione preliminare ma fondamentale e niente affatto scontata. Se si considerano l’origine medica del fenomeno e dunque il naturale riferimento della crisi al soggetto, rintracciando l’esito dell’antico uso nella suggestione che ha spinto il legislatore recente a scrivere di «imprenditore in stato di crisi» (artt. 160, comma 1 e 182-bis, comma 1, l. fall.), ci si avvede dell’insidia terminologica, la quale si comprende meditando sulla emersione storica del concetto di “impresa”. L’autonomia concettuale dell’attività rispetto alla persona del suo artefice richiese infatti il non agevole passaggio culturale dalla figura ottocentesca del “commerciante” (che pone in essere atti di commercio) a quella novecentesca dell’“imprenditore” (che esercita l’attività d’impresa) [9].

Il progresso reso possibile da questa acquisizione si coglie proprio nell’àmbito del trattamento giuridico della crisi d’impresa. Accanto alla concezione tradizionale in cui il fallimento rappresentava la tipica vicenda del commerciante e del suo patrimonio nelle forme dell’esecuzione collettiva sui beni del debitore, poteva immaginarsi una concezione alternativa in cui il fallimento avrebbe potuto rappresentare una vicenda dell’impresa, emancipandosi dalla dimensione atomistica e individualizzante per una nuova dimensione: accomunante e organizzativa di soggetti atti e beni. Proprio in quel frangente storico nella più ampia riflessione sul concetto di impresa – condotta a partire dalla elaborazione della nozione economica di “Unternehmen” – la dottrina austro-tedesca elaborò il nuovo istituto che andava delineando come oggetto di diritti, rendendone così possibile l’inclusione nella massa fallimentare, e facendone oggetto della decisione dei creditori concorsuali; decisione, peraltro, non necessariamente liquidatoria ma anche gestoria [10].

Quella risalente intuizione, e la sua teorizzazione, inaugurarono una linea di legislazione e di elaborazione dogmatica all’insegna del passaggio da visioni individualistiche e singolari a nuove prospettive, aperte a considerare la complessità dei fenomeni. Così da avvicendare al vecchio “diritto fallimentare” un nuovo e più attuale “diritto della crisi d’impresa”: fino all’arresto determinato dalla recente riforma italiana [11].

2.   Crisi dell’impresa e insolvenza dell’imprenditore.

Il superamento delle tradizionali e anguste visioni per una migliore approssimazione al concetto di “crisi d’impresa” presuppone di indagare i rapporti e segnare le distinzioni che corrono tra di esso e il diverso concetto di “insolvenza” (commerciale).

Il termine “insolvenza” – di immediato e consolidato rilievo giuridico – designa lo stato soggettivo di impotenza di chi, sovraindebitato, non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni (cfr. art. 5 l. fall.). Precisamente, il termine “insolvenza” reca due significati: indicando l’incapacità di pagare (Zahlungsunfähigkeit) se riferito alla persona del debitore; e il sovraindebitamento (überschuldung) se riferito al patrimonio [12]. Ma, ciò posto, il concetto di “insolvenza” è particolarmente indefinito [13]. La più difficile distinzione da tracciare è quella tra i fenomeni della pre-insolvenza o pericolo di insolvenza e dell’insolvenza conclamata e irreversibile quale situazione, quest’ultima, coincidente con la descrizione dell’art. 5 l. fall. Tale distinzione è tuttavia fondata nella teoria e sussistente nella pratica. Essa è stata anche avvalorata dal diritto positivo nella previsione dell’abrogato art. 187 l. fall., sulla temporanea difficoltà di adempiere come condizione diversa dall’insolvenza e legittimante l’impresa ad accedere all’amministrazione controllata [14].

I problematici rapporti tra i concetti di “insolvenza” e “temporanea difficoltà di adempiere” e il dubbio sulla ammissibilità o meno di una insolvenza reversibile hanno indotto l’uso, nel linguaggio giuridico, del termine “crisi”, sfornito di tradizione e perciò meno impegnativo e più sfumato del precedente. Già la relazione alla legge fallimentare del 1942, a proposito del presupposto per l’amministrazione controllata, discorre di «una temporanea crisi che rende impossibile l’immediato e regolare soddisfacimento delle obbligazioni» [15]. Ponendo i due termini sullo stesso piano concettuale, e riferendo entrambi al soggetto, con “crisi” si intende prevalentemente una situazione di più vasto raggio in cui si inserisce l’insolvenza vera e propria [16].

Nella prospettiva aziendalistica si rinviene un uso linguistico opposto. Guardando esclusivamente all’’attività e trascurando il soggetto, si afferma che «un’impresa è in stato di crisi quando mostra la stabile presenza di meccanismi capaci, se non contrastati, di condurre in tempi più o meno brevi a crescenti tensioni finanziarie e quindi all’insolvenza» [17]. Crisi e insolvenza costituirebbero dunque stadi successivi di un identico fenomeno degenerativo [18]. Come si vede, le ambiguità registrabili nel settore giuridico si ripropongono nel settore aziendale: mentre nel primo crisi e insolvenza sono riferite al soggetto, invece nel secondo tendono a essere riferite all’attività.

In entrambe le concezioni il termine “insolvenza” è utilizzato per significare l’epilogo della crisi. In filosofia soccorre, si è accennato, l’uso del termine “catastrofe” [19]. Ed è preferibile emancipare l’insolvenza da questa posizione finale rispetto al divenire della crisi perché, diversamente, sfuggirebbe la differenza essenziale tra i due stati: posti su piani diversi perché l’uno riferito all’attività e l’altro al soggetto [20].

Conclusivamente, benché la legge stessa non disdegni di discorrere di “imprenditore in crisi”, sembra più appropriato evitare l’uso del termine “crisi” per denotare fenomeni ricadenti nell’area dell’insolvenza; e invece usare proprio il termine generale di “insolvenza” per ricomprendere le varie specie di cui si compone e che si denotano con varia terminologia: pericolo di insolvenza e pre-insolvenza (stati di cui è pronosticabile l’evoluzione in insolvenza) [21]; temporanea difficoltà ad adempiere ed insolvenza reversibile [22]; infine e tradizionalmente, insolvenza irreversibile. 

3.   Il trattamento giuridico della crisi d’impresa secondo il criterio dell’insolvenza dell’imprenditore.

L’uso linguistico raccomandato permette anche di cogliere appropriatamente il nesso tra “crisi d’impresa” e “insolvenza”. Quale condizione dell’attività, la crisi mentre assume rilievo per le discipline aziendalistiche invece tende a rimane indifferente al diritto. Il rilievo giuridico della crisi d’impresa dipende da un altro e diverso – ancorché connesso – fenomeno: l’insolvenza del debitore. Fino a quando la crisi dell’attività non compromette in apprezzabile misura la solvenza del soggetto, essa rimane irrilevante per il diritto di settore. Quando invece la crisi determina insolvenza, sorge la questione giuridica sul trattamento della crisi d’impresa: nell’interesse dei creditori dell’imprenditore insolvente e a protezione degli altri interessi pregiudicati dal pericolo della cessazione dell’attività in conseguenza dell’insolvenza.

Ed è superfluo annotare che la regolarità del nesso tra i due fenomeni della crisi d’impresa e dell’insolvenza dell’imprenditore si accentua nella prassi economica contemporanea, dove l’imprenditore individuale è figura sorpassata, e dove il patrimonio del soggetto coincide con il patrimonio destinato all’impresa.

Nell’affermazione che la crisi d’impresa diviene giuridicamente rilevante nel diritto settoriale solo quando si accompagna all’insolvenza dell’imprenditore, il concetto di “insolvenza” è impiegato nella vasta concezione che abbraccia, accanto al fenomeno dell’insolvenza irreversibile, anche fenomeni meno gravi, riassumibili in stati di difficoltà economica variamente denominati ma comunque eventualmente prodromici all’insolvenza irreversibile. La crisi d’impresa diviene pertanto giuridicamente rilevante in occasione della difficoltà economica o dell’insolvenza dell’imprenditore.  

Questo affinamento concettuale trova giustificazione nel diritto positivo. Accanto a istituti che presuppongono lo stato d’insolvenza irreversibile (definito nell’art. 5 l. fall.) – quali il fallimento e l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi – si annoverano altri istituti, compatibili con lo stato di insolvenza ma che presuppongono, più modestamente, uno stato di difficoltà economica (secondo le parole della legge, di “crisi” dell’imprenditore): come il concordato preventivo, gli accordi di ristrutturazione dei debiti e i piani attestati di risanamento.

La distinzione può essere sottolineata anche nell’insieme delle procedure concorsuali isolandovi, al’interno, le procedure di insolvenza propriamente intese (fallimento e amministrazione straordinaria) rispetto alle procedure che prescindono dall’insolvenza (concordato preventivo e liquidazione coatta amministrativa).

Nel trattamento giuridico si intrecciano (condizionandosi vicendevolmente) le risposte alla crisi d’impresa e le risposte all’insolvenza del debitore. Il diritto rilevante stabilisce non soltanto il trattamento giuridico dell’imprenditore ma anche i percorsi dell’impresa. Nelle procedure qui dette “di insolvenza” – fallimento e amministrazione straordinaria – ­vale il criterio generale della separazione dell’imprenditore insolvente (che non si emancipa dallo stato di insolvenza in cui è caduto) dalla sua impresa, liquidata o riveicolata sul mercato secondo l’interesse tutelato dalla legge (in genere, l’interesse dei creditori delusi). Nel concordato preventivo e nei contratti sulla crisi d’impresa, ferma la necessità logica dell’improseguibilità dell’impresa da parte dell’imprenditore che non recupera lo stato di solvenza, il componimento della crisi risponde direttamente a scelte di mercato (confezionate nell’accordo contrattuale o nella proposta concordataria approvata dai creditori).

4.   Componente aziendale e componente giuridica nella gestione della crisi d’impresa.

La crisi economica ha rinvigorito la prassi delle operazioni di ristrutturazione, offrendo all’osservatore i materiali di una vasta esperienza. Sotto una prospettiva esclusivamente giuridica, quando non si concretizza in operazioni concordatarie, essa pare spiegarsi in operazioni contrattuali. Tutti queste soluzioni sono sempre incentrate sulla ristrutturazione del debito secondo criteri di sostenibilità prospettica.

Una recente definizione, elborata dall’OIC nell’ambito dei principi contabili su “Ristrutturazione del debito e informativa di bilancio”, dichiara che «per ristrutturazione del debito s’intende un’operazione mediante la quale il creditore (o un gruppo di creditori), per ragioni economiche, effettua una concessione al debitore in considerazione delle difficoltà finanziarie dello stesso, concessione che altrimenti non avrebbe concesso» [23].

Sotto il profilo funzionale, lo scopo di immediata evidenza della composizione del debito si inserisce in un più vasto ordine di scopi, sintetizzabile nella soluzione convenzionale della crisi d’impresa. La realizzazione di tale complesso obbiettivo finale richiede solitamente molteplici operazioni di valenza operativa, economica, finanziaria e anche giuridica [24]. Ma la complessità del momento genetico e del momento esecutivo delle soluzioni giuridiche per il superamento della crisi d’impresa dipende da una altra complessità: a essa sottostante e che essa stessa rivela. Questa è data dalla strategia aziendalistica di superamento della crisi, la quale prima è stabilita in tutte le sue direttrici e poi è attuata nei contratti o nelle procedure concorsuali necessari alla sua realizzazione [25].

Se si osserva l’attività d’impresa organizzata strategicamente per il superamento della crisi nella sua estensione effettiva emerge che le operazioni di ristrutturazione si articolano concettualmente intorno a tre fondamentali aree tematiche, che si concretizzano in apporti di variabile importanza nei casi che si presentano: i) riassetto industriale, o della formula imprenditoriale (Business restructuring); ii) interventi sul capitale investito (Asset restructuring) e iii) ristrutturazione della debitoria (Debt restructuring) [26].

Per necessità pratica, le operazioni contrattuali o concorsuali di superamento della crisi d’impresa non possono prescindere dalla coerente riorganizzazione dell’assetto aziendale (sotto il profilo finanziario, patrimoniale ed economico) alla quale deve razionalmente seguire la attuazione giuridica, generalmente culminante nei contratti sulla composizione del debito o nella proposta di concordato sottoposta ai creditori concorsuali [27].

Se la composizione del debito costituisce attuazione di un segmento soltanto della strategia complessiva di superamento della crisi d’impresa senza assorbirla per intero, nondimeno assume importanza centrale. Come anticipato, la crisi d’impresa assume rilievo giuridico quando si accompagna all’insolvenza dell’imprenditore. Come dimostra la stessa definizione legale di stato di insolvenza, quale impotenza a soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni, la strategia imprenditoriale diviene direttamente rilevante nel diritto della crisi d’impresa soprattutto sotto il profilo finanziario e non anche sotto il profilo operativo, pur essendo quest’ultimo inscindibile dal primo. Benché la strategia d’impresa sia giuridicamente rilevante nella sua interezza, essa è assunta dal diritto nell’ottica e secondo lo schema della esecuzione del rapporto obbligatorio.

Potrebbe dunque affermarsi che nella prospettiva giuridica Business restructuring e Asset restructurung rilevino non in se stesse ma in funzione della Debt restructuring. Tuttavia, l’obbiettivo finale è dato non dalla semplice composizione del debito, bensì dalla stabile composizione del debito (dunque, dalla sua sostenibilità prospettica), necessaria scongiurare la revocatoria: ed è nell’aggettivo che traspare l’importanza di Business restructuring e Asset restructuring.

La centralità della composizione del debito, e la sua valenza assiologica nel diritto della crisi d’impresa, non giustificano atteggiamenti ricostruttivi che trascurino la reale complessità della strategia e della sua attuazione giuridica (infatti la condivisibilità del disegno di debt restructuring dipende dall’adeguatezza strategica delle scelte di ristrutturazione industriale ipotizzate). Illuminante, in tal senso, anche la critica rivolta alla prassi aziendale di trattare il fenomeno della crisi d’impresa attraverso la distinta pianificazione degli aspetti industriali da un lato e degli aspetti finanziari dall’altro. L’artficiale scomposizione della soluzione nel piano industriale e nel piano finanziario (dovuta alle diverse professionalità richieste per la composizione di ciascuno di essi e all’oggetto della interlocuzione con le banche, limitata al piano finanziario) mortifica la rilevante interconnessione che si instaura tra problematiche industriali e finanziarie [28].

 

5.   Operazioni di risanamento e di liquidazione.

Scopo oggettivo delle operazioni per il superamento della crisi d’impresa può essere di recuperare il perduto equilibrio finanziario (la solvenza dell’imprenditore) oppure di liquidare un patrimonio incapiente distribuendo i sacrifici tra i creditori [29].

Come anche emerge dall’osservazione fenomenologia, e dalla constatazione della netta prevalenza statistica delle operazioni di liquidazione rispetto alle operazioni di ristrutturazione, queste ultime manifestano complessità e difficoltà di gran lunga superiori [30].

Nelle operazioni di ristrutturazione l’accordo (o il concordato) non è a esecuzione istantanea ma consta di un vincolo obbligatorio la cui esecuzione si protrae nel tempo. La composizione del debito (obbiettivo finale) si raggiunge con il recupero della capacità economica e finanziaria e alla condizione della prosecuzione dell’attività d’impresa. L’adempimento dell’impegno è reso concretamente possibile dalla generazione dei flussi di cassa derivanti dalla prosecuzione dell’attività [31].

Recupero economico-finanziario e prosecuzione dell’attività si pongono quali condizioni di eseguibilità del contratto (ne determinano il sinallagma funzionale) o del concordato. Per ulteriore conseguenza, il finalismo negoziale assume notevole complessità, essendo integrato non solo dall’obbiettivo finale (composizione del debito) ma anche da due obbiettivi strumentali (recupero finanziario e prosecuzione dell’attività). Tale finalismo resta inevitabilmente compromesso dal mancato perseguimento degli obbiettivi strumentali rispetto al primo e fondamentale: il perdurante squilibrio finanziario cagiona normalmente la cessazione dell’attività e la dichiarazione di fallimento dell’imprenditore, ossia il procedimento di liquidazione che l’accordo o il concordato tendevano a evitare.

Diversamente, gli accordi e i concordati di liquidazione non richiedono il raggiungimento di obbiettivi ulteriori rispetto alla composizione del debito, e non sono in alcun modo costruiti intorno alla acquisizione di utilità future di incerta verificazione e dunque di incerta ponderazione (come la riorganizzazione di flussi finanziari e il recupero di redditività in misura sufficiente alle esigenze adempitive) ma restano fattualmente condizionati soltanto dalla effettiva considerazione della posizione di ogni singolo creditore dell’impresa in crisi. In particolare, per le soluzioni di natura contrattuale, la liquidazione convenuta del patrimonio deve realizzarsi in modo da soddisfare tutti i creditori dell’impresa in crisi: alle condizioni stabilite per chi le accetta; alle condizioni originarie di adempimento per chi resta estraneo all’accordo. La mancata soddisfazione di qualche creditore concretizza invece la possibilità della dichiarazione di fallimento: e dunque il mancato perseguimento, o la vanificazione, degli obbiettivi primari e tipici dell’accordo sulla crisi d’impresa.

Per esperienza pratica, questa schematizzazione non soffre eccezioni. Di solito, soprattutto quando la crisi ha concause di natura strategico-industriale, la ristrutturazione del debito si inserisce in un processo molto più complesso di riorganizzazione dell’attività d’impresa (c.d. turnaround), il cui obbiettivo è di modificare stabilmente la formula imprenditoriale [32]; specie in simili evenienze può accadere che ristrutturazione e liquidazione si articolino in un disegno complessivo; inoltre, è frequente l’intervento nella operazione economica di soggetti terzi apportatori di finanza o di collaborazione nell’attività d’impresa riorientata. La liquidazione convenuta transita a volte per la riallocazione dell’azienda o di suoi rami sul mercato (soddisfacendosi i creditori con il ricavato dell’operazione di cessione) e non di rado prevede l’intervento di terzi finanziatori interessati a vario titolo (specialmente, per appartenere al gruppo di imprese in cui si colloca quella insolvente). Tuttavia, in ogni caso la finalità complessiva della operazione è alternativamente rinvenibile o nella ristrutturazione del debito o nella liquidazione convenuta del patrimonio dell’imprenditore: sempre al fine del superamento della crisi d’impresa.

6.   Pianificazione aziendale e diritto positivo della crisi d’impresa.

La specifica strategia d’impresa avente a oggetto il superamento della crisi è descritta in un programma o piano, che ne rappresenta la formalizzazione quantitativa. In generale, il termine “piano” (o progetto o programma) designa una enunciazione dettagliata di ciò che si vuole fare, rispondente a una attuazione prevalentemente tecnica. Svolgere attività d’impresa implica, nella pratica, un continuo esercizio di pianificazione: dalla situazione di start up (in cui alla nuova impresa può esser richiesta la redazione di un business plan per le più diverse finalità, come attrarre investitori specializzati oppure ottenere finanziamenti bancari) e per tutto l’arco dell’attività d’impresa: non solo in costanza di modello di business ma anche in tutti i casi di modificazione del modello (con il lancio di nuovi prodotti o l’ingresso in nuovi mercati, o nell’ipotesi di aggregazione aziendale o di altre operazioni straordinarie). In effetti l’attività d’impresa, poiché si svolge in un contesto d’incertezza, presuppone sempre una strategia, il cui livello di formalizzazione può variare sulla base delle dimensioni e delle caratteristiche organizzative [33].

Dopo le riforme degli ultimi anni il “piano” può legittimamente essere considerato non soltanto uno strumento della prassi, ma anche una figura del diritto positivo d’impresa, che pure richiede in determinati casi atti e documenti che implicano una sottostante attività di pianificazione [34]. Ma è proprio nel settore del diritto sulla crisi d’impresa (sia contrattuale che procedurale) che il piano aziendale assume un rilievo centrale.

Le iniziali previsioni, costantemente ribadite, si annoverano nelle discipline della amministrazione straordinaria, dove sono previsti piani di ristrutturazione e di liquidazione che concernono o il superamento della crisi tramite ristrutturazione economica e finanziaria oppure la cessione dei complessi aziendali, e non – immediatamente – la liquidazione in senso proprio e stretto dei beni e delle attività (art. 27 d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270; art. 4 l. 18 febbraio 2004, n. 39). Di seguito si è trascorsi non solo alle esplicite disposizioni in materia di contratti [con la figura del “piano attesto”, art. 67, comma 3, lett. d) l. fall.] ma anche alle regole in tema di concordato: nel concordato preventivo è stabilita la predisposizione di un piano da presentare nella domanda del debitore (art. 160 l. fall.); anche nel concordato fallimentare la domanda si fonda su di un piano (art. 124 l. fall.). Persino con riguardo al fallimento, è oggi sancita la predisposizione di un programma di liquidazione (art. 104-ter l. fall.).

Più diffusamente, può osservarsi che in tema di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi l’art. 27 d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270 dispone che le imprese dichiarate insolventi a norma del precedente articolo 3 sono ammesse alla procedura di amministrazione straordinaria quando presentino concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico delle attività imprenditoriali. Il generico riferimento al risanamento dell’impresa assume consistenza attraverso la indicazione delle modalità alternativamente stabilite per tale risultato. Dispone infatti l’art. 27 in esame che la ristrutturazione può conseguirsi, in via alternativa, tramite la cessione dei complessi aziendali sulla base di un programma di prosecuzione dell’esercizio dell’impresa di durata non superiore ad un anno (c.d. “programma di cessione dei complessi aziendali”) o tramite la ristrutturazione economica e finanziaria dell’impresa sulla base di un programma di risanamento di durata non superiore a due anni (c.d. “programma di ristrutturazione”). Con riguardo al programma di cessione, a seguito del d.l 28 agosto 2008, n. 134 conv. in l. 27 ottobre 2008, n. 166, va aggiunto che per le società operanti nei servizi pubblici essenziali la cessione può riguardare complessi di beni e contratti sulla base di un programma di prosecuzione dell’esercizio dell’impresa di durata non superiore ad un anno (c.d. “programma di cessione di complessi di beni o contratti”). Tali indicazioni vanno completate con il richiamo al precedente articolo 1 che fissa, per l’obiettivo della conservazione del patrimonio produttivo, le possibili vie della prosecuzione, della riattivazione e della riconversione delle attività.

Nel diritto contrattuale e nei concordati il piano assume un ruolo assorbente [35]. In tale ambito la pianificazione rimane sottratta a ogni automatismo e a ogni predeterminazione che non valgano anche per l’esercizio dell’autonomia negoziale. Come quell’esercizio è libero, così è aperto alla libera determinazione dei privati la possibilità contenutistica del piano [36]. Proprio l’ampiezza dello spazio determinativo e la sottrazione a ogni vincolo di tipicità oltre che a qualsivoglia predeterminazione contenutistica sostanziano l’importanza del piano in questi contesti operativi, dove le possibilità di successo dell’operazione dipendono proprio dalla qualità e dalla efficienza della soluzione proposta nel piano. Come sempre accade, l’ampiezza della libertà è direttamente proporzionale alla estensione del rischio. Perciò, a tutela di coloro che aderiscono alla pianificazione – creditori ma anche terzi finanziatori e acquirenti di asset – il legislatore si preoccupa alquanto della efficienza e della solidità del piano: stabilendo regole che, salvaguardando la libertà determinativa dei privati, mirano tuttavia ad assicurare la veridicità dei dati aziendali di partenza e la ragionevolezza e fattibilità del programma medesimo [37]. Anche a causa dell’elevato rischio connaturato a simili operazioni, un carattere del piano certamente non necessario – ma nondimeno ricorrente – è la dimensione plurisoggettiva della sua elaborazione. Un carattere del piano teoricamente eventuale – ma sempre attuale in pratica – è nella necessità che alcuni o tutti i suoi punti siano oggetto di condivisione. Ciò accade quando nel piano siano coinvolti soggetti diversi dai redattori e di cui si chiede in qualche modo la partecipazione [38]. In questi casi – e sono i casi considerati nelle disposizioni della legge “fallimentare” – il piano, quale formalizzazione di una strategia di superamento della crisi d’impresa, costituisce il dato aziendale su cui si articola una complessa attività giuridica di matrice negoziale finalizzata a realizzare nel mondo del diritto risultati corrispondenti a quella programmazione tecnica. E può fin d’ora anticiparsi: il piano (sulla crisi d’impresa) costituisce la ragione del contratto (anch’esso sulla crisi d’impresa) e del concordato.

Se, inoltre, si pone mente al contesto in cui si svolge l’impresa, e cioè al mercato; se si riflette sulla dinamica relazionale costitutiva del mercato stesso; se si considera che l’insolvenza commerciale assume una dimensione spiccatamente relazionale (pregiudicando la relazione commerciale in essere, e cioè il rapporto obbligatorio in esecuzione) allora non solo si rimane ulteriormente persuasi che il piano sulla crisi dell’impresa è funzionale, oltre che a riposizionare strategicamente l’impresa, anche a ristrutturare o definire relazioni commerciali, ossia (e prevalentemente) rapporti obbligatori; ma si comprende anche come mai proprio il Debt restructuring sia oggetto di primaria considerazione nella legge. Per questo decisivo profilo emerge che il piano, mentre può essere progettato dal debitore in solitudine, invece non può essere praticamente attuato che nella condivisione degli obbiettivi perlomeno tra quel debitore e i suoi creditori (compresi nel gruppo anche gli obbligazionisti, gli investitori e i finanziatori). Se nel piano si prevede la ristrutturazione del debito o la liquidazione convenzionale del patrimonio, la praticabilità del piano stesso è condizionata dalla adesione dei creditori interessati alle modificazioni giuridiche di atti e rapporti richieste dal piano. Senza l’approvazione del piano da parte dei creditori, le cui posizioni sono in esso ristrutturate – e dunque senza l’accordo di ciascun creditore sulla singola posizione per come ristrutturata nel piano stesso da attuarsi contrattualmente, e senza la condivisione del piano concordatario da parte dei creditori esprimenti le maggioranze richieste dalla legge perché la proposta del debitore divenga vincolante per i dissenzienti – il programma di ristrutturazione non è realizzabile giacché il debitore resta obbligato alle condizioni originarie e ostative alla ristrutturazione o liquidazione per come pianificata. Pertanto, una volta delineato, il piano deve essere presentato ai creditori; superato il vaglio dei creditori può credibilmente aprirsi ad altre partecipazioni, eventualmente indispensabili: come quella degli apportatori di capitale di rischio nel soggetto collettivo, dei terzi finanziatori dell’operazione, degli acquirenti dell’azienda o di suoi rami, e così via [39].

Anche nel fallimento rileva la pianificazione. Proprio in tale ultimo àmbito la novità si mostra effettiva. Nella relazione illustrativa si legge (sub art. 104-ter) che il programma di liquidazione rappresenta una novità assoluta, tesa a semplificare e razionalizzare la fase di liquidazione dell’attivo. Al contrario di quanto previsto nelle discipline sulla amministrazione straordinaria, nella legge fallimentare il programma è espressamente definito di liquidazione. In tal senso, si apprezza certamente una novità. Che origina, tuttavia, una domanda generale di portata teorica sulla compatibilità – e se affermata, in quali limiti – del concetto di “programma” (che implica una enunciazione su ciò che ci si propone di fare; un piano di lavoro) con quello di “liquidazione procedimentale” (che richiama piuttosto la proceduralità dell’azione giurisdizionale). Altro è la pianificazione in accordi e concordati (fatto aziendale connaturato agli stessi) altro è il programma di liquidazione fallimentare (che vale, alquanto modestamente, quale organizzazione della liquidazione) [40].

Con la precisazione ora svolta, e riallacciandosi alle precedenti considerazioni di carattere generale, può concludersi che la pianificazione degli interventi sulla crisi d’impresa ha assunto anche nel nostro ordinamento l’importanza già conseguita in altri ordinamenti vicini [41].

7.   L’interesse comune dei creditori alla gestione razionale della crisi d’impresa e le procedure concorsuali.

Poiché la composizione del debito riveste centrale importanza nelle strategie di superamento della crisi d’impresa, il ruolo dei creditori si mostra decisivo nella scelta da assumere sul destino dell’impresa.

Nella prospettiva del rapporto obbligatorio, la crisi dell’impresa e il conseguente stato di insolvenza dell’imprenditore costituiscono fattualmente i creditori in una “comunità delle perdite”. Spetterà a tale comunità di organizzarsi per assumere le decisioni sulla crisi d’impresa maggiormente confacenti all’interesse di ceto [42].

La decisione sulla crisi d’impresa è, innanzitutto, decisione sull’impresa. La ricchezza dell’impresa consiste nella organizzazione dei fattori produttivi; cosicché la conservazione dell’attività non di rado risulta efficiente alla massima valorizzazione dell’attivo patrimoniale e opportuna proprio nell’interesse dei creditori. Il che trova conferma nella riflessione sulla diversità di problemi a cui il sistema della responsabilità patrimoniale deve rispondere nella disciplina codicistica e nelle discipline della crisi d’impresa. A differenza che nella prima, nelle seconde la finalità conservativa non si esaurisce nella salvaguardia del patrimonio staticamente considerato ma si avvantaggia della gestione produttiva dello stesso [43].

L’interesse alla gestione economicamente ragionevole della crisi è proprio di ogni creditore: giacché nessuno preferirebbe una gestione irrazionale se non per il proprio vantaggio illecito o comunque immeritevole di tutela, e come tale non ostensibile nel discorso giuridico [44]. D’altro canto, la naturale tendenza di ciascun creditore ad avvantaggiarsi sugli altri nelle operazioni di risanamento dell’impresa o comunque di superamento della crisi può renderne difficile la gestione: come soprattutto accade quando la crisi d’impresa si manifesta nelle forme più gravi. Il che può determinare l’insuccesso dell’operazione, con pregiudizio finale anche per quei creditori che vi hanno contribuito assumendo e mantenendo un atteggiamento eccessivamente egoistico. Ecco allora che il diritto individuale di ogni creditore di procedere all’esecuzione e la conseguente realtà del concorso di tutti i creditori sul patrimonio del debitore si rivelano costitutivi dell’interesse a che l’espropriazione e la liquidazione dei beni del debitore siano organizzate non semplicemente in ragione del diritto dei creditori di essere soddisfatti delle proprie pretese, ma anche secondo l’esigenza che tale soddisfazione si realizzi seguendo criteri di ottimizzazione dei risultati della liquidazione [45].

L’impegnativa decisione sull’impresa in crisi è favorita da una organizzazione procedurale della scelta ed è invece pregiudicata dall’iniziativa assunta dal singolo creditore e disarticolata da un più vasto e complesso disegno. Acquistano pertanto ragione le complesse procedure concorsuali, nelle quali tutte sono apprestati strumenti per la gestione dell’impresa in crisi, sempre al fine della migliore soddisfazione dei creditori [46]. Tradizionalmente, le procedure concorsuali si giustificano proprio alla luce dell’interesse comune dei creditori, di immediata percezione sotto la visuale economica, alla razionale gestione della crisi d’impresa [47].

La prescrizione legale della procedura collettiva – la disciplina del concorso – assicura la parità di trattamento non solo in possibilità, e a condizione della attivazione tempestiva di tutti i creditori nelle esecuzioni individuali, ma anche in realtà; inoltre nel vietare iniziative esecutive individuali (cfr. artt. 51 e 168 l. fall.) e nel raccogliere i creditori in massa, mentre scongiura l’eventualità di iniziative individuali foriere di danni piuttosto che apportatrici di vantaggi [48], fonda per ciò stesso l’interesse comune di tutti i creditori concorsuali a partecipare all’unica procedura a disposizione per la soddisfazione dei loro diritti [49].

Giova riflettere che l’interesse dei creditori al governo della crisi ha natura strumentale rispetto all’interesse finale e individuale di ciascun creditore alla soddisfazione della pretesa vantata; mentre il primo interesse è comune a tutti i creditori, il secondo interesse è da ciascuno di essi affermato in conflitto con l’interesse di tutti gli altri creditori [50]. Non per questo l’interesse finale è antinomico all’interesse individuale; lo sarebbe se non sussistessero le discipline del concorso che – in quanto fondate sul principio di par condicio creditorum – raccordano i due tipi di interesse. E infatti, la parità dei creditori null’altro è che il criterio distributivo delle risorse relativo alla responsabilità patrimoniale del debitore. Il significato ultimo della concorsualità quale carattere discriminante delle procedure dette, appunto, concorsuali, è risposto nel principio della parità di trattamento, ossia del soddisfacimento eguale e perciò proporzionale dei creditori che partecipano al concorso [51]. Per quel principio, ogni creditore diviene interessato alla massimizzazione dei risultati della gestione della crisi d’impresa.

A tal riguardo, si è scritto di una «comunione forzosa» tra creditori, comunione imposta dalla legge concorsuale [52]. E appare importante segnalare l’efficacia costitutiva della disposizione legale sul concorso dei creditori giacché proprio in ciò si radica la differenza tra contratti sulla crisi d’impresa e deliberazioni concordatarie. In queste ultime, al consenso contrattuale può avvicendarsi la deliberazione maggioritaria proprio perché la comunità di interessi in cui fattualmente stanno i creditori del comune debitore insolvente assume, con l’apertura della procedura concorsuale, un compiuto rilievo giuridico [53].

Nel concordato si mostra chiaramente il senso delle procedure concorsuali quali strutture per la decisione organizzata sulla crisi d’impresa. La consapevolezza non ancora sufficientemente matura di questa funzione induce la critica ricorrente alla struttura stessa del concordato, quale procedura deliberativa e non consensuale. Poiché nel concordato si compone il debito, ci si attenderebbe che la procedura vincolasse soltanto i creditori consenzienti e non anche i creditori dissidenti. Perché attraverso il concordato possa raggiungersi la decisione organizzata sulla crisi d’impresa, è tuttavia stabilita la regola maggioritaria. Pur nella intuitiva pratica necessarietà, la decisione per deliberazione maggioritaria e non per consenso suscita dubbi e perplessità in chi vi scorge, addirittura, un fenomeno espropriativo del diritto di credito [54].

La visione alternativa, emancipatasi dal condizionamento del rapporto obbligatorio e aperta a riflettere sull’impresa, ritiene invece la regola maggioritaria ampiamente giustificata proprio in forza dell’organizzazione della decisione collettiva sull’impresa. La decisione di finanziare un’impresa implica soggezione alla legge commerciale come regola sul funzionamento dell’impresa: e così pure al diritto della crisi, comprensivo delle procedure di concordato in cui la soluzione alla crisi è deliberata a maggioranza [55].

Pure importante è che mentre nel fallimento l’esecuzione coinvolge l’intero patrimonio del debitore sottraendolo alla sua destinazione produttiva per riservarlo alla garanzia dei creditori, invece l’alternativa concordataria può conservare quel patrimonio alla originaria destinazione d’impresa: e perciò realizza più intensamente la disciplina dell’attività commerciale permettendo anche l’apprensione di tale dinamismo sotto la prospettiva, tradizionalmente statica, della responsabilità patrimoniale. Se, in altri termini, i cardini del sistema della responsabilità patrimoniale presentano il patrimonio in funzione di “garanzia” dell’obbligazione (ed è questa la prospettiva della liquidazione patrimoniale nell’interesse dei creditori, e dunque, selettivamente, del fallimento), invece il collegamento con l’attività d’impresa (consentito dalla soluzione concordataria, preventiva ma anche successiva) emancipa il patrimonio dalla tradizionale funzione e ne consente la finalizzazione produttiva [56].

Il concordato preventivo, esperibile anche dall’imprenditore non ancora definitivamente insolvente (cfr. art. 160, commi 1 e 3, l. fall.), per la tempestività dell’intervento favorisce quella proficua ristrutturazione dell’attività sotto il profilo della continuità aziendale (going concern) o quantomeno della organizzazione d’impresa [57], in accoglimento di una prospettiva che fu alquanto estranea al diritto concorsuale tradizionale e che si rimproverò mancare anche nella prima legge dedicata alla amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi [58].

La salvaguardia del patrimonio nella destinazione d’impresa è resa possibile dalla decisione strategica sulla gestione della crisi. Il procedimento di concordato è l’ambito in cui le parti si incontrano e i creditori deliberano: assumono cioè una decisione collettiva secondo regole essenziali che pure determinano altri insiemi di soggetti, come i soci nelle società commerciali. Esemplificando drasticamente potrebbe affermarsi che mentre nella società solvente l’azione è proceduralmente decisa dal capitale di rischio, invece nella società insolvente l’azione può essere proceduralmente decisa dal capitale di debito: come accade nei concordati [59].

Questo modo di vedere si inserisce in un più vasto argomentare, organizzato intorno all’idea basilare che, in caso di insolvenza dell’imprenditore, la piena tutela del credito possa realizzarsi soltanto attraverso il riconoscimento in capo ai creditori di poteri dispositivi non, semplicemente, del patrimonio dell’impresa ma dell’impresa stessa considerata come attività [60]. 

8.   Tutela dei creditori, piuttosto che dell’impresa, nel diritto ordinario.

Determinatasi, per la crisi dell’impresa, l’insolvenza dell’imprenditore, cadono in questione la tutela del credito verso l’imprenditore da un lato e la conservazione dell’impresa dall’altro quali interessi in potenziale conflitto e perciò sottoposti a bilanciamento nel diritto rilevante. Nel dar conto delle soluzioni positive, occorre tracciare la distinzione tra diritto ordinario della crisi d’impresa (nel quale confluiscono piani attestati, accordi di ristrutturazione, concordato preventivo e fallimento) e diritto amministrativo (comprensivo delle procedure di liquidazione coatta e di amministrazione straordinaria). Mentre nel diritto ordinario prevale la tutela del credito,invece nel diritto amministrativo (determinato essenzialmente dalle leggi sull’amministrazioen straordinaria) prevale l’esigenza della conservazione dell’impresa

Nel diritto ordinario della crisi d’impresa oggetto di tutela è il credito verso l’imprenditore insolvente: nel senso che tutti gli altri interessi coinvolti nell’attività non trovano protezione autonoma ma sempre condizionata alla tutela dell’interesse – perciò primario – dei creditori [61]. Questo assetto valoriale si deduce dal potere determinativo riconosciuto ai creditori oppure al comitato dei creditori: poiché le principali decisioni sulla modalità gestoria della crisi è riservata ai creditori, è evidentemente l’interesse degli stessi a essere tutelato e promosso sopra ogni altro interesse, infatti privo di voce.

L’ampio riconoscimento di un tale potere caratterizza la procedura fallimentare: nella versione del codice di commercio nella versione del 1942 e così pure nella versione in vigore, in cui per il recupero di soluzioni in qualche misura già sperimentate nell’Ottocento i poteri gestori e le decisioni di merito sono largamente affidati al comitato dei creditori quale organo esponenziale del ceto protetto [62]. Stesse conclusioni valgono per i concordati: nei quali la domanda è assoggettata alla approvazionedei creditori [63]. E lo stesso è a dirsi per i contratti, fondati come sono sull’accordo tra debitore e creditori.

Ciononostante, il dibattito sulle finalità del diritto “ordinario” della crisi d’impresa, nella antinomia ravvisata nella considerazione sintetica dell’interesse dei creditori e della salvaguardia dell’impresa, quali interessi assolutizzati e pertanto non agevolmente bilanciabili, è risalente; e in passato fu segnato da profondi condizionamenti ideologici, sovversivi dell’ordine stabilito nel diritto positivo ed emblematizzati nella proposta di strumentalizzare le procedure concorsuali in chiave di politica del diritto, secondo un “uso alternativo” della risorsa giuridica la cui teoria e anche pratica erano in voga negli anni settanta del secolo scorso [64]. In quegli anni nelle riflessioni sul fallimento alla figura dell’imprenditore gradualmente subentra la figura dell’impresa, intesa come valore di interesse non solo singolare e privato, ma collettivo e pubblico. Accanto alla necessità di tutelare l’interesse dei creditori si evidenziano altre necessità, soprattutto quella di salvaguardare i livelli occupazionali. Alla esclusiva finalità di liquidazione si affianca (e a volte avvicenda) quella di conservare l’impresa, sostituendo magari l’imprenditore incapace alla sua guida. L’impresa è ormai percepita come organizzazione complessa di beni anche immateriali, di conoscenze e di attività. Appare chiaro che la sua liquidazione può comportare una inutile distruzione di risorse [65].

Che il dibattito fosse soprattutto occasionato ma non per intero determinato dalla contingenza storica emerge dal fatto che tuttora, e pur nel radicale cambiamento che ha investito la scena politica e sociale, il contrasto non può dirsi sopito: riproponendosi in qualche misura nelle articolate posizioni censibili in letteratura [66]. A uno sguardo preoccupato di evitare condizionamenti ideologici non può tuttavia sfuggire che l’interesse protetto sia l’interesse dei creditori quali soggetti chiamati a decidere sulla crisi d’impresa.

La tutela dei creditori rappresenta la finalità essenziale delle procedure concorsuali anche nella prospettiva comparativa, dove significativo sopra tutti è il caso tedesco. Nella propensione sistematica tipica della cultura germanica, il § 1 InsO dichiara che la finalità della procedura di insolvenza è il soddisfacimento concorsuale dei creditori: attuabile o attraverso la liquidazione patrimoniale o secondo la disciplina di un piano di insolvenza sulla conservazione dell’impresa. Nel progetto governativo le finalità della procedura si estendevano (oltre alla tutela degli interessi del debitore e della sua famiglia) alla protezione dei lavoratori. Tuttavia, e più in generale, l’iniziale aspirazione per un diritto del risanamento dell’impresa, nel quale la liquidazione ricoprisse un ruolo residuale, non ha trovato accoglimento nella legge il cui definitivo assetto è sancito in una disposizione introduttiva non solo peculiare dell’ordinamento tedesco ma per di più sfornita di precedenti e tuttavia chiara nell’esplicitare una gerarchia assiologia all’insegna della tutela del credito [67]. 

9.   Strumentalità della conservazione dell’impresa rispetto alla tutela del credito.

La riforma organica del diritto della crisi d’impresa ha dimostrato come possa assicurarsi tutela a interessi diversi dal credito pur preservando il primato della tutela del credito: e ciò assicurando che la decisione sull’impresa in crisi sia assunta dai creditori. Ha pertanto confermato la relazione di compatibilità tra procedure concorsuali e conservazione dell’impresa [68].

E tuttavia, il dubbio sulla gerarchia assiologica accolta nel diritto riformato potrebbe essere indotto anche da alcune regole sopravvenute, dettate per l’esercizio dell’impresa nel fallimento. In quelle regole assumono rilievo anche altri interessi, pur coinvolti nell’impresa ma diversi dall’interesse dei creditori. E tuttavia, come chiaramente risulta dall’esame del diritto positivo, l’attenzione a interessi diversi dall’interesse dei creditori è sempre funzionale all’affermazione di quest’ultimo. Se infatti il fallimento è procedura esecutiva di liquidazione del patrimonio del debitore nell’interesse dei creditori, e accordi e concordati presuppongono rispettivamente accettazione e approvazione dei creditori, allora nessuna diversa conclusione sembra avvalorabile.

Né il ragionamento è invalidato dall’osservazione che, a seguito di accordi e concordati, può realizzarsi il risanamento dell’impresa e comunque può condursi – e ciò anche nel fallimento – l’esercizio dell’impresa e perciò può provvedersi alla conservazione dell’organizzazione d’impresa: con salvaguardia di tutti gli interessi coinvolti nell’attività e non soltanto dell’interesse creditorio. Emblematica appare, sotto tale aspetto, proprio la disciplina del fallimento: dove si contempla l’esercizio dell’impresa; ma tale esercizio è definito «provvisorio»; ed è condizionato dalla tutela dell’interesse dei creditori. Come emerge chiaramente dalla lettura dell’art. 104 l. fall. (ancora più eloquente sul punto del vecchio art. 90 l. fall.) l’istituto è funzionale alla conservazione dell’impresa, ma questo scopo non ha dignità primaria; può infatti essere perseguito soltanto compatibilmente con l’interesse dei creditori: il quale interesse si realizza compiutamente, alla fine della procedura, proprio nella liquidazione delle attività (eventualmente resa maggiormente proficua dal provvisorio esercizio dell’impresa nell’àmbito della procedura). Precisamente, la tutela di ogni interesse diverso da quello dei creditori, conseguito con la finale liquidazione delle attività, è provvisoriamente e precariamente perseguibile purché l’esercizio dell’impresa nel fallimento non arrechi pregiudizio ai creditori e sempre che il comitato dei creditori non ravvisi opportuna la sua cessazione [69].

Nemmeno l’introduzione nella legge riformata della figura dell’affitto di azienda, che intensifica indubbiamente la rilevanza dell’autonomia negoziale nel fallimento, incrina la vocazione liquidatoria della procedura: potendo disporsi l’affitto esclusivamente «al fine di una più proficua vendita» (cfr. art. 104-bis, comma 1, l. fall.). Esercizio provvisorio e affitto di azienda, unitamente alla vendita di azienda disciplinata nell’art. 105 l. fall., si spiegano nella concezione, accolta nella legge, della conservazione dell’impresa (ma) a fini liquidatori e nell’interesse dei creditori. Seppure, e beninteso, si tratti di nuova concezione, ampiamente determinata da scelte flessibili e improntate all’opportunità del caso concreto: concezione della liquidazione detta «conservativa» e «riallocativa» [70].

Con evidenza ancora maggiore, accordi e concordati possono concernere la conservazione e anche il risanamento dell’impresa, ma esclusivamente per decisione dei creditori, e dunque nell’interesse affermato dai creditori e perciò riferibile ai creditori (benché consegua anche la salvaguardia degli altri interessi coinvolti nell’attività) [71].

In ogni caso, la considerazione di interessi diversi dall’interesse dei creditori è indotta dalla strumentalizzazione della conservazione dell’organizzazione d’impresa (e al limite del going concern) non al risanamento dell’impresa, che può costituire al più un occasionale obbiettivo da armonizzarsi con la tutela del credito, ma alla massimizzazione dei ricavi in sede di liquidazione [72].

Se l’organizzazione d’impresa esprime un valore la cui salvaguardia è funzionale alla migliore affermazione dell’interesse dei creditori in sede di liquidazione, e se conservare l’organizzazione implica tutelare tutti gli interessi che in essa normalmente si realizzano, allora la tutela di interessi diversi dall’interesse dei creditori ma implicati nell’organizzazione d’impresa anziché manifestare una autonoma attenzione agli stessi, perciò collocati sullo stesso piano dell’interesse creditorio, si rivela funzionale all’obbiettivo finale: che è dato dalla tutela dei creditori.

Un esempio settoriale, ma di schietta evidenza, è dato dalla tutela dell’occupazione quale criterio per la scelta dell’affittuario dell’azienda nel fallimento (cfr. art. 104-bis, comma 2, l. fall.): la quale è valutata insieme alla serietà del programma aziendale prospettato e all’ammontare del canone offerto non per bilanciare l’interesse dei creditori ad ottenere il maggior ammontare del canone con interessi diversi (e magari prevalenti [73], ma per assicurare – tramite la salvaguardia di tutti gli interessi coinvolti – la conservazione del valore insito nell’organizzazione dell’impresa; e ciò al fine di una più soddisfacente esitazione della stessa sul mercato tramite la prevista procedura competitiva. In altri termini, poiché l’esitazione costituisce tappa finale di un procedimento in cui l’opzione strategica dell’affitto si colloca in posizione intermedia e chiaramente strumentale alla finalità ultima, l’affitto deve essere modulato con preoccupazione non per un interesse immediato dei creditori (la massimizzazione dell’ammontare del canone) ma per l’interesse mediato e finale dei creditori (alla massima valorizzazione dell’organizzazione d’impresa per la più soddisfacente liquidazione). Si consideri la distanza tra questa soluzione normativa e l’altra, accolta per l’alienazione dell’azienda in esercizio nell’àmbito dell’amministrazione straordinaria. L’art. 63, comma 3, d.lgs 8 luglio 1999, n. 270 dispone che la scelta dell’acquirente dell’azienda è effettuata considerando non solo l’ammontare del prezzo offerto ma anche l’affidabilità dell’offerente e il piano di prosecuzione dell’attività, anche con riguardo alla tutela dei livelli occupazionali. La disciplina che regola nel diritto comune l’affitto di azienda ne regola nel diritto amministrativo la vendita. Cosicché la conservazione dell’impresa e il mantenimento dei posti di lavoro trascorrono dal rilievo meramente strumentale all’obbiettivo finale (integrato dalla tutela dei creditori) in cui sono nel diritto comune alla dimensione di obbiettivo finale in cui (anche a discapito della tutela creditoria) sono nel diritto amministrativo.

10.   Scelta dei creditori sulla crisi d’impresa e dinamiche del mercato.

Proprio la mera possibilità, e mai necessità, della salvaguardia e del recupero dell’impresa e la dipendenza di tale eventualità dalla realizzazione dell’interesse dei creditori illuminano il criterio delle regole sulla crisi d’impresa: criterio dato dalla scelta di (e del) mercato sul destino dell’impresa.

In quella scelta riposa anche il valore finale protetto dal diritto e costituito dal mercato concorrenziale. E infatti la crisi d’impresa, quale evenienza niente affatto accidentale o marginale ma immanente nella «logica del ciclo produttivo» e rispondente al «naturale rischio dell’attività d’impresa» si inscrive naturalmente nell’orizzonte dinamico del mercato concorrenziale, manifestando a livello atomistico l’effetto generale di quel movimento, dato dalla selezione dei competitori[74]. Per autorevole testimonianza, «è sempre stata corrente l’idea che il ricorso alle procedure concorsuali dovrebbe costituire lo strumento per l’eliminazione dal mercato delle imprese più deboli, o divenute obsolete, con l’obbiettivo di rendere nuovamente disponibili i capitali in esse impegnati, a favore di imprese più efficienti o più innovative»; perciò «istituto tipico dell’economia di mercato è il fallimento», che pure costituisce «la fine non solo naturale, ma anche ineluttabile cui ogni iniziativa economica in un regime di libera concorrenza è a lungo andare destinata» [75]. Se ogni buona teoria dell’impresa deve oggi svolgersi anche in considerazione della dimensione contestuale dell’attività, data dal mercato, allora non può ignorare le ripercussioni delle dinamiche di mercato sulla attività economica: e dunque, il fenomeno della selezione concorrenziale e il suo più vivido indizio, dato dalla crisi dell’impresa [76].

Ciò posto, nell’ambito della decisione dei creditori sul destino dell’impresa in crisi deve tracciarsi una importante distinzione: tra decisione che prelude alla dichiarazione di fallimento dell’imprenditore insolvente (realizzata tramite il deposito del ricorso per la dichiarazione di fallimento) e decisione negoziale sulla crisi d’impresa (accettazione di una proposta contrattuale sulla crisi d’impresa oppure approvazione di una proposta concoradataria).

Nel primo caso la scelta creditoria si limita alla richiesta di fallimento. La procedura si svolge nelle forme dell’esecuzione collettiva, di liquidazione del patrimonio del debitore e di riparto del ricavato tra i creditori. Dunque, la scelta creditoria non investe il credito, che non ne risulta conformato; nemmeno coinvolge l’impresa, che non è conservata.

Nel secondo caso la scelta creditoria coinvolge il credito, che ne risulta conformato. Il contratto o la procedura concorsuale possono realizzare sia la liquidazione del patrimonio del debitore per il riparto del ricavato tra i creditori che la conservazione dell’impresa. Dunque, la conservazione dell’impresa presuppone la conformazione del credito.

Può concludersi che il diritto della crisi d’impresa non consistente nel fallimento, e caratterizzato dalla scelta negoziale, è l’unico ambito in cui può ragionevolmente conseguirsi la conservazione dell’impresa (residuano eccezioni: come l’esitazione dell’impresa a seguito dell’esercizio provvisorio o dell’affitto dell’azienda).

Il concreto perseguimento dell’obbiettivo della conservazione dell’impresa dipende dalla scelta negoziale: dall’accordo tra debitore e creditori o dall’approvazione da parte di questi ultimi della proposta concordataria. Accordo e approvazione realizzano due condizioni di mercato per il recupero dell’impresa. Entrambe le condizioni dipendono dalla migliore organizzazione della tutela del credito: contratti e concordati prevarranno sull’alternativa fallimentare in ragione della maggiore convenienza per i creditori decisori [77]. Questo esito si armonizza con una equilibrata valutazione della finalità di risanamento: da conseguirsi non a ogni costo, ma soltanto in ragione della sua maggiore convenienza rispetto alla liquidazione [78].

 

11.   Tutela dei creditori e salvaguardia dell’impresa nel diritto amministrativo.

Che il diritto ordinario della crisi d’impresa sia indirizzato alla tutela del credito traspare, per contrasto, proprio dalle discipline amministrative della crisi infittitesi negli ultimi anni e culminate nelle ripetute modificazioni delle regole sull’amministrazione straordinaria delle grandi imprese. In queste leggi si afferma con nettezza la figura dell’impresa quale valore da conservare sul mercato e da salvaguardare nell’affermazione di interessi non solo singolari (e riassumibili nell’interesse dei creditori concorsuali) ma anche pubblici e collettivi. Quelle discipline si giustificano proprio per assicurare protezione a interessi trascurati nel diritto comune: e riassumibili, per diffusa opinione, soprattutto nell’interesse pubblico alla estinzione dell’ente per la liquidazione coatta [79] e nell’interesse collettivo nella salvaguardia dell’attività produttiva e dei livelli occupazionali per l’amministrazione straordinaria [80].

Per questi ordini di scopi, le procedure amministrative sono strutturate intorno alla relativa compressione dei diritti dei creditori a vantaggio della migliore emersione di istanze eventualmente configgenti ma ritenute prevalenti. Vale dunque una gerarchia assiologica inversa a quella stabilita nel diritto comune. E proprio in ragione del forte condizionamento determinato da valutazioni di carattere economico-sociale, per le quali il giudice è forse privo di competenza ed è inoltre ritenuto sfornito di legittimazione, esse sono sottratte alla gestione giudiziaria e affidate alla gestione amministrativa.

La riduzione assiologica degli interessi coinvolti nella crisi d’impresa determinata dalla tutela pressoché esclusiva del credito nel diritto ordinario – e dunque la considerazione di ogni interesse e di ogni posizione coinvolta nella crisi esclusivamente nello spettro della tutela del credito [81] – non ha sollevato gravi problemi dogmatici rispetto alla necessità di considerare e affermare, accanto all’interesse dei creditori, anche specifici interessi pubblici (riferibili, come si usa dire, allo Stato-persona) connessi all’attività dell’impresa. Alla protezione degli uni e degli altri sono deputate le discipline sulla liquidazione coatta amministrativa [82]. Che queste discipline non siano costruite sull’insolvenza come presupposto necessario (rilevando anche altri presupposti, e così l’irregolarità gestoria dell’ente) aiuta ad affermare la sussistenza di una gerarchia tra i due tipi di interesse, nella quale la tutela dello specifico interesse pubblico assume rilievo prioritario [83].

Invece, per le imprese non connesse con l’attività del pubblico potere secondo lo speciale vincolo che legittima le procedure di liquidazione coatta, il presupposto oggettivo torna a essere costituito dall’insolvenza dell’imprenditore; tende perciò a riaffermarsi nella sua esclusività la tutela del credito. La ritenuta insufficienza di una simile prospettiva rispetto alla crisi dell’impresa grande o grandissima ha determinato negli ultimi decenni – e a partire dalla crisi economica degli anni settanta – le legislazioni sull’amministrazione straordinaria: sensibili alla protezione del vasto e poliedrico ordine di interessi (riferibili allo Stato-comunità) connessi alla conservazione dell’impresa e volte a consentirne l’affermazione anche sopra l’interesse dei creditori [84].

La differenza tra amministrazione straordinaria e liquidazione coatta amministrativa dipende dalla diversità degli obbiettivi che queste procedure possono avere: potendosi contrapporre, nella liquidazione coatta, alla finalità della conservazione dell’impresa la consueta finalità della estinzione dell’ente deputato all’attività e rilevando in ogni caso non un generale interesse alla conservazione dell’impresa di grandi dimensioni ma specifici interessi pubblici connessi con l’attività d’impresa svolta dal soggetto vigilato [85].

La distanza tra amministrazione straordinaria e diritto ordinario della crisi d’impresa è invece misurata dal conflitto che usualmente si instaura tra esigenze conservative dell’impresa e piena tutela degli interessi dei creditori: realizzabile quest’ultima non solo conservando l’impresa ma anche – e spesso in maniera più efficiente – liquidando il patrimonio.

Sotto quest’ultimo profilo il dibattito dottrinale non appare del tutto sopito. Successivamente all’introduzione della prima legge sull’amministrazione straordinaria emersero le più varie posizioni. Alcuni vedevano nell’innovazione la premessa per «uno statuto per l’impresa sostenuta dal pubblico denaro […] intermedio fra impresa pubblica e impresa privata» [86]; oppostamente, da altri si escludeva che la conservazione dell’attività potesse confliggere con l’interesse dei creditori: giacché la prosecuzione dell’impresa non potrebbe autorizzarsi in pregiudizio di coloro alla soddisfazione dei quali sarebbe esitalmente indirizzata la procedura concorsuale [87]. Nell’ambito dell’ultimo avviso si discusse (e si ancora si discute) sui rapporti tra interessi pubblici e privati, ravvisando l’affermazione dei primi nell’apertura della procedura mentre l’affermazione dei secondi sarebbe nello svolgimento della stessa, quale procedura concorsuale finalizzata alla sistemazione dell’insolvenza; proprio il carattere concorsuale dimostrerebbe inoltre che non i primi ma i secondi interessi sono effettivamente prevalenti. Per questo ordine di idee, tuttora promosso in letteratura, la conservazione dell’impresa sarebbe legittimata solo in quanto strumentale alla soddisfazione dei creditori o per lo meno a questa non pregiudizievole [88]. La più diffusa opinione, formatasi sempre sulla prima disciplina dell’amministrazione straordinaria, ravvisava tuttavia una precisa gerarchia tra prevalenti interessi pubblici e subordinati interessi creditori [89].

Tra il primo intervento legislativo e il successivo, integrato dal d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270, è riscontrabile un certo mutamento di rotta, dimostrandosi la legge sopravvenuta maggiormente sollecita verso la tutela giurisdizionale dei diritti, e comunque attenta ad ancorare la finalità conservativa dell’impresa non esclusivamente alla tutela del lavoro ma a presupposti di concreta fattibilità. Con il limitare la procedura alle imprese che presentino concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico (cfr. art. 27, comma 1), la finalità conservativa del’impresa si avvantaggiava di un incremento concettuale: emancipandosi dalle istanze emergenziali e così anche dalla critica ribadita in sede comunitaria – e comprovata dalla concreta esperienza – che bollava l’istituto come prodotto di politiche assistenziali incompatibili con i valori insiti nell’idea del mercato comune [90].

Sulla scorta delle innovazioni, si è implementato il novero degli autori convinti che nella nuova legge si fosse realizzato un equo bilanciamento degli interessi dei lavoratori da un lato e dei creditori dall’altro. In realtà, se dalla generale indicazione sulle concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico quale condizione per l’ammissione alla procedura si trascorre a considerare i percorsi legalmente stabiliti per l’obbiettivo, ci si avvede che la severità della condizione è solo apparente. Il recupero dell’equilibrio economico può conseguirsi, alternativamente, attraverso un programma di ristrutturazione dell’attività o anche attraverso un programma di semplice cessione dei complessi aziendali (cfr. art. 27, comma 2). Per l’equivalenza così stabilita, quando non sia da escludersi la possibilità della cessione possono pure ritenersi sussistenti le possibilità di un “recupero dell’equilibrio economico”: che tuttavia non si traduce, in tal caso, nel ritorno in bonis dell’imprenditore e dunque nel pagamento soddisfacente dei creditori [91]. Ne discende che il giudizio sull’ammissione alla procedura assume in concreto un esito praticamente scontato, vanificando del tutto la portata dell’innnovazione legislativa [92].

Per un argomento ulteriormente persuasivo, condizionare l’apertura della procedura alla sussistenza di concrete possibilità di recupero dell’equilibrio economico vale soltanto ad escludere che la procedura possa avviarsi in assenza di quelle concrete prospettive. La condizione di apertura, in altri termini, non tiene in conto l’interesse dei creditori, ma esclusivamente la praticabilità del risanamento. Appurata la concretezza della prospettiva recuperatoria dell’equilibrio economico nessun vaglio ulteriore è previsto; in particolare, non è previsto che si valuti l’incidenza della procedura sui diritti dei creditori. Dunque, la via del risanamento possibile non è ostacolata dal pregiudizio che potrebbe così arrecarsi all’interesse dei creditori. E infatti, a differenza del diritto ordinario della crisi d’impresa, non si rinvengono disposizioni che inibiscano la prosecuzione dell’attività in pregiudizio dei creditori.  

Per argomento decisivo va poi osservato che, a differenza di altre legislazioni chiare sul punto, nessuna norma del diritto settoriale stabilisce un rapporto strumentale tra conservazione dell’impresa e soddisfacimento dei creditori; molto diversamente, dalla lettura dell’art. 1 del d.lgs. n. 270 è facile desumere una opposta gerarchia [93].

Non meraviglia, pertanto, che le ultime tappe legislative (e specie quella dovuta al d.l. 28 agosto 2008, n. 134, e alla l. 27 ottobre 2008 n. 166, suscitata dalla insolvenza di Alitalia), operando in senso inverso alla legge del 1999, abbiano determinato una importante elevazione del tasso di amministrativizzazione della procedura [94]. Il tipico vantaggio atteso dall’azione della p.a. è una gestionemaggiormente efficiente; ma quella può realizzarsi esclusivamente per la libertà dai vincoli che nelle procedure giurisdizionali presidiano le posizioni soggettive [95]. Se poi si aggiunge l’ovvio rilievo che tale gestione della procedura afferma interessi pubblici [96], è facile concludere che all’amministrativizzazione si accompagna una «caduta della tutela del credito» [97].

Riprendendo, conclusivamente, il filo di discorsi già svolti va ribadito che tutela del credito e conservazione dell’impresa costituiscono obbiettivi in potenziale conflitto. È certamente possibile, nel caso che si presenta, una armonica tutela e dell’uno e dell’altro interesse; ma il criterio di bilanciamento di tali interessi deve tenere conto della astratta conflittualità e stabilire una gerarchia che serva a superare uno stallo altrimenti difficilmente evitabile. Così – e come chiarisce l’osservazione del dato positivo – nel diritto ordinario della crisi d’impresa prevale la tutela del credito; la conservazione dell’impresa può realizzarsi, ma strumentalmente alla tutela del credito o comunque compatibilmente con la superiore affermazione di quella. Nel diritto amministrativo è vero il contrario: prevale la conservazione dell’impresa; la tutela del credito può realizzarsi, ma strumentalmente alla conservazione dell’impresa o comunque compatibilmente con la superiore affermazione di quella. Le divergenti finalità intorno alle quali sono costruiti i due insiemi disciplinari del diritto della crisi d’impresa – diritto ordinario e diritto amministrativo – e soprattutto la rilevante peculiarità dell’amministrazione straordinaria, ne rendono difficile una considerazione unitaria. E tuttavia, l’importanza del diritto amministrativo non deve essere esagerata: così come non si fa riassorbire nel diritto ordinario, neppure riesce a conformarlo, assumendo il (contenuto) rilievo del diritto speciale [98].

Riferimenti bibliografici:

[1] Cfr. M. CACCIARI, voce «Crisi», in Enciclopedia filosofica Bompiani, IV, Milano, 2422 ss. (ove la citazione); invece per la teoria della catastrofe cfr. R. THOM, Paraboles et catastrophes. Entretiens sur le mathématiques, la science et la philosophie réalisé par G. Giorello – S. Morini, Paris, 1980.

Osservano N. ROUBINI-S. MIHM, La crisi non è finita, Milano, 2010, 353: «La crisi recente ha messo in chiaro che l’era prossima ventura potrebbe essere caratterizzata da una “grande instabilità” anziché da una “grande moderazione”. Le bolle speculative e le conseguenti fasi di declino potrebbero diventare più frequenti e le crisi che un tempo si pensava potessero verificarsi soltanto una o due volte ogni cento anni potrebbero cominciare ad abbattersi molto più spesso sull’economia globale. I cigni neri potrebbero diventare cigni bianchi».

[2] Cfr., per tutti, T. ASCARELLI Corso di diritto commerciale. Introduzione e teoria dell’impresa, Milano, 1962, 3, 366.

[3] Cfr. G. OPPO, Realtà giuridica globale dell’impresa nell’ordinamento italiano, in Riv. dir. civ., 1976, I, 591 s.; G. OPPO, Princìpi, in V. BUONOCORE (diretto da), Trattato di diritto commerciale, sez. I, t. I, Torino, 2001, 46 ss.; ma prima ancora v. A. ASQUINI, Profili dell’impresa, in Riv. dir. comm., 1942, I, 1. Cfr., infine, P. SPADA, voce «Impresa», in Dig. it., disc. priv., sez. comm., VII, Torino, 1992, 36 s.; più recentemente, G. TERRANOVA, L’impresa nel sistema del diritto commerciale. I. L’impresa e i mercati. Problemi di metodo, in Riv. dir. comm., 2008, I, 2 ss.; A. MAZZONI, L’impresa tra diritto ed economia, in Riv. soc., 2008, I, 655 ss. Una oggettivizzazione del concetto può invece desumersi dalle discipline dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi: cfr., per es., G. PIEPOLI, Interessi individuali e interessi collettivi nel risanamento della grande impresa, Milano, 1983, 201 ss.; v. più in generale la riflessione sulla crisi della grande impresa in A. FLESSNER, Sanierung und Reorganization, Tübingen, 1982, 316 ss. Invece nella prospettiva dell’economia aziendale la figura fondamentale è data dall’azienda, quale «coordinazione economica in atto» che assume le specifiche forme dell’impresa (capitalistica) quando produce per lo scambio sul mercato (cfr., di recente, P. CAPALDO, L’economia aziendale oggi, Milano, 2010, 5, 32).

[4] G. FERRI, Le società, in F. VASSALLI (diretto da), Tratt. dir. civ., Torino, 1971, 34. Merita attenzione anche l’assenza di qualsivoglia definizione dell’impresa nel diritto comunitario, che pertanto si affida alla concezione sociale ed economica, ossia all’uso linguistico largamente invalso: cfr.M. LIBERTINI-S. MAZZAMUTO, L’impresa e le società, in AA.VV., C. CASTRONOVO-S. MAZZAMUTO (a cura di), Manuale di diritto privato europeo, III, , Milano, 2007, 3 ss.

[5] In tal senso cfr. A. SEGNI, Impressioni sulla nuova legge sul fallimento, in Dir. fall., 1942, 47; in senso contrario cfr. S. PUGLIATTI, Fallimento dell’imprenditore o dell’impresa, ivi, 1943, 5, con soluzione successivamente affermatasi (per uno studio dedicato v. V. BUONOCORE, Fallimento e impresa, Napoli s.d. ma 1969, 7 ss.) Nella recente manualistica cfr., tra gli altri, L. GUGLIELMUCCI, Diritto fallimentare, Torino, 2008, 15 ss.

[6] Per l’impostazione del problema cfr. M. BALZ, Sanierung von Unternehmen order von Hunternehmensträgern?: Zur stellung der Eigentümer in einem künftigen Reorganisationsverfahren, Köln, 1986, spec. 71 ss.; Groß, Sanierung durch Fortführungsgesellschaften in betriebswirtschaftlicher, rechtlicher und steuerlicher Hinsicht, Köln, 2, 1988; infine, E. BRAUN-A. FRANK, in A. BRAUN (Hrsg.), Insolvenzordnung (InsO), Kommentar,München, 3, 2007, 1187.

[7] Nella dottrina risalente cfr., per tutti, C. VIVANTE, Trattato di diritto commerciale, I, Milano, 5, 1928, 100, che definisce l’impresa come «organismo economico». Sulla matrice economica del concetto cfr., nell’ultima dottrina, A. MAZZONI, op. cit., 649, che ricordando anche il pensiero di L. MOSSA, I problemi fondamentali del diritto commerciale, in Riv. dir. comm., 1926, I, 246 ss., ravvisa una scarsa attenzione della dottrina commercialistica per la matrice economica del concetto. Cfr., nella letteratura degli ultimi anni, V . BUONOCORE, L’impresa, in V . BUONOCORE (diretto da), Tratt. dir. comm., Torino, 2002; nella manualistica, G. VOLPE PUTZOLU, in AA.VV., Diritto commerciale, Bologna, 2007, 1 ss.; G. Ferri, in C. ANGELICI-G.B. FERRI (a cura di), Manuale di diritto commerciale, Torino, 12, 2006, 27 ss.; G.F. CAMPOBASSO (a cura di),  Diritto commerciale. I. Diritto dell’impresa, Torino, 5, 2006, 21 ss.; B. LIBONATI, Diritto commerciale. Impresa e società, Milano, 2005, 9 ss.; AG. GAMBINO, Impresa e società di persone, Torino, 2004, 13 ss. Cfr. anche, nella dottrina tedesca, T. RAISER, Das Unternehmen als Organisation. Kritik und Erneuerung der juristischen Unternehmenslehre, Berlin, 1969; K.  SCHMIDT, Handelsrecht, Köln, 5, 1999, 63 ss.

[8] Una generale ricostruzione critica nei saggi di L. GUATRI, Crisi e risanamento delle imprese, Milano, 1986; ID., Turnaround. Declino, crisi e ritorno al valore, Milano, 1995. Tra i giuristi che sottolineano il carattere prettamente economico, piuttosto che giuridico, del termine “crisi”, cfr. per es. M. SANDULLI, La crisi economica dell’impresa, in Giur. comm., 1985, I, 970; nella manualistica cfr. G.F. CAMPOBASSO (a cura di), Diritto commerciale. III. Contratti, titoli di credito, procedure concorsuali, Torino, 4, 2008, 327.

[9] Per conseguenza, nel diritto positivo il concetto di “impresa” (peraltro mediato dalla codificazione soggettiva della figura dell’imprenditore) sostituì, nel codice civile del 1942, quello precedente di “atto di commercio”. Per una sintesi critica sulla dottrina del tempo cfr. G. COTTINO, L’impresa nel pensiero dei Maestri degli anni Quaranta, in Giur. comm., 2008, I, 5. Nella dottrina meno risalente cfr. S. SPADA, Impresa, cit., 34 ss.; più di recente, G.B. PORTALE, Il diritto commerciale italiano alle soglie del XXI secolo, in Riv. soc., 2008, I, 8. Per una ricostruzione del fenomeno nella prospettiva della storia economica cfr. P.A. Toninelli, Storia d’impresa, Bologna, 2006.

[10] Cfr., per tutti, G. DILCHER-R. LAUDA, Das Unternehmen als Gegenstand und Anknüpfungspunkt rechtlicher Regelungen in Deutschand. 1860-1920, in N. HORN-J. KOCKA (Hrsg.), Recht und Entwicklung der Großunternehmen im 19 und frühen 20. Jaharhundert. Wirtschafts-, sozial-, und rechtshistorische Untersuchungen zur Industrialisierung in Deutschand, Frankreich, England und den USA, Göttingen, 1979, 548 ss.

[11] Cfr., in tal senso, F. MAZZARELLA, Fallimento, autonomia contrattuale, impresa: itinerarii e figure fra Otto e Novecento, in AA.VV., Autonomia negoziale e crisi d’impresa, a cura di Di Marzio, Macario, Milano, 2010, 194 ss. La formula “diritto della crisi d’impresa” (con alcune varianti) è entrata nell’uso. Tra i manuali cfr. M. SANDULLI, La crisi dell’impresa. Il fallimento e le altre procedure concorsuali, Torino, 2009; A. NIGRO-D. VATTERMOLI, Diritto della crisi delle imprese. Le procedure concorsuali, Bologna, 2009, (dove in premessa si avverte che la complessità del nuovo diritto suggerisce «l’abbandono della vecchia (e gloriosa) dizione Diritto fallimentare»).

[12] Cfr. L. HÄSEMEYER, Insolvenzrecht, Köln, München, 4, 2007, 5. In ogni caso, nelle definizioni legislative l’insolvenza si presenta come un fenomeno di rilievo finanziario e non economico (cfr., con riguardo all’art. 5 l. fall., tra gli altri, L. Stanghellini, La crisi d’impresa fra diritto ed economia. Le procedure di insolvenza, Bologna, 2007, 121; ma per una diversa lettura, preoccupata di valorizzare la specificità dell’insolvenza commerciale come fenomeno tipico dell’attività d’impresa, e perciò interessata al profilo non finanziario ma economico della crisi e a individuare in esso la specificità dell’insolvenza – quale condizione di irrisanabilità dell’impresa – cfr. F. VASSALLI, Diritto fallimentare, Torino, 1994, 81 ss.).

[13] Nella vecchia dottrina cfr. P. DE VINCENTIIS, voce «Insolvenza colpevole», in D. I., XIII, Torino, 1902-1906, 1202). E poi C. VIVANTE, op. cit., 347, secondo cui la dottrina non riesce a dare «dell’insolvenza che un concetto giuridico molto generico, considerandola come impotenza a pagare, ed entro questo concetto possono stare i più disparati apprezzamenti».

[14] Cfr., in generale, nella dottrina meno recente, G. FERRI, Insolvenza e temporanea difficoltà, in Id., Scritti giuridici, Napoli, 1990, I, 603; e nella letteratura successiva, G. TERRANOVA, Stato di crisi, stato di insolvenza, incapienza patrimoniale, in Dir. fall. 2006, I, 569, che conclude per l’identità dei concetti di “crisi” e di “insolvenza”. In giurisprudenza si tende ad affermare la distinzione tra insolvenza reversibile e irreversibile (cfr. Cass. 27 febbraio 2008, n. 5215, in Fallimento, 2008, 715) e ad assimilare la temporanea difficoltà ad adempiere a uno stato di insolvenza reversibile (v. Cass. 9 settembre 2005, n. 18066, in Giust. civ., 2006, I, 546). Per una rassegna di diritto comparato cfr. G. SCHIANO DI PEPE, voce «Insolvenza in diritto comparato», in D. Disc. Priv., sez. comm., VII, Torino, 1992, 410; con riguardo alle discipline sull’amministrazione straordinaria, cfr. R. ROSSI, Insolvenza, crisi di impresa e risanamento, Milano, 2003; più di recente v. l’estesa trattazione di E. FRASCAROLI SANTI, Crisi dell’impresa e soluzioni stragiudiziali, in Tratt. dir. comm. dir. pubbl. econ. diretto da Galgano, Padova, 2005, 55 ss.; per una ricapitolazione cfr. G. Capo, Lo stato di insolvenza, in Tratt. dir. fall. diretto da Buonocore, Bassi, I, Padova, 2010, 172.

[15] E tuttavia non si è mancato di stigmatizzare il richiamo al termine “crisi” proprio per la vaghezza che lo connota: cfr. G.B. PORTALE, La legge fallimentare rinnovata: note introduttive (con postille sulla disciplina delle società di capitali), in Banca borsa, 2007, I, 369.

[16] Cfr. sempre in generale e tra i molti, G. TERRANOVA, Stato di crisi e stato di insolvenza, Torino, 2007;E.FRASCAROLI SANTI, Insolvenza e crisi di impresa, Padova, 1999; A. AMATUCCI, Temporanea difficoltà e insolvenza, Napoli 1979; ID., L’insolvenza come elemento oggettivo di collegamento tra le diverse procedure concorsuali, in AA.VV., Crisi d’impresa e procedure concorsuali in Italia e in Europa, a cura di Ragusa Maggiore, Tortorici, Padova, 2002, 251; F. CORSI, Crisi, insolvenza, reversibilità, temporanea difficoltà, risanamento: un nodo irrisolto?, in Fallimento, 2002, 948; S. PACCHI, Il nuovo concordato preventivo, Milano, 2005, 62; P. F. CENSONI, Il «nuovo» concordato preventivo, in Giur. comm., 2005, I, 734; N. ROCCO DI TORREPADULA, La crisi dell’imprenditore, in Giur. comm., 2009, I, 216 ss.; F. MACARIO, Insolvenza del debitore, crisi dell’impresa e autonomia negoziale nel sistema della tutela del credito, in AA.VV., Autonomia negoziale e crisi d’impresa, cit., 40 ss.

[17] G. BRUGGER, Art. 160 l.fall. Profili aziendali, in Il nuovo diritto fallimentare, Commentario diretto da Jorio e coordinato da Fabiani, Bologna, 2006, 2302.

[18] Cfr. L. GUATRI, Crisi e risanamento delle imprese, cit., 11 ss. E poi, variamente, i saggi di E. I. Altman, New strategies in bankruptcy analysis, New York, 1983; C. VERGARA, Disfunzioni e crisi d’impresa. Introduzione ai processi di diagnosi, risanamento e prevenzione, Milano, 1988; G. BERTOLI, Crisi d’impresa, ristrutturazione e ritorno al valore, Milano, 2000; P. PICIOCCHI, Crisi d’impresa e monitoraggio di vitalità, Torino, 2003. Ciò vale anche con riguardo alla tradizione accademica e scientifica anglosassone ed americana, nel cui ambito le strategie di corporate restructuring and reorganization, facenti parte a pieno titolo del più ampio campo della corporate finance, hanno delle finalità concettualmente anteriori rispetto a quelle della gestione del financial distress. La necessità per il management aziendale di avere un atteggiamento proattivo nei confronti delle situazioni di crisi e discontinuità nasce oltretutto dalla generale latente maggior incertezza indotta dalla globalizzazione. Come osservano J.F. WESTON-J.A. SIU-B.A. JOHNSON, Takeovers, restructuring & corporate governance, Upper Saddle River, New Jersey, 2001, 346: «The restructuring of business firms stems from a number of forces. One of the most basic is the need to meet global competition».

[19] Ma cfr., già nella dottrina fallimentaristica risalente, L. BOLAFFIO, Il concordato preventivo secondo le sue tre leggi disciplinatrici, Torino, 1932, 2 ss.: «Finché il debitore si mantiene alla testa del suo commercio, cautamente vigilato perché non ne abusi, il credito non è interamente perduto; l’avviamento, se non immutato, tuttavia opera; sono vive le relazioni d’affari; i parenti e gli amici naturalmente pieghevoli, se non addirittura solleciti, al soccorso; quindi le condizioni che possono farsi ai creditori, sono indubbiamente migliori di quelle conseguibili dopo la catastrofe».

[20] In tal senso cfr. anche L. FARENGA, L’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, Milano, 2005, 34.

[21] Cfr. G. DE FERRA, Il rischio di insolvenza, in Giur. comm., 2001, I, 193; v. anche S. SMID, Grundzuege des neuen Insolvenzordnung, München, 1999, 390. Sulla vicina e derivata nozione di “insolvencia inminente” (perché non attuale e tuttavia prevedibile) cfr. E.M. BELTRÁN SÁNCHEZ, Insolvencia, inolvenzia inminente e insolvencia cualificada,in Aa.VV., SARCINA- GARCIA-CRUCES GONZALEZ (a cura di), Il trattamento giuridico della crisi d’impresa. Profili di diritto concorsuale italiano e spagnolo a confronto, Bari, 2008, 63 ss. Al rischio di insolvenza guardava il progetto di riforma dela legge fallimentare elaborato dalla Commisione Trevisanato istituita dal Ministro della giustizia con d.m. 27 febbraio 2004 (pubblicato in AA.VV., La riforma delle procedure concorsuali. I progetti, a cura di Jorio, Fortunato, Milano, 2004, 35), nell’art. 2, lett. h), del quale si legge di una «situazione patrimoniale, economica o finanziaria, tale da determinare il rischio di insolvenza».

[22] Alle quali figure va accostata la difficoltà economica estrinsecantesi nella cessazione dei pagamenti, purché intervenuta da non più di quarantacinque giorni, prevista – in riforma della disciplina previgente sul règlement amiable – dall’art. L. 611-4 code comm. quale requisito oggettivo per l’accesso alla procédure de conciliation accanto alle situazioni di pre-insolvenza. Cfr. F.X. LUCAS-H. LÉCUYER, Entreprises en difficulté, in Petit Affiches, 2006, n. 28, che giudicano la norma come «la plus innovante de la réforme».

[23] Una definizione di credito ristrutturato è nella Circolare della Banca d’Italia 30 luglio 2008, n. 272, “Istruzioni per la compilazione della Matrice dei conti”, che si riferisce alle esposizioni ristrutturate come alle «esposizioni per cassa e “fuori bilancio” (finanziamenti, titoli, derivati, etc.) per le quali una banca (o un pool di banche), a causa del deterioramento delle condizioni economico-finanziarie del debitore, acconsente a modifiche delle originarie condizioni contrattuali (ad esempio, riscadenzamento dei termini, riduzione del debito e/o degli interessi) che diano luogo a una perdita». Ma, per una ricostruzione dogmatica del fenomeno, cfr. G. FERRI JR., Ristrutturazione dei debiti e partecipazioni sociali, in Riv. dir. comm., 2006, I, 747, ove si pone in chiaro che oggetto di ristrutturazione non può che essere il complessivo finanziamento dell’attività d’impresa, mentre la soddisfazione dei singoli crediti esprime il valore giuridico della ristrutturazione dei debiti.

[24] Cfr. H.F. MÜLLER, Der Verband in der Insolvenz, München, 2002, 261, che definisce la Sanierung come «Summe aller organisatorischen und finanziellen Massnahmen zur Überwindung einer ungünstigen wirtschaftlichen Situation».

[25] Per le indagini aziendalistiche cfr., essenzialmente, L. GUATRI, Indagine sulle caratteristiche economiche delle «sistemazioni stragiudiziali», in Riv. dott. comm., 1975, 1031; M. BELCREDI, Le ristrutturazioni stragiudiziali delle aziende in crisi nei primi anni “90, in Aa.Vv., Gli strumenti per la gestione delle crisi finanziarie in Italia, a cura di Caprio, Milano, 1997, 213; G. BERTOLI, op. cit., 93 ss., nonché i contributi raccolti in AA.VV., Banche e risanamento delle imprese in crisi, a cura di Forestieri, Milano, 1995; U. KRYSTEK-R. MOLDENHAUER, Handbuch Krisen- und Restrukturierungsmanagement, Stuttgard, 2007; A. CRONE-H. WERNER (Hrsg.), Handbuch modernes Sanierungsmanagement, München, 2007. Per indagini sulle concrete modalità operative cfr. Insitut für die Standardisierung von Unternehmenssanierungen (Hrsg.), Mindestanforderungen an Sanierungkonzepte (MaS), Heidelberg, 2008; Linee-guida per il finanziamento delle imprese in crisi, a cura dell’Università di Firenze, Assonime, CNDCEC, 2010. 

[26] La strategia complessiva di risanamento è naturalmente data dalla sinergia delle scelte strategiche ricadenti in una o più delle menzionate aree, secondo una combinazione che risulta variabile in rapporto alla tipologia di crisi da affrontare. Inoltre, mentre quasi sempre scelte di Business restructuring implicano azioni di Asset restructuring, queste ultime non richiedono necessariamente interventi di Business restructuring (cfr., esaustivamente, A. MOTTA, La dimensione economico-finanziaria della crisi d’impresa: alcune riflessioni, in AA.VV., F. DI MARZIO (a cura di), Il nuovo diritto della crisi d’impresa e del fallimento,Torino, 2006, 514 ss.). Cfr. anche, con riguardo al contesto americano ed in un’ottica strettamente legata al mercato finanziario, G. BENNETT STEWART-D. M. GLASSMAN, The motives and methods of corporate restructuring, in D.H.  CHEW JR , The new corporate finance, New York, 1993, 584 ss.

[27] Cfr. G. BERTOLI, op.cit., 213 ss.; più recentemente, A. MOTTA, op.cit., 513 ss. Nella recente giurisprudenza, cfr. Trib. Roma 5 novembre 2009, in Corr. giur., 2010, 241.

[28] Cfr. G. BRUGGER, op.cit., 2309 ss.

[29] La ristrutturazione del debito è sovente concepita come scarsamente compatibile con la cessazione dell’impresa e la liquidazione dell’attività. Nella Circolare della Banca d’Italia 30 luglio 2008, n. 272 si precisa che non rientrano nella nozione di “esposizione ristrutturata” « le esposizioni nei confronti di imprese per le quali sia prevista la cessazione dell’attività (ad esempio, casi di liquidazione volontaria o situazioni similari)». Tuttavia, i principi contabili su “Ristrutturazione del debito e informativa di bilancio”, per una espressa autolimitazione, non si applicano alle «operazioni di ristrutturazione del debito che hanno finalità liquidatoria dell’impresa debitrice» ( essendo la fattispecie disciplinata dal principio contabile OIC 5, “Bilanci di liquidazione”). Il che induce a ritenere che già nell’ottica aziendalistica ristrutturazione del debito e liquidazione dell’impresa non siano fenomeni incompatibili; e che dunque la ristrutturazione possa prevedere o anche esaurirsi in una strategia di liquidazione.

[30] Circa l’importante settore delle imprese di grandi dimensioni, e in materia di amministrazione straordinaria, il risultato emerge con schietta evidenza nella ricerca empirica di A. DANOVI-C. MONTANARO, L’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza; primi spunti di verifica empirica, in Giur. comm., 2010, I, 245, 245 ss.

[31] Ogni azienda può essere interpretata come una combinazione di attività e passività – la cui somma algebrica determina il patrimonio netto – costruita secondo una determinata formula imprenditoriale e idonea a generare componenti positivi e negativi di risultato che, a seconda della logica di analisi adottata, avranno: natura reddituale (o economica), quando l’analisi mira a ricostruire il risultato dell’attività sulla base della convenzione contabile del principio di competenza; natura finanziaria quando la logica di analisi mira a ricostruire e rappresentare i fenomeni gestionali intercorsi nell’esercizio (o frazione dello stesso) sulla base del principio di cassa, ossia valutando l’effetto che i vari fenomeni aziendali hanno determinato in termini di entrate ed uscite monetarie (c.d. cash flow analysis). Ciò che conta soprattutto evidenziare è che l’interconnessione tra prosecuzione nell’attività d’impresa, recupero della capacità economico-finanziaria e sostenibilità attuale e prospettica del debito (valutata ex ante ed ex post rispetto alla riqualificazione del debito ipotizzata), impone un’attenta valutazione della strategia di ristrutturazione dal punto di vista finanziario, al fine di valutare se i flussi finanziari in entrata e in uscita associati alle varie opzioni strategiche adottate nell’ambito delle diverse aree di gestione nell’orizzonte temporale considerato siano ragionevolmente idonei a produrre le condizioni materiali di eseguibilità del contratto. Cfr., esaustivamente, G. BRUGGER, L’analisi della dinamica finanziaria dell’impresa, Milano, 1980; ID., La gestione aziendale nell’ottica finanziaria, in Finanza Marketing Produzione, 2/1983, 77 ss.; R.A. BREALEY-S.C. MYERS-F. ALLEN-S. SANDRI, Principi di finanza aziendale, trad. it., Milano, 5, 1999, (con riguardo alla pianificazione, v. 783 ss.). Cfr. anche, in una prospettiva operativa, A. MOTTA, Valore d’impresa e operazioni di acquisizione, in AA.VV., Manuale delle acquisizioni di imprese, a cura dello Stesso, Milano, 2003, 4 ss.

[32] Sullo specifico argomento cfr., tra gli aziandalisti, L. GUATRI, Turnaround, cit., spec. 203 ss.; G. BERTOLI, op.cit., 173 ss. Sul concetto di “formula imprenditoriale” cfr. V. CODA, L’orientamento strategico dell’impresa, Torino, 1988, 72 ss.

[33] Come è stato efficacemente osservato «Non è neppure concepibile che un’iniziativa imprenditoriale, se appena implica interessi di qualche rilevanza ed è proposta da soggetti dotati di ragionevolezza e di adeguate conoscenze, venga intrapresa senza stabilire alcuni obiettivi fondamentali (strategici) e senza tradurre in un “progetto” (il tipico business plan) le vie e le modalità proposte per la loro realizzazione. Il collegamento strategia-pianificazione è, in linea di principio, naturale e irrinunciabile. Lo stesso si può dire ogni qualvolta, come spesso accade nel corso della vita di un’impresa, il progetto imprenditoriale sia assoggettato a rimeditazione e debba essere corretto, o semplicemente aggiornato»(L. GUATRI-L. SICCA, Strategie, leve del valore e valutazione delle aziende, Milano, 2000, 21 ss.).

[34] Si pensi all’art. 2501-bis c.c. in tema di fusione a seguito di acquisizione con indebitamento.

[35] Di «centralità» del piano nelle soluzioni concordatarie della crisi d’impresa discorre F. GUERRERA, Le soluzioni concordatarie, in AA.VV., Diritto fallimentare. Manuale breve, Milano, 2008, 133.

[36] Non accade lo stesso in altre fattispecie, come il fallimento: dove non soltanto la pianificazione è assoggettata a una finalità stringente e prestabilita nella legge, data dalla liquidazione del patrimonio del debitore, ma deve anche seguire regole conformative tuttora alquanto rigide (e così, per es., in tema di vendite, da organizzarsi secondo criteri di competitività).

[37] Cfr. le espressioni, varie ma sufficientemente assimilabili nel contenuto precettivo essenziale, degli art. 67, comma 3, lett. d); art. 161, comma 3, art. 182-bis, comma 1, l. fall.

[38] Cfr., sul punto, la ricostruzione di D. GALLETTI, I piani di risanamento e di ristrutturazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2006, 1195 ss.

[39] Cfr. M.J. ROE, Corporate reorganization and Bankruptcy (legal and financial materials), New York, 2000, 38 ss.; 106 ss.

[40] Sul tema cfr., in generale, il saggio di F. FIMMANÒ-C. ESPOSITO, La liquidazione dell’attivo fallimentare, Torino, 2006, spec. 204 ss., dove il programma di liquidazione è presentato come modalità razonalizzatrice del procedimento di liquidazione efficiente alla conservazione del valore aziendale.

[41] La predisposizione di piani è facoltà usualmente concessa ai protagonisti della crisi d’impresa nelle procedure di insolvenza vigenti in ordinamenti affini: basti citare gli esempi tedesco e statunitense, maggiormente presi di mira dal legislatore in occasione della riforma. In particolare, circa l’ordinamento tedesco, per comune opinione il piano di regolazione dell’insolvenza (Insolvenzplan) di cui ai §§ 217 ss. InsO costituisce il punto centrale della riforma, avendo la relativa disciplina sostituito quella che precedentemente definiva i concordati, preventivo e fallimentare. Cfr. esemplificativamente, tra le opere dedicate, oltre a quelle già citate, D. Herzig, Das Insolvenzplanverfahren, Frankfurt a.M., 2001; R.A. FISCHER, Die unternehmerischen Mitwirkungsrechte der Gläubiger in der überwachungsphase des Insolvenzplans, Köln, 2002; S. FRANK, Die überwachung der Planerfüllung, Köln, 2002; H. HESS-M. OBERMULLER, Insolvenzplan. Restschuldbefreiung und Verbraucherinsolvenz, Heidelberg, 3, 2003; S. SMID-R. RATTUNDE, Der Insolvenzplan, Stuttgard, 20052; v. inoltre M. OBERMÜLLER, in M. OBERMÜLLER-H. HESS, InsO. Eine systematische Darstellung des neuen Insolvenzrechts, Heidelberg, 4, 2003, 47 ss.; H. EIDENMÜLLER, in H.P. KIRCHHOF-J. LWOWSKI-R. STÜRNER (Hrsg.), Münchener Kommentar. Insolvenzordnung, II, München, 2008, 1631 ss. Circa l’ordinamento statunitense, il rinvio è alla notissima disciplina del Chapter 11 del Bankruptcy Code, che ha suscitato decisiva influenza sugli altri ordinamenti occidentali. Cfr., in generale, D. BLUMBERG, The Law of Corporate Groups. Bankruptcy Law, Boston, Toronto, 1985; più recentemente, B.A. BLUM, Bankruptcy and debtor/creditor, New York, 2006, 500 ss.; D.G. Baird, The elements of Bankruptcy, New York, 2006, 207 ss.; Roe, op.cit. Infine, sul plans de salvaguarde et de redressement secondo la disciplina, rispettivamente, degli artt. L. 620-1 e 631-1 code comm. cfr., per tutti, P. ROUSSEL GALLE, Réforme du droit des enterprises en difficulté, Paris, 2005, 220 ss.

[42] Cfr., per tutti e diffusamente, W.J. HABSCHEID, Zur rechtlichen Problematik des außergerichtlichen. Sanierungsvergleichs, in Gedächtnisschrift für Rudolf Bruns, München, 1980, 253 ss.; R. URÍA, Derecho mercantil, Madrid, 22, 1995, 1026 ss. Per la giustificazione della “comunità di perdita” in chiave di giustizia sociale, e allo scopo di scongiurare l’approfittamento dei creditori meglio attrezzati sul patrimonio incapiente del debitore, ancora attuale C. VIVANTE, op. cit., 323 s.

[43] Tanto, sia nella prospettiva dello scioglimento della società (cfr. art. 2427 c.c., sull’esercizio provvisorio dell’impresa o di singoli rami in funzione di un migliore realizzo), sia nella prospettiva del fallimento (cfr. artt. 104 e 104-bis l. fall. sull’esercizio provvisorio e sull’affitto di azienda sempre in funzione di un migliore realizzo). Lo stesso accade nella prospettiva del concordato preventivo, dove tali attività possono costituire oggetto del piano posto a base della domanda e dove l’intero programma può essere indirizzato alla conservazione dell’attività: nell’interesse di tutti quanti si avvantaggiano della prosperità dell’impresa e dunque nel precipuo interesse dei creditori concorsuali.

[44] Allo stesso modo – e benché possa non essere lontano dal vero che «Il concordato preventivo getta una tavola di salvezza ai creditori, di raro immuni da responsabilità nella catastrofe del loro debitore» (L. Bolaffio, lc. cit.) – nessun vantaggio immeritevole di tutela potrebbe servire ad argomentare, all’opposto, l’interesse comune dei creditori al concordato.

[45] Nella dottrina classica, cfr. C. Vivante, op. cit., 327, che ricorda come già nel diritto statutario fosse viva l’esperienza del concordato fallimentare perché «l’interesse sociale di troncare una liquidazione per lo più ruinosa e di rimettere in esercizio un’azienda forse capace di risorgere e di prosperare, vinceva le tendenze individuali a premere sul fallito».

[46] Per una articolata teorizzazione cfr. T.H. JACKSON, The logic and Limits of bankruptcy Law, Cambridge (Mass.), 1986; v. inoltre L. STANGHELLINI, Proprietà e controllo dell’impresa in crisi, in Riv. soc., 2004, I, 1056 ss.; G. FERRI JR., Impresa in crisi, cit., 63 ss.; F. FIMMANÒ, L’allocazione efficiente dell’impresa in crisi mediante la trasformazione dei creditori in soci, in Riv. soc., 2010, I, 57 ss.

[47] Cfr. tra gli altri, classicamente, E. JAEGER, Lerbuch des Deutschen Konkursrecht, Berlin, Liepzig, 8, 8, 1932, 190; e il lavoro tematico di P. GOTTWALD, Die Interessengemeinschaft der Gläubiger eines insolventen Schuldners, Bern, 1989, passim; v. inoltre H. WÜRDINGER, Theorie der schlichten Interessengemeinschaften, Stuttgard, 1934, 65 ss.; G. WÜST, Die Interessengemeinschaft – Ein Ordnungsprinzip des Privatrechts, Frankfurt a.M., Berlin, 1958, 45 ss. Nella recente dottrina italiana, cfr. G. TERRANOVA, Le procedure concorsuali. Problemi d’una riforma, Milano, 2004, 60 ss.; v. anche B. LIBONATI, Prospettive di riforma sulla crisi d’impresa, in Giur. comm., 2001, II, 334 ss.

Per acquisizione risalente al diritto comune (e fondativa del pactum concordiae), l’insolvenza del debitore è costitutiva dell’interesse comune dei creditori alla decisione collettiva tra esecuzione forzata e accordo con il fallito (cfr. R. VOLANTE, Autonomia contrattuale e fallimento tra fondazioni medievali, diritto comune e codici, in AA.VV., Autonomia negoziale e crisi d’impresa, cit., 135 ss., che bene illustra come questo stato di interessi sia variamente ricostruito nelle epoche della storia: dalla visione medievale della universitas tra creditori alla visione secentesca della societas tra creditori). In termini attuali, i creditori concorsuali sono portatori dell’interesse comune a che il patrimonio incapiente non solo si conservi ma anche si ottimizzi nel suo valore, in modo da ridurre la differenza tra passivo e attivo. Cfr. G. FERRI JR., Impresa in crisi e garanzia patrimoniale, in AA.VV., Diritto fallimentare. Manuale breve, cit., 36 ss.; ID., Ristrutturazione dei debiti, cit., 755; L. ROVELLI, Un diritto per l’economia. Bilancio di una stagione di riforme. Una scelta di degiurisdizionalizzazione?, in AA.VV., F. DI MARZIO (a cura di), La crisi d’impresa. Questioni controverse del nuovo diritto fallimentare, Padova, 2010, 43.

[48] Su tale aspetto cfr. J.C. COFFEE-W.A. KLEIN, Bondholders Coercion:The Problem of constrained choice in Debt Tender Offers and Recapitalizations, 58, U.Chi, L.Rev., 1214 &, n. 25 (1991) che ricostruiscono il problema della adesione dei creditori alla soluzione della crisi d’impresa loro prospettata secondo la logica del “dilemma del prigioniero”.

[49] Sulla concorsualità come mantenimento, nella fase esecutiva, delle reciproche posizioni dei creditori, cfr. D. RUBINO, La responsabilità patrimoniale. Il pegno, in Tratt. dir. civ. diretto da F. Vassalli, Torino, 1949, 14; C. VIVANTE, op. cit., 323 ss.; e le osservazioni di G. TERRANOVA, Le procedure concorsuali, cit., 54 ss.

[50] Cfr. G. FERRI JR., Impresa in crisi, cit., 37.

[51] Cfr. A. BONSIGNORI, Disposizioni generali, in Comm. Scialoja-Branca, in  F. BRICOLA-F. GALGANO-G. SANTINI (diretto da), Legge fallimentare - artt. 1-22,–, Bologna-Roma, 1974, 38, che discorre del «requisito della concorsualità o della egualitarietà»; v. anche M. RESCIGNO, Contributo allo studio della par condicio creditorum, in Riv. dir. civ., 1984, I, 359 ss.; V. COLESANTI, Mito e realtà della «par condicio», in Fallimento, 1984, 46 ss.; P.G. JAEGER, «Par condicio creditorum », in Giur. comm., 1984, I, 88 ss.; A. JORIO, Le crisi d’impresa. Il fallimento, cit., 9.

[52] Così F. GUERRERA, Il “nuovo” concordato fallimentare, in Banca borsa, 2006, I, 539. E tuttavia, non realizzandosi nel caso nessuna comunione di crediti (la quale sarebbe al più ipotizzabile nel caso di solidarietà attiva: cfr. in generale F.D. BUSNELLI, voce «Obbligazioni soggettivamente complesse», in Questa Enciclopedia, XXIX, 337) resta preferibilile il riferimento piuttosto che alla comunione, al vincolo comunitario.

[53] Cfr., in tal senso l’avviso giurisprudenziale secondo cui, proprio per l’apertura della procedura concorsuale, i creditori del comune debitore insolvente entrano «in forza di legge» in quella comunità di perdita casualmente determinata dall’insolvenza del debitore in cui, per avviso di certa dottrina (v. W.J. HABSCHEID, op. cit., 253 ss.; 261 ss.), si troverebbero ad essere già per lo stato di insolvenza di quest’ultimo (BGHZ 116, 319, 323 ss.).

[54] Cfr., dopo E. VIDARI, Corso di diritto commerciale, IX, Milano, 4, 1898, 33 ss., F. CARNELUTTI, Espropriazione del creditore, in Studi di diritto processuale, IV, Padova, 1939, 233 ss.; A. DE MARTINI, op. cit., 223 nota 274; da ultimo, V. CALANDRA BUONAURA, Concordato preventivo, in Enc. dir., Annali, Milano, 2008, 253.

Lo sviluppo delle teoriche è criticamente riferito nel saggio di R. SACCHI, Il principîo di maggioranza nel concordato e nell’amministrazione controllata, Milano, 1984. Di recente, cfr. più in generale l’approfondito lavoro di D.J. BUSSEL-K.N. KLEE, Recalibrating Consent in Bankruptcy, in 83 Am. Bankr. L. J., 663 (2009) dove, rileggendo le discipline legali e commentando importanti casi concreti alla luce della categoria del “consent”, si discorre di «manufacturing consent» per affermare l’esistenza di una manipolazione e di una alterazione del consenso sia nelle previsioni di legge che nella soluzione dei casi concreti.

[55] Cfr., limpidamente, C. VIVANTE, op. cit., 341.

[56] La destinazione all’attività costituisce peraltro un criterio imprescindibile per la ricostruzione della responsabilità patrimoniale dell’imprenditore (criterio comunque diverso da quello più tradizionale dato dalla personificazione delle collettività organizzate), che trova puntuale riscontro nella legislazione commerciale recente, come pure dimostra l’istituto del parimonio destinato (o dedicato) a uno specifico affare: cfr., esaustivamente, P. SPADA, Persona giuridica e articolazione del patrimonio: spunti legislativi recenti per un antico dibattito, in Riv. dir. civ., 2002, I, 837 ss.; P. FERRO-LUZZI, La disciplina dei patrimoni separati, in Riv. soc., 2002, I, 126 ss.; A. DI MAJO, Responsabilità e patrimonio, Torino, 2005, 67 ss. e il lavoro di F. FIMMANÒ, Patrimoni destinati e tutela dei creditori nella società per azioni, Milano, 2008, 43 ss.

[57] Sulla quale cfr. lo studio di A. ROSSI, Il valore dell’organizzazione dell’impresa, in Riv. dir. comm., 2009, I, 612 ss.

[58] Cfr. B. LIBONATI, Il gruppo insolvente, Firenze, 2, 1983, 217.

[59] Nel dibattito che ha preceduto la riforma, cadendo in discussione la spettanza del controllo dell’impresa (se all’imprenditore o, come sembrava corretto, ai creditori: cfr. G. VISENTINI, Le convenzioni bancarie di salvataggio, cit., 223) è stata avanzata l’osservazione, e l’esigenza, che «quando i risultati negativi abbiano bruciato l’investimento di rischio […] e il capitale di rischio risulti azzerato e non rinnovato, la legittimazione alla gestione dell’impresa […] scende di uno scalino: passa cioè dall’investimento di rischio, che non c’è più, al capitale di credito» (B. LIBONATI, Prospettive di riforma sulla crisi d’impresa, cit., 332). Come è stato rilevato, i progetti che hanno preparato la recente riforma si sono effettivamente basati sull’assunto «di una sorta di mutazione genetica dell’impresa insolvente: non più un’entità economica di proprietà dell’imprenditore bensì un patrimonio appartenente ormai ai creditori, divenuti arbitri del suo destino» (A. JORIO, Fallimento (dir. priv. e proc.), in Enc. dir., Annali II, Milano, 2010, 331). Cfr. anche le interessanti osservazioni di L. STANGHELLINI, Le crisi d’impresa fra diritto ed economia, cit., 23 ss., che non esita ad assimilare soci e creditori nella fattispecie dell’impresa in crisi, scrivendo dei creditori come di «soci senza diritti»: soci, perché, perduto il capitale di rischio, ne divengono in certo senso fornitori proprio i creditori; senza i diritti dei soci perché non formalmente tali ma soltanto creditori. Dal che la visione delle procedure di insolvenza come «strumenti per il trasferimento del controllo [dell’impresa] ai creditori» (49 ss.).

[60] Cfr. M. BRÜNING, Gesellschafter und Insolvenzplan. Eine Untersuchung ihrer Stellung in der Reorganisation insolventer Gesellschaften im Insolvenzplanverfahren (§§ 217 ff. InsO), Hamburg, 2006, 211 ss.; G. BITTER, Sanierung in der Insolvenz – Der Beitrag von Treue – und Aufopferungsplifchten zum Sanierungserfolg, in ZGR, 2010, 193 ss.

[61] Per la prospettiva storica esauriente è il richiamo al lavoro di U. SANTARELLI, Per la storia del fallimento nelle legislazioni italiane dell’età intermedia, Padova, 1964; nella dottrina risalente cfr. A. ROCCO, Studi sulla teoria generale del fallimento. II. L’obbligazione e la sua realizzazione,in Riv. dir. comm., 1910, I, 674; cfr. anche la sintesi di S. SATTA, Diritto fallimentare, Padova, 3, 1996, 4 ss. E poi B. LIBONATI, Il gruppo insolvente, cit., 192; P.G. JAEGER, Crisi delle imprese e poteri del giudice, in Giur. comm., 1978, I, 870 ss. Nella recente letteratura, L. STANGHELLINI, Le crisi d’impresa fra diritto ed economia, cit., 67 ss. ben sottolinea come l’interesse dei creditori costituisca la «stella polare» delle procedure d’insolvenza, preoccupandosi tuttavia di dire come ciò non implichi una necessaria contrapposizione tra tutela di quell’interesse e tutela di interessi diversi (e non di rado, infatti, la migliore tutela dei creditori presuppone la conservazione dell’impresa sul mercato, anche attraverso la sua rialllocazione efficiente). Sul punto, cfr. anche L. GUGLIELMUCCI, Il diritto concorsuale tedesco fra risanamento e liquidazione, in Giur. comm., 2003, I, 152 ss.

[62] Sul codice di commercio cfr. G. BONELLI, Del fallimento, I, cit., 2, che individua nella liquidazione del patrimonio del debitore a favore dei creditori la finalità del fallimento; sulla legge del 1942 v. V. ANDRIOLI, Fallimento, cit., 282 e, successivamente, A. JORIO, Le crisi d’impresa, cit., 5 ss.; sulla legge riformatata cfr. F. FIMMANÒ-C. ESPOSITO, op.cit., 3; A. JORIO, Fallimento (dir. priv. e proc.), 334 ss. secondo i quali il fallimento era e resta una procedura la cui funzione tipica è la liquidazione patrimoniale nell’esclusivo interesse dei creditori.

[63] Su questa linea, nel contesto della legge del 1942 cfr., per es., V. DI CATALDO, Il concordato fallimentare con assunzione, Milano, 1976, che individua nella migliore tutela delle ragioni dei creditori la «funzione tipica del concordato» fallimentare; più diffusamente, J.M. GARRIDO, Preferenza e proporzionalità nella tutela del credito, Milano, 1998, 246 ss.; v. inoltre Cass. 23 maggio 2008, n. 13419, la quale, con riguardo al giudizio di meritevolezza dell’imprenditore, avverte su come esso debba svolgersi non in termini puramente etici, ma con attenzione all’interesse dei creditori nell’alternativa tra concordato e fallimento. Per la letteratura dopo la riforma v., per es., M. FABIANI, Contratto e processo nel concordato fallimentare, Torino, 2009, 77; G.D. Mosco, op. cit., 374; L. GUGLIELMUCCI, Diritto fallimentare, cit., 313.

[64] La scissione in cui venne a trovarsi la giurisprudenza teorica emerse nel convegno veronese dell’ottobre 1977 su L’uso alternativo delle procedure concorsuali (gli atti del convegno si leggono in Giur. comm., 1979, I, 222-329). Cfr. il consuntivo tratto da G. CASELLI, La crisi aziendale, in L’azienda e il mercato, in F. Galgano (diretto da), Tratt. dir. comm. dir. pubbl. econ. , III, Padova, 1979, 634.

[65] Sulla dottrina formatasi cfr., per tutti, i contributi di A. DE MARTINI, Il patrimonio del debitore nelle procedure concorsuali, Milano, 1956, 58 ss.; V. ANDRIOLI, Pubblico e privato nel processo di fallimento, in Riv. it. sc. giur., 1967, 223; G.C.M. RIVOLTA, L’esercizio dell’impresa nel fallimento, Milano, 1969, 232 ss.; R. COSTI, Attività creditizia e procedure concorsuali. Un profilo del processo di socializzazione del rischio d’impresa, in Pol. dir., 1975, 522; G. CASELLI, op. cit., 635 ss.; F. D’ALESSANDRO, Politica della crisi d’impresa: risanamento o liquidazione dell’azienda?, in Scritti di Floriano d’Alessandro, Milano, 1997, 751; AG. GAMBINO, Profili dell’esercizio dell’impresa nelle procedure concorsuali alla luce della disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, in Giur. comm., 1980, I, 559 ss.;Id., Tutela del debitore e dei creditori nelle procedure concorsuali conservative dell’impresa, ivi, 1982, I, 723; A. JORIO, Salvataggio o liquidazione delle imprese in crisi?, ivi, 1983, I, 451; V. GRECO, Il fallimento da esecuzione collettiva ad espropriazione dell’impresa, Milano, 1984.

[66] Cfr., a titolo meramente esemplificativo e oltre ai lavori già citati, D. GALLETTI, La ripartizione del rischio di insolvenza. Il diritto fallimentare tra diritto ed economia, Bologna, 2006, 34 ss.; G. PRESTI-M. RESCIGNO, Corso di diritto commerciale, I, Bologna, III, 20073, 253; V. CALANDRA BUONAURA, lc. cit.; A. ROSSI, op. cit., 603 nonché, in prospettiva comparata, di A. FLESSNER, La conservazione delle imprese attraverso il diritto fallimentare. Uno sguardo di diritto comparato, in Dir. fall., 2009, I, 1 ss.

[67] Così da potersi conclusivamente affermare che il patrimonio dell’insolvente non può valere «als nach dem Masstab sozialer Nützlichkeit verwertbare Verfügungsmasse einschätzen» (L.  Häsemeyer, op. cit., 18). Cfr., inoltre, le ricostruzioni offerte da H. PRÜTTING, in KÜBLER-PRÜTTING-BORK (Hrsg.), Kommentar zur Insolvenzordnung, I, Köln, 2010, sub § 1, 1 ss.; U. SCHMERBACH, in K. WIMMER (Hrsg.), Frankfurter Kommentar zur Insolvenzordnung, Köln, 20095, 1535 ss. Nella letteratura recente, per uno studio monografico sugli insolvenzrechtliche Strukturprinzipien, cfr. C. GERLOFF, Funktionen und Aufgaben des Insolvenzgerichts, Baden-Baden, 2009; v. anche D. BUSCH, Der Insolvenzverwalter und die Überwindung der Massearmut, Köln, 2005, spec. 17 ss. Cfr. infine il ZGR-Symposion 2010, su Reform der Unternehmensrestrukturierung sowie aufsichtsrechtliche Einflüsse auf das Gesellschaftsrecht, in ZGR, 2010, 145 ss.

[68] Cfr. le osservazioni di G: SANTINI, Soluzioni giuridiche allo stato di crisi dell’impresa nei sistemi di economia di mercato, in Giur. it., 1981, IV, 172.

[69] Cfr., per la perdurante attualità, lo studio di G.C.M. RIVOLTA, L’esercizio dell’impresa nel fallimento, Milano, 1969, spec. 135 ss. Anche le opinioni propense ad accogliere una più larga declinazione di interessi protetti, collocano la realizzazione degli stessi nella dimensione liquidatoria del fallimento: cfr. A. ROSSI, op. cit., spec. 648 ss. Conta piuttosto segnalare che, per la disciplina in esame, l’interesse dei creditori si assume non solo come non incompatibile con la conservazione dell’impresa ma anche come, nel caso concreto, connesso a tale conservazione (cfr., in giurisprudenza, Cass., 10 marzo 2006, n. 5301, in Foro it., 2006, I, 1639; in dottrina, G. TARZIA, La tutela dei creditori concorsuali dopo la riforma: ridotta o diversa, in Fallimento, 2007, 369).

[70] Per le espressioni riportate nel testo cfr. i lavori di F. FIMMANÒ, Art. 104 l.fall., in Il nuovo diritto fallimentare, cit., 1576 ss.; ID., Art. 104 bis l. fall., ivi, 1618 ss.; ID., L’allocazione efficiente dell’impresa in crisi, cit., 57. Sempre per la perdurante attualità, v. l’ulteriore studio di G.C.M. RIVOLTA, L’affitto e la vendita dell’azienda nel fallimento, Milano, 1973, spec. 84 ss.; di recente, A. MAFFEI ALBERTI, Le procedure concorsuali, cit., 89 ss.; e infine A. BASSI, L’affitto di azienda insolvente, in AA.VV., Autonomia negoziale e crisi d’impresa, cit., 709. Per una articolata ricostruzione critica del sistema previgente, con ampi spunti anticipatori delle linee guida della riforma, cfr. G. TERRANOVA, La liquidazione fallimentare: prassi, giurisprudenza e dottrina, in Dir. fall., 2003, I, 1662 ss. Sulla nuova concezione della liquidazione per la riallocazione dell’impresa sul mercato cfr., oltre ai citati lavori di F. FIMMANÒ-F. MARTORANO, La circolazione «di ritorno» dell’azienda nell’affitto endofallimentare, in Dir. fall., 2010, 1.

La nuova finalità pervade a tal punto l’ordito normativo da indurre a pensare al fallimento «non più come ad una “procedura esecutiva concorsuale”, assimilabile al processo esecutivo individuale, bensì come procedura del tutto autonoma, definibile piuttosto come “procedura espropriativa concorsuale’» (L. FARENGA, La riforma del diritto fallimentare in Italia: una nuova visione del mercato, in Riv. dir. comm., 2008, II, 261; cfr. anche, nella dottrina precedente, V. GRECO, op. cit., 43 ss.). Assecondando la prassi le nuove regole dimostrando la compatibilità tra tutela dei creditori e conservazione dell’organizzazione d’impresa, e per conseguenza anche l’infondatezza delle perplessità a suo tempo sollevate in dottrina (cfr. A. BONSIGNORI, Profilo sistematico delle vendite fallimentari, Napoli, 1963, 42 ss.) sulla ammissibilità dell’affitto di azienda nel fallimento proprio in ragione dell’urgenza liquidatoria insita nella procedura fallimentare.

[71] Sotto qusta prospettiva, non appare appropriato riferire del concordato preventivo come di una procedura a «due anime», indirizzata «a finalità e ad istanze diverse, e in certa misura conflggenti» (V. CALANDRA BUONAURA, lc. cit., 253): conservazione e liquidazioni costituiscono soltanto l’oggetto della decisione dei creditori, indirizzata al perseguimento degli interessi di ceto. Più in generale, sulla neutralità del diritto fallimentare circa questi ordini di scopi, cfr. la pagina ancora attuale di A.M. BERGES, Vergleich und Konkurs in der Evolution der Marktwirtschaft, in AA.VV., Einhundert Jahre Konkurs-ordnung 1877-1977, Köln, Berlin, Bonn, München, 1977, 363 ss.

[72] In questo senso si pone la giurisprudenza: cfr., per es., Cass. 12 luglio 1991, n. 7790, in Giur. it., 1992, I, 1, 1117; Cass. 26 giugno 1992, n. 8013, in Fallimento, 1992, 1027; Cass. 27 ottobre 1995, 11216, ivi, 1996, 529; Cass. 14 luglio 1997, n. 6352, in Giust. civ. Mass., 1997, 1187. In dottrina cfr. L. FARENGA, L’amministrazione straordinaria, cit., 38 ss.

[73] Così A. ROSSI, op. cit., 608.

[74] Cfr. B. LIBONATI, Il gruppo insolvente, cit., 11; ID., Crisi societarie e governo dei creditori, in Dir. giur., 2007, 10, da cui le citazioni; ma v. inoltre, per citare anche un illustre economista, F. CAFFÈ, Diritto ed economia: un difficile incontro, in Giur. comm., 1982, I, 5 ss. Più in generale, sulla concezione del mercato come sistema dinamico, cfr. per tutti L. VON MISES, Human action: a treatise on Economics, San Francisco, 1996, 257 ss.

[75] Citazioni, rispettivamente, da N. SALANITRO, Capitalizzazione e crisi economica, in Banca, borsa, 2010, I, 126; G. MINERVINI, Nuove riflessioni sulla crisi dell’impresa, in Giur. comm., 1977, I, 691; F. D’ALESSANDRO, La crisi dell’impresa tra diagnosi precoci e accanimenti terapeutici, in Giur. comm., 2001, II, 411. Specularmente cfr. F.GALGANO, Istituzioni dell’economia capitalistica, Bologna, 1976, 64, che pur con accenti critici verso il fallimento letto come strumento della politica liberale ottocentesca ne conferma la funzione nelle economie di mercato.

[76] Cfr. la pagina di V. BUONOCORE, Impresa (dir. priv.), in Enc. dir., Annali, Milano, 2007, 789 s. sul mercato quale «destinazione dell’attività d’impresa».

[77] Secondo il criterio che si è visto essere espresso nel § 1 InsO (cfr., oltre agli autori citati, R. Patzschke, Reorganisation der Kapitalgesellschaften im Insolvenzverfahren, Hamburg, 2000, 23 ss.; 98 ss.)

[78] Cfr. in tal senso, H. F. MÜLLER, op. cit., 282 ss.; e da ultimo, H. EIDENMÜLLER, Finanzkrise, cit., 14 ss.

[79] Cfr., per tutti, A. CANDIAN, Liquidazioni coatte amministrative, Milano, 1940, 57;U. BELVISO, Tipologia e normativa della liquidazione coatta amministrativa, Napoli, 1973, 48 ss. Ma, specie attraverso la soluzione concordataria, obbiettivo della liquidazione coatta amministrativa può essere anche l’esdebitazione dell’ente e la conservazione dell’impresa: cfr. A. BONSIGNORI, Liquidazione coatta amministrativa, in Comm. Scialoja-Branca,in  F. BRICOLA-F. GALGANO-G. SANTINI (diretto da), Legge fallimentare - artt. 194-215, Bologna-Roma, 1974, 320.

[80] Cfr. L. FARENGA, L’amministrazione straordinaria, cit., 3 ss.; e prima ancora A. BONSIGNORI, Processi concorsuali minori, in Tratt. dir. comm. dir. pubbl. econ. diretto da Galgano, Padova, 1997, 125, che scrive di come per la finalità conservativa l’amministrazione straordinaria si ponga in netto contrasto «con tutta la nostra secolare tradizione legislativa in materia di fallimento, che è di carattere spiccatamente liquidatorio, sul quale poi è stata modellata la liquidazione coatta amministrativa». Tra le indagini monografiche cfr. A. MAISANO, La tutela concorsuale dei creditori tra liquidazione e riassetto delle imprese in crisi, Milano, 1989, 6 ss. e, con riguardo alla disciplina delle crisi delle grandi imprese, il lavoro comparativo di G. PIEPOLI, op. cit. In sintesi, può convenirsi che mentre fallimento, concordato preventivo e contratti sulla crisi d’impresa perseguono una finalità esecutivo-satisfattiva, invece la liquidazione coatta amministrativa persegue una finalità estintiva, e l’amministrazione straordinaria una finalità di conservazione dell’impresa (cfr. M. SANDULLI, La crisi dell’impresa, cit., 13 ss.).

[81] Lo stesso lavoratore riceve tutela concorsuale ordinaria in quanto creditore: cfr., per tutti, F. D’ALESSANDRO, Crisi dell’impresa e tutela dei lavoratori, in Scritti, cit., 736 ss.

[82] Cfr., per tutti, A. DE MARTINI, op. cit., 32 ss.; L. GUGLIELMUCCI, Origine ed evoluzione delle procedure concorsuali amministrative, in Dir. fall., 1995, I, 1506 ss.

[83] Che l’insolvenza non costituisca presupposto necessario per la procedura è ritenuto elemento decisivo per affermare la finalità della liquidazione coatta amministrativa come irriducibile alla liquidazione patrimoniale nell’interesse dei creditori, il quale riceve «una tutela indubbia ma riflessa» (S. FORTUNATO, La liquidazione coatta delle banche dopo il testo unico: lineamenti generali, in Banca borsa, 1994, I, 775). Anche la dottrina maggiormente restia ad ammettere, in tale procedura, la subordinazione dell’interesse dei creditori al superiore interesse pubblico (su cui cfr., chiaramente, A. DE MARTINI, op. cit., 26 ss.; R. PROVINCIALI, Trattato di diritto fallimentare, IV, Milano, 1974, 2528 ss.; S. SATTA, Diritto fallimentare, cit., 545, nota 7) annota come, nel concordato, il ruolo svolto dalla autorità amministrativa dimostra che interesse pubblico e interesse dei creditori non possono essere posti sullo stesso piano (così A. Bonsignori, Processi concorsuali minori, cit., 1997, 631). Nella recente giurisprudenza cfr., per es., Cass. 11 luglio 2006, n. 20259, in Riv. dir. comm., 2006, II, 77, secondo cui in detta procedura, e puntualmente nell’evenienza del concordato, si realizza «una attenuazione della tutela dell’interesse del ceto creditorio per la coesistenza dell’interesse pubblico alla gestione della liquidazione o al recupero tramite un eventuale concordato».

[84] Sul dibattito infittitosi sul finire degli anni settanta in ordine al conflitto di interessi innescato dalla crisi della grande impresa e sul governo giuridico degli stessi, cfr, specialmente F. RITTNER, Wirtschaftsrecht, Karlsruhe, 1979, 136 ss.;A. FLESSNER, Sanierung und Reorganization, cit., 316 ss.; G. Piepoli, op. cit., 201, che, in armonia con gli scrittori tedeschi, conclude per la configurazione di un Insolvenz- und Sanierungsrecht quale «struttura portante di un più generale Sonderrecht della grande impresa». Per la qualificazione degli interessi protetti quali interessi non semplicemente come pubblici (secondo una diffusa opinione: cfr., da ultimi, F. TOMASSO, Il concordato nella liquidazione coatta amministrativa tra interessi privati e interesse pubblico, in Nuova giur. civ. comm., 2007, I, 448 ss.; F. FIMMANÒ, La ristrutturazione mediante concordato, cit., 632 ss.) ma di ordine pubblico, cfr. L. GUGLIELMUCCI, Una procedura concorsuale amministrativa sotto controllo giudiziario, in Fallimento, 2000, 133.

[85] Cfr., per tutti, AG. Gambino, Profili dell’esercizio dell’impresa, cit., 565; G. DE FERRA, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 1989, 385. Che la finalità della liquidazione coatta non sia necessariamente estintiva, potendosi utilizzare il concordato proprio per la conservazione dell’impresa è ben illustrato, nella letteratura recente, da F. TOMASSO, Il concordato nella liquidazione coatta amministrativa dopo le riforme della legge fallimentare e la garanzia patrimoniale ex art. 2740 c.c., in Giur. comm., 2007, II, 1183 ss.

[86] F. GALGANO, Il risanamento programmato dell’impresa, in Riv. soc., 1978, 1188.

[87] Per questo avviso, cfr. soprattutto G. OPPO, Profilo sistematico dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, in Riv. dir. civ., 1981, I, 246 ss., a cui aderiscono, tra gli altri, D. CORAPI, Creditori anteriori e creditori di massa nell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, in Riv. dir. civ., 1982, I, 292 ss.; L. LANFRANCHI, La natura liquidatorio-satisfattiva dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi e le sentenze 22 maggio 1987 nn. 181 e 185 della Corte Costituzionale, in Riv. dir. civ., 1987, II, 610, nota 44.

[88] Cfr., tra gli altri, F. VASSALLI, I casi di chiusura dell’amministrazione straordinaria, in Aa.Vv., L’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi . Esperienze, riflessioni, prospettive, Milano, 1989, 125; N. ROCCO DI TORREPADULA, Creditori ed impresa nell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, Padova, 1994, 123 ss.; 199 ss. Con riguardo alla riforma del 1999 cfr. S. PACCHI, Effetti dell’amministrazione straordinaria nei confronti dei creditori, in AA.VV., S. BONFATTI-G. FALCONE (a cura di), La riforma della amministrazione straordinaria, Roma, 2000, 149 ss.

[89] Cfr. AG. GAMBINO, Profili dell’esercizio dell’impresa, cit., 565 ss.;ID., Tutela del debitore e dei creditori nelle procedure concorsuali, cit., 716, che argomenta la «finalizzazione della legge all’esercizio dell’impresa» come «in inevitabile contrapposizione all’interesse dei creditori»; e poi F. D’ALESSANDRO, Interesse pubblico alla conservazione dell’impresa e diritti privati sul patrimonio dell’imprenditore, in Giur. comm., 1984, I, ID., L’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi: due anni di esperienze, in Scritti, cit., 786 s. V. inoltre M. FOSCHINI, Amministrazione straordinaria e liquidazione coatta amministrativa, in AA.VV., Problemi attuali dell’impresa in crisi. Studi offerti dai colleghi dell’Università “La Sapienza” di Roma e dagli allievi in onore di Giuseppe Ferri, Padova, 1983, 441; B. LIBONATI, Il gruppo insolvente, cit., 18, secondo i quali l’interesse creditorio ricopre un «ruolo secondario», assumendo una «posizione marginale». Cfr., ancora, A. MAFFEI ALBERTI, Amministrazione straordinaria: le riforme inutili di una legge sbagliata, in Giur. comm., 1982, I, 476; R. FRANCESCHELLI, L’apprendista stregone, l’elisir di lunga vita e l’impresa immortale, in AA.VV., Problemi attuali dell’impresa in crisi, cit., 73 ss., che individuano l’obbiettivo prioritario della procedura nella tutela dell’occupazione (in tal senso, di recente, v. anche A. NUZZO, Parmalat, Alitalia e simili: occupazione, risparmio e via italiana nella gestione delle crisi d’impresa, in Analisi giur. econ., 2009, 110).

[90] Cfr. L. GUGLIELMUCCI, Una procedura concorsuale amministrativa sotto controllo giudiziario, cit., 133, che segnala efficacemente il passaggio scrivendo di come, attenuatesi le emergenze di ordine pubblico, si trascorse dalla prima alla seconda legge essendosi sostituito «al mito dell’economia nazionale quello del mercato globale». La concreta esperienza della prima legge sull’amministrazione straordinaria confermò come la compressione dell’interesse dei creditori antecedenti alla apertura della procedura fosse gravissima, poiché l’antieconomica prosecuzione dell’attività commissariata favorì il lievitare incontrollato dei crediti prededucibili con conseguente erosione degli attivi. Cfr., in generale, P.F. CENSONI, L’amministrazione straordinaria delle imprese armatoriali e i «debiti della massa», in Giur. comm., 1983, I, 183; M. RESCIGNO, Norme urgenti ed amministrazione straordinaria: la legge 9 giugno 1984, n.212, ivi, 1987, I, 554 ss.; AG. GAMBINO, Limiti costituzionali dell’iniziativa economica nella crisi dell’impresa, in Giur. comm., 1988, I, 487 ss.; da ultimi, cfr. L. STANGHELLINI, La crisi d’impresa fra diritto ed economia, cit., 346; A. MAFFEI ALBERTI, Le procedure concorsuali, cit., 91.

[91] Per la generale critica che esclude la prospettabilità di un effettivo risanamento d’impresa a mezzo di operazioni di cessione dei complessi produttivi cfr. K. Schmidt, Wege zum Insolvenzrecht der Unternehmen, Köln, 1990, 141 ss.; con riguardo all’amministrazione straordinaria, cfr. i rilievi di G. ALESSI, L’amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi, Milano, 2000, 3 ss.

[92] Cfr. N. RONDINONE, in AA.VV., A. CASTAGNOLA-R. SACCHI (a cura di), La nuova disciplina della amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, Torino, 2000, 173 (per un’ampia ricostruzione del dibattito cfr. V. BORTOLIN, L’apertura della procedura di amministrazione straordinaria: i requisiti sostanziali, in AA.VV., C. COSTA (a cura di), L’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza dopo il d.lg. 12.9.2007, n. 169, Torino, 2008, 178 ss.).

[93] Nella norma citata si dispone che la procedura, pur destinata a grandi imprese insolventi, ha finalità conservative del patrimonio produttivo: mediante la prosecuzione, la riattivazione o la riconversione delle attività d’impresa. Nulla è detto, pertanto, sulla tutela dei creditori. Nella relazione illustrativa si legge al n. 11 che finalità della procedura è di «salvaguardare, di fronte a dissesti particolarmente allarmanti sul piano delle ricadute socio-economiche, il bene «impresa» quale entità oggettiva distinta dall’imprenditore nella sua duplice valenza di fonte unitaria di produzione e di fattore di mantenimento dell’occupazione». Al contrario, la tutela dei creditori costituisce – come si è visto – la primaria finalità della legge tedesca, che pure dichiara gli obbiettivi perseguiti. Alla conservazione dell’impresa è riconosciuto rilievo, ma strumentale al conseguimento dell’obbiettivo primario integrato dalla tutela creditoria: cfr. lo schema concettuale del ricordato § 1 InsO; v. anche le osservazioni di G. OPPO, Diritti e interessi nella nuova disciplina dell’insolvenza delle “grandi imprese”, in Riv. dir. civ., 2000, II, 522.

[94] Cfr. L. FARENGA, L’amministrazione straordinaria, cit., 132 che discorre, criticamente, di un «ritorno all’antico»; e poi A.M. LEOZAPPA, Interessi pubblici e amministrazione straordinaria dopo la legge n. 166/2008 (variante Alitatia), in Giur. comm., 2009, 615.

[95] Cfr. AG. GAMBINO, Le procedure concorsuali minori in una prospettiva di riforma e la rinnovata amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, in Giur. comm., 1999, I, 402.

[96] In giurisprudenza cfr. Cons. Stato, 12 aprile 2005, n. 1674, in Foro amm., 2005, 1167.

[97] L. ROVELLI, op. cit., 66.

[98] Cfr. G. OPPO, Sistematica dell’amministrazione straordinaria e l. 1982, n. 119, in Riv. dir. civ., 1982, II, 480.

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