CASS. CIV. - sez. I - 24 maggio 2016, n. 10713
In caso di azione di ripetizione di indebito proposta dal cliente di una banca, il quale lamenti la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi anatocistici maturati, con riguardo ad un contratto bancario di apertura di credito regolato in conto corrente, il termine di prescrizione decennale decorre dalla data di estinzione del saldo di chiusura del conto in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati.
Nel caso in cui la violazione dei diritti dei consumatori e degli utenti sia attuata con una condotta omissiva (mediante il rifiuto di riconoscere un diritto), l'imposizione di un facere costituisce uno strumento necessario e consentito dall'art. 3 della legge n. 281 del 1998 (e ora dall'art. 140 cod. consumo), in base al quale il giudice può, non solo «inibire gli atti e i comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori e degli utenti», ma anche «adottare le misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate». Si tratta, evidentemente, di una pronuncia a tutela degli interessi collettivi che non implica un positivo riconoscimento dei diritti dei singoli clienti, da perseguire, eventualmente, nell'ambito di giudizi individuali, aventi ad oggetto specifici rapporti contrattuali.
La decisione impugnata in questa sede (inibitoria collettiva, ndr) produce effetto solo tra le parti del presente giudizio, vale a dire tra la banca e la collettività dei suoi clienti, quanto al loro diritto di ottenere una diversa quantificazione degli interessi, ma non pregiudica il diritto dell'istituto di credito di difendersi nei (successivi ed eventuali) giudizi che i singoli clienti potranno promuovere a tutela dei loro diritti individuali. La legittimazione del Codacons, quale ente esponenziale degli interessi di una categoria di consumatori, è strumentale alla tutela dell'interesse comune dei clienti della banca convenuta, che si concretizza in una pronuncia di accertamento che, a prescindere dalle peculiarità delle posizioni dei singoli clienti, è idonea ad agevolare le iniziative individuali sollevando ciascun consumatore dai relativi oneri e rischi.
In senso conforme
Cass. civ., sez. III, 18 agosto 2011, n. 17351
In senso difforme
Trib. Torino, 17 dicembre 2002
IL CASO – Nel dicembre del 2001 il Codacons conveniva in giudizio un importante istituto di credito presso il Tribunale di Milano, ai sensi dell'art. 3 l. 30 luglio 1998, n. 281, chiedendo di accertare l'illegittimità del rifiuto opposto da tale banca alla propria clientela, in ordine alle richieste di restituzione delle somme pagate indebitamente a titolo di anatocismo, dall'inizio dei singoli rapporti sino al 22 aprile del 2000. Il Codacons chiedeva inoltre di inibire alla convenuta siffatto comportamento, di procedere al ricalcolo degli interessi debitori con storno o rimborso delle maggiori somme addebitate, di condannare la banca al risarcimento dei danni punitivi e di ordinare la pubblicazione della sentenza su due quotidiani a diffusione nazionale. Pare opportuno sottolineare, fin da ora, che il tema dell'anatocismo bancario qui in discussione concerne la normativa applicabile per il periodo antecedente il 22 aprile 2000 (data di entrata in vigore della delibera CICR [n. 2] del 9 febbraio 2000).
La convenuta si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto delle domande di parte attrice e, in subordine, di ricalcolare gli interessi mediante conversione della capitalizzazione da trimestrale a semestrale, nei limiti della prescrizione.
Il Tribunale di Milano dichiarava l'illegittimità del comportamento dell'istituto di credito e gli inibiva di continuare a rifiutare le domande di restituzione delle somme indebitamente percepite; dichiarava il difetto di legittimazione attiva del Codacons in relazione alla domanda di condanna al ricalcolo degli interessi in quanto attinente al diritto individuale di ciascun cliente; dichiarava inammissibili le altre domande e ordinava la pubblicazione della sentenza.
La banca impugnava la decisione di primo grado dinanzi alla Corte d'Appello di Milano, contestando l'ammissibilità di un'inibitoria positiva (avente come contenuto un'obbligazione di fare anziché di non fare) e continuando a sostenere la legittimità dell'anatocismo bancario trimestrale; in sede di impugnazione l'appellante, inoltre, rilevava che l'accertamento collettivo contenuto nella decisione di primo grado era lesivo del suo diritto di difesa rispetto agli eventuali successivi giudizi individuali con i propri clienti; insisteva poi nell'eccezione di prescrizione e, in subordine, chiedeva l'applicazione dell'anatocismo su base semestrale ovvero annuale.
Il Giudice d'appello rigettava l'impugnazione, confermando la decisione del Tribunale di Milano. In particolare, con riguardo alla dedotta lesione del diritto di difesa, la Corte d'Appello rilevava che la sentenza impugnata faceva stato solo tra le parti del giudizio, cioè tra la banca convenuta e la collettività dei suoi clienti, non invece nei confronti di ciascun individuo in relazione alle sue situazioni specifiche; inoltre, sul punto della prescrizione, il giudice di secondo grado rigettava la tesi della decorrenza della prescrizione dai singoli addebiti, affermando che il termine rilevante era la data della sentenza dichiarativa della nullità sulla quale si fondava il diritto alla restituzione.
Avverso tale decisione, l'istituto di credito ricorreva per cassazione sulla base di undici motivi, con i quali sostanzialmente reiterava le doglianze espresse in sede d'appello.
La Suprema Corte, investita della questione, ha rigettato il ricorso confermando la decisione impugnata, salvo una rettifica motivazionale in punto di prescrizione in quanto, come statuito dalle Sezioni Unite con la sentenza, 2 dicembre 2010, n. 24418, il termine di prescrizione decorre dall'estinzione del saldo di chiusura del conto corrente e non dalla data della sentenza dichiarativa della nullità.
LE QUESTIONI GIURIDICHE E LA SOLUZIONE – Con la decisione in commento la Corte di Cassazione ha trovato l'occasione per confermare la giurisprudenza precedente, ormai granitica, in tema di anatocismo bancario nonché per intervenire su alcuni importanti aspetti della tutela collettiva relativamente alle azioni promosse dalle associazioni rappresentative dei consumatori.
La S.C. ha confermato (apparentemente in obiter dictum, poiché non sembra che la questione sia stata effettivamente riproposta dal ricorrente anche in sede nomofilattica) l'illegittimità della clausola contrattuale di capitalizzazione trimestrale degli interessi, dando seguito all'orientamento giurisprudenziale avviato, nel 1999, con un noto revirement della Corte di Cassazione che ha poi trovato solide conferme in due decisioni delle sezioni unite (Cass., SS.UU., 4 novembre 2004, n. 21095 e Cass.,SS.UU., sent. n. 24418 del 2010 cit); inoltre, la Corte ha escluso che in subordine possa farsi luogo a qualsivoglia capitalizzazione (cfr., ancora, SS. UU., sent. n. 24418 del 2010 cit.).
Un altro importante aspetto che è stato affrontato, è quello concernete il decorso del termine di prescrizione decennale per l'esperimento dell'azione di ripetizione di indebito, una volta accertata la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale. Anche in questo caso siamo in presenza di un orientamento che si è consolidato in una pronuncia delle sezioni unite (sent. n. 24418 del 2010, cit.); su questo profilo, la Corte di Cassazione ha dovuto correggere la motivazione del giudice d'appello in quanto questi aveva dato seguito ad un orientamento minoritario, che aveva individuato l'exordium praescriptionis nel momento dell'accertamento della nullità della clausola contrattuale, mentre esso prende avvio con l'estinzione del saldo di chiusura del conto corrente (ovvero, con l'effettuazione di versamenti in conto corrente di natura solutoria, come meglio specificato infra).
Ma le problematiche più rilevanti affrontate con la decisione in commento, sono quelle concernenti la tutela collettiva, sulle quali mancano, a differenza che sull'anatocismo bancario, orientamenti giurisprudenziali consolidati. Ci stiamo riferendo al problema dell'inibitoria positiva e, soprattutto, a quello dei limiti soggettivi del giudicato nella tutela collettiva.
Gli ermellini hanno risolto la questione dell'inibitoria positiva confermando la decisione d'appello, rilevando che la tutela anticipatoria costituisce lo strumento di difesa privilegiato per le posizioni collettive e che essa ben può avere contenuto positivo laddove si sia in presenza di un illecito omissivo (sul punto è stata richiamata una decisione delle Sezioni Unite in tema di condotta antisindacale, Cass., SS. UU., 12 giugno 1997, n. 5295); ciò, inoltre, è corroborato dall'art. 3 l. n. 281 del 1998 (adesso art. 140, d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, cod. cons.) ai sensi del quale il giudice può «adottare le misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate».
Più complessa è la soluzione offerta in merito al difficilissimo tema concernente i limiti soggettivi del giudicato collettivo. Anche in questo caso la Corte ha confermato e ripreso la motivazione del giudice d'appello, affermando che l'accertamento in sede collettiva fa stato solo tra le parti del giudizio, cioè, nel caso di specie, tra la banca e la collettività dei creditori e che questo non pregiudica il diritto dell'istituto di credito di difendersi nei confronti dei singoli negli eventuali successivi giudizi individuali; peraltro, ha specificato la Corte (in conformità al precedente Cass. civ., sez. III, 18 agosto 2011, n. 17351), i singoli clienti, nella tutela delle proprie posizioni specifiche, si avvantaggiano della decisione collettiva e vengono così sollevati dagli oneri e dai rischi connessi all'azione giudiziaria individuale. Ebbene, come si tenterà di mettere in luce nel prosieguo di questo breve lavoro, tale ricostruzione non appare del tutto definita, poiché non è stato esplicitato in modo chiaro il tipo accertamento insito nella decisione collettiva e in quali termini i singoli si possano avvantaggiare di quanto statuito in quest'ultima.
OSSERVAZIONI – Le questioni affrontate nel caso in esame possono essere sintetizzate in quattro punti, raggruppati a loro volta in due macro-argomenti: da una parte, il tema dell'anatocismo bancario, nel quale si pongono gli interrogativi sulla legittimità delle clausole di capitalizzazione trimestrale e sulla decorrenza del termine di prescrizione dell'azione di ripetizione di indebito; dall'altra parte, la tutela collettiva ex art. 3 l. n. 281 del 1998 (adesso art. 140 cod. cons.), con specifico riferimento all'inibitoria di condotte omissive e ai limiti soggettivi del giudicato.
Come si può osservare, dunque, nella decisione in commento si intrecciano due tematiche che sono state oggetto di grande attenzione nel mondo giuridico, l'anatocismo bancario e la tutela collettiva. Per il vero, il tema dell'anatocismo bancario (diversamente dalla tutela collettiva), relativamente alla normativa applicabile per le operazioni avvenute sino al 22 aprile 2000, nonostante le numerosissime perplessità evidenziate nel dibattito che lo ha affiancato, ha già trovato una compiuta sistemazione nella giurisprudenza della Suprema Corte e la decisione in commento si limita a prendere atto degli approdi raggiunti. Tuttavia, considerata l'importanza del tema e la vivacità della discussione giuridica che nel tempo lo ha circondato, pare opportuno offrirne un'analisi complessiva benché sintetica, per poi passare alle problematiche d'avanguardia affrontate dalla decisione in commento, concernenti il contenuto e la portata della tutela collettiva.
Su entrambi i fronti, per non evadere dai confini di questo modesto contributo, il commento sarà limitato ai profili emersi nel caso di specie, cioè, da un lato, alla normativa applicabile all'anatocismo bancario sino al 22 aprile 2000 e, dall'altro lato, ai caratteri della tutela collettiva plasmati in quella specifica figura costituita dall'inibitoria collettiva di cui all'art. 3 l. n. 281 del 1998 (oggi art. 140 cod. cons.).
L'anatocismo (dal gr. ànatokismos, comp. di àna- «di nuovo» e tokismos «usura») consiste nella maturazione degli interessi sugli interessi scaduti. Questa pratica è stata inizialmente ammessa nel diritto romano antico, ma poi è stata progressivamente limitata sino alla sua completa proibizione con una Costituzione di Giustiniano nel 529. In epoca successiva, tale divieto è rimasto pressoché saldo fino alle codificazioni dell'Ottocento; ciò non deve sorprendere se si considera che nel diritto canonico medioevale è stato proibito, ancora prima che l'anatocismo, il prestito ad interessi.
Nel Code Napoléon, adottato in un mutato contesto socio-economico, dove aveva iniziato ad affermarsi la natura produttiva del capitale, l'anatocismo è stato ammesso con limitazioni analoghe a quelle oggi presenti nel nostro codice civile. La codificazione italiana, appunto, figlia di quella francese, ha recepito tale istituto nel codice civile del 1865 e poi nell'art. 1283 del codice attuale.
Tale norma consente che gli interessi scaduti possano produrre a loro volta ulteriori interessi, soltanto dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza e sempre che gli interessi primari siano dovuti almeno per sei mesi; infine, sono fatti salvi gli usi contrari.
In forza di questa disposizione, dove sono fatti salvi gli usi contrari, per lungo tempo gli istituti di credito hanno praticato l'anatocismo nei rapporti con i propri clienti in deroga ai limiti previsti dall'art. 1283 c.c. (in particolare, in forza di convenzioni anteriori e su base trimestrale) e ciò, sino al 1999, ha trovato il conforto della giurisprudenza di legittimità (ex multis, Cass., 5 ottobre 1953, Cass. civ., sez. III, 12 aprile 1980, n. 2335, Cass. civ., sez. III, 15 dicembre 1981, n. 6631, Cass. civ., sez. I, 19 agosto 1983, n. 5409, Cass. civ., sez. I, 5 giugno 1987, n. 4920, Cass. civ, sez. III, 20 giugno 1992, n. 7571 e Cass. civ., sez. I, 17 aprile 1997, n. 3296). Gli elementi portanti di questa ricostruzione sono costituiti dalla natura degli usi in questione, pacificamente ritenuti di tipo normativo, e dal concreto accertamento della loro esistenza.
Come noto, nel 1999, la Corte di Cassazione ha adottato tre decisioni (Cass. civ., sez. I, 16 marzo 1999, n. 2374, Cass. civ., sez. III, 30 marzo 1999, n. 3096 e Cass. civ., sez. I, 11 novembre 1999, n. 12507) con le quali, sovvertendo radicalmente l'orientamento precedente, si è affermata la natura negoziale degli usi anatocistici bancari e quindi la nullità delle relative clausole contrattuali per contrasto con l'art. 1283 c.c.
Questa clamorosa svolta ha avuto enormi ripercussioni di ordine pratico, oltre che giuridico, poiché ha consentito a molti soggetti di convenire in giudizio gli istituti di credito per ottenere la restituzione delle somme corrisposte a titolo di anatocismo.
La reazione della dottrina e di parte della giurisprudenza di merito non si è fatta attendere e sono state formulate ampie censure alla nuova ricostruzione. Da un lato, con alcune critiche che potremmo definire radicali, si è contestato che le clausole in discussione dessero luogo ad un fenomeno anatocistico in quanto, attraverso la capitalizzazione, l'obbligazione di interessi primari si estingue e viene a formare un unico montante assieme al capitale; su un piano radicale si colloca anche chi ha sostenuto che al conto corrente bancario siano applicabili le norme del conto corrente ordinario, in particolare l'art. 1831 c.c. che conterrebbe un'ipotesi di anatocismo legale in deroga all'art. 1283 c.c.; ancora, autorevole dottrina ha affermato che l'art. 1283 c.c. è una norma di natura dispositiva e che gli usi ivi previsti hanno natura negoziale.
Su di un diverso versante, troviamo quelle critiche che hanno minato dall'interno la ricostruzione operata dal nuovo filone giurisprudenziale. In particolare, attraverso delle analisi storiche estremamente dettagliate, si è posto in evidenza come già prima del 1942 fossero esistenti degli usi anatocistici bancari su base trimestrale; si è osservato poi che l'elemento soggettivo della consuetudine, a cui le decisioni del 1999 hanno attribuito un ruolo determinante al fine di escludere l'esistenza di usi normativi in materia, fosse stato messo in discussione dalla dottrina già da tempo.
Una parte degli interpreti, poi, ha evidenziato che anche laddove non fossero rintracciabili degli usi prima del 1942, questi certamente si sarebbero formati nel periodo successivo. A questa posizione, si è opposta quella di coloro i quali, premettendo la natura imperativa dell'art. 1283 c.c., hanno ritenuto che non possano formarsi usi secundum legem successivi poiché sarebbero in contrasto con tale norma poiché un uso contra legem non può diventare nel tempo secundum legem; dunque, l'intenzione del legislatore sarebbe stata quella di fare salvi soltanto gli usi preesistenti. Su questo profilo le decisioni della S. C. del 1999 non si sono pronunciate ma, a ben vedere, sembrano aver presupposto la rilevanza dei soli usi antecedenti il 1942. Una esplicitazione in tal senso è stata fornita in una decisione successiva che si è occupata del tema, Cass. civ., sez. III, 20 febbraio 2003, n. 2593.
Le ripercussioni del revirement sono state tali da provocare anche l'immediato intervento del legislatore delegato con l'art. 25, comma 2, d. lgs. 4 agosto 1999, n. 342. Con tale intervento normativo, sfruttando due leggi delega contenute in leggi comunitarie, in forza delle quali si doveva provvedere alla modifica del d. lgs. 1 settembre 1993, n. 385, T.U.B. (art. 1, comma 5, l. 24 aprile 1998, n. 128 [legge comunitaria per gli anni 1995-1997] di delega per l'integrazione del T.U.B. secondo i criteri di cui alla precedente delega ex art. 25 l. 19 febbraio 1992, n. 142 [legge comunitaria per l'anno 1991]), in quest'ultimo è stata introdotta una disciplina speciale sull'anatocismo bancario all'art. 120.
Le modifiche apportate all'articolo 120 del T.U.B. sono state strutturate in due commi: con il secondo comma dell'art. 120 T.U.B. è stato conferito al Comitato Interministeriale per il Credito ed il Risparmio (C.I.C.R.) il compito di adottare un'apposita delibera con cui individuare modalità e criteri per la produzione degli interessi sugli interessi nel rispetto di una pari periodicità tra cliente e banca; con il terzo comma dell'art. 120 T.U.B. è stata introdotta una vera e propria sanatoria di tutte le clausole anatocistiche bancarie esistenti sino all'adozione della delibera del C.I.C.R. di cui sopra.
Tale intervento ha trovato la propria origine nel mutato orientamento giurisprudenziale e dunque è stato percepito come irragionevole e come un'ingerenza del potere legislativo nelle funzioni del potere giudiziario. Il Giudice delle Leggi è stato investito della relativa questione di legittimità costituzionale e con sentenza Corte Cost., 17 ottobre 2000, n. 425, ha dichiarato l'incostituzionalità del terzo comma, art. 120 T.U.B., per eccesso di delega. Successivamente, peraltro, con sentenza Corte Cost.,12 ottobre 2007, n. 341, è stata affermata la legittimità del secondo comma, art. 120 T.U.B., in quanto la relativa disciplina rientra nei compiti di cui alle leggi delega, confermando così la legittimità della normativa sull'anatocismo bancario, regolata dall'art. 120 T.U.B. unitamente alla delibera C.I.C.R. (n. 2) del 9 febbraio del 2000, per le operazioni successive al 22 aprile 2000.
Alla luce delle persistenti critiche espresse dalla dottrina e di varie decisioni di merito discordanti, è rimasto aperto il problema della normativa applicabile alle operazioni compiute sino alla riforma legislativa di cui sopra. Sul tema sono intervenute le Sezioni Unite nel 2004 con la sentenza n. 21095 (cit.) e in tale occasione la Corte ha confermato la ricostruzione effettuata dall'orientamento giurisprudenziale inaugurato nel 1999.
A distanza di sei anni, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione si sono dovute occupare nuovamente dell'anatocismo bancario, per sciogliere dei dubbi ulteriori rimasti ancora aperti (Cass., SS. UU., sent. n. 24418 del 2010, cit.).
In particolare, in questa occasione, la Corte ha ribadito l'inesistenza di un uso normativo anatocistico bancario su base trimestrale e ha aggiunto che tale uso è inesistente anche su base annuale. Peraltro, su tale questione preme rilevare che le decisioni del 1999 sembrerebbero aver preso atto di un preesistente uso semestrale; inoltre, le Sezioni Unite hanno reso tale affermazione senza alcuna motivazione sul punto.
Il secondo nodo problematico che nel 2010 le Sezioni Unite sono state chiamate a sciogliere, ha riguardato l'individuazione del termine iniziale di decorrenza della prescrizione per l'azione di ripetizione di indebito. Come noto, benché l'azione per l'accertamento della nullità sia imprescrittibile, non lo è altrettanto la diversa azione per la ripetizione.
A questo riguardo, si erano formati due orientamenti. Per il primo, maggioritario, stante la natura unitaria del rapporto di conto corrente, le varie operazioni assumevano rilevanza alla chiusura del conto e solo da quel momento si poteva agire per la ripetizione; per un diverso orientamento, minoritario, il momento rilevante per la decorrenza del termine di prescrizione era quello dell'annotazione in conto corrente della movimentazione contabile (addebito).
Le Sezioni Unite hanno sposato l'orientamento maggioritario, peraltro con un'importante precisazione: per poter promuovere un'azione di ripetizione di indebito, è indispensabile l'esistenza di un pagamento; pertanto, pur non disconoscendosi l'unitarietà del rapporto di conto corrente, è possibile che prima della sua chiusura siano stati effettuati dei versamenti solutori e, in tali casi, il termine di prescrizione decorrerà dall'annotazione.
La Corte, in particolare, riprendendo un orientamento di legittimità formatosi in materia di revocatoria fallimentare (Cass. civ, sez. I, 18 ottobre 1982, n. 5413, in questa decisione, peraltro, appare molto interessante la diversa ricostruzione prospettata dalla Corte d'Appello di Venezia; Cass. civ., sez. I, 23 novembre 2005, n. 24588 e Cass. civ., sez. I, 6 novembre 2007, n. 23107), ha precisato quali operazioni possono essere considerate come pagamenti: essendo a tal fine necessario uno spostamento di ricchezza dal cliente alla banca, possono essere considerati tali soltanto i versamenti effettuati per ripianare le passività su conti correnti privi di fido ovvero su conti correnti affidati nel caso in cui il saldo negativo sia oltre soglia; solo in questi casi, ha osservato la Corte, si ha uno spostamento di ricchezza. Anche questa ricostruzione, come noto, ha suscitato forti polemiche in dottrina dove si è rilevato che così facendo la S. C. ha trascurato di dare la giusta rilevanza al ruolo oggi assunto dalle aperture di credito in conto corrente e al fatto che gli addebiti non sarebbero mere operazioni contabili ma inciderebbero effettivamente sulle situazioni patrimoniali delle parti.
Dopo la seconda pronuncia delle Sezioni Unite, gli istituti bancari si sono trovati sostanzialmente privi di difesa per gli addebiti anatocistici effettuati sino al 22 aprile del 2000, essendosi enormemente ridotta anche la possibilità di eccepire la prescrizione per le operazioni più risalenti.
Ancora una volta è intervenuto il legislatore, con una disposizione di sedicente interpretazione autentica, l'art. 2, comma 61, d.l. 29 dicembre 2010 n. 225, convertito con modificazioni dalla l. 26 febbraio 2011, n. 10, comma aggiunto proprio dalla legge di conversione. Con tale intervento normativo si è tentato di ancorare l'exordium praescriptionis al momento dell'annotazione dell'addebito in conto corrente. La Corte Costituzionale, con sentenza 5 aprile 2012, n. 78, ha rilevato la natura retroattiva non interpretativa della norma e ne ha dichiarato l'incostituzionalità per irragionevolezza e per contrasto con la normativa CEDU, quale norma interposta ex art. 117 Cost., in quanto estrinsecazione di un'ingerenza del potere legislativo nell'amministrazione della giustizia.
Le vicissitudini dell'anatocismo bancario, però, non si sono fermate qui ma si sono arricchite di nuovi capitoli: la normativa del T.U.B. in tema di anatocismo è stata oggetto di ulteriori modifiche; peraltro, per rimanere all'interno dei confini prefissati in questo lavoro (normativa applicabile per le operazioni avvenute sino al 22 aprile 2000), ci limiteremo a darne sinteticamente conto nelle citazioni bibliografiche alle quali si rimanda.
Sull'anatocismo bancario, con la decisione qui in esame, la Suprema Corte ha mantenuto ferme le ricostruzioni consolidatesi nei precedenti delle Sezioni Unite, confermando la sentenza di appello ma con correzione motivazionale in punto di decorrenza del termine di prescrizione (dal saldo di estinzione del conto anziché dalla pubblicazione della sentenza dichiarativa della nullità), in ossequio all'arresto del 2010 (Cass., SS. UU., sent. n. 24418 del 2010, cit.).
L'esito di tale decisione potrebbe apparire prevedile ma non certo scontato, viste le numerose critiche di una parte rilevante della dottrina e considerato che proprio questo tema ci ha mostrato come la solidità degli orientamenti giurisprudenziali non sia perpetua e come gli istituti di credito dimostrino di esserne pienamente consapevoli, viste le linee difensive che continuano ancora oggi a sostenere.
Passiamo adesso ad esaminare i profili inerenti la tutela collettiva di cui all'art. 3 l. n. 281 del 1998 (ora art. 140 cod. cons.). Come già precisato, nel caso in esame la Corte ha affrontato due profili, quello della possibilità, in base alla normativa richiamata, di adottare un'inibitoria di tipo positivo e quello dei limiti soggettivi del giudicato collettivo. Entrambe le questioni sono già state affrontate dalla S. C. nella sent. n. 17351 del 2011 (cit.) e le soluzioni ivi proposte sono state accolte e confermate anche in questa occasione.
Per ragioni di ordine sistematico, si analizzerà prima il problema dei limiti soggettivi del giudicato e poi quello dell'ammissibilità dell'inibitoria collettiva positiva.
Prima di entrare nel merito delle soluzioni adottate, appare opportuno preliminarmente tracciare in modo estremamente sintetico i lineamenti del tema degli interessi collettivi e delle loro forme di tutela.
Como noto, dopo la rivoluzione francese l'ordine socio-economico è stato ridotto al rapporto tra individui e tra individuo e Stato, escludendo la rilevanza delle aggregazioni sociali che fino a quel momento avevo caratterizzato il tessuto sociale. Nel tempo, tuttavia, i bisogni e gli interessi delle collettività tran-sociali sono riemersi, in cerca del loro riconoscimento e di adeguate forme di tutela. A questa evoluzione, in parallelo, si è affiancato lo sviluppo della società di massa, quale ulteriore fattore propulsivo per la crescita dell'importanza della dimensione superindividuale degli interessi.
I settori dove maggiormente queste bisogni hanno trovato spazio sono quelli della tutela dell'ambiente e del diritto del lavoro. Successivamente, sulla spinta del legislatore comunitario, sono state dettate norme speciali per la tutela collettiva dei consumatori.
La tutela collettiva costituisce uno dei temi più complessi del panorama giuridico contemporaneo. Innanzitutto, si pone un problema di tipo sostanziale, concernente l'esatta enucleazione di tali posizioni giuridiche.
Tradizionalmente gli interessi collettivi sono stati definiti come posizioni di interesse comune di una collettività individuata, a differenza degli interessi diffusi che farebbero capo ad un gruppo indifferenziato. Tuttavia, le varie ricostruzioni prospettate nel tempo ne hanno identificato i caratteri in modi diametralmente opposti. Innanzitutto, si è dovuto affrontare il problema della loro riconducibilità alle categorie classiche del diritto soggettivo e dell'interesse legittimo: qua, come pure su altri aspetti in tema di tutela collettiva, sono state tentate più ricostruzioni possibili, sia riconducendo la posizione superindividuale a una delle figure soggettive tradizionali ovvero considerandola come un tertium genus. Spesso la configurazione di tali posizioni è stata nebulosa; altre volte l'interesse collettivo è stato coniato come un raggruppamento di interessi individuali, ovvero come una posizione a sé stante della quale è portatore un ente esponenziale; ancora, altri autori hanno riconosciuto negli interessi collettivi una sovrapposizione tra posizioni individuali e posizione superindividuale.
Nei numerosi contributi che si sono occupati del tema, alcune importanti ricostruzioni provengono dal campo processualistico, dove l'interprete si è mosso al fine di individuare la soluzione di questioni concrete e, così facendo, necessariamente, ha dovuto fronteggiare preliminarmente la ricostruzione sul piano sostanziale in termini netti.
Invero, il problema del giudicato collettivo, uno tra gli aspetti processuali più problematici della tutela collettiva, è strettamente connesso alla configurazione sostanziale della posizione dedotta in giudizio e dunque ai problemi della titolarità di essa e della legittimazione ad agire.
A ben vedere, com'è stato osservato, ogni posizione superindividuale assume una sua differente connotazione; pertanto, nell'ambito del presente modesto contributo, ci limiteremo ad affrontare questo tema all'interno della normativa richiamata sull'inibitoria collettiva dei consumatori.
Gli interessi che qui vengono in gioco sono quelli che oggi troviamo espressi nell'art. 2 cod. cons., dove sono «riconosciuti e garantiti i diritti e gli interessi individuali e collettivi dei consumatori e degli utenti» tra i quali, in particolare, il diritto fondamentale «e) alla correttezza, alla trasparenza ed all'equità nei rapporti contrattuali».
Ebbene, in linea con quanto sopra esposto, possiamo subito osservare che è difficile accertare, di volta in volta, che tipo di posizione emerga nel caso concreto. Seguendo un'autorevole ricostruzione, potremmo ritenere che accanto a delle posizioni superindividuali, possono venire in gioco, contemporaneamente, delle posizioni individuali plurime. Questo, ad esempio, pare essere proprio il caso oggetto della sentenza in commento.
A fronte del comportamento illegittimo dell'istituto di credito, il quale si è rifiutato di procedere al ricalcolo degli interessi indebitamente computati, troviamo sia le posizioni specifiche di ciascun cliente leso nel suo patrimonio, sia una posizione di dimensione superindividuale dei consumatori di fronte ad un comportamento scorretto ed iniquo di un professionista capace di incidere sull'intera classe in sé considerata.
Per la tutela di tale posizione collettiva il legislatore ha optato per una soluzione semplificata, attribuendo la legittimazione ad agire alle associazioni iscritte in un apposito elenco, così evitando il problema, emerso in occasioni passate, di dover accertare previamente l'adeguata rappresentatività dell'ente. Tuttavia, la normativa non disciplina dettagliatamente il rapporto tra azione collettiva e azioni dei singoli e quindi questo deve essere ricostruito dall'interprete.
Ci si è interrogati sulla possibilità che l'ente agisse in giudizio anche per far valere le posizioni dei singoli, con una legittimazione di tipo straordinario ex lege, ma il dato normativo, dove sono fatte salve le azioni individuali, nonché l'apposita previsione dell'azione di classe all'art. 140-bis cod. cons., fanno propendere, nel caso di specie, per una risposta negativa. Peraltro, si deve rilevare che il dettato normativo di cui all'art. 140 è ricco di disposizioni non del tutto ben assemblate, idonee ad ingenerare importanti dubbi nell'interprete che tenti un'adeguata sistematizzazione. A questo proposito, si osserva che ai sensi dell'art. 140, comma 9, cod. cons., «le disposizioni di cui al presente articolo [140] non precludono il diritto ad azioni individuali dei consumatori che siano danneggiati dalle medesime violazioni» ma sono «fatte salve le norme sulla litispendenza, sulla continenza, sulla connessione e sulla riunione dei procedimenti». Ebbene, il richiamo agli istituti della litispendenza e della riunione di cause (tra cui la riunione ex art. 273 c.p.c.), dovrebbe presuppore la possibilità di un'identità di cause che sarebbe ravvisabile solo laddove si ritenesse che l'interesse collettivo sia una mera aggregazione delle posizioni individuali e che l'ente esponenziale agisca in forza di una legittimazione straordinaria, ma questo, come già precisato, appare contraddetto da una ricostruzione più appropriata del complesso normativo in discorso. Pertanto, come è stato rilevato, il richiamo da parte del legislatore a tali istituti deve essere inteso come un riferimento generico (rectius, parzialmente errato).
Ciò doverosamente osservato, riprendendo la ricostruzione sopra offerta, si pone il problema di comprendere il rapporto tra il giudizio inibitorio collettivo e i possibili successivi giudizi individuali, con specifico riferimento al caso in esame. Appare subito evidente che tra le due cause (collettiva e individuale) vi è un collegamento, consistente in accertamenti comuni ad entrambe, cioè quelli concernenti l'illegittimità della clausola anatocistica e l'illegittimità della condotta tenuta dall'istituto di credito; dunque, esiste una connessione.
Per risolvere il problema del rapporto tra tutela collettiva e tutele individuali, con particolare riferimento alla normativa qui in discorso, le ricostruzioni che appaiono più adeguate e che sembrano aver ricevuto maggiori adesioni sono due.
Alcuni autori hanno ritenuto che il giudizio collettivo non esplichi alcun effetto automatico rispetto ai giudizi individuali e, al fine di rendere effettiva la tutela collettiva, hanno proposto di valorizzare gli istituti che consentono un'integrazione del contraddittorio del giudizio collettivo nei confronti di tutti i singoli, in particolare attraverso l'istituto dei pubblici proclami, in modo da estendere il giudizio e il giudicato a ciascun componente il gruppo.
Altri, invece, ricostruendo la posizione del professionista di fronte al gruppo in termini di obbligazione indivisibile, hanno ritenuto applicabile in via analogica l'art. 1306 c.c. che disciplina il c.d. giudicato secundum eventum litis, cioè la possibilità per il membro del gruppo rimasto estraneo al giudizio di avvantaggiarsi di un'eventuale decisione positiva, ma senza subire gli effetti di una decisione negativa. Questa seconda soluzione presta al fianco ad alcune importanti critiche tra le quali, in particolare, quella per cui il professionista potrebbe essere inizialmente chiamato in causa e, nonostante un esito favorevole, potrebbe essere convenuto nuovamente da soggetti che non avevano partecipato al primo giudizio e così potenzialmente per un numero indefinito di volte. A questo si è obiettato che tale efficacia del giudicato, per quanto potenzialmente penalizzante a carico di una parte, è già stata prevista dal legislatore all'art. 1306 c.c. e dunque non pare lesiva di valori fondamentali del nostro ordinamento, nell'ottica di un equo bilanciamento di interessi; inoltre, per evitare un tale effetto, il professionista avrebbe comunque la facoltà di estendere il giudizio a tutti i controinteressati attraverso gli strumenti previsti dal codice di procedura civile, se del caso, valorizzando proprio i pubblici proclami.
La Corte di Cassazione, nella sentenza che si annota, come pure nel precedente richiamato n. 17351 del 2011 (cit.), benché abbia utilizzato formule poco nitide, sembrerebbe aver optato per la soluzione del giudicato secundum eventum litis. Nella sentenza in esame la Corte ha rilevato che il problema del giudicato deve essere risolto dal giudice dei successivi eventuali giudizi individuali; tuttavia, a fronte delle doglianze della ricorrente di asserita lesione del proprio diritto di difesa ex art. 24 Cost. nonché di paventata incostituzionalità della normativa in tema di inibitoria collettiva, la S. C., in sintonia con il precedente del 2011, ha affermato che «La legittimazione del Codacons, quale ente esponenziale degli interessi di una categoria di consumatori, è strumentale alla tutela dell'interesse comune dei clienti della banca convenuta, che si concretizza in una pronuncia di accertamento che, a prescindere dalle peculiarità delle posizioni individuali, sia idonea ad agevolare le iniziative individuali, sollevando i singoli consumatori dai relativi oneri e rischi». Peraltro, tale formulazione non appare del tutto chiara e la S. C., dato il proprio ruolo istituzionale, avrebbe forse dovuto adottare una decisione più definita, al fine di mitigare gli importanti dubbi interpretativi presenti in materia.
Una volta delineati i possibili termini del rapporto tra giudicato collettivo e giudizi individuali, si deve precisare quale sia l'oggetto del giudicato che si ripercuote su questi ultimi: esso, necessariamente, potrà essere soltanto l'accertamento relativo a quel segmento giuridico-fattuale comune ad entrambe le posizioni, ossia, nel caso di specie, l'illegittimità dell'anatocismo su base trimestrale sino al 22 aprile 2000 e l'illegittimità del rifiuto dell'istituto di credito.
Veniamo adesso al tema dei contenuti dell'inibitoria collettiva il quale, giova osservare fin da subito, presenta dei complessi problemi di inquadramento. Il Condacons, nel promuovere il giudizio dinanzi al Tribunale di Milano, ha chiesto che fosse accertata l'illegittimità della condotta della convenuta e che le fosse inibita la prosecuzione del comportamento illecito; inoltre, ha domandato che si procedesse al ricalcolo delle somme addebitate e alla restituzione di quanto illegittimamente percepito dalla banca; infine, sono state richieste la condanna al risarcimento dei danni punitivi e la pubblicazione della sentenza.
Come è stato correttamente rilevato in tutti i gradi di giudizio, per le ragioni sopra esposte, sono inammissibili le domande restitutorie e risarcitorie avanzate per conto dei singoli, essendo tali posizioni esterne al giudizio collettivo (per quanto riguarda i danni puntivi, poi, vi sarebbero anche ulteriori profili che in questa sede, in considerazione dei temi oggetto di studio, non possono essere approfonditi).
Conseguentemente, è stata dichiarata l'illegittimità della condotta dell'istituto di credito, gli è stata inibita la prosecuzione del comportamento illecito ed è stata ordinata la pubblicazione della sentenza.
A questo punto, si pone un interrogativo fondamentale, cioè quali siano i contenuti dell'inibitoria disposta, anche per comprendere se si tratti di inibitoria a contenuto negativo (non fare) ovvero positivo (con previsione di un'obbligazione di fare). Innanzitutto, non pare sensato ricondurre questa inibitoria ad un contenuto di tipo puramente negativo: un mero obbligo di non fare si tradurrebbe nell'obbligo di non rifiutarsi, al quale la banca potrebbe conformarsi (paradossalmente) limitandosi a rimanere inerte di fronte alle legittime richieste dei propri clienti.
A ben vedere dunque, come rilevato dalla S. C., il rifiuto opposto dalla banca ai propri clienti, benché si concretizzi materialmente in un comportamento esteriore, dovrebbe essere inquadrato alle stregua di un'omissione, rispetto alla quale l'inibitoria si atteggia in modo positivo, cioè attraverso l'imposizione di un obbligo di fare. L'inibitoria positiva, come precisato nella decisione in commento, benché non prevista normativamente si deve ritenere ammissibile (Cass., SS. UU., sent. n. 5295 del 1997, cit.) e ciò, nel caso specifico, anche alla luce dell'art. 140, comma 1, lett. b), cod. cons. che consente al giudice di «adottare le misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate».
Si pone allora il problema di comprendere in cosa consista l'obbligo di fare.
Come già specificato, il contenuto dell'inibitoria non può risolversi nell'obbligo di corresponsione delle somme illegittimamente percepite poiché tali domande sono inammissibili in questa sede. Esclusa tale ipotesi, il contenuto di questa inibitoria potrebbe essere formulato nei seguenti termini: «la banca deve accogliere le richieste di restituzione delle somme che siano state percepite in forza di clausole anatocistiche nulle».
Evidentemente, si tratta di un precetto di difficile attuazione poiché, da un lato, l'accertamento di un inadempimento della banca rispetto a tale comando presuppone il riconoscimento del diritto di un singolo (da effettuarsi attraverso un giudizio individuale) e, dall'altro lato, manca di effettività, non essendo autonomamente eseguibile.
Con riferimento a quest'ultimo aspetto, peraltro, si deve osservare che oggi l'art. 140, comma 7, cod. cons. consente di accompagnare l'inibitoria con strumenti di coazione indiretta, tramite l'imposizione al soggetto inibito di una sanzione pecuniaria per ogni inadempimento. In questo modo l'inibitoria collettiva, oltre ad essere uno strumento funzionale alla tutela dei singoli nei giudizi individuali (attraverso l'accertamento in essa contenuto), viene ad acquisire un ruolo autonomo dotato di una propria effettività.
In conclusione, con la presente decisione si sono poste delle importanti conferme in tema di anatocismo bancario, a fronte del persistente atteggiamento ostruzionistico di alcuni istituti di credito, e sono state affrontate alcune delle grandi problematiche della tutela collettiva, abbozzando i lineamenti di certe possibili soluzioni; peraltro, il lavoro dell'interprete nella complessa tematica della tutela collettiva appare ben lontano da traguardi consolidati e si auspicano nuove decisioni in materia che consentano di fare maggior luce sui numerosi risvolti problematici delle questioni esaminate.
RIFERIMENTI GIURISPRUDENZIALI E BIBLIOGRAFICI – Le voci bibliografiche relative agli argomenti coinvolti nel presente lavoro sono molto numerose; pertanto, senza pretesa di esaustività, si tenterà di indicarne alcune tra le più rilevanti.
Per una ricostruzione storica dell'anatocismo, T. CARAFFA, Anatocismo, in Dig. it., 1895, 197-208, A. MONTEL, Anatocismo, in Nss. D.I., 1937, 440-441, G. PORCELLI, Interessi anatocistici, in Dig. civ., Agg., III, 2007, 725-749. In generale sul tema dell'anatocismo e con specifici approfondimenti sull'anatocismo bancario, D. SINESIO, Interessi pecuniari fra autonomia e controlli, Milano, 1989, 50-101, C. COLOMBO, Anatocismo, in Enc. giur., 2000, con postilla di aggiornamento del 2005, O. T. SCOZZAFAVA, Gli interessi dei capitali, Milano, 2001, 165-173, A. RICCIO, L'anatocismo, inF. GALGANO (collana diretta da) I grandi orientamenti della giurisprudenza civile e commerciale, Padova, 2002, G. GUIDA, L'anatocismo, in S. PATTI-L. VACCA (a cura di) Le figure speciali in L. GAROFALO-M. TALAMANCA (diretto da) Trattato delle obbligazioni, V, Padova, 2010, 529-549, M. SEMERARO, Conto corrente bancario e anatocismo: vecchie qualificazioni e novità di sistema, in Riv. dir. impr., 2011, 253-275, B. INZITARI, Delle obbligazioni pecuniarie: artt. 1277-1284, in Commentario del codice civile Scialoja-Branca (a cura di), Bologna, 2011, pp. 443-503, F. CAVONE, L'anatocismo nell'evoluzione giurisprudenziale, in Corr. giur., 2013, 5, 706-711, F. MAIMERI, Art. 1283 – Anatocismo, in V. CUFFARO (a cura di) Delle obbligazioni art. 1277-1320 in E. GABRIELLI (diretto da) Commentario del codice civile, Torino, 2013, 39-117, F. GAMBINO, Il rapporto obbligatorio, in R. SACCO (diretto da) Trattato di diritto civile. Le obbligazioni, 1, Torino, 2015, 540-553.
Circa la giurisprudenza di legittimità richiamata in tema di anatocismo, in ordine cronologico: Cass., 5 ottobre 1953, in Banca borsa tit. cred., 1954, II, 301-302.; Cass. civ., sez. III, 12 aprile 1980, n. 2335 in Giur. it. 1982, I, 1, 237-252 con nota di P. D'AMICO; Cass. civ., sez. III, 15 dicembre 1981, n. 6631 in Vita not. 1982, 738-742; Cass. civ., sez. I, 19 agosto 1983, n. 5409, in Giust. civ. mass., 1983, 1917-1918; Cass. civ., sez. I, 5 giugno 1987, n. 4920, in Banca borsa tit. cred., 1988, II, 578-582; Cass. civ, sez. III, 20 giugno 1992, n. 7571, in Banca borsa tit. cred., 1993, II, 358-360; Cass. civ., sez. I, 17 aprile 1997, n. 3296; Cass. civ., sez. I, 16 marzo 1999, n. 2374, in Contratti, 1999, 5, 437-446 con nota di G. DE NOVA; Cass. civ., sez. III, 30 marzo 1999, n. 3096, in Corr. giur., 1999, 5, 561-576 con nota di V. CARBONE; Cass. civ., sez. I, 11 novembre 1999, n. 12507, in Giust. civ., 2000, I, 2045-2054 con nota di L. DI PIETROPAOLO; Cass. civ., sez. III, 20 febbraio 2003, n. 2593, in Contratti, 2003, 6, 545-565, con nota di V. PANDOLFINI; Cass., SS. UU., 4 novembre 2004, n. 21095, in Contratti, 2005, 3, 221-232, con nota di T. O. SCOZZAFAVA; Cass. SS. UU., sent. n. 24418 del 2010, in Riv. dir. comm., 2011, II, 407-436, con nota di P. FERRO LUZZI.
Le decisioni della Corte Costituzionale: Corte Cost., 17 ottobre 2000, n. 425, in Banca borsa tit. cred., 2001, II, 1-20, con nota di G. MUCCIARONE; Corte Cost., 12 ottobre 2007, n. 341, in Giur. cost., 2007, 5, 3418-3441 con nota di A. PACE; Corte Cost., 5 aprile 2012, n. 78, in Banca borsa tit. cred., 2012, II, 423-473 con note di A. A. DOLMETTA-U. SALANITRO-M. SEMERARO-V. TAVORMINA. Per quanto riguarda la giurisprudenza in tema di revocatoria fallimentare e di pagamenti in conto corrente: Cass. civ, sez. I, 18 ottobre 1982, n. 5413, in Foro it., 1982, I, 2779-2786 con nota di G. SILVESTRI; Cass. civ., sez. I, 23 novembre 2005, n. 24588; Cass. civ., sez. I, 6 novembre 2007, n. 23107, in Foro it., 2008, I, 1947-1959.
Per l'etimologia di ‘anatocismo' si veda vocabolario Treccani: http://www.treccani.it/vocabolario. Si osserva che in epoca passata con il termine ‘usura' (dal lat. usura, propr. «uso, godimento», e quindi «godimento del capitale dato in prestito», der. di usus, part. pass. di uti «usare»; cfr., ancora, vocabolario Treccani) si indicava semplicemente la maturazione di interessi primari sulle somme prestate.
Come preavvertito nelle ‘Osservazioni', oggi le vicende dell'anatocismo sono tutt'altro che concluse. A tal proposito, ci limitiamo ad osservare che dopo il 22 aprile del 2000 la normativa in tema di anatocismo bancario è stata innovata in due occasioni a distanza di poco tempo: dapprima, con l'art. 1,comma 629, l. 27 dicembre 2013, n. 147, con una norma di formulazione non cristallina, l'anatocismo bancario sembrerebbe essere stato vietato, apparentemente anche in deroga ai limiti concessi dall'art. 1283 c.c.; poi, con l'art. 17-bis, comma 1, d. l. 14 febbraio 2016, n. 18, convertito con modificazioni con l. 8 aprile 2016, n. 49, esso è stato reintrodotto con una norma dalla formulazione particolarmente articolata, in attuazione della quale il C.I.C.R. ha recentemente adottato la delibera del 3 agosto 2016, pubblicata in G.U., serie generale, 10 settembre 2016, n. 212, anno 157°.
La delibera CICR 9 febbraio 2000 (n. 2) è stata pubblicata in G.U., serie generale, 22 febbraio 2000, n. 43, anno 141°.
In tema di tutela collettiva, in dottrina, risultano fondamentali i contributi offerti dagli illustri relatori del convegno di Pavia del 1974, Le azioni a tutela di interessi collettivi. Atti del convengo di studio (Pavia, 11-12 giugno 1974), Padova, 1976. Inoltre, si segnalano V. VIGORITI, Interessi collettivi e processo. La legittimazione ad agire, Milano, 1979,V. DENTI, Interessi diffusi, in Nss. D.I., 1983, 305-313, L. BIGLIAZZI GERI-U. BRECCIA-F. D. BUSNELLI-U. NATOLI, Diritto civile. Norme soggetti e rapporto giuridico, 1, Torino, 1987, 260-269, M. NIGRO, le due facce dell'interesse diffuso: ambiguità di una formula e mediazioni della giurisprudenza, in Foro it., 1987, V, 7-20, N. TROCKER, Gli interessi diffusi e la loro tutela dinanzi al giudice civile, in Nuove dimensioni nei diritti di libertà (Scritti in onore di Paolo Barile), Padova, 1990, 193-215, G. ALPA, Interessi diffusi, in Dig. civ., 1993, 609-617, I. PAGNI, Tutela individuale e tutela collettiva nella nuova disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti (prime riflessioni sull'art. 3, L. 30.7.1998, N. 281), in A. BARBA (a cura di) La disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti, Napoli, 2000, 125-197, E. MARINUCCI, Azioni collettive e azioni inibitorie da parte delle associazioni dei consumatori, in S. CHIARLONI-P. FIORIO (a cura di) Consumatori e processo. La tutela degli interessi collettivi dei consumatori, Torino, 2005, 41-84, S. CHIARLONI, Per la chiarezza di idee in tema di tutele collettive dei consumatori, in Riv. dir. proc., 2007, 3, 567-590, R. DONZELLI, Interessi collettivi e diffusi, in Enc. giur., 2007, R. DONZELLI, La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi,Napoli, 2008, A. ORESTANO, Interessi seriali, diffusi e collettivi: profili civilistici di tutela, in S. MENCHINI (a cura di) Le azioni seriali, Napoli, 2008, 11-53, R. CAPONI, Il giudicato civile dimensionato, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2009, 941-953, M. TARUFFO, La tutela collettiva nell'ordinamento italiano: lineamenti generali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2011, 103-123, A. FACHECHI, Azione inibitoria collettiva ed efficacia ultra partes del giudizio di vessatorietà, in Giusto proc. civ., 2014, 3, 785-810, C. MANDRIOLI-A. CARRATTA, Diritto processuale civile, I, Torino, 2015, 51-67.
Si indica, ancora, un contributo del 2008 del relatore della sentenza in commento dove viene affrontato proprio il tema dell'opportunità del giudicato secundum eventum litis, A. LAMORGESE, Lineamenti della tutela processuale dei consumatori nell'Unione Europea, in Giust. civ., 2008, II, 159-174.
Con specifico riferimento alla tutela collettiva applicata all'anatocismo e su alcuni precedenti di merito, M. L. Magno, L'azione inibitoria collettiva in materia di anatocismo bancario, in Contr. impr., 2010, 4-5, 1017-1043.
In giurisprudenza, sulla tutela collettiva e sull'inibitoria, ci limitiamo a richiamare gli importanti arresti menzionati: Trib. Torino, 17 dicembre 2002, in Contratti, 2003, 11, 999-1014 con nota di G. DI FAZZIO, Cass. civ., sez. III,18 agosto 2011, n. 17351, con nota di R. DONZELLI, La tutela collettiva dei consumatori davanti alla Corte di Cassazione, in Corr. giur., 2012, 2, 214-223; Cass., SS. UU., 12 giugno 1997, n. 5295, in Riv. it. dir. lav. 1998, II, 55-63 con nota di G. MARTINUCCI.