1. Come in un qualunque processo, anche in quello di Cassazione il diritto di difesa delle parti si esercita con lo scritto e la parola. Sullo “scritto” – sulla sua conformazione e sulla sua lunghezza nei giudizi civili di legittimità – ha inciso sensibilmente il Protocollo sottoscritto il 17 dicembre 2015 dal Consiglio Nazionale Forense e il Primo Presidente della Suprema Corte. La “parola” è stata tolta agli avvocati – nella gran parte dei casi – con la legge di pochi giorni fa di riforma del giudizio civile di cassazione (l. 25 ottobre 2016 n. 197 - GU del 29 ottobre 2016 - di conversione del d.l. 31 agosto 2016 n. 168).
Certo, il Protocollo è una mera raccomandazione (non priva però di ricadute delicatissime in punto di allocazione delle spese di lite) che poco ha da spartire con una legge dello Stato. Ma i due interventi, pur diversi nella genesi e negli effetti, non possono comunque essere dissociati. Con il Protocollo gli avvocati, tramite il proprio organo rappresentativo, si sono detti pronti a rinunziare nel giudizio di legittimità ad uno dei “tesori” più gelosamente custoditi dell’arte forense, alla libertà cioè di modulare, secondo logica ed esperienza, il contenuto dei propri scritti difensivi (ad iniziare dal ricorso per cassazione), impegnandosi pro futuro a contenerne la lunghezza in limiti predefiniti e conformarne il contenuto a standard prefissati. In cambio è stato promesso loro che la Cassazione avrebbe abbandonato l’indirizzo assai restrittivo (e privo di base normativa) in tema di c.d. autosufficienza del ricorso. Comune era nondimeno la consapevolezza che, acconsentendo a rinserrare le proprie difese scritte entro un numero di pagine predeterminato in astratto, le parti e i loro difensori avrebbero potuto continuare ad esporre oralmente le proprie ragioni dinanzi alla Suprema Corte, tanto nella pubblica udienza quanto – di solito – nella adunanza in camera di consiglio. «Se mi invitate a limitare lo spazio delle difese scritte» – avrà probabilmente pensato l’avvocato cui capita di frequentare le aule della Cassazione –, «permettetemi almeno di partecipare alla discussione orale!».
Oggi questa possibilità è stata però, se non cancellata, fortemente compressa (addirittura per i giudizi pendenti…!) dalla legge n. 197 del 2016.
2. Per cogliere la portata dirompente della innovazione introdotta dalla recentissima riforma, che non ha precedenti nelle leggi processuali italiane concernenti il giudizio civile di cassazione, conviene ricordare sinteticamente come si è svolto sino ad oggi il procedimento di fronte alla Suprema Corte. E prima ancora sottolineare che anche in un codice di procedura civile costruito (come quello del 1940 in vigore) «dal punto di vista del giudice» (Relazione al re sul c.p.c., n. 19) il perno del giudizio di cassazione ruotava (come già nel cessato codice di rito del 1865) sulla pubblica udienza, aperta alla discussione orale tra le parti costituite e il p.m. e seguita dalla deliberazione, nel segreto della camera di consiglio, della sentenza.
Il rito della camera di consiglio in Cassazione (per un quadro assai analitico v. F. Damiani, Il procedimento camerale in Cassazione, Napoli, 2011), in principio confinato ad ipotesi marginali e comunque scarsamente utilizzato, ha tuttavia negli anni (prima nel 2001, poi nel 2006, infine nel 2009, con la introduzione dell’art. 360-bis c.p.c.) guadagnato nuovi spazi, restringendo l’area occupata dal rito ordinario. In particolare con la Riforma del 2006, mentre sono state dilatate le ipotesi nelle quali si applica il rito camerale, è stato assegnato al giudice relatore il compito di indirizzare la procedura, avviando quella camerale se crede che il ricorso non debba essere deciso in udienza pubblica. Il relatore deposita allora in cancelleria una «relazione con la concisa esposizione dello svolgimento del processo e dei motivi in fatto e diritto in base ai quali ritiene che il ricorso possa essere deciso in camera di consiglio» (art. 380-bis c.p.c.). Il decreto presidenziale che fissa l’adunanza della camera di consiglio con la nomina del relatore, insieme alla relazione scritta da quest’ultimo, sono comunicati al p.m. e notificati agli avvocati delle parti. Il primo può presentare conclusioni scritte, i secondi memorie non oltre cinque giorni prima dell’adunanza. Le parti hanno altresì la possibilità di chiedere di essere sentiti oralmente nei casi contemplati dai nn. 1, 3 e 5 dell’art. 375 c.p.c. La Corte infine delibera nel segreto della camera di consiglio con ordinanza.
Ne sono derivate alcune conseguenze che hanno caratterizzato sino ad oggi la procedura seguita in Cassazione e sulle quali conviene pertanto fermare l’attenzione: (i) anche dopo la Riforma del 2006 il rapporto tra rito ordinario (in pubblica udienza) e rito in camera di consiglio è rimasto un rapporto di regola ed eccezione; (ii) pure nel rito in camera di consiglio gli avvocati hanno ordinariamente la possibilità di esporre oralmente le proprie ragioni; (iii) la procedura camerale fa inoltre perno – cosa rimarchevole ed inedita nelle leggi processuali dell’Italia unita – sulla “relazione” del consigliere relatore, che si traduce nella preventiva ostensione alle parti ed al p.m. di una proposta motivata di definizione del giudizio, aperta alla valutazione critica di tutte le parti, espressa vuoi con le memorie vuoi, di norma, con la discussione orale. Questo meccanismo può stimolare la collaborazione fra parti e collegio giudicante sino alla fine della procedura, vale a dire anche nel momento della decisione: permette difatti alle parti di replicare alla proposta di decisione del consigliere relatore, ponendole al contempo al riparo da sorprese, e consente al collegio di scegliere a ragion veduta se aderire alla relazione del relatore o, dissentendovi, rinviare la causa alla pubblica udienza. In definitiva, questo modello di procedimento camerale è ispirato ad una logica collaborativa (che si indovina pure in un’altra norma inserita dalla Novella del 2006, l’art. 384 comma 3 c.p.c.) fondata sulla provocazione delle parti al contraddittorio (scritto e orale) sul progetto di decisione anticipato nella relazione del giudice relatore, nell’ottica di una piena dialetticità della procedura. Anche se nella prassi le potenzialità sottese a queste regole non sempre sono state sfruttate adeguatamente, è innegabile che – con la buona volontà di tutti gli operatori – la anticipata redazione e comunicazione alle parti della relazione del relatore e il successivo contraddittorio scritto e orale sul punto avrebbero potuto rafforzare la centralità del giudizio e quindi del contraddittorio, inteso quale fulcro della ricerca dialettica anche nel momento della decisione. Si deve alla profonda cultura storica di Nicola Picardi la segnalazione (in Giusto proc. civ., 2008, 321 ss.) della spiccata somiglianza fra questo modello di decisione camerale (incentrato sulla anticipata sottoposizione della proposta di decisione al contraddittorio con le parti) ed il risalente e nobile istituto, proprio della tradizione nazionale, del c.d. “opinamento”. È stato proprio Picardi a descrivere la decisione camerale della Corte come “ordinanza opinata” e a sottolinearne (con il conforto della lezione della storia) le rilevanti implicazioni quanto alla assicurazione della tutela del contraddittorio nella fase decisoria del ricorso per cassazione.
3. La Riforma di questi giorni fa piazza pulita di tutto questo. Nella parte che qui direttamente interessa, il legislatore generalizza la procedura camerale e insieme elimina da quest’ultima il meccanismo della “ordinanza opinata”, impedendo in pari tempo alle parti di essere sentite oralmente e lasciando loro solo il potere di redigere memorie scritte da depositare prima della adunanza in camera di consiglio.
Sul primo profilo rileva l’inserimento del comma 2 dell’art. 375 c.p.c., stando al quale la Corte a sezione semplice pronuncia con ordinanza in camera di consiglio, non più nei casi sinora enumerati nel comma 1 del medesimo articolo [dal comma 1 dell’art. 375 c.p.c. sono stati eliminate le ipotesi di cui ai nn. 2 e 3 (oggi trattate con decreto “preliminare” presidenziale ex art. 377 comma 3 c.p.c.)], ma «in ogni altro caso». Alla nuova regola della decisione “con ordinanza in camera di consiglio” si può adesso derogare – così da consentire lo svolgimento della pubblica udienza – solo in caso di «particolare rilevanza della questione di diritto» controversa o nella (rara) eventualità che il ricorso sia stato rimesso alla sezione semplice dalla apposita sezione ex art. 376 c.p.c. (in esito alla camera di consiglio che non ha definito il giudizio). Fuori da questa ipotesi (la prima oltretutto di incerta decifrazione), la pubblica udienza [con la discussione orale che ne rappresenta il fulcro, nell’ambito della quale è ora opportunamente (la novità avrebbe rallegrato il compianto Franco Cipriani, che si è lungamente battuto per eliminare l’ingiustificato privilegio riservato al p.m. di parlare per ultimo in udienza) stabilito dall’art. 379 comma 2 c.p.c. che il p.m. esponga oralmente le sue conclusioni motivate prima che le parti svolgano le proprie difese] scompare. E con essa scompare, nei casi corrispondenti, il principio fondamentale di pubblicità del procedimento.
Sul secondo profilo è decisiva – oltre che la riscrittura dell'art. 380-bis c.p.c. (il cui comma 3 non prevede più che gli avvocati siano sentiti se compaiono) – la introduzione dell’art. 380-bis c.p.c., nella parte in cui stabilisce che, ove la sezione provveda ai sensi del citato comma 2 art. 375 c.p.c., la Corte giudica senza l’intervento del pubblico ministero (che può nondimeno depositare le sue conclusioni scritte non oltre venti giorni prima dell’adunanza in camera di consiglio) e delle parti (cui resta, come detto, il potere di depositare memorie non oltre dieci giorni prima della adunanza). Non c’è più la relazione del giudice relatore, sulla quale poteva aprirsi il contraddittorio scriptis e verbis delle parti prima della pronunzia della c.d. ordinanza opinata. Non vi è più la possibilità per gli avvocati delle parti, se comparsi, di essere sentiti oralmente. Il fatto è che essi non potranno più comparire in futuro nella adunanza in camera di consiglio.
4. Dinanzi alla scelta del legislatore di negare alle parti, di regola, l’accesso alla udienza pubblica (ed alla discussione orale che vi si svolge) e di fronte alla decisione di generalizzare un procedimento camerale (privo della relazione del relatore e) aperto solo al contraddittorio scritto (e concluso da una adunanza dalla quale sono “espulsi” tanto i contendenti quanto il p.m.), i dubbi si moltiplicano.
Si potrà anzitutto iniziare a discutere l’utilità del Protocollo sottoscritto nel dicembre del 2015. La spontanea adesione degli avvocati alle regole che vi sono contenute (a proposito delle modalità di stesura dei ricorsi e della loro lunghezza) sarà senz’altro ostacolata da una riforma che, anziché ampliare le possibilità di difesa orale in Cassazione, di fatto le restringe entro margini molto ristretti. «Perché mai» – si chiederà un avvocato che si affacci in Cassazione – «debbo sforzarmi a ridurre le pagine del mio ricorso, se poi non avrò più la possibilità di discuterne oralmente gli argomenti?». L’appendice, tuttora prevista, della memoria scritta non pare in grado di compensare la eliminazione della possibilità per l’avvocato di partecipare (per esservi sentito oralmente) alla adunanza in camera di consiglio. Va da sé, inoltre, che la eliminazione di un contatto diretto fra le parti ed il giudice in questa adunanza precluderà anche al resistente non costituito di interloquire sul ricorso (limitando l’esercizio di questa risaputa prerogativa ai rari casi di celebrazione della pubblica udienza).
5. Il divieto per le parti di prendere parte alla adunanza in camera di consiglio (nel contesto di un rito camerale elevato a rito ordinario nel giudizio di legittimità) dimostra che, con la riforma, le ragioni della efficienza non sono state coerenziate ed equilibrate con le ragioni delle garanzie. Le prime sono state semplicemente preferite alle seconde.
Si potrà discutere, in generale, di quale sia la importanza della esposizione orale ad opera dell’avvocato delle ragioni della parte dinanzi al collegio. Si potrà sostenere con Piero Calamandrei (Elogio dei giudici scritto da un avvocato, rist. 1989, 308) che «l’arringa è come un rito che l’avvocato celebra per conto suo: i magistrati si limitano ad assistervi senza prendervi parte, come a una mimica teatrale, spesso ammirabile, ma sempre inutile». Si potrà rimarcare che il nostro codice di procedura civile assegna, in via di massima, poca importanza alla discussione orale. Si potranno rievocare le proprie esperienze personali, riandando con la mente alle tante discussioni orali inutilmente tenute dinanzi a giudici disattenti, ecc.
Ciò che non si può proprio fare, però, è negare che la possibilità di discutere oralmente la causa rappresenti – oltre che un aspetto indispensabile del mestiere di avvocato (che nasce proprio “dall’associarsi dell’oratore col giureconsulto”, come ricordano nella loro monumentale voce enciclopedica del Digesto italiano C. Cavagnari-E. Caldara Avvocati e procuratori, IV, 2, 1893-1899, rist. Bologna, 2012, a cura di G. Alpa, 50) – una essenziale manifestazione del diritto di difesa, percepita come garanzia basilare in ogni tempo, luogo e processo. Ed è questa possibilità che la riforma elimina nel rito camerale (il rito oggi applicato di regola in Cassazione), impedendo così ogni contatto diretto fra l’avvocato ed i giudici. Anche gli osservatori più disincantati sono d’altronde pronti a riconoscere il posto speciale che la discussione orale può avere dinanzi alla Suprema Corte, tenuto conto che la deliberazione della decisione è fatta di seguito alla celebrazione della udienza (o adunanza). Come noto, lo stesso Calamandrei, nella veste di avvocato, si impegnava con la massima energia nella discussione orale della causa in Cassazione (lo ricorda Virgilio Andrioli, in Riv. dir. proc., 1956, 261 ss), passando con naturalezza dalle questioni di diritto alla esposizione dei fatti controversi. Il che non impediva al Maestro fiorentino di esercitare la sua usuale arguzia per chiedersi (come ce lo chiediamo spesso tutti noi) se «è proprio vero che [i giudici] quando si riuniscono in camera di consiglio per esprimere la propria meditata opinione su ogni ricorso, riescono a ritrovare a colpo nel guazzabuglio di discorsi che ronza ancora nella loro povera testa rintronata, l’argomentazione con cui il difensore – uno tra i venti difensori che hanno parlato in quella udienza – si era illuso di essere arrivato a dimostrare trionfalmente la sua tesi» (in Elogio, cit., 104).
6. Illustrare però il contenuto della legge 25 ottobre 2016 n. 197 solo dall’angolo visuale – pure rilevante – della eliminazione della possibilità per le parti di essere sentite oralmente nella adunanza in camera di consiglio, o da quello – certo rimarchevole – della generalizzazione del rito in camera di consiglio, significa fraintenderne il significato e la portata. Perché, come anticipato, la legge n. 197 ha cancellato nel rito camerale anche l’istituto della “ordinanza opinata” (basato sulla preventiva comunicazione alle parti della relazione del relatore per aprire il contraddittorio fra le parti sul suo contenuto). È facile pensare che, con l’istituto, si sia purtroppo voluta mettere da parte anche la logica sulla quale esso poggia: una logica che intendeva valorizzare il carattere dialettico della procedura e la centralità del contraddittorio anche nel momento della decisione. Se l’istituto fosse stato preso sul serio, avrebbe potuto recare buoni frutti, consentendo agli avvocati di replicare per iscritto alle motivazioni esposte nella relazione per convincere il collegio a discostarsene. Ne sarebbe stata accresciuta anche la utilità della discussione orale in camera di consiglio, in presenza di un collegio informato della materia controversa dalla lettura della proposta di decisione contenuta nella relazione. L’avvocato avrebbe potuto avere ascoltatori a conoscenza della causa, in grado perciò di valutare gli argomenti esposti oralmente.
La repentina decisione di eliminare questo meccanismo della “ordinanza opinata” si salda, in definitiva, alla scelta operata con la legge n. 197 di impedire la partecipazione alla adunanza in camera di consiglio delle parti. Da questi dati si ricava l’impressione che il legislatore coltivi l’idea che nel processo di cassazione, dopo tutto, il giudice possa fare da sé (l’idea, insomma, di un giudice advocatus partium generalis, secondo la concezione di Leibniz) e che il pieno dispiegarsi del contraddittorio con le parti costituisca, non solo un intralcio sulla via della accelerazione dei giudizi (di cui vi è notoriamente bisogno, di fronte ad un contenzioso crescente che compromette la definizione dei giudizi di legittimità in tempi ragionevoli), ma uno strumento inutile per disimpegnare la funzione nomofilattica.
Anche su questo punto però vi sarebbe bisogno di informazioni più precise per appurare se il sacrificio imposto alle garanzie difensive delle parti potrà davvero tradursi in un beneficio per l’efficienza del giudizio civile di cassazione. Si tratta di verifica che anzi, a rigore di logica, avrebbe dovuto precedere la riforma ed essere condotta con strumenti di natura necessariamente empirica, giacché la ricostruzione retorica della realtà non può prevalere sulla evidenza dei fatti, anche i più banali. Ciò però non è avvenuto. E con questo veniamo alla questione del metodo usato per riformare il processo di Cassazione.
7. L’improvvisa introduzione delle nuove regole (avvenuta in occasione della conversione del d.l. n. 168 del 2016) ha impedito un dibattito sereno che avrebbe potuto condurre a soluzioni più equilibrate. Meglio sarebbe stato seguire la strada della procedura legislativa ordinaria, che avrebbe potuto rappresentare un luogo di incrocio e di dialogo di esperienze diverse, in grado di alimentarsi con il contributo degli specialisti, per trascrivere e registrare in regole coerenti le aspirazioni di fondo di tutte le professioni coinvolte e assicurare così i diritti di tutti e ciascuno. I tempi lunghi di questo percorso avrebbero potuto favorire la moderazione e propiziato il temperamento della tensione che si sviluppa tra i due poli che contraddistinguono, anche sul piano del processo civile, l’epoca attuale: il polo della efficienza, orientato in senso oggettivo ed ordinamentale, e quello delle garanzie, imperniato su “diritti soggettivi alla giustizia” di epocale dignità. Un procedimento legislativo polifonico avrebbe forse reso meno ardua l’opera di bilanciamento tra i valori – pur veementemente antagonistici – che costellano la trama del processo, per elaborare regole capaci di esprimere (anziché una voluntas unilaterale) una ratio condivisa.
La scelta di inserire queste rilevanti novità in sede di conversione di un decreto-legge ha cancellato questa possibilità. Dobbiamo confrontarci con un prodotto normativo “istantaneo” che irrigidisce oltremodo il rapporto fra ius constitutionis e ius litigatoris in Cassazione, anteponendo alla garanzia delle posizioni individuali (e all’anelito delle parti alla giusta decisione del caso concreto) il perseguimento del pubblico interesse alla uniforme interpretazione del diritto nazionale. Non ci si discosta, da questo punto di vista, da una tendenza ben nota. Proprio il processo di cassazione è divenuto negli ultimi anni il luogo privilegiato per la costruzione di progetti che in altra occasione abbiamo denominato “utilitaristici”, per il peso determinante che vi occupano le esigenze oggettive di efficiente funzionamento del «servizio-giustizia» a scapito, non di rado, delle garanzie soggettive. Sullo sfondo vi è la inclinazione diffusa ad ipostatizzare la funzione nomofilattica assolta dalla Cassazione, nella quale si indovina l’unica risposta ai problemi tremendamente seri che ne rallentano il lavoro. La mentalità soggiacente a questa tendenza ha preso la perentorietà di una vera e propria ideologia. Che siano proprio questi i caratteri di fondo, più autenticamente distintivi, della linea di pensiero con la quale si vuole riformare il giudizio di cassazione pare confermato dal decreto n. 136 del 2016 del Primo Presidente della Suprema Corte del 14 settembre 2016, nella parte nella quale distingue le tecniche di redazione della motivazione dei provvedimenti civili a seconda che le questioni che la Cassazione è chiamata a risolvere attengano allo ius constitutionis o siano invece prive di valenza nomofilattica, introducendo in quest’ultimo caso «tecniche più snelle di redazione motivazionale». In particolare, il decreto n. 136 del 2016 stabilisce che «per i provvedimenti particolarmente semplici devono essere adottate tecniche di redazione della motivazione che utilizzino, con il decisivo apporto del CED, appositi moduli per specifiche questioni». Tali «moduli decisionali» possono peraltro essere impiegati – aggiunge il decreto –, «quali parti di motivazione, nella redazione di sentenze più complesse o di valenza nomofilattica».
Per effetto di questi interventi d’ora innanzi il giudizio civile in Cassazione si concluderà, di regola, con la pronunzia di una ordinanza che potrà essere scritta impiegando moduli decisionali preformati ed in esito ad un nuovo procedimento in camera di consiglio che esclude la partecipazione delle parti dalla adunanza e lascia loro solo la possibilità di depositare memorie scritte, senza che gli sia più consentito però – considerata la abrogazione della relazione del giudice relatore – di conoscere in anticipo il progetto di decisione (la cui preventiva comunicazione avrebbe permesso agli avvocati fino ad oggi, in caso di dissenso, di esercitare il diritto di critica sia nello scritto che oralmente nella adunanza in camera di consiglio).
Non c’è da rallegrarsene, almeno per quanti insistano a pensare che la Corte di cassazione, quale “organo supremo della giustizia” (art. 65 ord. giud.), deve preoccuparsi non soltanto della nomofilachia, ma pure (come ha incisivamente scritto Carmine Punzi, in Riv. dir. proc., 2016, 588) «di rispondere alla domanda di giustizia dei cittadini», assicurando loro, anche nel giudizio di legittimità, quel “giusto processo” che viene garantito in ogni fase e grado dall’art. 111 Cost.