Editoriali

Società e concorrenza 06.02.2023

Le unioni monetarie in una prospettiva di storia e teoria economica

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1. Nelle scorse settimane, alcuni organi di stampa internazionali hanno dato notizia dell’intenzione dei governi di Brasile e Argentina di dar vita ad una moneta comune. Sebbene il progetto appaia allo stadio delle mere enunciazioni di intenti, ci sembra tuttavia una ottima occasione per ridiscutere in generale il “senso” delle integrazioni monetarie, anche alla luce della controversa esperienza europea.

La questione è complessa, e quindi conviene partire dalle basi. Secondo un’opinione largamente maggioritaria nella letteratura, la storia del capitalismo mostrerebbe una inequivocabile tendenza alla progressiva integrazione delle economie nazionali nel commercio internazionale. Una tendenza non “lineare”, connotata da una sistematica alternanza di “ondate” e “risacche”, e tuttavia un trend inesorabile, a dispetto delle oscillazioni del pendolo. La forza che spingerebbe il mondo verso una sempre più profonda integrazione commerciale sarebbe la possibilità di abbassare significativamente i costi della produzione sfruttando le cosiddette economie di specializzazione. Infatti, come argomentò due secoli fa David Ricardo, se ogni paese si specializza nella produzione dei beni in cui gode di un vantaggio comparato in termini di costi, e se ognuno di essi scambia la propria produzione con quella degli altri paesi aderenti all’assetto di divisione internazionale del lavoro risultante, tutti i paesi partecipanti al commercio internazionale godranno di significativi aumenti del Pil a parità di risorse impiegate nella produzione.

Esistono significative differenze tra i diversi filoni di letteratura circa l’identificazione dei gruppi sociali che beneficeranno dei vantaggi della specializzazione produttiva: secondo alcuni, la compressione dei costi di produzione gonfierà i profitti delle imprese e andrà a vantaggio pressoché esclusivo della classe proprietaria. Secondo altri, invece, l’aumento della ricchezza della classe proprietaria “sgocciolerà” a cascata sull’intera collettività (teoria del trickle down). Un terzo, e tutto sommato più realistico punto di vista, è che la distribuzione dei vantaggi del commercio internazionale non segua un destino ineluttabile, ma sia il risultato dei rapporti di forza tra i diversi gruppi che partecipano a vario titolo al funzionamento del sistema produttivo, rapporti di forza che ovviamente possono variare anche in maniera significativa nel tempo e nello spazio.

Per il momento, conviene lasciare da parte la questione della distribuzione dei vantaggi del commercio internazionale e concentrare invece l’attenzione sulle condizioni necessarie a sostenere questo processo di inclusione di un numero sempre più ampio di paesi nella divisione internazionale del lavoro. Il primo problema è che - ai fini della regolazione delle transazioni commerciali tra attori appartenenti a giurisdizioni politiche diverse - non basta che la moneta offerta in contropartita dagli acquirenti sia generalmente accettata nei rapporti di compravendita nel rispettivo paese di residenza, perché essa potrebbe essere soggetta ad oscillazioni di valore significative in rapporto alla moneta in corso nel paese del venditore. Immaginiamo ad esempio che il venditore accetti in pagamento moneta in corso nel paese dell’acquirente, e che un attimo dopo il governo del paese dell’acquirente decida di svalutarla: evidentemente, una parte della ricchezza acquisita dal venditore con la transazione commerciale si volatilizzerebbe.

L’incertezza che discende dall’instabilità dei rapporti di cambio tra le monete nazionali costituisce quindi un grave ostacolo all’approfondimento dell’integrazione commerciale. Pertanto, il commercio potrà estendersi fuori dal perimetro di giurisdizioni monetarie omogenee solo a condizione che i debiti e i crediti originantesi dalle transazioni tra gli agenti vengano regolati in una moneta dal valore fortemente stabile in termini di merci - una ottima riserva di valore, come si dice in gergo. Questo spiega perché, per un lungo periodo della storia del capitalismo, le operazioni di compravendita transfrontaliere sono state regolate in oro: una merce dall’offerta particolarmente rigida, quindi generalmente poco incline a svalutarsi in rapporto alle altre merci, e pertanto ideonea a “congelare” il valore della ricchezza accumulata grazie alle vendite di merci.

Tuttavia, quella scarsità che appariva la più importante qualità della moneta aurea si rivelò anche il suo più grande difetto: la produzione di oro non era infatti sufficiente a sostenere la crescita degli scambi, e l’economia globale era periodicamente interessata da violenti fenomeni deflazionistici. A giudizio di Keynes e Polanyi - due testimoni particolarmente autorevoli delle drammatiche vicende che segnarono la prima metà del XX secolo - i vincoli derivanti dall’aggancio all’oro delle monete dei Paesi a maggior grado di sviluppo ebbero un ruolo decisivo nell’innesco della devastante crisi degli anni trenta del secolo scorso.

Pertanto, dopo il secondo conflitto mondiale, nell’area del globo che abbracciò il modello dell’economia di mercato, maturò l’idea di sganciare la dinamica della massa monetaria dall’estrazione di oro dalle miniere e di optare per un modello “politico” di governo della moneta internazionale.  Con la conferenza di Bretton Woods (1944), il ruolo di moneta internazionale fu infatti affidato al dollaro e, di conseguenza, i poteri monetari  “globali” al governo degli Stati Uniti. Ovviamente a questa scelta non fu affatto estraneo il fatto che la guerra avesse appena sancito la netta supremazia militare americana. Gli Stati Uniti si presentavano infatti agli occhi del mondo occidentale come l’unica forza dotata della capacità di coercizione necessaria a garantire il rispetto delle regole del commercio internazionale e la risoluzione delle eventuali controversie.

2. Affidare ad un solo paese le decisioni concernenti la dimensione della massa monetaria a livello globale è però un’opzione rischiosa per tutti gli altri paesi aderenti al sistema. Infatti, come il “sovrano” di uno stato nazionale può abusare del privilegio monetario, emettendo una massa di liquidità eccessiva e svalutando implicitamente il valore reale dei debiti contratti con i propri sudditi, analogamente lo stato titolare della sovranità monetaria internazionale può alterare la distribuzione della ricchezza tra sé e gli altri paesi aderenti al sistema con l’inflazione.

Le remore dei paesi partners furono superate con l’assunzione da parte degli Stati Uniti dell’impegno formale a convertire a richiesta il dollaro in oro ad un rapporto di scambio predeterminato e stabile. Tuttavia, come i sovrani nazionali avevano spesso rinnegato nella sostanza il legame con l’oro a cui formalmente dichiaravano fedeltà, analogamente gli Stati Uniti cominciarono presto ad usare il dollaro in maniera “opportunistica”, finalizzando la politica monetaria al conseguimento dei propri obiettivi nazionali e violando sistematicamente il rapporto tra quantità di dollari in circolazione e quantità di oro nei propri forzieri concordato con gli altri paesi aderenti al sistema. Che si trattasse del contrasto ad una congiuntura economica negativa, o dell’impegno bellico in un’area del mondo cruciale per gli interessi strategici americani, al governo degli Stati Uniti bastava azionare le rotative della propria banca centrale per procurarsi i finanziamenti necessari. L’effetto era tuttavia quello di esportare l’inflazione in giro per il mondo. In sostanza, tutti i paesi legati al sistema di Bretton Woods finivano per pagare in termini di fluttuazioni macroeconomiche i “capricci” degli Stati Uniti.

Questo modello di governo della moneta internazionale alimentò una profonda insofferenza degli alleati europei nei confronti degli Stati Uniti. L’allora presidente francese De Gaulle, in un noto discorso tenuto nel 1965, si chiedeva provocatoriamente «…perché i paesi più ricchi del mondo dovrebbero poter monopolizzare i benefici della creazione di riserve internazionali per finanziare i propri disavanzi», e minacciò più volte la conversione in oro delle riserve in dollari accumulate dalla Banca di Francia. Il suo ministro delle finanze Giscard d’Estaing definì il potere monetario assegnato agli Stati Uniti dal sistema di Bretton Woods un «esorbitante privilegio». Il malcontento non era limitato alla Francia, sebbene i toni della polemica nelle altre capitali europee fossero decisamente più sfumati di quelli provenienti da Parigi. Fu quel malcontento ad alimentare il progetto di un’area monetaria europea autonoma dal dollaro che prese forma nel cosiddetto Piano Werner. L’obiettivo di fondo di quel progetto, redatto nel 1970 da un prestigioso team di studiosi su incarico della Commissione Europea, era cioè “isolare” l’Europa dall’instabilità macroeconomica indotta dalla politica monetaria americana, e “cucirsi addosso” un modello di governo della moneta più adatto alle esigenze dell’economia del Vecchio Continente.

Come è noto, i paesi europei tergiversarono, e finirono per arrivare a quell’appuntamento una ventina di anni dopo. Nel frattempo, molte cose cambiarono. Nel 1971, il presidente Nixon denunciò gli accordi di Bretton Woods e disancorò il dollaro dalla parità aurea. Con quel gesto, che rimuoveva qualunque vincolo alla politica monetaria americana, gli Stati Uniti rivendicavano esplicitamente il diritto di governare la moneta internazionale in conformità ai propri obiettivi (strategici o macroeconomici) nazionali. I paesi che intrattenevano legami commerciali e/o finanziari intensi con gli Stati Uniti vennero dunque a trovarsi di fronte all’imbarazzante dilemma di se mantenere la propria valuta agganciata al dollaro o lasciare fluttuare liberamente il relativo tasso di cambio.

Nessuna delle due opzioni appariva particolarmente entusiasmante: ancorandosi al dollaro, il paese partner attribuiva implicitamente al governo americano il potere di scaricargli addosso le perturbazioni macroeconomiche interne; lasciando invece fluttuare il cambio, il paese partner dava implicitamente agli Usa il potere di alterare il valore reale dei rapporti bilaterali di credito/debito semplicemente semplicemente modificando l’intonazione della politica monetaria. Intrattenere rapporti commerciali con gli Stati Uniti con un mix di tariffe libero-scambiste e dollaro come moneta internazionale era quindi come stare tra l’incudine e il martello.

L’Europa pagò il disordine monetario degli anni ’70 ad un prezzo talmente caro da convincere popoli invischiati in una storia secolare di conflitti a compiere il delicato passo di cedere un pezzo importante (la moneta) della propria sovranità ad un’istituzione sovranazionale. Ma prezzi ancora più cari pagarono l’Africa, l’America Latina e il Sud-Est Asiatico, che nei decenni successivi furono attraversati da violenti fenomeni recessivi e inflattivi o da episodi di vera e propria “tosatura finanziaria” in corrispondenza dei mutamenti della politica monetaria statunitense. La brusca restrizione monetaria praticata dalla Federal Reserve Bank all’inizio degli anni ’80 - il cosiddetto “Volcker shock” - portò il debito di Argentina, Messico, Bolivia, Cile, Uruguay e Costa Rica a livelli tali da rendere necessari aggiustamenti strutturali di violenza inusitata. Esiti analoghi ebbe la restrizione della metà degli anni ‘90, che ebbe effetti devastanti sulle economie di Messico, Brasile, Filippine e Thailandia e che portò al default l’Argentina nel 2001. Niente di strano, quindi, che anche in America Latina sia andato pian piano crescendo il desiderio di costruire una “diga” per difendersi dalle perturbazioni economiche e politiche indotte dall’uso spregiudicato della sovranità monetaria internazionale da parte della potenza americana.

3. È bene tuttavia sottolineare che le unioni monetarie tra paesi dotati di autonoma sovranità politica non sono affatto soluzioni “indolori” ai problemi di governance macroeconomica. Da un lato, è senz’altro vero che nelle questioni di politica monetaria «le dimensioni contano»: banche centrali in grado di esercitare influenza su economie reali e mercati finanziari di dimensioni “continentali” sarebbero, in teoria, in grado di contrastare le perturbazioni provenienti dagli Stati Uniti con efficacia diversa da quanto potrebbe fare una banca centrale di uno stato nazionale come la Francia, la Germania, il Brasile o l’Argentina. Dall’altro, l’aumento della capacità di contrasto alle perturbazioni “esterne” richiede una forte coesione “interna” alla federazione monetaria, coesione che l’adozione di una moneta comune rischia invece di indebolire.

Un ampio filone di letteratura teorica risalente agli anni ’60 e ’70 - la cosiddetta “teoria delle aree valutarie ottimali” - ha infatti evidenziato che le unioni monetarie funzionano bene quando i paesi membri sono molto simili in termini di specializzazione produttiva, dinamica della produttività, regolamentazione del mercato del lavoro e livello di conflittualità nei luoghi di produzione. Al contrario, in presenza di sostanziali asimmetrie iniziali, è facile che tra i paesi membri di una federazione monetaria si determinino divaricazioni profonde relativamente a crescita economica e occupazione. E purtroppo è assai difficile che un continente - caratterizzato inevitabilmente da differenze climatiche e morfologiche, da differenti dotazioni di materie prime e da diverse “storie” sociali ed economiche - possa vantare un’omogeneità strutturale ed istituzionale sufficiente ad evitare la sistematica divergenza dei sentieri di sviluppo delle diverse economie nazionali. L’ipotesi di divaricazione dei sentieri di sviluppo, tra l’altro, è tanto più plausibile quando - come nel caso dell’Europa progettata a Maastricht - il design delle politiche macroeconomiche non tenga in nessun conto la possibilità di disfunzioni ed ometta pertanto di predisporre adeguati meccanismi di aggiustamento.

La storia europea degli ultimi venti anni ha fornito un robusto supporto allo scetticismo che aveva contraddistinto il dibattito teorico sugli effetti delle integrazioni monetarie negli anni ’60 e ‘70. Le differenze strutturali e istituzionali tra i paesi membri hanno determinato squilibri dei saldi commerciali che non sono stati in nessun modo corretti dai mercati finanziari, contrariamente a quanto previsto dai modelli teorici che avevano ispirato il design della moneta comune. Al contrario, la massa di debito creata come contropartita ai disavanzi commerciali dei paesi più “deboli” è stata in gran parte canalizzata verso impieghi speculativi, contribuendo alla formazione di “bolle” che hanno reso la struttura finanziaria ulteriormente più vulnerabile agli shock esterni. Quando negli Stati Uniti è scoppiata la crisi dei subprime, un gran numero di banche continentali hanno dovuto constatare l’insostenibilità dei propri impegni finanziari in rapporto alla redditività effettiva degli impieghi, ed hanno provato a “riaggiustare” il rapporto tra attività e passività tagliando il volume degli impieghi. Al sistema produttivo - e in particolare alle unità localizzate nelle aree “periferiche” - è quindi venuto a mancare il necessario supporto finanziario, con l’effetto di innescare una sequenza di fallimenti a catena.

L’impatto sull’economia dei paesi a struttura produttiva più fragile è stato devastante. Nel quinquennio tra il 2008 e il 2013, il tasso di disoccupazione è raddoppiato  in Spagna, Portogallo e Italia, mentre è triplicato in Grecia. In aggiunta, la scelta delle istituzioni europee di affrontare la crisi con un inasprimento dei vincoli alle politiche pubbliche (austerity), impedendo ai governi nazionali di intervenire per alleviare la sofferenza dei gruppi sociali più colpiti dalla crisi, ha determinato un secco peggioramento degli indicatori di incidenza della povertà. La divaricazione tra i sentieri di sviluppo di paesi “centrali” e “periferici” dell’Eurozona ha esacerbato i conflitti nazionalistici, e le classi dirigenti dei paesi periferici sono state investite da una crisi di legittimazione senza precedenti.

Il progetto europeo diventò talmente impopolare da costringere gli attori collocati nei ruoli-chiave delle istituzioni comunitarie a rimodulare frettolosamente alcuni caratteri di fondo del design della regolazione macroeconomica. In particolare, due novità hanno segnato il quadro istituzionale dell’ultimo decennio: da un lato, la decisione dell’autorità monetaria di adottare modalità di intervento (Quantitative Easing) fino a quel momento ritenute in contrasto con la lettera del Trattato, pur di arrestare la sequela di bancarotte ed evitare la desertificazione produttiva in ampie aree dell’Eurozona; dall’altro, il faticoso approdo dei governi nazionali alla definizione un ambizioso programma di riconversione della struttura produttiva nelle aree economicamente più deboli dell’Unione (Next Generation EU) finanziato dal bilancio comunitario e da debito garantito mutualmente dai paesi membri.

È ovviamente ancora troppo presto per prefigurare gli esiti di queste “svolte”. Ma ciò che la nostra storia recente insegna senza possibilità di equivoco, indipendentemente dai futuri sviluppi, è che l’integrazione monetaria tra paesi dotati di autonoma sovranità politica è un processo problematico. Se, per un verso, una moneta sostenuta da sistemi produttivi e mercati di dimensione “continentale” rende l’area che la adotta decisamente più resistente alle perturbazioni provenienti dall’esterno, per un altro verso un’integrazione monetaria mette i diversi attori coinvolti di fronte al nodo della ripartizione dei relativi costi e benefici. Quando fra costoro non esiste una visione condivisa sul punto, è assai probabile che le fasi recessive scatenino intensi conflitti interni all’area valutaria comune e favoriscano una generalizzata disaffezione dal progetto.

È quindi importante che le diverse parti coinvolte affrontino l’atto costitutivo della federazione monetaria con la consapevolezza che non si tratta di una mera questione “tecnica”, ma di una questione eminentemente “politica”. L’assetto della regolazione monetaria definisce infatti, più o meno esplicitamente, a chi toccano i guadagni delle fasi di espansione e a chi spetta pagare i costi delle crisi. Ogni set di regole monetarie attribuisce ad alcuni agenti il privilegio di poter traslare sugli altri i costi degli shock economici (e di tenere quindi il proprio benessere materiale al riparo dalle sorprese della storia), e ad altri invece il rischio di rimanere con il cerino acceso tra le mani e di vedersi sottrarre “fette” della torta che si è contribuito a produrre. Pertanto, nel lungo periodo, difficile che comunità divise da un sostanziale dissenso sulle regole distributive implicite nell’assetto monetario sopravvivano alle tensioni che le asprezze della storia irradiano sul proprio tessuto connettivo.

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