1. – Ho appena terminato di rileggere il recente libro di Massimo Palazzo “Il contratto nella pluralità degli ordinamenti”. Il titolo espone un tema impegnativo, su cui vale la pena riflettere. Vi è dichiarata una tesi, che si articola su una base celebre e inesaustamente discussa: che all’interno, e intorno, all’ordinamento giuridico dello Stato, oltre, e anche a prescindere, da questa cornice di ufficialità proclamata nella legislazione, siano rinvenibili altri ordinamenti, egualmente caratterizzati dagli elementi costitutivi di fondo, ma non ufficiali benché non per questo meno reali del primo.
Sull’Ordinamento giuridico di Santi Romano, in cui nel 1918 si annunciò la tesi, prosegue la discussione, non libera a volte da polemiche. Su questa base instabile e stimolante è costruito il libro intero. Io credo, felicemente: perché si tratta di una base ricca di promesse. A tacer d’altro, essa consente infatti di liberare davanti al nostro sguardo la forza concettuale del contratto, a partire dall’idea di autonomia negoziale, ben oltre gli spazi addomesticati in cui la si volle ricondurre nel progetto culturale della modernità, positivizzato tra l’altro nelle preleggi al nostro codice civile.
Nel codice il contratto si annuncia come una regola privata, una legge fra le parti, per riprendere l’espressione solenne dell’art. 1372, rivolta all’ordinamento dello Stato. Il codice recepisce una precisa concezione del contratto. Ci presenta l’immagine di un testo dispositivo non autosufficiente, che richiede di essere riconosciuto nel contesto dell’ordinamento statuale, nel quale soltanto potrebbe acquistare pienezza di senso ed effettività; e che può essere lì riconosciuto soltanto a condizione di soddisfare le prescrizioni, di non superare i limiti che quell’ordinamento, imponendosi, pone al libero esplicarsi della negozialità (art. 1322 c.c.). Ma è possibile pensare al contratto differentemente. Esso è certamente, e nella maggior parte dei casi, proprio questo: una regola privata che vorrebbe affermarsi nella comunità retta dal diritto positivo; ma non è esattamente questo sempre, e in ogni caso. In evenienze estreme, il contratto si presenta, all’opposto, come regola che si erge sul rifiuto della considerazione di quell’ordinamento, perché articolato sopra un intento giuridico - chiarito a suo tempo dalle indagini di Gorla sul Contratto (1955) - in questo preciso senso ‘negativo’: che nega e respinge quell’ambizione, perché la regola privata è pensata proprio per vivere a lato, ma comunque fuori, da quell’ordinamento giuridico ufficiale e dall’apparato istituzionale stabilito per il suo governo (a partire dalla magistratura).
La vicenda dei patti d’onore dimostra in maniera chiara la limitatezza della prospettiva ricorrente, che vede nel contratto quell’immancabile ambizione di essere approvato come regola valida per operare in un preciso contesto. Non per questo quella regola opera nel vuoto; opera, infatti, in un altrove, che a volte fatichiamo a descrivere e circoscrivere, poiché è un altrove fattuale, o comunque non arginato e definito da regole legislative cosicché, potrebbe sembrare, quasi lasciato a se stesso in un limbo di irrilevanza giuridica. L’uso invalso, geloso di questa distinzione, nega perfino il termine contratto, e ricorre a quello, meno impegnativo, più generico e meno pregnante, di patto. Eppure, si tratta di contratti anche secondo la definizione accolta nell’art. 1321 cc, pienamente soddisfatta in casi del genere. Senza trascurare che il fenomeno appare in forte espansione, come dimostra la vicenda dei contratti politici in Germania e in Italia (vi ho dedicato un libretto: La politica e il contratto, 2018).
Da queste note iniziali, potremmo introdurre la convinzione di fondo: sulla utilità di tornare sulla riflessione, e dunque sulla sicura giustificazione del lavoro che sto commentando.
2. – Per delineare ulteriormente la tesi su cui si svolge il libro, può essere utile una breve panoramica degli argomenti trattati, tutti strettamente avvinti dall’idea di fondo ora annunciata.
Alla recuperata consapevolezza della complessità nel processo di formazione del diritto sono dedicate le pagine inziali, in cui l’autore si preoccupa di insistere sul carattere essenziale dell’esperienza giuridica, trasparente già nel termine ‘esperienza’: il carattere della storicità. Palazzo segue il suo maestro. Sulla scia del pensiero di Grossi, pensa che sia importante ribadire come il diritto si affermi nella vicenda storica, in un movimento incontrollabile delle mentalità: di innovazione in attrito alla tradizione che, dal canto suo, non solo resiste ma contribuisce al senso profondo dell’innovazione stessa, perché concorre a definire i tratti essenziali di un panorama che osserviamo svolgersi nel tempo.
L’autore è colpito dagli esiti attuali del fenomeno, e dunque dalla globalizzazione dell’esperienza sociale, economica e perciò giuridica, con tutto quello che in quest’ultimo ambito il colossale fenomeno determina, a partire dalla frantumazione delle fonti del diritto e del diritto privato in particolare. Con la problematica acquisizione (come conseguenza), tra le fonti di quest’ultimo, proprio del contratto quale legge privata emancipata dall’ancoraggio presso uno specifico diritto territoriale e pensata per operare ed affermarsi nelle diverse regioni del mondo.
Su queste premesse, il libro può introdurci all’idea di ordinamento, e l’autore si sforza di farlo storicizzando quell’idea, verificandone le concezioni ricevute e a tal fine ponendo a stretto confronto l’istituto con il referente. E dunque l’ordinamento (l’idea che ne abbiamo), con il suo oggetto (la realtà da ordinare). Quest’ultimo si mostra sotto angolature ben più frastagliate di quelle presupposte dall’idea tradizionale dell’ordinamento giuridico dello Stato, e pone in luce l’inadeguatezza delle vecchie concezioni.
Si annuncia così la distinzione tra il diritto privato e il diritto dei privati. Di nuovo il richiamo a una fase importante della riflessione novecentesca. Il diritto privato, quale sistema ufficiale di valutazione dell’esercizio della libertà contrattuale ai fini del giudizio di ammissibilità e riconoscimento della regola privata nell’ambito dell’ordinamento statuale, che inglobandola ne assicura la protezione (secondo la prospettazione di Betti nel Negozio giuridico, a partire dal 1952). Il diritto dei privati, invece, quale ordinamento autonomo ed autoconsistente rispetto all’ordinamento statuale, determinato da regole proprie destinate a valere al suo interno a prescindere dal riconoscimento e dalla tutela conseguentemente assicurabili dall’ordinamento ufficiale (secondo il pensiero, per es., di Salvatore Romano, Autonomia privata, 1957).
Ai nostri giorni, suggerisce l’autore, il dato più appariscente è determinato dalla evidenza della coesistenza dei diversi ordinamenti, di diritto privato e di diritto dei privati, coesistenza destinata a suscitare le più diverse forme di influenza o indifferenza.
Il libro prosegue sviluppando ulteriormente le tematiche insite in queste traiettorie di fondo. Indaga, pertanto, l’autonomia contrattuale nel nuovo contesto dato dalla Costituzione e dal diritto europeo, che stabiliscono condizionamenti positivi anche prevalenti rispetto alla legge civile suggerendo, a volte, un problematico confronto tra regola privata e regola costituzionale o sovranazionale, un confronto addirittura libero dall’intermediazione della legge ordinaria (cosicché la nostra Corte costituzionale sembra pensare alla Costituzione come disciplina anche del contratto, e sembra proporsi, in qualche modo, giudice non solo della legge ordinaria, ma anche del contratto).
Il libro indaga, inoltre, il contratto come fenomeno della prassi. Palazzo ricorda gli esiti della vecchia lex mercatoria e ricapitola i successi di quella contemporanea. Indugia sulla realtà del contratto non più semplicemente atipico, ossia liberato dagli schemi della tradizione (di una specifica tradizione), ma, per ricordare il pensiero di un illustre civilista, straniero, perché estraneo a qualsiasi pregresso sistema culturale che pretendesse di inglobarne in buona misura i presupposti (cfr. De Nova, Il contratto alieno, 2010).
Il discorso non si sottrae dall’esaminare il contratto, nella formazione e nel testo, alla luce delle nuove tecnologie (e con ciò si ricollega a un filone recente, incuriosito dagli smart contract).
Questa complessità giuridica non potrebbe essere governata dal semplice confronto con un dato positivo prestabilito, secondo un procedimento grosso modo sussuntivo della regola privata nel territorio dell’ufficialità giuridica. Una simile operazione funzionerebbe come un letto di Procuste, e si mortificherebbe nel tentativo di adeguare la realtà ad uno schema troppo ristretto e semplificato: inetto a comprenderla. Poiché il diritto positivo costituisce, ma non esaurisce, il fenomeno della giuridicità, quello schema insufficiente finirebbe per recepire solo in parte quella realtà, per il resto mutilandola e tradendola.
Occorrerebbe, invece, convincersi a tentare un cambio di paradigma, e dunque ad elaborare una nuova teoria, adatta al fatto che ambisce di governare. Questo potrebbe avvenire anche prendendo sul serio il diritto dei privati come ordinamento autonomo, ma non irrelato, dal diritto privato.
3. – Un fattore di grande importanza nel tentativo di porre ordine nella complessità (tale da giustificare una trattazione in questo paragrafo dedicato) è rinvenuto, a mio modo di vedere condivisibilmente, nell’attività notarile.
Il notaio è soprattutto il pubblico ufficiale del contratto; per usare un’espressione cara al nostro autore, il magistrato del contratto. Nella articolata funzione del notaio si realizza il punto di incontro tra regola privata e ordinamento giuridico dello Stato. L’atto notarile è redatto nel quotidiano tentativo di coniugare gli interessi e gli scopi dei privati, il sostrato del diritto dei privati da un lato, con i limiti inderogabili posti dal diritto privato dall’altro. Tutto ciò per assicurare tutela e rispetto della regola privata al difuori e oltre l’ordinamento dei privati, e dunque nell’ordinamento statuale. Quest’ultimo dovrebbe favorire quegli scopi, senza lesinare gli spazi della ricezione, a meno che la regola contrattuale violasse un limite significativo che il diritto oggettivo pone alle manovre economiche. Se l’opera è sapiente, l’atto notarile segna un nuovo punto di equilibrio fra quelle esigenze e quegli scopi concreti da un lato, e la realtà, storicamente mobile, di quei limiti ordinamentali dall’altro: attribuendo robustamente al contratto il ruolo di fonte del diritto non solo nell’ordinamento autonomo, ma anche nell’ordinamento ufficiale.
A dimostrazione della tesi, e a testimonianza della prassi, nel libro si affrontano in modo specifico le vicende esemplari del contratto fiduciario e delle clausole anti-stallo: due importanti esempi, tra gli altri, di come sia possibile raggiungere un delicato equilibrio tra diritto positivo e diritto dei privati in funzione dell’evoluzione complessiva dell’esperienza giuridica.
Benché non sia ancora diffusamente avvertita, sembra essere, questa, una importante frontiera su cui è destinata a svilupparsi l’attrito produttivo tra tradizione e innovazione.
La scena è stata finora dominata dalle decisioni della giurisprudenza, chiamata a prendere posizione sull’ammissibilità di figure contrattuali proposte dalla prassi con notevole insistenza, ma lontane se non antitetiche a certi modelli tramandati dalla tradizione (basti pensare al contratto autonomo di garanzia e alle clausole clame made nei contratti assicurativi). Ma accanto al giudice lavorano il notaio e l’avvocato, stimolati dalle esigenze sempre nuove e problematiche presentate dal mercato in continua espansione.
4. – Una critica alla posizione di Palazzo potrebbe provenire dall’impressione che questo modo di pensare il diritto privato e dei privati sconti un pregiudizio antimoderno o, non molto diversamente, post-moderno (poiché la modernità volle affermarsi come cesura storica, la sua critica richiama sempre un senso di continuità con il passato). Indubbiamente, nel libro sono relativizzati lo spazio e l’ossequio usualmente riconosciuti al diritto positivo, né mancano spunti critici contro visioni marcatamente positiviste del diritto privato. Da quelle prospettive sarebbe, dunque, ragionevole attendersi in reazione una difesa accorata della legislazione, tuttora comprensibilmente concepita come conquista di civiltà.
Per affrontare, sia pure in estrema sintesi, la questione, sembra necessario stabilirne i tratti essenziali. La modernità giuridica coincide con l’avvento del diritto legislativo, e, dunque, con la monopolizzazione statuale del diritto a partire grosso modo dalle codificazioni napoleoniche. Nei codici si volle fermare, ponendola in chiaro, la legge: di tutti e per tutti. Si cercò di mettere in pratica l’idea del diritto come prodotto della Ragione universale legislatrice (secondo le parole di Kant). Quella ragione emancipatrice si affermava nel codice, un vero e proprio strumento operativo: un mezzo ma di tale eccellenza da essere idoneo a realizzare pienamente, e secondo gli ideali dell’Illuminismo, l’uguaglianza di tutti di fronte al vincolo della regola comunitaria. E, dunque, la condizione di fatto per l’avvento di una società più giusta, fondata sulla libertà e sulla responsabilità individuale.
La critica ricorrente al protagonismo delle corti, che si sottrarrebbero alla doverosa soggezione alla legge esponendo decisioni libere da quel vincolo e facendo esercizio non di discrezionalità ma di arbitrio; se si preferisce, la stigmatizzazione del cosiddetto ‘diritto dei giudici’, inammissibilmente contrapposto al ‘diritto dei legislatori’; tutta questa argomentata indisposizione culturale verso le prassi giudiziarie continua ad essere l’arma con cui i difensori del diritto positivo combattono perché le promesse di uguaglianza, libertà e responsabilità contenute nella legge e rimesse anche al rispetto dell’architettura dei poteri dello Stato, non siano sacrificate al soggettivismo e al creazionismo giurisprudenziale, concepiti come effetti nefasti di una decadenza tardo-moderna (post-moderna) o di una reazione alla modernità in nome del recupero di esiti storici premoderni.
In questo cono polemico, che raramente coglie con lucidità l’effettività del lavoro delle corti (in genere viziato, all’opposto, da qualche tendenza al formalismo), potrebbe essere facilmente risucchiata la tesi di Palazzo, che addirittura non mette in risalto l’operato dei giudici ma i risultati della prassi negoziali (sia pure talvolta sorvegliati dall’opera del notaio).
Se viene fortemente criticata la tesi della giurisprudenza come fonte del diritto, e se nonostante corpose evidenze (basti richiamate il tema del danno ingiusto e della responsabilità risarcitoria), fatica a trovare legittimazione l’idea stessa del diritto giurisprudenziale, che è in ogni caso diritto prodotto da un potere dello Stato, a maggior ragione potrebbe apparire scandalosa l’idea dei privati stessi come fonti del diritto: dei privati come legislatori, autori di quella legge che è il contratto.
Non a caso il codice concede che il contratto sia una regola tra le parti, ma nei limiti stabiliti dal diritto ufficiale. È qui l’essenza dell’autonomia, che è separazione ma anche dipendenza da un ordinamento superiore di cui si ambisce il riconoscimento. Il contratto, dunque, non è per il diritto ufficiale una regola compiuta ed autosufficiente.
Consideriamo che, inoltre, la produzione del contratto nemmeno avrebbe, secondo il nostro diritto positivo, la forza a volte riconosciuta al nudo fatto, che a certe condizioni può evolvere in consuetudine. Come mai stabilire consapevolmente una regola dovrebbe avere, secondo il diritto ufficiale, minore rilievo del comportamento tenuto nella convinzione di seguire una regola già esistente, e che, invece, si forma proprio in ragione di quel ripetuto errore? Perché, potremmo supporre, nell’errore riluce il fatto, ed anche l’ossequio ad una immaginata prescrizione; invece, nel contratto si manifesta chiara l’imposizione di una regola che prima non c’era e, dunque, il fare del legislatore. Ecco il punto: solo attraverso il contratto, e non anche nelle condotte consuetudinarie, la prassi entra in concorrenza sfacciata con il legislatore. Proprio come il legislatore, i contraenti stabiliscono regole di cui si reclamano autori. Ma, reciso (come nei contratti con intento giuridico negativo) o attenuato (come nei contratti alieni) il vincolo di soggezione con il diritto ufficiale, sorge il problema di una inaudita concorrenza, che rischierebbe di minare alla base la civiltà giuridica conquistata nella modernità.
In questa prospettiva, visioni tese ad enfatizzare il ruolo dei contraenti e del contratto, la realtà delle prassi negoziali rispetto ai sistemi legislativi, rischia di apparire un’operazione di retroguardia.
5. – C’è poi, e però, da considerare che proprio la realtà della globalizzazione dimostra la pericolosità di certi modi di essere del contratto, che nelle mani di soggetti economici soverchianti rischia di essere regola unilaterale, formalmente condivisa ma sostanzialmente imposta dal solitario autore a moltitudini indifese di controparti, che accettano il contratto per non privarsi del bene o servizio che solo in quel contratto trova un veicolo di trasmissione.
L’idea novecentesca delle condizioni generali di contratto come vere e proprie norme, e il corollario di considerarle alla luce del potere impositivo che manifestavano nei fatti, fu frettolosamente accantonata anche dalla nostra civilistica sul rilievo, eminentemente formalistico, che non si trattava di vere e proprie leggi, ma di semplici clausole contrattuali, valide esclusivamente tra le parti degli atti in cui sono richiamate. Un approccio classicamente ‘positivista’; un modo di usare le idee del diritto privato per negare realtà evidenti del diritto dei privati. Eppure, nel concetto stesso di condizione generale erano e sono insite le caratteristiche della generalità e dell’astrattezza, tipiche delle norme di diritto positivo: indifferenti alla situazione concreta e alle motivazioni del singolo destinatario, e rivolte a disciplinarne gli interessi secondo un uniforme orizzonte di attesa, disegnato sulla base di considerazioni (rispetto a quegli interessi) ulteriori e di più ampia portata.
La stessa evoluzione delle legislazioni sulla contrattazione asimmetrica e a tutela dei contraenti deboli ha abbondantemente dimostrato, credo in via definitiva, che le preoccupazioni che avevano spinto qualcuno ad affiancare clausole contrattuali a norme di legge, per segnalare l’unilateralità e la pervasività della fonte di produzione (e la qualità della motivazione e degli interessi che la animano) erano tutt’altro che esagerate. Lasciata a sé stessa, alla sua forza prescrittiva, la regola contrattuale può sprigionare effetti regressivi sulla civiltà giuridica.
Di questi problemi si dimostra consapevole Palazzo, che nel libro discute anche la difficilissima questione della giustizia contrattuale (che credo dovrebbe affrontarsi cercando di organizzare il bilanciamento tra libertà ed uguaglianza nella distribuzione, e nella garanzia, di una eguale libertà di contrarre).
In effetti, segnalare al pubblico dibattito il fatto storico della contrattazione ai tempi della globalizzazione e del capitalismo maturo, non implica di postularne l’autonomia dal diritto ufficiale, o una qualche forma di supremazia; né implica di difenderne senza riserve gli spazi operativi: cosa che il nostro autore si guarda attentamente dal fare. Significa, tuttavia, e certamente, sottoporre al lettore la realtà dell’esperienza giuridica attuale, in cui la prassi domina producendo forti condizionamenti; e su questa impostazione sottoporgli inoltre non solo la necessità, ma anche la difficoltà del governo di quel fare che si reclama non solo libero, ma a volte sovrano.
6. – Il contratto, specie se concepito nella vasta concettualità dell’operazione economica, tende ormai a ricostruirsi, credibilmente, nelle forme dell’ordinamento giuridico. Come ordinamento, il contratto reclama autonomia e tende ad investire con un forte potere di condizionamento diversi territori della giuridicità, che iniziano a svilupparsi secondo la mentalità del contratto. La progressiva giuridificazione degli spazi vitali procede infatti secondo la spinta economica; quella giuridificazione è espansione della forma contrattuale (lo strumento più efficace per costruire rapporti economici) e dell’attività della contrattazione (la condotta caratterizzante dell’impresa).
Il contratto è una prassi economica e giuridica che può essere guardata nella prospettiva ottimistica della opportunità per l’evoluzione del diritto, ma anche nella visione pessimistica di un grave problema che reclama costantemente soluzioni. Entrambe le prospettive contengono elementi preziosi di realismo, e nessuna andrebbe assolutizzata. La soluzione ben calibrata è rimessa, come sempre, alla responsabilità della cultura giuridica, che non deve intimidirsi davanti alle pretese del potere economico. Quella soluzione presuppone, immancabilmente, una precisa consapevolezza della realtà da cui quel problema sorge. Anche sotto questo aspetto il libro mi appare un’operazione felice e ben riuscita; una presa d’atto del problema e un richiamo dei giuristi alla responsabilità.