Una primissima valutazione della riforma del rito di ordinaria cognizione introdotta dal d.lgs. n. 149/2022 (in attuazione della legge delega n. 206/2021) non può prescindere dall'osservazione della c.d. fase preparatoria: la struttura degli atti introduttivi, il sistema delle preclusioni, il primo contatto tra parti e giudice, la natura delle attività da svolgersi in prima udienza rappresentano elementi che tradizionalmente concorrono a definire il modello che di volta in volta il legislatore adotta nell'incessante inseguimento degli obiettivi di accelerazione, brevità, concentrazione e – ora – “specificità” (sull'aggettivo torneremo).
La fase introduttiva e di trattazione è infatti sempre stata il biglietto da visita di qualsiasi rito civile (taluno ha parlato di “filosofie di riforma” a significare che detta fase non è fine a sé stessa, bensì riflette la concezione che si abbia dell'intero rito). I modelli succedutisi nel tempo sono noti: quello dominato dal principio di eventualità (rito lavoro), quello aperto allo jus variandi per l'intera durata del giudizio di primo grado (rito ordinario dopo la “controriforma” del 1950), quello a struttura tendenzialmente chiusa (rito ordinario a preclusioni assertive e probatorie dopo la riforma del 1990) o quasi chiusa (il modello della duplicazione delle attività del convenuto – artt. 180-183 – rimasto in vigore per dieci anni: 1995-2005), quello a preclusioni e udienze limitate, dominato dalla scrittura (attualmente in vigore: legge n. 80/2005, con la nota triplice del comma 6 dell'art. 183 c.p.c.). Nella successione dei vari modelli si inserisce (d.lgs. n. 5/2003) l'esperienza effimera del rito societario caratterizzato dalla c.d. “privatizzazione” della trattazione scritta tutta collocata prima dell'udienza, in cui il giudice interveniva soltanto quando richiesto con l'istanza di fissazione: modello che abbiamo abbandonato, con generale sollievo (i suoi limiti erano emersi evidenti soprattutto nel processo multiparti), grazie alla legge n. 69/2009.
Il d.lgs. n. 149/2022, che ha attuato una delega che, more solito, parla di semplificazione, speditezza e razionalizzazione, presenta un biglietto da visita in apparenza nuovo, ma che a ben vedere è frutto della combinazione/rimeditazione di modelli anteriori (purtroppo prescindendo dalla fortuna tributata a ciascuno di essi nella pratica: aspetto che non andrebbe mai trascurato). Invariata, per quanto interessa le preclusioni assertive, la struttura degli atti introduttivi (artt. 163 e 167 c.p.c., che presentano variazioni inessenziali, con l'ottativo riferimento alle difese da svolgersi «in modo chiaro e specifico»), si allunga sensibilmente – da novanta a centoventi giorni – il termine del comma 1 dell'art. 163-bis c.p.c.; di primo acchito la modifica sembrerebbe contrastare con gli obiettivi di efficienza e concentrazione propri della riforma [art. 1, comma 5, lett. a) della legge delega], ma si comprende immediatamente che l'allungamento di quel termine dilatorio altro non è che la conseguenza della collocazione di una serie di preliminari adempimenti in una fase (non si saprebbe come definirla: pre-preparatoria?) anteriore all'udienza di comparizione e trattazione di cui all'art. 183 c.p.c., vale a dire anteriore al primo contatto tra parti e giudice (come, appunto, avveniva nell'abrogato rito societario).
Le parti, infatti, si scambiano (scompare la richiesta del comma 6 dell'attuale art. 183 c.p.c. che del resto era stata di fatto cancellata nell'applicazione pratica, che vede di norma il giudice assegnare i termini anche d'ufficio) prima dell'udienza le memorie integrative dell'art. 171-ter, il quale altro non fa che reiterare la triplice attualmente collocata nel comma 6 dell'art. 183 c.p.c., con termini computati a ritroso (quaranta giorni, venti e dieci rispetto alla data della prima udienza); il giudice, per parte sua, entro quindici giorni dalla scadenza del termine di tempestiva costituzione del convenuto (art. 166 c.p.c.), adotta con decreto (la stessa forma del provvedimento di fissazione nell'abrogato rito societario) i provvedimenti ortoprocessuali di cui attualmente è traccia, in buona parte, nell'art. 183, comma 1, c.p.c. Il decreto può anche sollevare d'ufficio questioni che le parti tratteranno nelle memorie integrative (art. 171-bis, comma 1, ultimo periodo) e può comportare – nei casi contemplati negli artt. 102, comma 2, 107, 164, commi 2, 3 e 4, 167, commi 2 e 3, 171, comma 3, 182, 269, comma 2, 291 e 292 – il rinvio della prima udienza di trattazione.
Se ne deduce che, a seconda dei casi, il decreto potrà confermare o rinviare l'udienza di prima comparizione già fissata, ma l'uso dell'indicativo presente nell'art. 171-bis («il giudice […] verificata d'ufficio […] pronuncia […] indica») non è sufficiente per poter ritenere che siamo dinanzi a un adempimento obbligatorio (del resto, la sua omissione non produce conseguenze). Anche perché, mentre taluni rilievi non risentono dello scambio delle memorie integrative (si pensi alla nullità dell'atto di citazione), altri rilievi (si pensi al rilievo d'ufficio di questioni) potrebbero essere indotti proprio da queste ultime; ragion per cui, è nell'ordine naturale delle cose che la prima udienza non possa essere del tutto sterilizzata rispetto alle questioni preliminari, dal momento che le parti hanno a disposizione, dopo quelli introduttivi, altri scritti “integrativi” in cui il thema decidendum potrà essere precisato e in parte modificato.
Il nuovo modello non può non indurre perplessità interne allo stesso meccanismo che l'attuale legislatore s'è prefigurato. Fermo restando che le parti depositeranno puntualmente le loro tre memorie nei termini dell'art. 171-ter (l'avvocato purtroppo non rinuncia a scrivere, ogni volta che gliene venga offerta l'occasione), il vero punto interrogativo riguarda proprio l'attività del giudice. L'esperienza dell'abrogato rito societario aveva dimostrato che il processo incontrava un fatale punto di arresto proprio allorché il giudice era chiamato a pronunciare il decreto di fissazione (che presupponeva una serie di decisioni sul processo). Tra l'altro, in quel modello l'omessa pronuncia determinava una dilazione o impedimento di fatto nel normale andamento del procedimento, in difetto di un'udienza prefissata; laddove, nel modello attuale, la prima udienza è già fissata e dunque il processo potrà procedere indipendentemente dalla pronuncia del decreto, che, del resto, non può neanche intralciare il ritmo già stabilito delle memorie integrative: di modo che, se il giudice “buca” il termine dei quindici giorni e inizia, col deposito della prima memoria (almeno quaranta giorni prima dell'udienza di trattazione, ma le parti potrebbero esser più tempestive), la successione della triplice, non gli rimarrà che attendere l'udienza dell'art. 183 per svolgere tutti i suoi controlli preliminari.
Non può neanche escludersi che il giudice ometta deliberatamente la pronuncia del decreto nel termine di cui all'art. 171-bis, comma 1, preferendo attendere che le parti precisino le rispettive posizioni nelle memorie integrative. In ogni caso, il rilievo principe a noi sembra il seguente: giacché il processo va avanti indipendentemente dalla pronuncia del decreto, il giudice avrà tendenza a considerare l'adempimento del tutto opzionale, ben sapendo che gli stessi controlli e verifiche del comma 1 cit. potrà fare – peraltro con migliore cognizione della causa, e nel contraddittorio delle parti – nella prima udienza di trattazione. Conseguenze negative non sono prospettabili né per il giudice né per le parti; ma, certo, l'astratta modellistica dell'attuale legislatore ne riceverà uno sfregio. La prassi ci dirà se il nostro rilievo si rivelerà giusto o sbagliato.
Quindi, se il biglietto da visita del nuovo modello di rito civile è la trasposizione di certe attività prima della prima udienza, in un contesto dominato dalla scrittura e che fa volentieri a meno del dialogo tra giudice e parti, ci sembra di poter dire che lo stesso meccanismo predisposto dall'attuale legislatore ha in sé il virus di una sua facile elusione. Tanto più facile perché l'art. 171-bis presuppone una sorta di riconversione culturale del giudice, finora abituato – quando lo fa – a preparare l'udienza, non a emettere provvedimenti causa cognita nel chiuso della sua stanza prima ancora di aver potuto iniziare un dialogo con le parti. E, tra l'altro, l'immagine di un giudice che, chiuso nel suo speculo, adotta decisioni sul processo senza contraddittorio è immagine che ci piace poco, e che non ha riscosso fortuna neppure nel rito speciale del d.lgs. n. 5/2003.
Intendiamoci: ove assicurino un buon funzionamento, tutti i modelli finiscono per equivalersi. Non bisogna avere pregiudizi “estetici”. Come ripeteva Virgilio Andrioli, la legge del processo in sé non può garantire né la riuscita né il fallimento del rito che di volta in volta un legislatore irresistibilmente attratto dall'astratta modellistica decida di voler sperimentare. Ma è evidente che, se si sceglie come prototipo un modello che non ha funzionato e che è stato abbandonato (e il rito societario si è inceppato proprio sull'attività del giudice e la pronuncia del decreto di fissazione), i rischi di disapplicazione e ineffettività divengono inevitabilmente più elevati.
Ma non è certo per questo che il biglietto da visita del nuovo rito ci piace poco.
La nostra vera perplessità è un'altra. La successione di tutti i vari modelli, che abbiamo rapidamente ricordato in apertura, incontrava invariabilmente il medesimo limite: il difetto di flessibilità e adattabilità del rito rispetto alla natura e all'oggetto della controversia. Il rito ordinario è un monolite (la «divisa uguale per tutti», è stato detto) che il legislatore, in modo irrazionale, impone in tutte le controversie civili, convinto (stando all'attualità) che tutte necessitino dello scambio di ben quattro scritture preparatorie ancor prima che il dibattito abbia formalmente inizio nel contraddittorio tra parti e giudice. Un legislatore convinto altresì di non poter lasciare l'adattamento del rito al dialogo costruttivo tra parti e giudice, perché non nutre alcuna fiducia nei professionisti che prestano la loro opera nel processo (e in particolare nel giudice, che formalmente ha la direzione del procedimento). Un legislatore che propone un modello rigido, peraltro pensato sulle esigenze di cause complicatissime, che, per generale esperienza, non sono la normalità delle controversie civili. Ed è perfettamente inutile inserire nella disciplina degli atti introduttivi che le difese debbano essere svolte «in modo chiaro e specifico» ispirandosi al principio di sinteticità, quando poi si consente a ogni parte, in ogni processo, di riscrivere e sovrascrivere senza alcun limite in ben quattro occasioni prima che il processo vero e proprio (in cui si attua il principio del contraddittorio) abbia avuto inizio. Dando così luogo al fenomeno grottesco che da più parti è stato denunziato, specie dopo la triplice del comma 6 dell'art. 183 nell'attuale stesura: le parti scrivono sempre più nella convinzione (o nel timore) che il giudice non legga; il giudice viene stremato dalla lettura di atti ripetitivi-fotocopia, in cui i canoni della chiarezza, dell'essenzialità e (nuova parola d'ordine) della specificità (nell'ambito delle impugnazioni foriera di inammissibilità) miseramente annegano.
Possibile che nessuno si renda conto che il rito unico, articolato per scritti e scambi e così di necessità diluito nel tempo, non sia la soluzione ideale per attuare gli obiettivi della legge delega (sempre gli stessi fin dal noto d.d.l. Denti del 1987 o dal d.d.l. Reale del 1975), perché è proprio quel tipo di rito, appunto perché generalizzato, a contrastare quegli obiettivi?
E che dire dell'interrogatorio libero, reso obbligatorio in ogni controversia anche ai fini della conciliazione? Si ha l'impressione che il legislatore – per dirne una – non conosca le condizioni in cui si difende la pubblica amministrazione (fenomeno che raccoglie un'importante quota delle controversie civili) e soprattutto quelle nelle quali è disposta a transigere, sotto gli occhiuti controlli della Corte dei Conti. Ma, a parte il caso particolare della p.a., è del tutto evidente che le parti concordi ovvero il giudice di sua iniziativa dovrebbero poter valutare la convenienza dell'esperimento, che, se obbligatorio, coincide con una battuta d'arresto per un rito che si vorrebbe scritto, accelerato e in cui gli adempimenti più rilevanti avvengono fuori dell'udienza.
Quindi: quello proposto dalla d.lgs. n. 149/2022 non è un modello nuovo, bensì la combinazione di esausti modelli ripescati dal passato. Nutriamo seri dubbi sul fatto che siano stati davvero ripescati i modelli migliori: il rito societario col suo decreto di fissazione e la triplice del comma 6 dell'art. 183, responsabile dell'iterazione e della ripetitività all'interno delle quali anche le cause semplici sono destinate a diventare complesse. Il tutto immerso nella logica della probabile ineffettività: l'art. 171-bis sulle verifiche preliminari potrà essere disapplicato, e non vi saranno sanzioni per nessuno; l'udienza dell'art. 183 rimarrà quella che è attualmente, con la sola conseguenza che il giudice, per prepararla, dovrà leggere non due ma otto scritture. Risultato che certamente non va ascritto a merito dell'attuale legislatore.
Meglio sarebbe stato lasciare la fase preparatoria qual era (e ciò non per misoneismo, ma perché non è vero cambiamento l'anteporre o il posporre i medesimi, logorati tasselli del puzzle) e fare dell'udienza di trattazione una sede deputata anche alla verifica di quanto potesse occorrere per la trattazione-istruzione del singolo procedimento: perché, non dimentichiamolo, esistono (sebbene non siano mai considerate) le cause semplici, ripetitive, in cui la contestazione tra le parti si risolve in una questione di puro diritto, che potrebbero essere avviate in decisione senza il pletorico, inevitabile passaggio (in realtà scoglio) delle memorie “integrative”. Ma in verità proprio le cause semplici, ora come ora, sono complicate dall'applicazione generalizzata di un rito che risulta concepito per cause straordinariamente complesse, in cui i professionisti del processo affondano, al tempo stesso carnefici e vittime, sotto il peso di scritture ripetitive e divagatorie.