1. È in vigore già da qualche anno una nuova norma civilistica che disciplina i giudizi di responsabilità degli amministratori di società di capitali per violazione degli obblighi di gestione conservativa del patrimonio sociale in conseguenza del verificarsi di una causa di scioglimento della società. Si tratta dell'art. 2486, comma 3, c.c., introdotto dall'art. 378 CCII e allo stato non rientrante tra le disposizioni oggetto di modifica da parte del c.d. decreto correttivo del CCII secondo l'ultima versione disponibile dello schema normativo.
La disposizione detta due criteri essenzialmente volti a semplificare la fase istruttoria di una questa assai diffusa tipologia di giudizi di responsabilità. In base al primo criterio il danno risarcibile si presume pari, salva la prova di un diverso ammontare, alla riduzione subìta dal patrimonio netto nell'arco temporale che va dal verificarsi della causa di scioglimento fino al momento in cui l'illecito non è più ritenuto suscettibile di produrre un danno imputabile all'amministratore, per effetto della cessazione dell'amministratore dalla carica, oppure a causa dell'apertura di una procedura concorsuale, con la precisazione che dal valore così ottenuto vanno scomputati i costi normali sostenuti e da sostenersi nella fase liquidativa fino al suo compimento. In base al secondo criterio, sensibilmente più penalizzante del primo per gli amministratori, giacché non contempla, almeno espressamente, la possibilità di provare un diverso ammontare del danno e non prevede la detrazione dei cc.dd. costi normali della liquidazione, né delle perdite antecedenti al verificarsi della causa di scioglimento, il danno è liquidato in misura pari alla differenza tra attivo e passivo. Questo secondo criterio, di sostanziale corrispondenza del danno alle risorse complessivamente mancanti all'integrale soddisfacimento dei creditori nell'ambito di una procedura concorsuale, entra però in gioco solo quando si verifichino contestualmente due condizioni: la pendenza di una procedura concorsuale e l'impossibilità di utilizzare il primo criterio per assenza/irregolarità di scritture contabili, oppure per altre ragioni.
Sul significato giuridico da attribuire a questi due parametri normativi è intervenuta di recente la Cassazione (Cass. 28 febbraio 2024, n. 5252). Secondo la Suprema Corte, a dispetto della formulazione letterale della disposizione, deve ritenersi che il nuovo art. 2486, comma 3, c.c. non modifichi il meccanismo di riparto dell'onere probatorio tra attore e convenuto nei giudizi di responsabilità, ma si limiti a codificare «un meccanismo di liquidazione equitativa del pregiudizio secondo quanto già la giurisprudenza di questa Corte giustappunto aveva ritenuto legittimo». La ricaduta applicativa di quest'impostazione, nel caso specifico affrontato nella sentenza ora citata, è di ritenere che la norma abbia un carattere sostanzialmente processuale, avendo come destinatario elettivo il giudice e che, di conseguenza, in base al principio tempus regit actum, essa vada applicata anche ai giudizi pendenti al momento della sua entrata in vigore.
2. La recente pronuncia offre pertanto lo spunto per affrontare tre aspetti che appaiono centrali nell'esegesi della disposizione:
i) capire, in primo luogo, se sia condivisibile ritenere, come sostiene la Cassazione, che la norma non determina una diversa distribuzione dell'onere della prova nei giudizi di responsabilità rispetto a quanto previsto dai princìpi generali in materia d'illecito contrattuale, ma detta solo dei criteri di quantificazione e di commisurazione del danno;
ii) stabilire se – e allora sotto quali profili – la norma si traduca realmente in un favor per la parte attrice nei giudizi di responsabilità degli amministratori rispetto ai princìpi generali in tema d'illecito civile;
iii) chiarire infine se, in presenza delle condizioni previste dall'ultima parte della disposizione – pendenza di una procedura concorsuale e impossibile impiego del differenziale tra i netti patrimoniali – il criterio dello sbilancio patrimoniale, assai più sfavorevole per gli amministratori, dia effettivamente vita a una vera e propria presunzione assoluta, come sembrerebbe doversi evincere dalla perentorietà della disposizione codicistica («il danno è liquidato in misura pari alla differenza tra attivo e passivo»), oppure ammetta la prova contraria.
3. Nell'approcciarsi al primo di tali problemi, da cui, come si vedrà, dipende in buona parte anche la soluzione degli altri, può innanzitutto osservarsi come almeno a una prima impressione la norma sembri lasciare inalterato l'assetto probatorio ordinario rispetto all'elemento della condotta. Un diverso riparto dell'onere probatorio non pare configurarsi rispetto alla condotta illecita perché l'incipit dell'articolo – «quando è accertata la responsabilità degli amministratori a norma del presente articolo» – indica che i criteri di cui si discute troveranno applicazione sul presupposto che sia accertato in giudizio secondo le regole ordinarie:
i) il verificarsi una causa di scioglimento della società di capitali;
ii) la violazione dopo tale evento del divieto di gestione conservativa da parte degli amministratori.
Inoltre, incombe comunque sull'attore l'onere di dimostrare l'evento negativo rappresentato dalla diminuzione medio tempore del patrimonio netto e la sua entità, oppure esistenza ed entità dello sbilancio tra attivo e passivo accertato nell'ambito della procedura.
Il necessario verificarsi del presupposto della contrazione del netto patrimoniale nel periodo considerato, come condizione di sussistenza di un danno risarcibile, comporta poi che il criterio in oggetto non sarà utilmente invocabile dalla parte attrice quando il danno subìto dalla società a causa dell'indebita prosecuzione dell'attività d'impresa, pur essendo concreto e attuale non emerge, oppure non emerge completamente, dalla riduzione del patrimonio netto, perché nell'arco temporale di riferimento le perdite generate dalla gestione non conservativa sono state in tutto o in parte compensate da variazioni positive straordinarie del patrimonio netto, idonee a neutralizzare gli effetti delle perdite (si pensi, ad esempio, a un incremento di attivo determinato da un aumento di capitale, oppure a una riduzione di passivo generata dall'inatteso esito favorevole di un contenzioso fiscale che ha portato all'eliminazione di un debito precedentemente iscritto in bilancio).
Parimenti, non vi sarà convenienza ad avvalersi del predetto criterio allorquando la riduzione nelle more del patrimonio netto vi è stata, ma di entità inferiore al danno concretamente prodotto dagli amministratori. In questi casi sarà la parte attrice ad avere interesse a dimostrare il diverso e più consistente ammontare del danno, secondo i principi ordinari, causalmente riconducibile all'azione degli amministratori, non risultando conveniente avvalersi del criterio legale del differenziale dei netti patrimoniali.
4. Nelle restanti ipotesi in cui i criteri normativi siano forieri di esiti favorevoli per la parte attrice, il favor probatorio per chi agisce in giudizio è assai consistente, perché l'art. 2486, comma 3, c.c. esonera l'attore dall'onere di dimostrazione del nesso di causalità. La parte attrice, normalmente onerata nei giudizi di responsabilità della prova del nesso di causalità, può qui avvalersi della presunzione che la condotta illecita degli amministratori dedotta in giudizio abbia determinato un danno pari al differenziale tra i netti patrimoniali, oppure pari all'eccedenza delle passività rispetto alle attività, anche quando il comportamento degli amministratori non sia stato idoneo a determinare tale danno e forse finanche quando sia totalmente privo di attitudine lesiva.
La portata di quest'esonero non è tuttavia sempre la medesima. Essa varia – e non poco – a seconda della situazione dedotta in giudizio, nonché a seconda se entri in gioco l'applicazione del primo, oppure del secondo criterio. Occorre pertanto distinguere.
Gli effetti meno significativi sotto l'aspetto indicato si determinano quando si applica il criterio dei netti patrimoniali a situazioni in cui a essere indebita è la prosecuzione in sé dell'attività, non essendovi le condizioni di fatto per una continuazione neppure provvisoria e limitata dell'esercizio dell'impresa. Trattasi di casi di evidente e complessiva antieconomicità della gestione caratteristica, rovinosa al punto da imporne l'arresto immediato, in quanto atta a generare perdite superiori ai benefici anche a volerne circoscrivere la prosecuzione al solo fine di portare a termine gli affari in corso (v. M. Centonze, Art. 2486, in Le società per azioni diretto da Abbadessa e Portale, II, 2016, 2878; G. Giannelli-A. Dell'Osso, Art. 2486, in Delle società. Dell'azienda. Della concorrenza a cura di Santosuosso, in Commentario del codice civile diretto da Gabrielli, Torino, 2015, 972 s.; G. Niccolini, Art. 2486, in Società di capitali. Commentario a cura di Niccolini e Stagno d'Alcontres, III, Napoli, 2004, 1736).
In tali casi limite, dove la censura rivolta agli amministratori non si appunta su singoli atti, ma sull'attività complessiva posta in essere dopo il verificarsi della causa di scioglimento, può ritenersi dedotta in giudizio una condotta illecita astrattamente idonea a generare, secondo l'id quod plerunque accidit, danni corrispondenti all'intero deterioramento nelle more del patrimonio netto. Pertanto, l'effetto prodotto dall'applicazione del criterio di legge è solo quello di esonerare l'attore dal dover dimostrare che conseguenze dannose pari al delta tra i netti patrimoniali, ragionevolmente riconducibili in termini astratti alla condotta illecita, si siano anche in concreto verificate, spostando sugli amministratori l'onere di fornire eventualmente la prova contraria dell'inefficienza causale, totale o parziale, della loro condotta. Effetto quest'ultimo al quale sarebbe stato in realtà probabilmente possibile giungere anche in assenza del criterio in oggetto, in aderenza all'orientamento giurisprudenziale secondo cui quando è allegato in giudizio un inadempimento astrattamente efficiente alla produzione del danno, il criterio della prossimità della prova giustifica la traslazione in capo al debitore dell'onere di dedurre e dimostrare le particolari ragioni di concreta inattitudine lesiva della condotta di cui è autore, in quanto fatti ricadenti nella sua sfera di azione (in tal senso, v. Cass., Sez. un., 6 maggio 2015, n. 9100; e già Cass., Sez. un., 30 novembre 2001, n. 13533).
5. L'evidenza empirica mostra, tuttavia, come situazioni analoghe a quella descritta non siano molto frequenti. Nella maggior parte dei casi, infatti, il verificarsi di una causa di scioglimento non impone affatto l'interruzione totale dell'attività d'impresa, perché la sua continuazione entro certi limiti è non solo opportuna, ma spesso doverosa per preservare il valore dinamico dell'azienda, assicurare il migliore risultato alla liquidazione e salvaguardare il patrimonio sociale (v. ex multis P. Balzarini, Art. 2486, in Scioglimento e liquidazione delle società di capitali a cura di Bianchi e Strampelli, in Commentario alla riforma delle società diretto da Marchetti, Bianchi, Ghezzi e Notari, Milano, 2016, 51 ss.). In queste ipotesi l'illegittimità non riguarda mai la decisione in sé di proseguire l'attività, bensì le modalità di continuazione dell'impresa da parte degli amministratori, giacché incompatibili con la dimensione necessariamente conservativa e temporanea della loro gestione (ad esempio, a causa della stipula di nuovi contratti di durata eccedente la fase di liquidazione; di nuovi contratti gravati da penali eccessive, oppure privi di clausole di exit; di nuovi investimenti non ammortizzabili nei normali tempi della liquidazione; oppure per l'avvio di nuovi affari lucrativi di consistente portata e durata, idonei a condizionare indebitamente le decisioni di competenza dei soci, ai sensi dell'art. 2487, comma 1, lett. c, c.c., sull'esercizio provvisorio dell'impresa durante la liquidazione; etc.).
L'esonero dell'attore dalla dimostrazione del nesso di causalità assume qui ben altra portata, perché in tali fattispecie non è dedotta in giudizio una condotta illecita astrattamente efficiente alla produzione di un danno pari al differenziale dei netti patrimoniali (sull'inidoneità del criterio dei netti patrimoniali a quantificare un danno da atti, anziché da attività, v. A. Maffei Alberti, Art. 378, in Commentario breve alle leggi su crisi d'impresa e insolvenza7, Milano, 2023, 2620). Né sembra, d'altronde, che il problema possa compiutamente risolversi attraverso il correttivo costituito dalla detrazione dei cc.dd. costi normali della liquidazione. Vero è che funzione del correttivo è proprio quella di permettere di calcolare il danno effettivo attraverso la detrazione dei costi non riconducibili alla violazione del divieto di gestione conservativa, perché si sarebbero comunque prodotti durante la fase di liquidazione.
Senonché, l'operazione presuppone che a monte sia stata individuata la tipologia di costi che possono considerarsi normali e detraibili nel caso concreto: tutti quelli ordinariamente connessi alla prosecuzione piena dell'attività, quando ve n'erano le condizioni di fatto; soltanto quelli ordinariamente connessi alla mera conclusione degli affari in corso, quando una gestione più dinamica, non circoscritta al compimento delle operazioni pendenti, avrebbe aggravato l'indebitamento della società; oppure, in termini ancora più stringenti, i soli costi ordinariamente riconducibili alla liquidazione di un'attività cessata, quando non vi era spazio per proseguire neppure le operazioni avviate e non ancora definite. È dunque chiaro che per poter svolgere la funzione di quantificazione del danno il correttivo in oggetto presuppone la definizione del perimetro della condotta illecita e i contorni della sua attitudine lesiva, che spetterebbe all'attore dedurre e provare.
Inoltre, la detrazione dei costi normali della liquidazione non è in grado di neutralizzare gli effetti distorsivi di variazioni negative straordinarie del patrimonio netto, speculari a quelle che possono rendere non conveniente per la parte attrice l'impiego del criterio di netti patrimoniali (v. supra, § 3), suscettibili di far risultare una riduzione del netto patrimoniale nel periodo considerato maggiore di quella eziologicamente riconducibile all'operato illegittimo degli amministratori.
Ne consegue che ogni qualvolta non è globalmente censurata la continuazione in sé dell'attività d'impresa, ma è imputato agli amministratori il compimento di singoli atti in violazione del dovere di gestione conservativa, il criterio dei netti patrimoniali determina una diversa distribuzione dell'onere probatorio rispetto ai normali giudizi di responsabilità civile, poiché sposta sugli amministratori l'onere di dimostrare il minor pregiudizio arrecato dalla loro condotta al patrimonio sociale rispetto a quello risultante dall'applicazione del criterio legale.
6. L'esonero attoreo dalla prova del nesso di causalità assume infine massimo rilievo quando sussistono le condizioni per applicare il secondo criterio previsto dall'art. 2486, comma 3, c.c.: vale a dire, la commisurazione del danno all'intero squilibrio patrimoniale. È infatti proprio sul piano della carenza di nesso di causalità tra la condotta illegittima e il danno che si appuntano da tempo le principali critiche mosse avverso l'impiego del criterio dell'incapienza patrimoniale come parametro di commisurazione del danno nelle azioni di responsabilità contro gli amministratori (v., in luogo di molti e per ult. rif., M. Cossu, Azione di responsabilità della curatela fallimentare e quantificazione del danno risarcibile, in Giur. comm., 2016, II, 529 ss.; V. Di Cataldo, Art. 378, in Il codice della crisi. Commentario a cura di Valensise, Di Cecco e Spagnuolo, Torino, 2024, 1964 s.).
Come posto in evidenza dalla Suprema Corte, infatti, la sola situazione di fatto idonea a porsi come antecedente logico di un danno corrispondente all'intero sbilancio tra attivo e passivo, comprese le perdite prodottesi prima del verificarsi della causa di scioglimento della società e tutte quelle accumulate durante la fase di liquidazione, è dato da «violazioni del dovere di diligenza nella gestione dell'impresa così generalizzate da far pensare che proprio a cagione di esse l'intero patrimonio sia stato eroso e si siano determinate le perdite registrate dal curatore» (così, Cass., Sez. un., 6 maggio 2015, n. 9100). In altri termini, quando si è in presenza di situazioni dove la violazione del divieto di gestione conservativa rappresenta solo il segmento terminale di una mala gestio antecedente al verificarsi di una causa di scioglimento della società, proseguita senza soluzione di continuità dopo tale momento e coinvolgente la complessiva gestione imprenditoriale dell'organismo societario.
Pertanto, siccome l'art. 2486, comma 3, c.c. non richiama la situazione ora descritta, ma illeciti successivi al verificarsi della causa di scioglimento della società e accertati a norma del presente articolo, occorre concludere che non vi è connessione causale tra la condotta illecita sanzionata dalla norma e il tipo di danno risultante dal criterio in esame. Anche perché, com'è stato osservato, la mancanza oppure l'irregolarità della contabilità sociale non è legata da nessun potenziale nesso eziologico con il danno costituito dal deficit patrimoniale, perché la contabilità si limita a registrare gli accadimenti economici, senza determinarli (v. Cass., Sez. un., 6 maggio 2015, n. 9100).
7. È dunque possibile provare a dare una parziale risposta ai tre quesiti sopra formulati. I criteri normativi di liquidazione del danno previsti dall'art. 2486, comma 3, c.c. sono disancorati dal nesso di causalità, perché la condotta illecita astrattamente idonea a determinare il danno da essi quantificato non è, oppure almeno in molti casi può non corrispondere, a quella dedotta in giudizio in siffatte azioni di responsabilità. Pertanto, essi sollevano la parte attrice dall'onere, esistente secondo le regole generali, di dedurre un inadempimento qualificato dall'essere astrattamente efficiente alla produzione del danno, nonché di provare la concreta sussistenza del nesso di causalità.
Si ritiene quindi di dissentire dall'opinione espressa di recente da Cass. 28 febbraio 2024, n. 5252, in ordine al significato giuridico da assegnare ai parametri normativi in esame. Essi, lungi dal collocarsi semplicemente nell'alveo delle soluzioni equitative di quantificazione del danno, distribuiscono in modo diverso l'onere della prova tra attore e convenuto, con l'ulteriore conseguenza che siccome per orientamento giurisprudenziale consolidato le norme codicistiche in tema di prova e di relativo riparto vanno considerate di natura sostanziale e non processuale (v. Cass. 19 marzo 2014, n. 6332; Cass. 17 giugno 2013, n. 15107; Cass. 22 febbraio 2007, n. 4196; Cass. 18 marzo 2004, n. 5484), l'art. 2486, comma 3, c.c. non può essere applicato ai giudizi pendenti all'epoca dell'introduzione della disposizione in oggetto, in quanto relativi a fatti verificatisi prima della sua entrata in vigore.
In secondo luogo, salvi i casi in cui per particolari ragioni il danno concretamente prodotto dall'operato degli amministratori sia superiore a quello risultante dall'applicazione dei predetti criteri, essi determinano un rilevante favor per la parte agente in giudizio rispetto alle regole generali dell'illecito civile. Questo favor viene in rilievo in modo particolarmente accentuato ogni qualvolta in giudizio l'attore si duole di singoli atti posti in essere dagli amministratori in violazione dei precetti conservativi, oppure addirittura lamenti solo l'inserimento indebito in nuovi contratti di clausole determinanti particolari effetti negoziali, spostando sugli amministratori l'onere di dimostrare il minor danno eziologicamente riconducibile alla loro condotta. Il favor è infine massimo allorquando si applica il criterio della commisurazione del danno all'intero sbilancio patrimoniale, essendo quest'ultimo un tipo di danno totalmente slegato, in primis sul piano temporale, da una condotta posta in essere in violazione dell'art. 2486, comma 1, c.c.
In terzo luogo, siccome la continuazione illegittima dell'esercizio dell'impresa dopo il verificarsi di una causa di scioglimento non è una condotta astrattamente idonea a generare danni corrispondenti all'intero sbilancio tra attivo e passivo, il diniego di prova contraria, ossia di prova da parte degli amministratori dell'inefficienza causale della condotta, potrebbe essere ammesso e giustificato solo attribuendo alla regola una valenza sanzionatoria a carico degli amministratori per l'omessa regolare tenuta della contabilità. Senonché, osta a tale chiave di lettura la considerazione che il campo di applicazione della regola dello sbilancio patrimoniale è esteso al di là dell'ipotesi dell'omessa conservazione della contabilità, riguardando anche l'ipotesi in cui, per qualsivoglia ragione, sia impossibile determinare i netti patrimoniali nonostante la presenza di scritture contabili regolari. Escluso pertanto il perseguimento di finalità punitive, incompatibili con un'indeterminabilità dei netti patrimoniali non dipendente dalla violazione delle regole sulla tenuta della contabilità e ricondotta la funzione del criterio legale nell'ambito della semplificazione istruttoria dei giudizi di responsabilità gestoria, deve ammettersi la possibilità per gli amministratori di fornire la prova che il danno concretamente ascrivibile alla loro condotta è minore dello sbilancio patrimoniale.
Inoltre, tale soluzione è forse meritevole di essere mantenuta ferma quand'anche si ritenga che le altre ragioni richiamate dalla norma, in grado d'impedire l'impiego del primo criterio e di legittimare l'utilizzo del secondo, debbano comunque consistere in violazioni di doveri degli amministratori, perché la funzione della norma sarebbe sempre sanzionatoria (in tal senso, v. V. Di Cataldo, Art. 378, cit., 1964, pur con condivisibile accento critico sul fondamento giustificativo di tali finalità punitive). Altro è infatti stabilire in un'ottica sanzionatoria che chi con il proprio inadempimento ha reso più ardua la prova del danno, inibendo l'adozione del criterio del differenziale dei netti patrimoniali, sia gravato dall'onere di fornire la prova del suo minor ammontare rispetto allo sbilancio patrimoniale. Altro è invece imporre agli amministratori un risarcimento di entità invariabilmente pari allo sbilancio patrimoniale, senza permettere loro di dimostrare la reale entità del danno. Una sanzione che, in quanto parametrata all'entità dello sbilancio nel caso concreto, anziché alla gravità della violazione, non risulterebbe ispirata a criteri di ragionevolezza e di proporzionalità.