1. Il Decreto Milleproroghe (D.l. 29 dicembre 2022, n. 198, convertito in L. 24 febbraio 2023, n. 14) contiene, tra l'altro, la proroga delle concessioni balneari fino alla fine del 2024. Ed è di pochi giorni fa anche la decisione del Consiglio di Stato relativa al ricorso dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) contro il Comune di Manduria, che aveva prorogato fino al 31 dicembre 2033, in base alla Legge di Bilancio 2019 (L. 30 dicembre 2018, n. 145), una serie di concessioni demaniali marittime con finalità turistico-ricreative (Cons. Stato, 1° marzo 2023, n. 2192).
L'AGCM aveva notificato al Comune il proprio parere motivato di cui all'art. 21-bis della L. 10 ottobre 1990, n. 287, indicando il necessario espletamento di procedure ad evidenza pubblica al fine di assicurare il rispetto dei principi di concorrenza e di libertà di stabilimento. In ossequio a tali principi, l'AGCM aveva affermato che la normativa italiana di proroga delle concessioni è in contrasto con quella europea, per cui scatta l'obbligo di disapplicazione da parte di tutti gli organi dello Stato, sia giurisdizionali che amministrativi. Il Comune di Manduria aveva presentato dapprima ricorso al Tar della Puglia, che lo aveva respinto, e poi ha impugnato la decisione dinanzi al Consiglio di Stato, che ha riaffermato il principio della libera concorrenza.
Non si tratta dell'unica decisione in tal senso, ma la notizia ha fatto il giro dei social a causa del recente Decreto Milleproroghe in netto contrasto con i principi eurounitari, la cui applicazione in Italia è confermata anche dall'ultima decisione del Consiglio di Stato.
In sintesi, le motivazioni che portano a sostenere il divieto della proroga delle concessioni, accolta dalla giurisprudenza amministrativa, possono essere così sintetizzate:
a) l'art. 12 della Direttiva Bolkestein (Dir. 2006/123/CE), laddove sancisce il divieto di proroghe automatiche delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative, è norma self executing, quindi direttamente efficace nell'ordinamento interno, con la conseguenza che le disposizioni legislative nazionali che hanno disposto la proroga automatica delle suddette concessioni sono con essa in contrasto e, pertanto, non devono essere applicate;
b) il dovere di disapplicare la norma interna in contrasto con quella eurounitaria, riguarda, per pacifico orientamento giurisprudenziale, tanto i giudici quanto la pubblica amministrazione;
c) ai fini dell'applicabilità dell'art. 12 della Direttiva Bolkestein alle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative, deve ritenersi sussistente il requisito della scarsità della risorsa naturale a disposizione di nuovi potenziali operatori economici.
Il tema della concorrenza nel settore turistico degli stabilimenti balneari merita di essere oggi ripercorso al fine di considerare anche i diritti dei bagnanti e non solo gli interessi delle imprese di settore. Con il termine “bagnante” va inteso non solo chi si reca sulle spiagge per entrare in acqua, ma più in generale – come di seguito specificato – chi va in spiaggia o frequenta uno stabilimento balneare.
2. Già nell'estate del 2020, immediatamente dopo la ripresa delle attività imprenditoriali, sospese dai provvedimenti governativi diretti a frenare il contagio causato dalla pandemia da Covid19, si era tornati a parlare concretamente dell'applicazione della Direttiva Bolkestein a proposito degli stabilimenti balneari nelle “mani” degli stessi gestori locali da molti anni, che, pagando spesso cifre irrisorie per le concessioni del demanio marittimo, avevano da tempo già alzato i prezzi dei servizi resi ai bagnanti. Il Covid, che aveva determinato nell'estate 2020 una riduzione di clienti degli stabilimenti, determinati dalle regole sul distanziamento sociale, aveva fatto subito pensare ad una proroga delle concessioni. Anche i gestori degli stabilimenti balneari si erano dovuti adeguare, infatti, alle nuove linee guida decise il 25 maggio 2020 durante la Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome in coerenza con le indicazioni definite a livello nazionale (Decreti, documenti tecnici Inail e ISS): le linee guida sono poi state recepite da ciascuna Regione per il tramite di apposite ordinanze, con conseguenti adattamenti.
In Italia si incassava (e si incassa) poco più di 100 milioni di euro dalle concessioni a fronte di un giro di affari stimato di 15 miliardi di euro annui. La situazione non è cambiata dopo il lockdown causato dal Covid, che effettivamente aveva determinato nell'estate 2020 una riduzione di clientela negli stabilimenti, determinati dalle regole sul distanziamento sociale, in parte compensata dall'aumento de prezzi per i servizi resi alla clientela dai gestori di impianti balneari rispetto alla stagione precedente. Negli anni successivi la situazione non è sostanzialmente mutata per quanto riguarda il corrispettivo versato dai gestori di stabilimenti balneari nelle casse pubbliche, rilevandosi in molti casi irrisorio rispetto ai prezzi applicati ai bagnanti, che anzi sono aumentati nel corso delle stagioni estive seguenti all'inizio della pandemia.
Tuttavia, oggi – ridotte le conseguenze del Covid – non sembra che abbia più senso continuare a conservare la situazione ex ante sulla base della disciplina eurounitaria.
3. La Direttiva 2006/123/CE, riguardante la libera circolazione dei servizi in seno all'Unione Europea, è conosciuta come Bolkestein, perché riprende il cognome di un economista e politico olandese, commissario europeo per il mercato interno, quando Presidente era Romano Prodi. L'economista olandese, il quale non pensava certo alle spiagge italiane o alla conformazione della costiera amalfitana e più in generale ai gestori dei lidi nostrani, sostenne l'approvazione di tale direttiva, il cui contenuto, però, fu più volte emendato. Il testo ritornò all'esame del Parlamento e del Consiglio dell'Unione Europea, come previsto dalla procedura legislativa di codecisione, e fu definitivamente approvato solo il 12 dicembre 2006, ossia quando era terminato anche il mandato di Prodi. In un convegno tenutosi il 18 aprile 2018 presso la Camera dei deputati italiana dal titolo «L'Euro, l'Europa e la Bolkestein spiegate da Mr. Bolkestein», lo stesso Bolkestein, quasi a scusarsi degli effetti di una sua “creatura giuridica”, ha dichiarato che «per quanto mi riguarda le concessioni balneari non sono servizi ma beni, e quindi la direttiva sulla libera circolazione dei servizi non va applicata alle concessioni delle spiagge». Il rilievo, però, è stato superato dalla giurisprudenza amministrativa, come di seguito indicato.
Occorre, dunque, fare innanzitutto chiarezza in ordine alla disciplina eurounitaria in questione, pur evitando di scendere nel dettaglio, con tecnicismi giuridici di difficile lettura per tutti.
Oltretutto, la questione delle concessioni balneari è assai delicata, perché i provvedimenti intorno a questo settore coinvolgerebbero anche i fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNNR), per cui è necessario garantire una maggiore applicazione delle regole per la concorrenza.
La Direttiva Bolkestein, infatti, aveva ed ha il più ampio obiettivo di facilitare la circolazione di servizi all'interno dell'Unione Europea: la liberalizzazione dei servizi, rappresentando il 70% dell'occupazione in Europa avrebbe aumentato l'occupazione e il PIL all'interno dell'Unione Europea, a detta di numerosi economisti tra cui lo stesso Bolkestein. In estrema sintesi, la direttiva prevede che ogni Paese dell'Unione Europea garantisca il rispetto della libera circolazione dei servizi e l'abbattimento delle barriere tra gli Stati. In tal modo, qualsiasi cittadino europeo può svolgere all'interno dell'Unione Europea la propria attività, evitando discriminazioni basate sulla nazionalità. La direttiva, però, non intende disciplinare nello specifico l'ampio settore dei servizi, ma pone pochi e generali principi, lasciando agli Stati membri la decisione sulla concreta regolamentazione. In Italia è stata data attuazione a tale direttiva con il D.lgs. 26 marzo 2010, n. 59, ma la questione sulla libertà di iniziativa economica nella gestione degli stabilimenti balneari non si è mai sopita.
Occorre, poi, ricordare – senza entrare nel dettaglio della direttiva, ma richiamando alcuni principi oramai acclarati – che la Corte di Giustizia dell'UE, con sentenza del 14 luglio 2016 nelle cause riunite C-458/14 e C-67/15, ha affermato che le concessioni per l'esercizio delle attività turistico-ricreative nelle aree demaniali marittime e lacustri non possono essere prorogate in modo automatico in assenza di qualsiasi procedura di selezione dei potenziali candidati (art. 49 TFUE). La sentenza riguarda proprio la disciplina che in Italia ha disposto una proroga automatica e generalizzata, anche senza previa procedura di selezione, della data di scadenzadelle concessioni rilasciate per lo sfruttamento turistico di beni demaniali marittimi e lacustri (le spiagge in particolare). Dall'analisi delle argomentazioni della Corte risulta che l'ordinamento europeo muove da una prospettiva diversa da quella del legislatore italiano: la tutela dell'equilibrio economico finanziario dell'impresa del concessionario uscente non può giustificare una deroga astratta e generalizzata al regime di concorrenza, favorendo la creazione di “rendite di posizione” nel settore di riferimento.
In sostanza, non vi è dubbio che l'applicazione della Direttiva Bolkestein imponga anche all'Italia di rimettere a bando le concessioni rilasciate negli anni dagli enti locali, dando la possibilità di aprire un'attività commerciale su area pubblica a tutti i cittadini europei. Il diritto dell'Unione, infatti, da tempo, proprio in materia di concessioni amministrative, ha spinto verso una rilettura dell'istituto in chiave sostanzialistica, attenta, più che ai profili giuridico-formali, all'effetto economico del provvedimento di concessione, quando si traduce nell'attribuzione del diritto di sfruttare in via esclusiva una risorsa naturale contingentata al fine di svolgere un'attività economica. Si tratta di fattispecie che, a prescindere dalla qualificazione giuridica che riceve nell'ambito dell'ordinamento nazionale, procura al titolare vantaggi economicamente rilevanti in grado di incidere sensibilmente sull'assetto concorrenziale del mercato e sulla libera circolazione dei servizi.
Andrebbero tutelati gli investimenti dei concessionari uscenti. Tuttavia va esclusa la sussistenza di un affidamento da tutelare in caso di proroga di una concessione già scaduta con riguardo all'esigenza di disporre del tempo necessario all'ammortamento delle spese sostenute per ottenere la concessione, in quanto al momento del rilascio il concessionario conosceva già l'arco temporale sul quale poteva contare per ammortizzare gli investimenti e su di esso ha potuto fare affidamento (Corte Cost., 20 maggio 2010, n. 180; e v. anche Corte Cost., 18 luglio 2013, n. 213).
Ciò nonostante, tutti i governi che si sono succeduti in Italia hanno osteggiato l'applicazione della disciplina europea ed hanno consentito che gli stabilimenti balneari italiani restassero fuori dall'applicazione della direttiva, malgrado si trattasse non di concedere in uso dei beni, ma di autorizzare un'attività (v. anche le sentenze gemelle del Cons. Stato, 9 novembre 2021, nn. 17 e 18).
Vediamo allora le conseguenze, ulteriori rispetto alle sanzioni economiche, che l'Italia (e quindi tutti i cittadini) sarà costretta a pagare per la violazione della disciplina eurounitaria.
4. Un problema non considerato dalla Direttiva Bolkestein, e che non viene proposto nei dibattiti immediatamente seguiti alla decisione del Consiglio di Stato, è la libertà dei bagnanti di accedere nelle spiagge, in particolare alla battigia: quella parte di spiaggia contro cui le onde sbattono al suolo, compresa tra la bassa e l'alta marea (differenza che in Italia, non costeggiata dal Mar del Nord, non è significativa). La battigia, quindi, non è il bagnasciuga, cioè quello che citò Mussolini nel discorso del 24 giugno 1943 per proclamare che ogni tentativo di sbarco alleato sarebbe stato ivi bloccato (poi le cose, come noto, sono andate diversamente). Per bagnasciuga, infatti, si intende la linea di galleggiamento delle navi e viene da molti confuso con la parte di spiaggia in cui le onde sbattono.
I termini vanno allora chiariti a causa di un lessico del legislatore talvolta poco preciso. Il lido del mare è la porzione di riva a contatto diretto con le acque del mare da cui resta coperto per il normale moto ondoso. La spiaggia comprende i tratti prossimi al mare che sono sottoposti a mareggiate straordinarie. Per arenile dovrebbe intendersi solo il tratto di terraferma che risulta relitto del naturale ritirarsi delle acque. Spesso, però, questi ultimi due termini sono confusi, anche da parte del legislatore, particolarmente identificando la spiaggia e l'arenile.
Orbene, anche se i gestori degli stabilimenti balneari pagano per avere la concessione della spiaggia e poter collocare solo i loro ombrelloni e lettini, c'è un pezzo di spiaggia che per legge non può essere occupato. I metri da prendere in considerazione sono 5 e di questi 5 metri (che le Capitanerie di porto possono ridurre a 3) non è possibile alcuna occupazione, neanche con il proprio asciugamano. Gli stabilimenti non possono vietarne l'accesso e il passaggio. Si tratta ora di controllare se i gestori, per distanziare la prima fila di sedie a sdraio dalla battigia di almeno 5 metri, usino effettivamente come unità di misura il metro (pari alla distanza percorsa dalla luce nel vuoto in un intervallo di tempo pari a 1/299 792 458 di secondo, ma si può usare anche un comunissimo metro da sarta o da muratore) oppure i pollici, in considerazione di quanto in concreto accade in molti litorali italiani. Andrebbe riletto l'art. 1161 cod. nav., che punisce chi impedisce l'uso pubblico del demanio marittimo, dovendovi rientrare la possibilità di camminare come di poter nuotare avendo accesso libero al mare, mentre transenne e vari divieti creano insopportabili limiti. Ed in ogni caso, poi, occorrerebbe un giusto equilibrio tra aree concesse ai privati e spiagge liberamente fruibili.
Si tenta, però, di comprimere assai spesso i problemi nell'ambito di leggi economiche, relative all'efficienza del mercato, e di quelle giuridiche, quali la libertà di iniziativa economica, talvolta a protezione di determinate imprese, quando occorre estendere la discussione ad altri interessi, attraverso il bilanciamento dei diritti e risolvendo ipotesi di conflitto di opposti interessi (individuali e collettivi), perché occorre coinvolgere anche gli interessi dei cittadini: in questo caso i bagnanti.
Dal lato di questi ultimi, fruitori delle spiagge, l'interesse è quello di poter godere degli effetti benefici del mare, limitando i costi. È un interesse da tutelare, oltretutto connesso al diritto alla salute (art. 32 Cost.), storicamente e geograficamente peculiare ad una nazione circondata dal mare, in cui la gran parte della popolazione ha da sempre vissuto e vive sulla costa. La situazione che si è venuta a creare (e a degenerare), con il rinnovo di concessioni senza gara alcuna e la loro estensione dimensionale, potrebbe pure avere per loro un senso, se i prezzi dei servizi fossero stabiliti in misura equa, agevolando anche i meno abbienti, con l'imposizione di prezzi politici per i diversamente abili (in applicazione dell'art. 3 Cost.), rimuovendo eventuali ostacoli per consentire a loro l'accesso al mare. Invece, i gestori godono al contempo di protezione statale, di fronte a potenziali concorrenti (che potrebbero richiedere concessioni offrendo prezzi al pubblico più bassi) e libertà nello stabilire le tariffe ai clienti. In alcuni casi i Comuni hanno esteso la gestione di intere spiagge a chi aveva solo l'autorizzazione a locare un ombrellone o una sedia a sdraio a chi la richiedesse. Morale della favola, in Italia si sono stanziati i “baroni degli ombrelloni”, con concessioni che di fatto non hanno limiti di durata, in quanto di volta in volta rinnovate a favore degli stessi gestori, con passaggi generazionali, a favore a volte degli stessi ristoratori insediati nelle vicinanze.
Il discorso è complesso e coinvolge scelte politiche ma ancor di più ideologiche sull'uso della terra, del mare e dell'aria. Fino a che punto lo Stato può limitare ciò che in natura appartiene a tutti? Il discorso diventerebbe qui complesso e coinvolgerebbe senza dubbio il giusnaturalismo e i rapporti tra stato di natura e contratto sociale, in un'ottica in cui lo Stato, in una prospettiva liberale, preponderante nell'attuale inizio secolo, ha il compito di salvaguardare tutti i diritti naturali dei cittadini. Ed ancor più coinvolge la relazione tra “libertà” e “diritti”, dovendosi superare l'equivoco che per le prime si chieda allo Stato solo l'astensione da qualsiasi intervento, mentre per i secondi sia indispensabile l'intervento pubblico per tutelarli.
Non è, perciò, in discussione la proprietà privata e la sua funzione (art. 42 Cost.), anche se in molte parti del globo, prima della invasione degli europei, la terra era considerata come l'aria, di tutti, in quanto l'originaria vastità dei territori rispetto alla popolazione non implicava la proprietà. La rivoluzione agricola, come noto, determinò, poi, la necessità di stanziarsi in un luogo. In discussione è il diritto di tutti di “andare al mare”: a parte il diritto di proprietà sugli immobili (il terreno limitrofo alla spiaggia), il cui esercizio deve essere compatibile con la sua funzione sociale, e sulla propria azienda (lo stabilimento balneare) attraverso cui si esplica l'iniziativa economica, nessuno può mettere in dubbio che il mare, come l'aria, siano di tutti. E la Costituzione stabilisce che tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi, per cui dovremmo aspettarci i tribunali pieni di cittadini che chiedono il rispetto dei propri diritti.
Il mare non va inteso come bene demaniale o patrimoniale dello Stato, ma è una res communis omnium, che tutti possono utilizzare, senza pregiudicare il pari diritto degli altri. Ovvio quindi è potervi accedervi senza barriere fisiche e giuridiche.
Sorge allora il problema di garantire in modo efficace l'accesso al mare, che, ad esempio, potrebbe essere impedito o fortemente ostacolato anche per evitare che qualcuno entri nella propria proprietà privata (potrebbe essere l'immobile sulla strada, antistante l'accesso alla spiaggia, transennata ai lati). Il che imporrebbe una discussione più ampia sul concetto di funzione sociale e si verrebbe ad estendere oltremodo la trattazione. Qui interessa ricordare che il libero e gratuito accesso alla battigia attraverso la spiaggia non può essere impedito da chi ha una mera concessione, per cui devono esserci varchi per la gratuita fruizione del mare. In proposito, va richiamata la legge finanziaria 2007 (L. 27 dicembre 2006, n. 296), che, all'articolo 1, comma 251, ha stabilito un «obbligo per il titolare delle concessioni di consentire il libero e gratuito accesso e transito, per il raggiungimento della battigia antistante l'area ricompresa nella concessione, anche al fine della balneazione» (lett. e). Analoga previsione è rinvenibile al comma 254, dove si legge che «le regioni, nel predisporre i piani di utilizzazione delle aree del demanio marittimo (…), sentiti i comuni interessati, devono altresì individuare un corretto equilibrio tra le aree concesse a soggetti privati e gli arenili liberamente fruibili; devono inoltre individuare le modalità e la collocazione dei varchi necessari al fine di consentire il libero e gratuito accesso e transito, per il raggiungimento della battigia antistante l'area ricompresa nella concessione, anche al fine di balneazione». Peraltro, in un primo momento le amministrazioni locali hanno manifestato una certa prudenza, preferendo una interpretazione restrittiva, sia pur costituzionalmente orientata, riconoscendo il diritto di accesso e di transito soltanto quando non fossero state garantite alla collettività spiagge ad utilizzo libero oppure non fosse stato possibile alcun accesso a tali spiagge, se non attraverso l'ingresso negli stabilimenti balneari. Questa impostazione si fondava sull'idea che la ratio legis fosse quella di assicurare ai cittadini «un corretto equilibrio tra aree concesse e arenili liberamente fruibili». Si tratta di una lettura della norma non condivisibile. Il diritto di accesso e transito va inteso come generale libertà per il cittadino di entrare all'interno degli stabilimenti e utilizzare l'area antistante lo stabilimento per raggiungere la spiaggia libera. Tale conclusione trova conferma nell'art. 11, comma 1, lett. d), della Legge Comunitaria 2010 (L. 15 dicembre 2011, n. 217) che ribadisce «il diritto libero e gratuito di accesso e di fruizione della battigia, anche ai fini di balneazione» (e la congiunzione “anche” toglie ogni dubbio sul fatto che il “bagnante” non debba necessariamente entrare in acqua).
Da qui nasce il conflitto tra due tipologie di bagnanti, quelli che hanno pagato e quelli che non hanno pagato un prezzo ad un gestore balneare, per usufruire insieme della battigia.
Non va allora dimenticata la prospettiva per cui la concessione della spiaggia va considerata un'eccezione rispetto alla normale e generale fruibilità del demanio marittimo, per cui il bagnante pagante non ha diritti superiori sulla battigia, rispetto al bagnante non pagante. Nessuno può impedire all'altro di utilizzarla e va rispettato il diritto di ogni bambino di costruire il proprio castello di sabbia (senza licenza edilizia), perché non sta occupando nulla, sta solo giocando ed esercitando la propria fantasia (per la quale non è necessaria un'autorizzazione).