Editoriali

Famiglia e successioni 08.02.2018

Favor minoris, impugnazione del riconoscimento e maternità surrogata. Per un’interpretazione costituzionalmente orientata

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Il dictum della Corte costituzionale.

La sentenza della Corte costituzionale 18 dicembre 2017, n. 272 (Pres. Grossi, est. Amato) ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata dalla Corte di Appello di Milano, della regola, posta dall'art. 263 c.c. ante riforma, nella parte in cui non prevede che l'impugnazione del riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio per difetto di veridicità possa essere accolta soltanto quando rispondente all'interesse del minore.

L'impugnazione ha per oggetto la dichiarazione di una donna che aveva riconosciuto quale figlio un minore in forza di un certificato di nascita formato all'estero, già trascritto nel registro dello stato civile: accertato da indagini di polizia giudiziaria che il minore era stato partorito da altra donna, nell'ambito di un accordo di maternità surrogata, e che il nato aveva rapporti genetici soltanto dal lato paterno della coppia committente, il Tribunale dei minori di Milano, su richiesta del pubblico ministero, aveva nominato ai sensi dell'art. 264 c.c., un curatore affinché provvedesse all'impugnazione del riconoscimento materno.

Accolta in primo grado la domanda del curatore, il giudice di appello ha sollevato la questione di legittimità costituzionale, ponendo il dubbio se la disciplina dell'impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità fosse conforme al principio, riconosciuto dalle convenzioni internazionali e perseguito dal giudice costituzionale, che impone di considerare il concreto interesse del minore in ogni decisione che lo riguardi. Secondo il giudice remittente, inoltre, non sarebbe giustificabile la differenza di trattamento tra il nato da maternità surrogata e quello da fecondazione eterologa; anche prima della sentenza della Corte costituzionale n. 162 del 2014, che ha dichiarato l'incostituzionalità del divieto di fecondazione eterologa, lo stato di figlio nato dall'eterologa, a tutela dell'interesse del minore, non poteva essere sottoposto a impugnazione per difetto di veridicità, ai sensi dell'art. 9 l. n. 40 del 2004, ove vi fosse stato il consenso del genitore sociale alla pratica procreativa. La stessa giurisprudenza della Corte di Strasburgo, secondo la Corte distrettuale, ha ritenuto rilevante l'interesse del minore alla permanenza del rapporto sociale consolidato proprio con riferimento a ipotesi in cui la filiazione derivava da maternità surrogata.

Il Giudice delle leggi, pur dichiarando infondata la questione sollevata dal giudice remittente, ne condivide la prospettazione, quantomeno in linea di principio, rilevando che non sussistono ragioni per non ammettere che l'interesse concreto del minore debba essere preso in considerazione in sede di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità.

Così intesa, la decisione della Corte di dichiarare infondata la questione di costituzionalità sembra trovare argomento nella circostanza che il giudice ordinario, prima di sollevare il dubbio di non conformità, non avesse esaurito il proprio arsenale ermeneutico al fine di pervenire a un'interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione vigente. Interpretazione costituzionalmente orientata che imporrebbe al giudice di bilanciare l'interesse del minore comparandolo con gli altri interessi, ivi compreso quello all'accertamento della verità biologica: seguendo un criterio di valutazione che non dovrebbe comportare in linea di principio l'automatica cancellazione di un interesse in nome degli altri.

Non è chiaro quale sarebbe il fondamento di siffatta interpretazione costituzionalmente orientata, aldilà dei richiamati principi internazionali così come declinati dalla Corte costituzionale: sembra assumere particolare rilievo la regola posta dall'art. 264 c.c., che è intesa nel senso che il giudice debba accertare se in concreto l'impugnazione corrisponda all'interesse del minore prima di autorizzare il curatore a promuoverla. Ma trattasi di norma, nella stessa visione della Corte, volta a determinare se l'azione promossa dal minore sia effettivamente idonea a realizzarne gli interessi; mentre la questione sollevata davanti alla Corte riguarda soprattutto il diverso profilo se l'impugnazione per difetto di veridicità, sollevabile da qualunque interessato, possa essere rigettata ogni qualvolta l'interesse dell'attore alla verità non prevalga nella comparazione con l'interesse del minore alla conservazione del rapporto.

Accolta in linea di principio l'idea che il giudice debba valutare l'interesse concreto del minore al fine di decidere se fare venire meno o no il rapporto di filiazione, la Corte costituzionale indica i criteri che il giudice deve adottare nell'operazione di bilanciamento.

Centrale è l'interesse del minore a mantenere la condizione identitaria già acquisita, derivante dalla durata del rapporto instaurato con il soggetto che lo ha riconosciuto: interesse che il legislatore della novella ha preso adesso in considerazione ponendo un termine decadenziale di cinque anni quale limite all'azione promossa da soggetti diversi dal minore. Altrettanto rilevanti, secondo la Corte, sarebbero le modalità del concepimento e della gestazione e la presenza di strumenti legali, quali l'adozione in casi particolari, che tutelano altrimenti l'interesse del minore ogni qualvolta il giudizio di comparazione non consenta di salvare il rapporto di filiazione derivante dal riconoscimento. Nella valutazione complessiva il giudice non può comunque evitare di considerare, «nel silenzio della legge (…), l'elevato grado di disvalore che il nostro ordinamento riconnette alla surrogazione di maternità, vietata da apposita norma penale».

Nel caso specifico sottoposto al suo giudizio, pur riconoscendo formalmente il potere di valutazione del concreto interesse del minore, il fraseggio della Corte costituzionale sembra vincolare il giudice ordinario in senso favorevole all'accoglimento dell'impugnazione del riconoscimento, sostenendo (con una sfumatura di incoerenza) che sia la legge stessa a imporre «l'imprescindibile presa d'atto della verità, con divieti come quello della maternità surrogata». L'interesse alla verità, secondo la Corte, andrebbe considerato prevalente proprio per la sua “natura pubblica”, perché riguardante «pratiche vietate dalla legge, qual è la maternità surrogata, che offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane»: in quest'ottica, l'interesse concreto del minore non sarebbe cancellato, ma andrebbe preso in considerazione soltanto nei limiti consentiti dal preminente interesse ad accertare la verità.

 

 

Il quadro normativo.

Nel caso in specie, la Corte costituzionale si sarebbe dovuta limitare a rilevare che, come risulta dalla narrazione del fatto, l'impugnazione era stata avviata su istanza del pubblico ministero nell'interesse del minore, secondo la procedura ex art. 264 c.c., e che pertanto era in quella sede che si era accertata, a torto o a ragione, la sussistenza di siffatto interesse; per cui sulla base della stessa prospettazione del giudice remittente, la questione di costituzionalità sarebbe stata inammissibile, perché irrilevante in quel giudizio.

La diversa scelta della Corte costituzionale, di utilizzare lo schema della sentenza interpretativa di rigetto, sembra suggerire l'intenzione di intervenire autorevolmente sulla questione, per il calamo di un illustre costituzionalista, non solo in sede di applicazione dell'art. 263 c.c., ogni qualvolta l'azione non è proposta nell'interesse del minore, ma anche in sede di applicazione dell'art. 264 c.c., nella valutazione degli interessi rilevanti: lasciando tuttavia ampi spazi di manovra al giudice ordinario ed evitando di censurare direttamente il bilanciamento di interessi definito in sede legislativa (al caso si applica la disciplina abrogata) e parzialmente confermato nel recente intervento di riforma.

Si impone preliminarmente qualche considerazione sulla disciplina vigente.

La regola che consente l'impugnazione per difetto di veridicità a chiunque abbia interesse, anche al di fuori del nucleo familiare, al pari dell'azione di contestazione di stato, non deve essere necessariamente letta quale dimostrazione della rilevanza pubblica dell'interesse all'accertamento della verità, poiché può spiegarsi, piuttosto, quale tecnica di legittimazione, espressione della volontà legislativa di attribuire il diritto di impugnare a quei soggetti – genitori genetici o altri consanguinei, parenti e\o eredi del genitore sociale – che intendano demolire il rapporto tra il minore e coloro che, pur presentandosi come genitori, non siano legati da vincoli di ascendenza genetica.

Spiegazione che può trovare conferma nella mancanza di una regola che legittimi ad agire direttamente il pubblico ministero (così: Cass. civ. n. 4201 del 1989; Cass. civ. n. 2515 del 1994), al quale è riconosciuto soltanto il diritto di chiedere al giudice la nomina un curatore per avviare l'impugnazione nell'interesse del minore, secondo la procedura dell'art. 264 c.c.: procedura nell'ambito della quale l'interesse del minore ad agire deve essere certamente valutato mentre, nel silenzio della legge, si può dubitare che possa essere preso in considerazione un preteso interesse pubblico alla verità.

In questa prospettiva, la legittimazione ad agire estesa a qualsiasi interessato sarebbe espressione di un regime ordinario coerente con gli interessi privati potenzialmente in conflitto: mentre sarebbe peculiare la limitazione dei legittimati ad agire per il disconoscimento della paternità dei nati nel matrimonio, residuo di una concezione, posta a tutela del rapporto di filiazione nella famiglia coniugale da interferenze esterne, che non sembra più del tutto coerente con un ordinamento che ha finalmente equiparato il rapporto di filiazione dentro e fuori dal matrimonio.

 

 

Interpretazione costituzionalmente orientata e favor minoris.

L'interesse del minore al mantenimento del rapporto consolidato con i genitori sociali trova adesso riconoscimento nella mediazione legislativa introdotta con la riforma, che prevede un termine quinquennale per l'impugnazione del riconoscimento e per il disconoscimento di paternità da parte di soggetti diversi dal minore (termine che, tuttavia, non è disposto per la contestazione di stato, ponendo dubbi di coerenza del sistema). Questa parte della disciplina della riforma, riguardando l'atto e non il rapporto, non è considerata applicabile retroattivamente, ma seguendo il ragionamento della Corte costituzionale si potrebbe consentire al giudice ordinario, in sede di bilanciamento, di introdurre, in via di interpretazione costituzionalmente conforme, un limite temporale analogo anche per l'applicazione della disciplina previgente: limite temporale che tuttavia non sarebbe rilevante proprio nel caso in specie, in cui l'azione è stata promossa nell'interesse del minore.

Al di fuori di questo profilo, occorre una particolare cautela nel valorizzare lo spunto offerto da questa sentenza della Corte costituzionale.

Secondo l'interpretazione corrente, in sede di impugnazione del riconoscimento, l'attore deve dimostrare in modo rigoroso l'esistenza di un interesse concreto e attuale. Ogni qualvolta l'interesse dell'attore (ad es., il dichiarante o un suo successibile) si riveli in diretto contrasto con l'interesse del minore di mantenere il rapporto costituito, non appare ragionevole porsi un problema di bilanciamento: ci troviamo, infatti, in un ambito conflittuale, dove l'ordinamento non può porsi l'obiettivo di tutelare l'interesse del minore se non sacrificando l'interesse contrapposto. Ove ricorrano siffatte circostanze, l'interesse del minore dovrà essere altrimenti perseguito (ad es., tramite l'adozione).

Il bilanciamento può prospettarsi quando l'interesse dell'attore (ad es., che pretende di essere il vero genitore) non sia direttamente contrapposto all'interesse del minore: in tal caso, però, la valutazione comparativa non deve essere intesa nel senso che si debba rigettare la domanda se non si dimostri che il minore si troverebbe in una condizione migliore, o almeno equivalente, a quella in cui versa nel rapporto di genitorialità contestato (potrebbe venire il dubbio, seguendo questa prospettiva, che la domanda del genitore biologico di condizioni economiche modeste sarebbe da respingere solo perché il genitore sociale sia abbiente). Piuttosto, si pone il dubbio se la domanda di impugnazione del riconoscimento non vada accolta, nell'interesse concreto del minore, ove si dimostri che non si possa comunque costituire un rapporto genitoriale genetico con il minore, dovendo ricorrere all'affidamento e/o all'adozione, o che tale rapporto, ove costituito, sarebbe gravemente pregiudizievole per il minore, anticipando in quest'ultimo caso quelle valutazioni consentite al giudice, secondo la giurisprudenza corrente (Cass. civ. n. 9300 del 2010; Cass. civ. n. 15158 del 2012), in sede di dichiarazione di paternità o di maternità: salvaguardando in tal modo il rapporto costituito ogni qualvolta non sia pregiudizievole per il minore e non possa essere sostituito da altro rapporto che sia geneticamente fondato.

Al contempo, l'interesse concreto del minore potrebbe essere valorizzato per respingere le impugnazioni di riconoscimento proposte dallo stesso dichiarante, ove si dimostri che questi fosse consapevole della mancanza del rapporto genetico al momento del riconoscimento: riconoscendo in tal modo il fondamento delle sollecitazioni già accolte dalla giurisprudenza di merito per un'interpretazione restrittiva dell'azione ex art. 263 c.c.

 

 

Bilanciamento di interessi e maternità surrogata.

Non eversiva nei risultati, anche se eccentrica rispetto al sistema dato, si rivela la ricerca di un'argomentazione tecnica che consenta, in via interpretativa, di considerare rilevanti gli interessi di natura pubblica, conseguenti alla violazione del divieto di maternità surrogata, in sede di impugnazione del riconoscimento.

Il percorso argomentativo, che appare coerente con il dictum della Corte costituzionale, potrebbe essere quello di sterilizzare la rilevanza dell'interesse del minore nella valutazione comparativa, ammettendo che l'azione del terzo possa avere successo, in contrasto con quanto prospettato nel precedente paragrafo, anche in quei casi in cui non vi siano le condizioni che consentano di costituire un nuovo rapporto di filiazione geneticamente fondato. In quest'ottica, l'interesse del minore a mantenere il rapporto consolidato, anche infraquinquennale, sarebbe soddisfatto, nei limiti della comparazione tra gli interessi rilevanti, consentendo l'accesso all'adozione per i casi particolari, ammesso dalla giurisprudenza dominante. Non si tratterebbe di una riduzione di tutela rispetto all'assetto attuale – che anzi sarebbe semplicemente confermato – ricorrendo alla medesima disciplina apparsa congrua in altre vicende di maternità surrogata, in cui, non ammessa la trascrizione del rapporto genitoriale, è stata prospettata l'illiceità dell'allontanamento del minore dalla coppia committente.

La prospettiva perseguita dalla Corte costituzionale – intesa a supportare il divieto di maternità surrogata non consentendo né la costituzione, né il mantenimento del rapporto di filiazione – può incidere significativamente sull'equilibrio degli interessi che il giudice deve comparare in sede di decisione se nominare il curatore per l'impugnazione del riconoscimento, ai sensi dell'art. 264 c.c.: si tratterebbe di un modello innovativo – in cui la valutazione dell'interesse del minore ad agire, da condurre secondo criteri prettamente privatistici, sarebbe contaminata da intenti punitivi nei confronti dei genitori che hanno scelto di utilizzare la maternità surrogata (scelta che non è considerata dimostrativa di inadeguatezza genitoriale) – che però non inciderebbe apparentemente sulle prassi e sugli orientamenti giurisprudenziali. La soluzione sistematicamente più corretta, ma in contrasto con la giurisprudenza consolidata, sarebbe quella di estendere al pubblico ministero la legittimazione ad agire ex art. 263 c.c., qualificandolo quale interessato; riconoscendo in tal modo alla regola di legittimazione assoluta una funzione diversa da quella che reputo appropriata, seppur compatibile con la tutela degli interessi generali.

Da segnalare, quale notazione conclusiva, la forte censura che la Corte costituzionale indirettamente muove verso quella giurisprudenza che tende ad allentare, nei rapporti di diritto privato, la cogenza del divieto della maternità surrogata; censura che manifesta l'intento del Giudice delle leggi di difendere su questo punto l'assetto normativo della legge n. 40 del 2004, indicando, quale prevalente sul diritto alla salute della coppia e sul diritto all'autodeterminazione, la rilevanza costituzionale dell'interesse pubblico alla dignità della donna gestante e delle relazioni umane. Chiusura che, tuttavia, non sembra coinvolgere né le pronunzie che tutelano i rapporti filiali basati sulla discendenza genetica, né quelle che ammettono l'adozione in casi particolari (addirittura riconosciute espressamente), ancorché conseguenti a nascite da maternità surrogata. Restano indenni, infine, da tali valutazioni negative quelle forme di maternità surrogata “solidale” o “relazionale”, che lo stesso giudice remittente considera «non lesive della dignità della donna, né riducibili alla logica di uno scambio mercantile», e su cui è prevedibile che si possano registrare in futuro importanti aperture.

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