Premessa.
Il 14 maggio la Camera dei deputati ha approvato, sostanzialmente all'unanimità (386 favorevoli, 19 astenuti, nessuno contrario) e con tre emendamenti, la proposta di legge avente ad oggetto “Modifiche all'art. 5 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, in materia di assegno spettante a seguito di scioglimento del matrimonio o dell'unione civile”, quale risultante (atto n. 506-A) dalle modificazioni apportate in sede di Commissione Giustizia al testo della p.d.l. n. 506, d'iniziativa della deputata Morani, a sua volta riproduttivo del testo approvato, alla fine della XVII legislatura, nel dicembre 2017, dalla Commissione Giustizia sulla base della p.d.l. n. 4605, d'iniziativa della deputata Ferranti (ed altri).
Si tratta di una vicenda legislativa, in buona sostanza, innescata dalla sentenza della prima sezione della Cassazione n. 11504 del 10 maggio 2017, la quale ha avuto, al di là delle opinioni personali circa la soluzione prospettata, l'indubbio merito di smuovere le acque in una materia, quella dell'assegno di divorzio, da tempo caratterizzata, in giurisprudenza, dopo la sistemazione operata nel 1990 dalle Sezioni Unite (con la sentenza n. 11490 del 29 novembre), da un pigro, se non spesso solo formale, ossequio a direttive esegetiche ormai risalenti nel tempo. L'insoddisfazione per la soluzione delineata in tale decisione e nell'indirizzo esegetico scaturitone in tema di assegno di divorzio – ai sensi dell'art. 5, comma 6, l. 1° dicembre 1970, n. 898, quale risultante ai sensi della l. 6 marzo 1987, n. 74 – ha poi condotto, come è noto, alla presa di posizione delle Sezioni Unite, chiamate, infine, ad intervenire (con la sentenza n. 18287 dell'11 luglio 2018) nonostante l'inquietante tentativo autoreferenziale della prima sezione.
Non si può, in questa sede, che dare per scontato il dibattito conseguente alle due decisioni in questione, intendendo le presenti considerazioni semplicemente (e sinteticamente) chiarire in che termini la vicenda legislativa qui in esame si sia intersecata con quella giurisprudenziale, al fine, ovviamente, di poterne valutare la portata. E ciò anche in vista delle potenzialità di ulteriore riflessione consentite dall'essere comunque ancora in corso, per il necessario passaggio al Senato, l'iter parlamentare del provvedimento.
Ragioni del progettato intervento legislativo ed evoluzione del quadro giurisprudenziale.
Di fronte all'accennato orientamento manifestato dalla prima sezione, un intervento legislativo è sembrato imporsi: ciò, invero, anche indipendentemente dall'ulteriore – già allora preannunciata ed unanimemente attesa – presa di posizione da parte delle Sezioni Unite, nella perseguita prospettiva, evidentemente, di una, per così dire, legittima “riappropriazione”, da parte del legislatore, di una materia, come quella delle conseguenze economiche della crisi familiare, così delicata, per i suoi risvolti umani e sociali.
In effetti, un punto è apparso subito chiaro. Se, invero, non poteva che concordarsi con la prima sezione della Cassazione nel ritenere che i coniugi sono destinati, a seguito dello scioglimento definitivo del vincolo coniugale, ad essere “persone singole”, così come “persone singole” erano prima della relativa instaurazione, il nocciolo della questione è sembrato concentrarsi in una inevitabile opzione: quella tra considerare l'esperienza matrimoniale alla stregua di una tendenzialmente irrilevante parentesi nella vita di due “persone singole”, ovvero, almeno ove essa sia effettivamente consistita – per usare le parole impiegate dalle Sezioni Unite nella loro decisione del 1990 – in “una vera comunione di vita e di interessi”, assumerla come base di partenza per consentire a ciascuna delle parti un successivo autonomo percorso esistenziale.
La scelta che s'intese concretizzare in sede di proposta legislativa fu, allora, in tale ultimo senso, ritenendosi, evidentemente, che il “vissuto” matrimoniale non potesse, nell'ottica di un corretto apprezzamento della portata dell'art. 29 Costituzione, restare relegato in un cono d'ombra nel momento della crisi familiare, ma, piuttosto, costituire oggetto di una equilibrata valutazione e valorizzazione, proprio onde consentire la realizzazione, tra le parti, di quel principio di parità, che una esasperata concezione del principio di “autoresponsabilità”, come quella fatta propria dalla prima sezione, correva il rischio di finire col rendere evanescente.
La via, così, è sembrata quella del superamento dell'impostazione “bifasica” della vicenda del riconoscimento delle contribuzioni post-matrimoniali. Impostazione elaborata dalle Sezioni Unite nel 1990, ma da esse, invero, non portata a quelle estreme conseguenze cui l'aveva condotta la prima sezione, facendone diffusamente avvertire la rigidità e la pericolosità, una volta concepita in modo tale da impedire, nella fase attributiva dell'assegno (c.d. fase dell'an), qualsiasi riferimento allo svolgimento dell'esperienza coniugale ed ai suoi riflessi sulla situazione personale ed economica delle parti (relegato alla c.d. fase del quantum) . L'esasperazione della concezione – per comodità di linguaggio – definibile “assistenzialistica” (se non senz'altro “alimentare”), fino al punto di fondare l'assegno divorzile su una solidarietà neppure riferita al rapporto coniugale (ma sugli artt. 2 e 23 Cost.), è sembrata, in effetti, frutto di una non condivisibile carente valutazione del significato stesso della scelta matrimoniale, soprattutto nel momento in cui l'ordinamento, ormai, offre diverse opzioni a chi intenda realizzare la propria personalità in un ambito di vita familiare.
Il necessario recupero di quell'esigenza – esplicitamente evocata dalle Sezioni Unite nel 1990 e demandata alla giurisprudenza – di interpretare la stessa normativa vigente in modo tale da offrire “una duttile risposta a tutti i vari modelli concreti di matrimonio” è sembrato, così, passare necessariamente attraverso uno spostamento di prospettiva, tale da privilegiare, nella connotazione dell'assegno divorzile, una sua funzione riequilibrativa e perequativo-compensativa, come sola, oltretutto, atta ad assicurare il soddisfacimento di quella dianzi accennata istanza di parità, che non può non essere alla base di qualsiasi scelta in materia di configurazione dei rapporti patrimoniali nella famiglia. Istanza di parità che, ove non adeguatamente realizzata – come notoriamente avviene nel nostro ordinamento in dipendenza di un regime patrimoniale della famiglia dimostratosi tutt'altro che a ciò concretamente funzionale, in conseguenza delle proporzioni assunte dal fenomeno della c.d. “fuga” dalla comunione legale – nella fase della convivenza, finisce con l'imporre un adeguato strumentario d'intervento nel momento della crisi definitiva della relazione familiare.
In una simile ottica, in effetti, il fermo richiamo, allora, all'art. 29 Cost. si è reputato acquistare il senso non di un nostalgico favore per visioni più o meno indissolubilistiche del matrimonio, ma di un necessario riconoscimento degli apporti di ciascuno dei coniugi alla vita familiare come fondamento di pretese autonome, tali da assicurare, appunto a ciascuno di essi, quell'adeguata partecipazione a quanto costruito insieme durante il matrimonio. Il coniuge il quale, in dipendenza del divorzio, si venga a trovare in condizioni di debolezza, non cerca, in effetti, assistenza, ma semplicemente un giusto riconoscimento, appunto, per gli sforzi, se non per i veri e propri sacrifici, profusi durante il matrimonio per assicurare il buon funzionamento della compagine familiare.
La proposta d'intervento legislativo n. 4605 (per il cui esame non può qui che rinviarsi a quanto accennato nell'Editoriale del 22 novembre 2017, “Assegno di divorzio: ora si muove il legislatore”), insomma, ben oltre il mero intento di conferire adeguata certezza ai rapporti tra le parti in un momento tanto delicato della loro esistenza, intendeva assumere, in attesa di una più estesa – auspicabile – rimeditazione dell'intera materia dei rapporti patrimoniali tra coniugi e uniti civilmente, una chiara posizione in ordine alla funzione delle contribuzioni post-matrimoniali. Come riferito nella relazione alla p.d.l. n. 506, il relativo testo finale, frutto di una convinta convergenza degli esponenti delle diverse formazioni politiche partecipanti, fu definito in sede di Commissione Giustizia della Camera dei deputati a seguito di un ampio dibattito svoltosi anche attraverso numerose audizioni di magistrati, avvocati in rappresentanza delle relative associazioni e docenti universitari.
Significativamente, le Sezioni Unite, con la loro decisione del luglio 2018 hanno finito, pur senza ad essa dichiaratamente riferirsi, con l'avallare pienamente la prospettiva posta a base dell'iniziativa legislativa della XVII legislatura e tempestivamente riproposta nella XVIII.
Basti qui ricordare, in effetti, come al superamento della rilevanza attribuita dalle Sezioni Unte nel 1990 al criterio attributivo fondato sulla tendenziale conservazione del “tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio”, in quanto incompatibile con la funzione stessa del divorzio, si sia accompagnata una chiara delineazione della “funzione perequativa e riequilibratrice” dell'assegno divorzile, reputandosi solo così rispettato il “modello costituzionale dell'unione coniugale, incentrata sulla pari dignità dei ruoli che i coniugi hanno svolto nella relazione matrimoniale”: modello che non può non comportare, nel momento della crisi definitiva dell'esperienza familiare (e per non “azzerare l'esperienza della relazione coniugale”), la rilevanza dei riflessi di quella “conduzione familiare … frutto di decisioni libere e condivise”, cui si “collegano doveri e obblighi che imprimono alle condizioni personali ed economiche dei coniugi un corso, soprattutto in relazione alla durata del vincolo, anche irreversibile”. Proprio in vista di ciò, allora, in vista del definitivo superamento di qualsiasi “separazione e graduazione nel rilievo e nella valutazione dei criteri attributivi e determinativi” dell'assegno (secondo l'impostazione delineata dalle Sezioni Unite nel 1990 e portata alle estreme conseguenze dalla prima sezione nel 2017), l'“adeguatezza” dei mezzi a disposizione, cui si riferisce l'art. 5, comma 6, dovendosi ritenere assumere, insomma, “un contenuto prevalentemente perequativo-compensativo”, soprattutto quale riflesso della presa d'atto della “molteplicità dei modelli familiari attuali” e della connessa esigenza di prospettare criteri di definizione della contribuzioni post-matrimoniali atti ad adeguarsi, appunto, alla “molteplicità di situazioni” concretamente conseguenti alla dissoluzione della compagine familiare.
Non si è mancato, alla luce di una simile convergenza della prospettiva riuscita, infine, trionfante in giurisprudenza rispetto a quella già ispiratrice dell'iniziativa legislativa in materia, di dubitare circa l'opportunità della prosecuzione dell'iter parlamentare della proposta sfociata, ora, nell'approvazione da parte della Camera dei deputati. Il legislatore, però, come emerge anche da dichiarazioni di voto rese in aula (e v., specificamente, on. D'Orso), si è a ragione ritenuto investito della responsabilità di operare sul piano normativo, al fine di offrire una soluzione comunque più certa e, soprattutto, nel rispetto del suo ruolo istituzionale, ritenuta maggiormente conforme alle istanze della società. Peraltro, l'intervento legislativo sarebbe suscettibile di assumere un significato ancora maggiore, ove potesse costituire, secondo quanto non si è mancato di auspicare, occasione di andare – e proprio nell'ottica posta a base dell'iniziativa legislativa, quale condivisa pure dalle Sezioni Unite – oltre l'attuale disciplina, che vede il regime economico post-coniugale incentrato sullo strumento dell'assegno di divorzio, nella sua configurazione periodica. L'essere ancora non concluso l'iter parlamentare del provvedimento potrebbe, in effetti, ancora consentire, oltre che ritocchi correttivi del testo approvato, un simile sviluppo dell'intervento legislativo stesso, in termini che più oltre si avrà modo di illustrare.
Una precisazione preliminare: assegno, ma non solo.
Passando all'esame del testo quale passato al vaglio della Camera dei deputati, l'accenno ai suoi contenuti pare da operare evidenziando le modificazioni apportate all'originaria p.d.l. n. 506, tanto in sede di Commissione Giustizia, quanto in aula, onde apprezzarne il senso e la reale funzionalità ai fini del relativo miglioramento.
Le osservazioni che seguono concernono programmaticamente la sola materia dell'assegno di divorzio, specificamente richiamata, del resto, nell'intitolazione del provvedimento. Ciò pare il caso di precisare, dato che, del tutto inopinatamente, risulta inserito, a seguito di un emendamento approvato in aula, come primo articolo del provvedimento, una disposizione, modificativa del comma 8 dell'art. 4 l. div., con cui si prevede, in aggiunta a quanto in esso attualmente stabilito, che “su richiesta di parte il presidente si riserva di riferire immediatamente al collegio per la pronuncia non definitiva relativa allo scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio” (con conseguente abrogazione del comma 12 dello stesso articolo, di cui vengono, comunque, riprodotte le due ultime frasi).
Al di là di qualsiasi più approfondita considerazione circa la portata di tale intervento, peraltro sicuramente estraneo alla materia dichiaratamente propria del provvedimento in discussione e qui oggetto di attenzione, pare opportuno evidenziare come l'intento di chi lo ha proposto, almeno quale espressamente emergente dal resoconto dei lavori in aula, parrebbe essere stato addirittura quello di stravolgere completamente la dinamica procedimentale in tema di divorzio, sottolineandosi che “dal momento in cui il ricorso è depositato e il presidente fisserà l'udienza presidenziale, già in quella fase potrà dichiarare libere” le parti, e “quindi pronunciare sullo status” (on. Bartolozzi). Il testo definito, comunque (vien voglia di dire, fortunatamente), non rispecchia un simile intento e, nelle dichiarazioni di voto della medesima parlamentare, del resto, ci si limita a enunciare essere stata, con l'emendamento approvato, “prevista la possibilità, in sede di giudizio di divorzio, di emettere la cosiddetta ‘sentenza parziale sullo status'”, quasi che ciò non fosse già previsto – conseguentemente lasciando, almeno a prima lettura, alquanto perplessi circa la reale carica di innovatività dell'operato intervento – nell'abrogato comma 12 (che, pare il caso di ricordare, nella legislazione processuale del 2005, si collegava strettamente con quanto disposto, con riguardo alla separazione personale, dall'identicamente formulato art. 709-bis c.p.c.).
Il “nuovo” assegno di divorzio e la sua funzione.
Avendo dianzi sottolineato la sostanziale contiguità della definizione della figura dell'assegno di divorzio nella proposta legislativa alla base del testo approvato con quanto emerge dalla decisione delle Sezioni Unite del luglio 2018, pare quasi inutile attardarsi sulla filosofia di fondo che impronta il nuovo testo dell'art. 5, l. div., quale emergente con chiarezza dalla p.d.l. n. 506.
Innanzitutto, ai criteri presi in considerazione per il riconoscimento dell'assegno risulta ormai estranea qualsiasi distinzione tra quelli finalizzati all'attribuzione e quelli operanti ai fini della quantificazione. Alquanto stana, di conseguenza, presentandosi l'osservazione, in sede di dichiarazione di voto (on. Boldrini), secondo cui la proposta, alla base del testo approvato, avrebbe dettagliato “separandole tra loro, le condizioni per l'attribuzione dell'assegno da quelle per la sua quantificazione”. In effetti, proprio nella proposta iniziale, l'indicazione, nel nuovo comma 6, della finalità da perseguire attraverso l'assegno (in quanto, cioè, “destinato a equilibrare, per quanto possibile, la disparità che lo scioglimento o la cessazione degli effetti del matrimonio crea nelle condizioni di vita rispettive dei coniugi”) si saldava strettamente con l'enunciazione (nel comma successivo) dei criteri valutativi dettagliati nel comma successivo (introdotta dalla formula “al fine di cui al sesto comma”).
Piuttosto, sotto tale profilo, non si può fare a meno di evidenziare – al di là della irrilevanza sostanziale, in relazione ad un diverso profilo, della formulazione dello stesso comma 6, a seguito di un emendamento in sede di discussione in aula, tendente a specificare che “il tribunale può disporre a carico di un coniuge l'obbligo di versare all'altro coniuge un assegno”, adottata in luogo della dizione contenuta nella proposta originaria, secondo cui “il tribunale può disporre l'attribuzione di un assegno a favore di un coniuge” – come la lodevole linearità del testo della proposta, nella sua armonia con la concatenazione caratterizzante quegli artt. 270 e 271 code civil che risultano avere indubbiamente influenzato la disciplina adottata, sia andata alquanto smarrita a seguito di un intervento emendativo operato in sede di Commissione Giustizia (e recepito nel finale nuovo articolato).
In effetti, nella proposta veniva enunciata espressamente – quasi per fugare qualsiasi dubbio circa l'abbandono di quella sua concezione esclusivamente assistenziale che, costantemente enunciata, almeno a parole, a partire dalla pronuncia delle Sezioni Unite del 1990, aveva finito col risultare esasperata dall'indirizzo delineato dalla prima sezione nel 2017 – la dianzi ricordata finalità “riequilibrativa” propria dell'assegno di divorzio, essendosi preferita una simile formulazione a quella, in termini “compensativi”, adottata nel codice francese, art. 270 code civil, nonché in quello spagnolo, art. 97 código civil (e pare il caso di sottolineare come la variante verbale privilegiata non potesse essere reputata di grande portata, se le Sezioni Unite individuano la funzione dell'assegno “in chiave perequativa-compensativa”, in quanto destinato a “a ristabilire una situazione di equilibrio che con lo scioglimento del vincolo era venuta a mancare”). Ed era proprio ad una simile enunciazione che, evidentemente, si ricollegava, nel comma successivo, l'individuazione dei criteri, ad un tempo attributivi e determinativi, dell'assegno: non a caso esprimendosi la relativa formula introduttiva in termini di “Al fine di cui la sesto comma”.
In sede di Commissione Giustizia, il (nuovo) comma 6 è stato amputato dell'enunciazione della finalità da perseguire col riconoscimento dell'assegno, quasi che ciò potesse, in qualche misura, mutare il reale senso complessivo dell'intervento (come sembra, peraltro, avere ritenuto, sempre in sede di dichiarazione di voto, l'on. Bisa, reputando “svanito, quindi, il carattere compensativo dell'assegno), una volta conservata comunque sostanzialmente inalterata l'individuazione dei criteri contenuta nel comma successivo. Criteri tutti, in effetti, chiaramente improntati all'esigenza di operare una globale valutazione della situazione delle parti al momento della crisi definitiva della loro unione, alla luce dell'incidenza che le scelte di vita concretamente adottate di comune accordo durante la convivenza possano avere avuto su di essa, onde, appunto, rimediare agli “squilibri” eventualmente venutisi a determinare, di conseguenza, nella posizione di una delle parti stesse, “compensandola” corrispondentemente .
Così, la sostituzione, nel comma 6, della enunciazione esplicita della finalità perseguita attraverso il riconoscimento dell'assegno con una più anodina formula di rinvio al comma successivo (e, evidentemente, agli elementi di valutazione della situazione delle parti ivi individuati: “tenuto conto delle circostanze previste nel settimo comma”) finisce semplicemente col lasciare – forse per quel timore di parlare chiaro, evidentemente estraneo alle preoccupazioni di altri legislatori, ma ormai inveterato nella nostra legislazione familiare (e di cui costituiscono la forse più nota espressione diverse formule impiegate nella l. n. 76 del 2016) – assai meno comprensibile che nel testo originario della proposta la conservata utilizzazione, nel (nuovo) comma 7, dell'espressione “Al fine di cui al sesto comma”.
I nuovi criteri valutativi e la portata del riferimento alla “durata del matrimonio”.
In ordine ai criteri valutativi alla base del riconoscimento dell'assegno di divorzio, ne viene sostanzialmente confermata l'individuazione operata dalla p.d.l. n. 506.
Circa questi ultimi, è da ricordare come, peraltro, in sede di Commissione Giustizia si fosse ritenuto preferibile enunciare (cfr. atto n. 506-A) quello della “durata del matrimonio” nel corpo della elencazione dei criteri stessi (e sia pure al primo posto: “Al fine di cui al sesto comma, il tribunale valuta: la durata del matrimonio; …”). Con ciò, evidentemente, disattendendo la prospettiva, fatta propria dalla p.d.l. n. 506 e frutto della riflessione operata nella stessa sede nella legislatura precedente, secondo cui quello della “durata” – come risulta, del resto, già nel testo fin qui vigente (ove si prescrive di valutare “tutti” gli “elementi” da prendere in considerazione “in rapporto alla durata del matrimonio”) e secondo quanto correttamente evidenziato dalle stesse Sezioni Unite nel 1990 ed emergente dalla motivazione della loro più recente decisione del 2018 (laddove si sottolinea, appunto, i vari “indicatori delle caratteristiche della unione matrimoniale” assumere “rilievo direttamente proporzionale alla durata del matrimonio”) – si atteggia, più che quale mero (autonomo) criterio, come necessario angolo prospettico sotto cui valutare (tutti) i singoli criteri (una sorta, insomma, di “filtro” attraverso cui apprezzarne la concreta rilevanza nel caso concreto: in una simile ottica, in effetti, essendo proprio da apprezzare l'incipit del comma 7 nella formulazione originaria della p.d.l. n. 506, “Al fine di cui al sesto comma, il tribunale valuta, in rapporto alla durata del matrimonio: …”).
L'approvazione, in aula, di un emendamento (modificato nel corso della seduta), sull'apprezzamento del cui senso sostanziale si tornerà di qui a poco, ha finito, peraltro, col ridare, in conformità alla scelta operata nella proposta originaria, al criterio della “durata del matrimonio” proprio quella condivisibile portata negatagli in sede di Commissione Giustizia. In effetti, secondo il resoconto della discussione, l'emendamento in questione si presenta – nel contesto del parere favorevole espresso dalla relatrice on. Morani – letteralmente formulato nei seguenti termini: “al comma 2, primo capoverso, sostituire le parole: la durata del matrimonio; con le seguenti: , in rapporto alla durata del matrimonio alla data dell'ordinanza presidenziale emessa ai sensi dell'arti. 708 del codice di procedura civile”. Non risulta difficile arguire che, con ciò, abbia finito con l'essere tenuto presente il testo originario della proposta, piuttosto che quello approvato in Commissione, in cui il riferimento a “la durata del matrimonio” si limitava, come accennato, ad aprire l'elencazione dei diversi criteri di valutazione dell'assegno (e nel quale, quindi, il testo dell'emendamento non si prestava ad essere correttamente interpolato). Così, allora, come risultato del conseguente finale drafting del testo approvato, si è ritornati al riconoscimento della – come dianzi accennato, sicuramente più condivisibile – portata al criterio della “durata del matrimonio”.
Quanto, poi, alla utilizzazione della sintetica formula “durata del matrimonio” da parte della proposta originaria, pare il caso di ricordare come la giurisprudenza abbia, già da tempo e con pragmatica chiarezza, precisato (a partire da Cass. n. 1616/1995) la (ovvia) necessità di una considerazione articolata di tale prospettiva valutativa (a seconda, cioè, della sussistenza o meno di una situazione di effettiva convivenza familiare, con conseguente necessità di puntuale dimostrazione della persistenza delle esigenze di tutela legate ai singoli criteri dopo la relativa cessazione: ciò con riferimento, in particolare, a quello concernente la cura della prole, ora testualmente enunciato e su cui più oltre si ritornerà, anche per valutare proprio i possibili – eventualmente alquanto perversi – riflessi dell'emendamento in esame).
L'intento alla base dell'emendamento approvato risulta, in effetti, abbastanza chiaro. Si tratta, in buona sostanza, dell'esigenza di fissare un limite al periodo da prendere in considerazione nell'applicazione dei criteri valutativi di seguito dettagliati, identificandone senz'altro il momento finale con l'udienza presidenziale nel procedimento di separazione, di cui all'art. 708 c.p.c. Così, evidentemente, ritenendosi opportuno ravvisare come rilevante solo la “convivenza matrimoniale”, da intendere come “lo spazio di tempo che intercorre tra la celebrazione del matrimonio e l'udienza presidenziale in fase di separazione” (in tale prospettiva, infatti, la dichiarazione di voto dell'on. Bartolozzi).
Il testo in tal senso emendato si presta a due considerazioni.
La prima concerne l'essere il riferimento alla “durata del matrimonio” da considerarsi rilevante indifferenziatamente operato “alla data dell'ordinanza presidenziale emessa ai sensi dell'articolo 708 del codice di procedura civile”. E' evidente come, tenendo presente l'ipotesi di gran lunga più consistente – e, effettivamente, quasi assorbente – di “causa” di divorzio, si sia tralasciato, peraltro, di considerare come le “cause” di divorzio non si esauriscano in essa e, anche quale fondamento – per essersi comunque realizzata una pregressa comunità di vita tra le parti – del riconoscimento di un assegno, ben possano essere diverse da quella basata sulla pregressa separazione personale. Pare, quindi, imporsi – ove s'intenda confermare l'operata delimitazione temporale – procedere ad una necessaria integrazione, introducendo l'ulteriore precisazione del riferirsi qui la disposizione ai (soli) “casi di cui all'articolo 3, comma 1 , numero 2), lettera b), della legge 1° dicembre 1970, n. 898, e successive modificazioni” (formulazione, questa, correttamente impiegata nell'art. 6 del d.l. 132/2014, convertito in l. n. 162/2014, in tema di “convenzione di negoziazione assistita”).
Più delicata si presenta la seconda. In effetti, la formula introdotta in via di emendamento, ove si tengano ben a mente le considerazioni svolte nel contesto del dianzi ricordato indirizzo giurisprudenziale inaugurato da Cass. 1616/1995, sembra presentare problematicità tanto in eccesso che in difetto. In eccesso, dato che la convivenza matrimoniale, nella pienezza del suo significato di comunità di vita, può essere senz'altro cessata prima della momento ora assunto come una sorta di spartiacque temporale nella rilevanza dei vari criteri di valutazione di seguito elencati. In difetto, e la questione pare qui assumere maggiore gravità, dato che, soprattutto per quanto concerne il criterio, ora innovativamente e condivisibilmente introdotto, consistente ne “l'impegno di cura di figli comuni minori, disabili o comunque non economicamente indipendenti”, non pare proprio che possa farsi a meno, nel momento della finale definizione delle contribuzioni post-matrimoniali, di considerare la sua rilevanza anche nel periodo successivo a quello preso in considerazione (e, addirittura, durante quello di separazione personale). Anzi, in altri ordinamenti, tra cui proprio quello francese assunto dichiaratamente a modello della riforma, non si manca di indicare, addirittura, la necessità di un giudizio prognostico, invitandosi a tenere presente, nella valutazione dei sacrifici coinvolgenti le proprie opzioni di vita, con riguardo alla “educazione dei figli”, oltre che il periodo di “via comune”, anche il “tempo che occorrerà ancora consacrarvi” (e, al riguardo, rilevante sembra anche il richiamo ai §§ 1570 e 1574 BGB). In tal senso, allora, sarebbe, è da credere, senz'altro opportuna una corrispondente integrazione del criterio accennato.
I singoli criteri.
Il discorso concernente i criteri di valutazione elencati nel nuovo comma 7 può essere breve, dato che, come dianzi accennato, essi possono riassumersi nella consapevolezza di conferire adeguata rilevanza ai riflessi del “vissuto” familiare sulla situazione delle parti al momento della crisi finale della loro unione.
Tralasciando quello, già esaminato, relativo alla cura dei figli (con una corretta perimetrazione della relativa categoria, estesa anche ai “figli”, oltre che “minori” e “disabili”, “comunque non economicamente indipendenti”, in armonia con la peculiare attenzione che l'ordinamento tende a prestare alla posizione del “giovane maggiorenne” ed ai suoi rapporti con la famiglia in cui continua ad essere inserito), sicuramente da approvare è la collocazione di quello consistente nel “contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello di entrambi” (già presente nell'attuale disposizione in materia) come strettamente collegato a quello rappresentato dalle “condizioni personali ed economiche in cui i coniugi vengono a trovarsi a seguito dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio”. Ciò sembra rispondere, in effetti, alla funzione che si è inteso affidare all'assegno di divorzio, nei termini che si è cercato di chiarire dianzi.
Piuttosto, ove pure non si voglia considerare pleonastica anche la precisazione delle “condizioni” dei coniugi conseguenti al divorzio, nel senso che esse devono intendersi come “condizioni personali ed economiche”, sicuramente tale deve reputarsi il riferimento, quale autonomo criterio di valutazione, a “l'età e lo stato di salute del richiedente” (riferimento introdotto in sede di definizione del testo da parte della Commissione Giustizia).
In effetti, un simile riferimento, risulta effettivamente specificamente presente in molte altre legislazioni (come quelle francese, spagnola, inglese, tedesca e svizzera), ma è stato, da parte della dottrina e della giurisprudenza, sempre pacificamente inteso come da reputare incluso nelle valutazioni concernenti le, comprensivamente evocate, “condizioni” dei coniugi (secondo quanto emerge pure dal richiamo all'“età del richiedente” nel contesto della più recente decisione delle Sezioni Unite), il richiamo generico alle quali è assente, invece, nelle altre legislazioni accennate. Valutazioni, quelle inerenti alle “condizioni” delle parti, che la proposta correttamente riferisce al momento del venir meno del matrimonio (ed ai relativi riflessi sulla complessiva situazione delle parti stesse), trattandosi del momento in cui devono essere definitivamente risolte le questioni economiche radicate nell'ormai pregresso rapporto di vita.
A ragione, la p.d.l. n. 506 ha contemplato, tra i criteri di valutazione rilevanti, quello concernente “il patrimonio e il reddito di entrambi” (aggiungendo, quindi, al riferimento ai “redditi”, operato nel vigente comma 6, quello al “patrimonio”, in armonia, del resto, con l'esegesi corrente di tale disposizione). Sempre in sede di Commissione Giustizia si è voluto precisare che il “reddito” da prendere in considerazione è solo quello “netto” (l'impiego del singolare sembra, in effetti, escludere che tale qualificazione sia riferita anche al “patrimonio”). Precisazione, questa, che ha il sapore dell'ovvietà, se riferita al prelievo fiscale e previdenziale (come, del resto si è da sempre pacificamente ritenuto già alla luce della formulazione vigente), ma che presenta un qualche profilo di insidiosità, prestandosi ad essere intesa come riferita ad altri (indeterminati e, quindi, eventualmente pretestuosamente addotti) oneri.
Da salutare con favore è, infine, il criterio – la cui formulazione rappresenta frutto di un affinamento dell'iniziale p.d.l. n. 4605, a seguito della riflessione sui relativi contenuti, sfociata, appunto, nel testo varato dalla Commissione Giustizia nella legislatura precedente, fatto proprio dalla p.d.l. 506 e ora approvato – che si presenta formulato in termini di “ridotta capacità reddituale dovuta a ragioni oggettive, anche in considerazione della mancanza di un'adeguata formazione professionale o di esperienza lavorativa, quale conseguenza dell'adempimento dei doveri coniugali nel corsi della vita matrimoniale”. Pare quasi inutile sottolineare come qui risulti emergere, per così dire a tutto tondo, la rilevanza che si è inteso conferire alle rinunce ed ai sacrifici – appunto sul piano professionale – eventualmente legati alle scelte comuni in ordine agli assetti della vita familiare, secondo quanto non ha mancato di venire diffusamente evidenziato (e valorizzato) anche da parte delle Sezioni Unite nella loro più recente decisione (con la relativa allusione alla necessità, appunto, di tenere “conto delle aspettative professionali ed economiche eventualmente sacrificate”).
Resta solo da aggiungere come il riferimento alla “formazione” in campo professionale del coniuge avrebbe, forse, potuto opportunamente essere integrato con quello alla “affermazione” in tale campo, con ciò attingendo, in sostanza, ancora una volta dall'esperienza francese, con il suo richiamo, nell'art. 271 code civil, alle rinunce fatte per “favorire la carriera del proprio congiunto a detrimento della propria”.
Resta da ricordare come il testo approvato intoni il de profundis per il profilo risarcitorio dell'assegno di divorzio. In effetti, anche per la sua incerta perimetrazione, tale criterio ha avuto sempre carattere recessivo nel contesto del riconoscimento dell'assegno (prospettiva, questa, che risulta emergere, del resto, anche dalla quasi nulla considerazione per il profilo in questione da parte della stessa più recente decisione delle Sezioni Unite). La formulazione cui era pervenuta la Commissione Giustizia nella precedente legislatura, ereditata dalla p.d.l. n. 506, tendeva ad armonizzare il nostro ordinamento con l'orientamento, in proposito, della più gran parte degli altri ordinamenti, indirizzato a contemplare la riduzione dell'assegno (se non, addirittura, la relativa negazione) in caso di comportamenti gravemente lesivi della comunione coniugale.
In effetti, la formulazione adottata e ora espunta dal testo (“il comportamento complessivamente tenuto da ciascuno in ordine al venir meno della comunione spirituale e materiale”) intendeva ispirarsi a quanto previsto in tali ordinamenti (Francia, Germania, Inghilterra, Svizzera), nei quali, appunto, non si manca di prevedere che l'assegno possa essere ridotto o senz'altro negato, nel caso in cui il relativo riconoscimento assuma i tratti della “iniquità”, proprio in considerazione della gravità di comportamenti tenuti dal richiedente. Ciò, evidentemente, per conservare già all'interno del sistema della disciplina delle conseguenze della crisi coniugale – e delle relative valutazioni – la possibilità di sanzionare comportamenti (almeno gravemente) lesivi della personalità degli altri membri della famiglia (coniuge e figli), una volta inteso l'ambiente familiare come luogo elettivo della sua proiezione e sviluppo. L'avere eliminato una simile potenzialità sanzionatoria del giudizio concernente il riconoscimento di contribuzioni post-matrimoniali finisce, quasi inevitabilmente, con l'avallare la tendenza a ricercare sul piano del diritto comune la reazione ai comportamenti in questione: tendenza, peraltro, oggetto di persistenti perplessità, se non altro per l'incertezza della perimetrazione della responsabilità c.d. “endofamiliare”, alla luce dell'indubbio carattere di specificità che la “doverosità” – e, quindi, l'individuazione dei comportamenti sanzionabili per la relativa trasgressione – risulta inevitabilmente destinata ad assumere in ambito familiare.
Eventuale carattere solo temporaneo dell'assegno e sua possibile esclusione.
La possibilità di prevedere un assegno di carattere (solo) temporaneo si presenta sicuramente diffusa negli altri ordinamenti: da ricordare, al riguardo, pare soprattutto quello tedesco, ma anche la stringata formulazione della disciplina spagnola, laddove si allude all'eventuale attribuzione di una “pensione temporanea o per tempo indefinito”. Essa, del resto, rappresenta effettivamente una soluzione che ben si accorda con l'esigenza di adattare le contribuzioni post-matrimoniali alle concrete dinamiche familiari, avendo specifico riguardo alla situazione in cui i coniugi vengono a trovarsi in conseguenza del venir meno della comunità familiare (e proprio per le caratteristiche che l'avevano contrassegnata sulla base di condivise scelte di vita). Al riguardo, ci si riferisce correntemente, in particolare, a quei matrimoni non durati a lungo e caratterizzati dalla presenza di coniugi ancora giovani, in grado, quindi, di acquisire in tempi ragionevoli l'attitudine a svolgere un'attività lavorativa adeguata, anche superando eventuali condizionamenti negativi in precedenza derivanti dal funzionamento della compagine familiare (e, ovviamente, tenendo adeguatamente presenti le persistenti esigenze di cura della prole).
La questione, del resto, risulta essere stata ben presente anche alle Sezioni Unite, le quali, proprio di fronte all'accennato panorama degli ordinamenti non avevano mancato, peraltro, di sottolineare come l'esigenza sottesa al carattere eventualmente solo temporaneo dell'assegno trovi, già allo stato della legislazione, un “puntuale correttivo nel meccanismo legislativo della revisione delle condizioni della sentenza di divorzio per fatti sopravvenuti”, con evidente allusione, insomma, a quanto previsto dal – lasciato ora inalterato – attuale art. 9,comma 1, l. div. Ed è chiaro come, di fronte alla scelta ora operata col nuovo comma 8 dell'art. 5, tutto sommato giustificata alla luce delle altre esperienze legislative (oltre che per il senso di corretta valorizzazione del principio di “autoresponsabilità” che essa evidentemente intende assumere), un simile meccanismo revisionale risulti destinato ad operare, per così dire, all'inverso di quanto emergente dalla prospettiva delineata dalle Sezioni Unite: al fine, cioè, di rimediare, alla luce del mutamento delle circostanze rispetto a quelle esistenti al momento della relativa decisione, al giudizio prognostico posto a base del conferimento all'assegno del carattere di temporaneità.
Peraltro, in considerazione della diversità delle situazioni concrete che pare possano venire addotte a giustificazione di una temporaneità dell'assegno, sarebbe risultata forse più opportuna una formulazione della previsione maggiormente comprensiva di quella ora approvata, in quanto semplicemente (e complessivamente) riferita ai criteri attributivi indicati nel comma precedente. E, nella medesima prospettiva, in una con la previsione della possibile temporaneità dell'assegno, si sarebbe potuto esplicitare la possibilità di esclusione dell'assegno, sulla base, appunto, di una ponderata applicazione dei criteri stessi: con ciò, del resto, facendo semplicemente tesoro di quanto, a suo tempo, precisato dalle Sezioni Unite nel 1990 (ma, invero, oggetto di applicazione alquanto ondivaga da parte della giurisprudenza), circa la possibile esclusione, appunto, dell'assegno “sulla base dell'incidenza negativa di uno o più” di essi.
La problematica concernente la possibile esclusione dell'assegno, viene ora affrontata nel nuovo comma 9, essendosi, inoltre, reputato che la relativa introduzione finisca col rendere inutile la conservazione della previsione, di cui all'attuale comma 10 (conseguentemente espressamente abrogato), concernente le ipotesi di “cessazione” dell'obbligo di corresponsione dell'assegno. E, realmente, una volta operata la scelta di prevedere già nella sede propria del riconoscimento dell'assegno (e, quindi, nell'art. 5) le situazioni – su cui si ritornerà immediatamente di seguito – da considerare, in linea di principio, senz'altro ostative alla debenza dell'assegno, realmente eroso risulta destinato a restare il possibile spazio dell'attuale comma 10.
Peraltro, non si può fare a meno di sottolineare come, delle situazioni contemplate nel nuovo comma 9, due abbiano senso, per definizione, nell'ottica di della “cessazione” di un pregresso obbligo di corresponsione, dato che, evidentemente, le “nuove nozze” e la “unione civile” presuppongono un già avvenuto scioglimento del (precedente) matrimonio (o unione civile): in effetti, l'operatività, per così dire, genetica delle circostanze in questione finisce con l'essere relegata esclusivamente al caso in cui la decisione circa l'assegno si collochi, nel procedimento di divorzio, a valle di una decisione (parziale) in ordine allo status. C'è da chiedersi, allora, se non sarebbe il caso – per migliorare l'intelligibilità della disposizione – di integrare la formulazione ora adottata, nel senso che “l'assegno non è dovuto, o cessa di essere dovuto, nel caso …”.
Per venire alle situazioni considerate ostative alla pretesa al conseguimento di un assegno, è da sottolineare, innanzitutto, come la formulazione rifletta una necessaria presa atto della svolta impressa al nostro ordinamento dalla l. n. 76 del 2016: da una parte, con l'introduzione dell'istituto – ad esito del fin troppo noto dibattito, configurato quale ambiguamente paramatrimoniale – della “unione civile”; dall'altra, con un espresso riconoscimento della rilevanza giuridica della convivenza non matrimoniale. In effetti, quasi unanime, al riguardo, si presenta l'opinione secondo cui il legislatore avrebbe introdotto, con il relativo art. 1, commi 36 ss., un vero e proprio nuovo status di carattere familiare: quello, appunto, di “convivente” (la cui qualificazione “di fatto” è stata, di conseguenza, diffusamente considerata sostanzialmente contraddittoria).
A ragione, quindi, è sembrata imporsi l'esplicita estensione dell'esclusione dell'obbligo di corresponsione dell'assegno anche al caso della “convivenza”, richiamando e valorizzando, a tal fine, quel tratto, la “stabilità”, che deve ritenersi essenziale in ordine alla sua rilevanza giuridica, anche secondo la – anche se largamente contestata – scelta definitoria operata dal legislatore nell'art. 1, comma 36, l. 76/2016. Una volta, peraltro, optato – come si è inteso fare in sede di esame della p.d.l. n. 506 da parte della Commissione Giustizia – per l'espresso richiamo a tale (e solo a tale) ultima disposizione (avendo a mente, ovviamente, il relativo nocciolo sostanziale), sovrabbondante sembra presentarsi la testuale precisazione circa la rilevanza della stabile convivenza “anche non registrata”, data la – così operata – esclusione di ogni riferimento al comma 37. Scelta, quella di escludere di allargare il riferimento normativo al comma 37, sicuramente corretta, alla luce della prevalenza dell'indirizzo tendente ad individuare la rilevanza della registrazione ivi contemplata esclusivamente sul piano probatorio.
Quanto, poi, alla “definitività” dell'esclusione dell'assegno in presenza delle situazioni prese in considerazione, si è voluto esplicitare che “l'obbligo di corresponsione dell'assegno non sorge nuovamente a seguito di separazione o di scioglimento dell'unione civile o di cessazione dei rapporti di convivenza”. Dato che non si è mai seriamente dubitato che il fallimento della successiva unione matrimoniale possa far “rivivere” una pretesa all'assegno (a carico dell'ex coniuge), appare chiaro come la reale portata della precisazione finisca col concernere il venir meno della convivenza (con quei caratteri che la rendono rilevante ai fini dell'esclusione dell'assegno). E, al riguardo, non si può fare a meno di ricordare come il carattere di “definitività” dell'estinzione del diritto alle contribuzioni post-matrimoniali sia stato anticipato dalla giurisprudenza di legittimità, già a partire dalla decisione della Cassazione n. 6855 del 2015 (con una enunciazione di principio che, con la sentenza n. 32871 del 2018, è risultata estesa addirittura alle contribuzioni conseguenti alla separazione personale).
Pare anche il caso di sottolineare come la scelta di richiamarsi espressamente alla “convivenza” (solo) quale individuata ai sensi del comma 36, acquisti un significato d'indubbio rilievo soprattutto alla luce dell'acceso dibattito – di fronte all'operata opzione definitoria da parte del legislatore – circa l'eventuale persistente rilevanza giuridica, ai più diversi fini, di una “convivenza” non avente i caratteri delineati nel comma 36. Comunque, proprio la presenza nell'ordinamento di una definizione della “convivenza” e la gravità dell'effetto – quello, cioè, definitivamente estintivo del diritto all'assegno – qui in discussione sembrano deporre nel senso della correttezza, anche sotto il profilo sistematico, della scelta ora operata in sede legislativa (in quanto tendente a limitare alla ricorrenza della fattispecie – ormai – legislativa di “convivenza” la relativa portata ablativa). Del resto, anche l'accennata giurisprudenza non ha mancato di ricollegare l'effetto in questione alla (sola) ipotesi di una “convivenza” che, per “stabilità e continuità”, faccia presumere l'elaborazione di un vero e proprio (nuovo) “progetto e modello di vita in comune” (in una prospettiva, insomma, non dissimile da quella fatta propria dal legislatore).
Peraltro, al di fuori della ricorrenza della situazione che si è inteso ora specificamente prendere in considerazione, a livello legislativo, ai fini del (definitivo) venir meno del diritto all'assegno, potrebbe ipotizzarsi che situazioni di (più o meno intensa) relazione personale siano destinate ad assumere comunque rilevanza – secondo l'impostazione più risalentemente privilegiata dalla giurisprudenza in dipendenza di rapporti di convivenza – (almeno) per i relativi riflessi sulle condizioni di vita ed economiche dell'ex-coniuge richiedente. E lo strumento a ciò finalizzato, ove simili situazioni sopravvengano, dovrebbe continuare ad essere rappresentato, allora, dalla possibilità di revisione, di cui all'attuale comma 1 dell'art. 9.
Opportuno completamento della disciplina
Le osservazioni fin qui svolte si riferiscono al testo approvato, la cui materia, per quanto concerne l'assegno di divorzio, corrisponde a quella avuta di mira dalla p.d.l. n. 506. Ma ove s'intenda veramente rendere funzionali, in un'ottica perequativa e compensativa (secondo una prospettiva, come dianzi accennato, fatta propria, del resto, anche dalle Sezioni Unite), le contribuzioni post-matrimoniali alla realizzazione del principio della parità coniugale, l'occasione di questa riforma, anche se programmaticamente di portata limitata, si presenta come elettiva per rendere più efficiente, in vista della finalità perseguita, lo strumentario a disposizione.
In proposito, pare opportuno muovere dalla – ormai diffusamente condivisa – considerazione, secondo cui l'assegno di divorzio, nella sua configurazione periodica, risulta, per sua stessa natura, strumento che mal si presta a svolgere soddisfacentemente una funzione perequativa e compensativa pienamente rispettosa della uguale dignità e libertà di ambedue i coniugi, perpetuando situazioni di dipendenza economica, oltre che costituendo occasione di persistente conflittualità: ciò, in particolare, ove si cali la problematica degli assetti economici post-matrimoniali nella realtà – sempre più diffusa anche in considerazione dell'evoluzione recente del quadro legislativo complessivo – dell'eventuale succedersi, per lo stesso soggetto, di più esperienze di vita familiare. Ma, allo stato, come pure nel contesto della riforma in corso, essendo affidata (solo) alla concorde volontà delle parti, ai sensi del vigente art. 5, comma 8, l. div., la possibilità di soluzioni una tantum definitive, l'assegno (periodico) di divorzio finisce col restare l'unico strumento in via generale disponibile per la regolamentazione dei rapporti economici tra gli interessati.
La via seguita nel quadro delle riforme che, altrove, hanno investito la problematica in questione – una volta, almeno, condivisa l'accennata funzione delle contribuzioni post-matrimoniali – si presenta, da tempo, sostanzialmente univoca. E, al riguardo, punto di partenza da cui muovere può essere quello consistente nel considerare senz'altro troppo limitativa la scelta di affidare (solo) all'accordo degli interessati l'adozione di assetti economici post-coniugali definitivi (come nel nostro ordinamento, ai sensi dell'art. 5, comma 8, l. div.).
Notoriamente peculiare si presenta l'esperienza inglese (Matrimonial Causes Act 1973, ss. 23, 24 e 25), nella quale al giudice è riconosciuto un generale potere di redistribuzione degli assetti economici coniugali, proprio come presupposto di quel clean break, cui è demandata la funzione di eliminare ogni successivo confronto tra gli ex coniugi (evidentemente anche in vista delle loro eventuali ulteriori scelte familiari, da operare senza odiosi condizionamenti). Per restare, però, nel contesto degli ordinamenti tradizionalmente a noi più vicini (e proprio per questo spesso presi ad esempio per il nostro), quale modello di riferimento può essere assunto quello francese, al quale, del resto, come accennato, la proposta posta a base del testo ora approvato dalla Camera dei deputati sembra essere tutt'altro che indifferente.
In esso (artt. 270, 274, 275 e 276 code civil), la “prestation compensatoire” – proprio in vista della funzione chiamata a svolgere – assume “la forma di un capitale”, da corrispondere secondo modalità attuative stabilite dal giudice (che possono consistere anche nell'attribuzione di beni in proprietà o di altri diritti reali) , eventualmente rateizzabile (ma non perdendo per questo la propria natura di definitiva sistemazione economica post-coniugale). La contribuzione, avente carattere forfetario, può solo “a titolo eccezionale” (e “con decisione specificamente motivata”) essere fissata “sotto forma di rendita vitalizia” (alla morte del coniuge debitore sostituita, a carico dell'eredità, non diversamente che nell'ipotesi di rateizzazione, “da un capitale immediatamente esigibile”: art. 280 code civil).
Il potere di “ordinare una liquidazione”, almeno se “lo giustificano circostanze particolari” è attualmente previsto nell'ordinamento svizzero (art. 126 c. c.), così come, in Spagna, la disciplina della materia allude al “diritto ad una compensazione che potrà consistere in una pensione temporanea o a tempo indeterminato, o in una prestazione unica”, determinabile in sede di “accordo” o “nella sentenza” (art. 97 código civil).
Insomma, proprio quale logica conseguenza di una scelta in senso perequativo delle contribuzioni post-coniugali, parrebbe – forse, più che semplicemente opportuno, addirittura – necessario intervenire anche sullo strumentario a disposizione, non solo delle parti, ma anche del giudice per disciplinare gli assetti economici successivi al divorzio. Né è da credere che il riconoscere al giudice la possibilità di pervenire – almeno ove le circostanze lo consentano – ad un simile tipo di sistemazione economica si porrebbe in controtendenza rispetto alla tendenza al riconoscimento di sempre più ampi spazi agli interessati ed al loro accordo nella gestione, anche sotto il profilo economico, della crisi familiare. Invero, da una parte, non si può, trascurare di sottolineare come, di fronte alla nota esiguità, ormai, del numero delle procedure contenziose, la decisione risulti affidata al giudice solo in quei casi di più rilevante conflittualità, nei quali maggiormente avvertita si presenta l'esigenza di tutela della parte più debole. Dall'altra, è da credere che il riconoscere al giudice una tale possibilità valga proprio a rappresentare un forte, se non decisivo, stimolo per gli interessati a pervenirvi già in via concordata (e, come risulta ormai consentito nel nostro ordinamento, pure in via stragiudiziale).
Ovviamente, nel concretizzare in un testo una simile prospettiva, da una parte, dovrebbe essere confermata l'attuale previsione del possibile atteggiarsi in tal senso pure dell'accordo delle parti interessate (conservando, anche al riguardo secondo i modelli stranieri presi in considerazione, il riferimento al necessario, ai fini del perseguimento di un carattere effettivamente “definitivo” della statuizione, giudizio di “equità” da parte del tribunale); dall'altra, dovrebbe consentirsi al giudice, nel disporre la corresponsione in unica soluzione delle contribuzioni post-divorzili, ove reputata nel caso concreto effettivamente preferibile, di determinarne le “modalità” (in particolare, prevedendone una rateizzazione che, proprio in quanto tale, ne lascia a tutti gli effetti immutata la natura unitaria).
Inoltre, da prendere in seria considerazione sarebbe anche l'opportunità di precisare che la liquidazione una tantum delle contribuzioni post-matrimoniali – e ciò anche ove non s'intenda operare un intervento innovativo nel senso dianzi indicato, ma si voglia lasciare immutata l'attuale impostazione che la condiziona alla concorde volontà delle parti – non pone comunque fuori gioco l'operatività della tutela previdenziale dell'ex-coniuge, ai sensi degli artt. 9, commi 2 e 3, e 12-bis.
La questione, invero, dopo essere stata diversamente risolta dalla giurisprudenza di legittimità, è stata decisa in senso contrario dalle Sezioni Unite, con la loro sentenza n. 22434 del 2018. Peraltro, la soluzione adottata, tendente a limitare le aspettative previdenziali dell'ex-coniuge al caso in cui le contribuzioni post-matrimoniali siano corrisposte in forma periodica (e in atto al momento della morte del relativo debitore), nell'ispirarsi ad una logica – contraria a quella posta alla base della riforma in discussione e degli stessi esiti cui sono pervenute, in materia di assegno, le medesime Sezioni Unite – che concepisce simili contribuzioni in chiave meramente assistenziale, finisce col trascurare completamente quel carattere “previdenziale” e, di conseguenza, “autonomo” delle pretese fatte valere, al riguardo, da parte del divorziato, che la giurisprudenza pure ha reputato ad essa connaturato, a partire dalla decisione delle Sezioni Unite n. 159 del 1998. Essa, inoltre, corre il rischio di operare potentemente in senso contrario proprio alla, secondo quanto dianzi accennato, auspicabile diffusione – volontaria, ovvero, accogliendo le indicazioni accennate, pure attraverso l'intervento del giudice – della definizione una tantum degli assetti economici post-coniugali.
Sembra opportuno pubblicare, in appendice, prima il testo della p.d.l. 506 ("TESTO DELLA PROPOSTA DI LEGGE N. 506"), poi il testo approvato dalla Camera dei deputati ("TESTO APPROVATO DALLA CAMERA DEI DEPUTATI IL 14 MAGGIO 2019").
PROPOSTA DI LEGGE N. 506 (Camera dei Deputati, XVIII legislatura, Morani, presentata il 12 aprile 2018)
ART. 1.
1. Il sesto comma dell’articolo 5 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, è sostituito dal seguente:
« Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale può disporre l’attribuzione di un assegno a favore di un coniuge, destinato a equilibrare, per quanto possibile, la disparità che lo scioglimento o la cessazione degli effetti del matrimonio crea nelle condizioni di vita rispettive dei coniugi ».
2. Dopo il sesto comma dell’articolo 5 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, come da ultimo sostituito dal comma 1 del presente articolo, sono inseriti i seguenti:
« Al fine di cui al sesto comma, il tribunale valuta, in rapporto alla durata del matrimonio: le condizioni personali ed economiche in cui i coniugi vengono a trovarsi a seguito dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio; il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune; il patrimonio e il reddito di entrambi; la ridotta capacità reddituale dovuta a ragioni oggettive, anche in considerazione della mancanza di un’adeguata formazione professionale o di esperienza lavorativa, quale conseguenza dell’adempimento dei doveri coniugali, nel corso della vita matrimoniale; l’impegno di cura di figli comuni minori, disabili o comunque non economicamente indipendenti; il comportamento complessivamente tenuto da ciascuno in ordine al venir meno della comunione spirituale e materiale.
Tenuto conto di tutte le circostanze indicate nel settimo comma, il tribunale può predeterminare la durata dell’assegno nei casi in cui la ridotta capacità reddituale del richiedente sia dovuta a ragioni contingenti o comunque superabili.
L’assegno non è dovuto nel caso di nuove nozze, di unione civile con altra persona o di una stabile convivenza del richiedente l’assegno. L’obbligo di corresponsione dell’assegno non sorge nuovamente a seguito di separazione o di scioglimento dell’unione civile o di cessazione dei rapporti di convivenza ».
3. Al comma 25 dell’articolo 1 della legge 20 maggio 2016, n. 76, le parole: « dal quinto all’undicesimo comma » sono sostituite dalle seguenti: « dal quinto al quattordicesimo comma ».
ART. 2.
1. Le disposizioni di cui all’articolo 1 si applicano anche ai procedimenti per lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio in corso alla data di entrata in vigore della presente legge.
TESTO APPROVATO DALLA CAMERA DEI DEPUTATI IL 14 MAGGIO 2019
Modifiche all’articolo 5 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, in materia di assegno spettante a seguito di scioglimento del matrimonio o dell’unione civile
Art. 1.
1. All’articolo 4, comma 8, della legge 1° dicembre 1970, n. 898, sono aggiunti, in fine, i seguenti periodi: « Su richiesta di parte il presidente si riserva di riferire immediatamente al collegio per la pronuncia della sentenza non definitiva relativa allo scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio. Avverso tale sentenza è ammesso solo appello immediato. Appena formatosi il giudicato, si applica la previsione di cui all’articolo 10 ».
2. Il comma 12 dell’articolo 4 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, è abrogato.
Art. 2.
1. Il sesto comma dell’articolo 5 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, è sostituito dal seguente: « Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale può disporre a carico di un coniuge l’obbligo di versare all’altro coniuge un assegno, tenuto conto delle circostanze previste dal settimo comma ».
2. Dopo il sesto comma dell’articolo 5 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, come da ultimo sostituito dal comma 1 del presente articolo, sono inseriti i seguenti:
« Al fine di cui al sesto comma, il tribunale valuta, in rapporto alla durata del matrimonio alla data dell’ordinanza presidenziale emessa ai sensi dell’articolo 708 del codice di procedura civile: le condizioni personali ed economiche in cui i coniugi vengono a trovarsi a seguito dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio; l’età e lo stato di salute del soggetto richiedente; il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune; il patrimonio e il reddito netto di entrambi; la ridotta capacità reddituale dovuta a ragioni oggettive, anche in considerazione della mancanza di un’adeguata formazione professionale o di esperienza lavorativa, quale conseguenza dell’adempimento dei doveri coniugali nel corso della vita matrimoniale; l’impegno di cura di figli comuni minori, disabili o comunque non economicamente indipendenti. Tenuto conto di tutte le circostanze indicate nel settimo comma, il tribunale può predeterminare la durata dell’assegno nei casi in cui la ridotta capacità reddituale del richiedente sia dovuta a ragioni contingenti o comunque superabili.
L’assegno non è dovuto nel caso di nuove nozze, di unione civile con altra persona o di una stabile convivenza ai sensi dell’articolo 1, comma 36, della legge 20 maggio 2016, n. 76, anche non registrata, del richiedente l’assegno. L’obbligo di corresponsione dell’assegno non sorge nuovamente a seguito di separazione o di scioglimento dell’unione civile o di cessazione dei rapporti di convivenza ».
3. Il decimo comma dell’articolo 5 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, è abrogato.
4. Al comma 25 dell’articolo 1 della legge 20 maggio 2016, n. 76, le parole: « dal quinto all’undicesimo comma » sono sostituite dalle seguenti: « dal quinto al tredicesimo comma ».
Art. 3.
1. Le disposizioni di cui all’articolo 2 si applicano anche ai procedimenti per lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio in corso alla data di entrata in vigore della presente legge.
IL PRESIDENTE